Diciassettesimo giorno

CURIA

I. Dove il Senato di Roma discute alcune faccende delicate

I trecento e più padri coscritti sedevano da quasi quattro ore sugli scomodissimi seggi curiali, impegnati in questioni di capitale importanza per i destini dell’Impero. La prima ora infatti era stata interamente dedicata a stabilire il rituale con cui si dovevano aspergere sul fuoco sacro le gocce di sangue del “cavallo d’ottobre” sacrificato a Marte; l’ora successiva l’alta assemblea aveva affrontato il problema dell’iscrizione in calce alla nuova ara dedicata a Livia Drusilla Claudia, la nonna che Claudio Cesare aveva provveduto a deificare col nome di Dea Giulia Augusta, in modo da godere anche lui di un antenato sull’Olimpo.

Quando, dopo la solita invettiva di Lentulo sull’immoralità femminile, era iniziato l’intervento, vibrante quanto sgrammaticato, di un onesto neosenatore dell’Irpinia che non aveva idea di che cosa fosse la consecutio temporum, ma si credeva in grado di sanare in un istante tutti i mali di Roma, Aurelio ne aveva approfittato per schiacciare un pisolino. Grazie all’infallibile metodo, elaborato negli anni, che gli permetteva di svegliarsi prontamente al momento giusto, era stato tuttavia lesto a riaprire gli occhi in tempo per partecipare al dibattito che lo interessava: come aveva previsto, infatti, la questione delle tasse della Siria era stata tenuta per ultima, così da discuterla mentre già gli stomaci vuoti dei padri coscritti si erano messi a brontolare, e spacciarla quindi in modo rapido e indolore.

Ecco infatti che Lentulo dava la parola a Crispino Balbo, eletto a eroe del giorno in seguito al risanamento della Suburra.

«Padri coscritti, non voglio trattenervi ulteriormente dopo che tanto tempo e tante energie avete dedicato alle cure più urgenti e scottanti della cosa pubblica. Quindi, per abbreviare le vostre fatiche, e quelle del nostro beneamato principe a cui spetta la nomina, mi permetto di caldeggiare l’affidamento della riscossione dei tributi siriani a un uomo di chiara fama e di solidissime garanzie patrimoniali, Macario di Antiochia, da me personalmente conosciuto e stimato. Bene, se nessuno si oppone, votiamo subito e dopo potremo andarcene, consci di avere fatto il nostro dovere fino in fondo» annunciò Crispino, mentre con la coda dell’occhio scorgeva una molestissima mano alzata. «Oh, guarda un po’, il senatore Stazio, che oggi stranamente è in aula, ha qualcosa da aggiungere: vorrà dire che rimanderemo la nostra meritata cena per qualche istante ancora.»

«Immagino che tu abbia solide informazioni su Macario per proporlo nella gestione di un incarico tanto delicato, e quindi che ti sia nota la sua attività divinatoria ad Apamea, quando vaticinava nell’oracolo di Zeus.»

«Non tutti sono scettici irreligiosi come te, Stazio. Per fortuna qui a Roma siamo ancora in tanti a confidare negli Dei e nei loro responsi» rispose velenoso Crispino, certo di assicurarsi l’appoggio dei devoti.

«Responsi purtroppo non gratuiti, i cui proventi, fatto di cui certamente sarai a conoscenza, furono impegnati da Macario in alcune sfortunate speculazioni immobiliari che portarono alla rovina parecchi investitori» precisò il patrizio, deciso a sfruttare fino in fondo le informazioni del suo agente in Antiochia.

«Come, come?» aguzzò le orecchie il senatore Medullino, che nei fondi siriani aveva incautamente creduto, perdendoci un mucchio di soldi.

«Sai per caso anche se il recente consorzio tra Macario e i nostri rappresentanti laggiù, il tribuno Muzio Astropeo e il procuratore Veturio Prisco, è stato istituito per risarcire i risparmiatori frodati o per ragioni diverse?» chiese Publio Aurelio con ostentata cortesia.

«È compito e privilegio di Claudio Cesare soppesare queste vicende una volta che gli avremo esposto il nostro illuminato consiglio» tagliò corto Crispino Balbo. «E ora, miei illustri concittadini, passiamo al voto o qui si fa notte!»

«Ehm, ehm, ehm, un’altra domandina ancora, esimio collega Crispino, tanto per appurare che non vi sia alcun conflitto di interesse dietro la tua proposta: sei mai stato in affari con Macario, o finanziariamente legato a lui da prestiti e obbligazioni, magari attraverso qualche intermediario?»

«Mai!» tuonò il padre coscritto portandosi la mano sul cuore.

«Strano, perché in base a questi documenti, sottratti a un usuraio della Suburra strettamente legato all’affarista antiocheno, sembrerebbe il contrario» disse Aurelio esibendo uno dei contratti trovati nella bisaccia di Viridia. «Il mediatore in questione è un certo Meticanio Meticone, lo stesso che ha diretto la banda Gallica, ritirandosi subito prima che tu, Crispino, invocassi l’intervento della forza pubblica per sgominarla. Pare che, correggimi se sbaglio, costui abbia recentemente provveduto a intestarti una domus qui in città e un prospero fondo agricolo presso Fidenae, alle porte di Roma.»

«A mia insaputa!» spergiurò l’altro, scolorando. «A mia totale insaputa!»

«Be’, qui sotto c’è il tuo sigillo, Crispino. Certo, è possibile che tu l’abbia perduto, ma se è così, onorevoli colleghi, abbiamo serie ragioni di preoccuparci: come facciamo a sapere che chi ha trovato il sigillo smarrito dal nostro distratto collega non dichiari guerra ai Parti a nostra insaputa?» esclamò Aurelio, dedicando un breve pensiero a tutte le volte che Castore gli aveva rubato il suo.

«Contesto l’autenticità di questi documenti! Come sono arrivati in tuo possesso?»

Qui viene il difficile, pensò Aurelio soppesando le parole. «Me li ha affidati una donna che ora non è più in vita.»

«Una libera cittadina?» chiese Crispino stringendo gli occhi, e Aurelio fu costretto a smentire. «Oh, dunque, vuoi dire che stai accusando un senatore di Roma in base a un inattendibile papiro avuto da una schiava straniera peraltro defunta? Esimi colleghi, abbiamo dedicato fin troppo del nostro prezioso tempo alle buffonate di Stazio, il cui massimo divertimento, lo sappiamo tutti, è di schernire le nostre sacre tradizioni!»

«Ehi, ehi, piano, su quel fondo di Fidenae ci avevo messo gli occhi sopra anch’io, e mi chiedevo proprio come avesse fatto Crispino a soffiarmelo sotto il naso!» esclamò il senatore Simmaco.

«Ma non sarebbe meglio indagare un po’, prima di prendere una decisione?» osservò Tricipitino il Balearico, che avendo anche lui un esattore di fiducia da proporre, sperava di affossare la candidatura di Macario.

«Qualcuno mi spiega che cosa sta succedendo?» domandava intanto dal suo alto seggio il vicario del princeps Senatus Lentulo, che oltre a essere molto vecchio era anche un po’ sordo.

I padri coscritti si passavano intanto i documenti di Viridia, chi con scetticismo, chi con una certa curiosità, ma i più di gran fretta, per via dello stomaco vuoto.

«È un falso, vedete? È chiaramente un falso, scritto sotto dettatura da un copista e firmato con una ceralacca che imita malamente il mio sigillo!» gridava Crispino paonazzo.

Fu allora che il vicino di Aurelio gli passò un biglietto.

«Ehi, guardate! Non pago di accusarci delle più luride nefandezze, Stazio riceve messaggi in Senato: è contro il regolamento, un chiaro indice delle sue trame! Esigo che sia letto in pubblico!» fece il vecchio Lentulo.

A quella richiesta, l’intero Senato si diede di gomito, pregustando la scena: tutti conoscevano l’analogo episodio in cui Catone aveva preteso con grande insistenza che fosse letto a voce alta un codicillus ricevuto in Curia da Cesare, rivelatosi poi un biglietto scollacciato della di lui sorella Servilia, che da tempo era l’amante del Divo Giulio. E poiché si mormorava di una tresca adulterina tra Publio Aurelio e la giovane moglie dell’anziano vicario del princeps Senatus, forse anche stavolta ci sarebbe stato da divertirsi assai.

«Ho un testimone, chiedo che sia ascoltato» annunciò Aurelio senza avere la minima idea di chi si trattasse. Ma il biglietto era di Castore, e in frangenti veramente gravi di lui ci si doveva fidare.

In quella il portone della Curia si aprì e Timandro comparve esitante sulla soglia. L’istante dopo il segretario, che gli stava alle spalle, lo spedì dentro con un deciso spintone.

II. Dove fa la sua comparsa un testimone inatteso

«Mi chiamo Aurelio Timandro, cittadino romano residente ad Antiochia» esordì il giovane prendendo il coraggio a quattro mani. L’aveva sognato tante volte, quel Senato onnipotente, quando viveva nel quartiere di Epifania alle pendici del Silpio: si era immaginato i trecento “re di Roma” nelle loro toghe bordate di laticlavio, i gesti ieratici, i visi scolpiti nel marmo. Adesso ce li aveva davanti, e niente era come se lo sarebbe aspettato.

«Oh, oh, Aurelio! Parente del senatore Stazio, dunque» sogghignò Crispino.

«No» disse Timandro, e soltanto un ascoltatore molto attento avrebbe potuto rilevare una lievissima esitazione nella voce.

«Allora un libertino, nipote o pronipote di schiavi.»

«Andiamo, Crispino! Timandro non avrebbe nulla di cui vergognarsi se un suo antenato fosse stato di condizione servile come quel tuo bisnonno materno che conobbe la gloria di Roma giungendovi in catene dalla natia Insubria» insinuò maligno Aurelio attingendo a piene mani alle vaste informazioni genealogiche fornitegli da Pomponia. «Non è forse vero che molti tra i vostri avi ottennero la libertà ai tempi della guerra sociale e la cittadinanza romana soltanto dopo che la Lex Plautia Papiria la estese agli Italici? Prendiamo per esempio il senatore...» cominciò di lena, e prima di riuscire a far nomi venne subito zittito degli astanti, che a sentir rievocare i loro antenati servi o stranieri non ci tenevano proprio.

«No, no, va bene, va bene: questo giovane è cittadino romano a tutti gli effetti e può testimoniare» dissero e Timandro raccontò della falsa accusa elevata contro di lui da Macario circa il furto di un gioiello piuttosto raro e facilmente riconoscibile, nonché dell’attentato di cui era stato fatto oggetto.

«Ecco la piastra con l’effigie della dragonessa Campe, di cui era in possesso il sicario, senza dubbio incaricato di lasciarla sul corpo di Timandro dopo averlo ucciso!» intervenne Aurelio mostrando la lamina d’oro e crisolito raccolta dopo il duello con Ambiorige.

«Oh oh, e come mai ora ce l’hai tu, senatore Stazio?» ironizzò Crispino. «E che fine avrebbe fatto questo terribile assassino celta?»

«Ha incontrato un romano» sorrise Aurelio, accattivandosi il favore dell’intera Curia.

Timandro allora spiegò che cosa aveva veramente sottratto a Macario a rischio della vita, esibendo la copia esatta dei documenti di Viridia. Stavolta però non era stato un copista a redigerli, bensì i protagonisti stessi dell’accordo, di loro mano. E in calce all’impegno spiccava di nuovo, chiarissimo, il sigillo di Crispino.

Quando il Senato esplose, tra lazzi, frizzi, cachinni, sdegni, indignazioni, proteste, istanze, reclami e domande di severissime inchieste, Publio Aurelio tirò un sospirò soddisfatto, rivolgendo un lungo sguardo di gratitudine al giovane che portava il suo nome: anche per stavolta, era andata!

SUBURRA, COVO DELLA BANDA GALLICA

III. Dove per la seconda volta si affrontano un gallo e un romano

Meticanio era livido di ira: niente era andato come previsto, proprio niente. Malgrado la complicità del segnapunti Ascanio, debitamente unto con parecchie monete, Iullo aveva incredibilmente vinto, infischiandosene di intascare il denaro promessogli per falsare il risultato della partita, e questo per lui significava migliaia di sesterzi andati in fumo. Poi, cosa ben più grave, erano state lette pubblicamente in Senato alcune sue lettere di intermediazione, sufficienti a implicarlo come complice di Crispino e Macario nel raggiro con cui intendevano assegnare l’appalto dei tributi siriani. Quindi adesso era ricercato, non poteva neppure accedere alla nuova casa, dove aveva progettato di rifarsi una verginità come cittadino integerrimo e virtuoso, nella quale conservava gran parte dei suoi tesori. Inoltre la donna a cui intendeva concedere il privilegio di condividere la sua vita era introvabile, e così la figlia che gli aveva partorito. E per di più qualcuno della squadra Gallica era sfuggito alla cattura e un domani avrebbe potuto testimoniare sulle sue attività come capo della banda.

Nessuno dei suoi piani era andato a buon fine, soltanto una soddisfazione si era tolto, quella di affondare i pollici nella gola della puttanella che lo aveva tradito. Ma era chiaro ormai che lui avrebbe dovuto lasciare Roma e in tutta fretta. Per fortuna gli rimaneva parecchio denaro e qualche proprietà immobiliare di pregio intestata a prestanomi: avrebbe ricominciato altrove, l’importante era che per il momento non lo trovassero. E quale nascondiglio migliore della vecchia tana della banda, ormai devastata dai vigili e dai pretoriani? Lì sarebbe stato al sicuro fino al momento di andarsene, si disse sgattaiolando dentro.

«Ti aspettavo, Meticanio» scandì una voce nota, e dall’ombra emerse il profilo di Sagitta.

«Bravo, non ti sei fatto prendere» finse di complimentarsi Meticanio, verde di bile: proprio quel codardo doveva salvarsi dalla retata, un vigliacchetto da quattro soldi, disposto di sicuro a venderlo in cambio di qualche agevolazione o di uno sconto della pena! Per colpa di quel tonto sarebbe stato costretto a trovare un altro rifugio, meditò livido, a meno di non trovare il modo di disfarsene rapidamente. Il modo c’era: aveva appena riposto un paio di monili rubati in un nascondiglio nella parete, bastava ordinare a Sagitta di non muoversi di lì, poi avvertire anonimamente i vigiles perché lo prendessero con le mani nel sacco, dopodiché la sua testimonianza non avrebbe avuto più alcun valore...

«Ci hai traditi tutti, Meticanio» sibilò invece l’altro estraendo il pugnale. «Ora pagherai!»

«Che fai con quel coltellino, scemo? Sei un celta, vuoi forse metterti dalla parte dei nostri oppressori?» lo derise l’ex-capobanda, chiedendosi quanto quello stupido pivello fosse capace di brandire un’arma.

«Sono un romano, Meticanio, e ti chiamo a rispondere dei tuoi delitti: contro Roma e contro i tuoi stessi compagni che si fidavano di te!»

«Un romano tu? Ah ah ah ah ah!» rise sguaiatamente Meticanio, ma intanto aveva raggiunto lo scomparto nella parete dove, oltre ai gioielli, aveva nascosto un pugium. Un attimo dopo lo impugnava, puntando alla gola del suo inesperto scherano.

C’è una Dea, nell’Urbe, venerata fin da prima della fondazione della città. Suoi attributi sono la ruota, il timone, il globo, la cornucopia, il caduceo. Capricciosa e imprevedibile come un vento costantemente incostante, crea gli ostacoli, offre le occasioni e non è soggetta alla volontà di nessun altro Nume. C’è chi crede che abbia i suoi favoriti, ma i più ritengono che dispensi i suoi doni a caso, tanto che a volte viene addirittura raffigurata col velo sugli occhi, per sottolinearne l’arbitrarietà.

Fu lei, la Fortuna cieca, a intervenire in un duello il cui esito pareva già deciso dall’abilità e dall’esperienza. Meticanio Meticone aveva sempre giocato d’azzardo con la sua vita e sempre gli era andata bene, fino a farlo giungere, pochi giorni prima, all’acme della ruota che eternamente gira. Poi era cominciata la discesa, tanto rapida quanto laboriosa era stata la salita: all’improvviso sotto di lui si era aperto il vuoto e la benefica Dea Fortuna aveva mostrato l’altra sua faccia, quella maligna e temuta di Sors, la sorte infausta.

Un piccolo scherzo malvagio, o forse soltanto una momentanea distrazione della Dea, spinse infatti Meticanio, tutto teso nell’impeto dell’aggressione, a mettere il piede su un pezzo di cocciopesto divelto dai suoi stessi seguaci durante la breve difesa del covo. Così incredibilmente incespicò, cadde all’indietro battendo la testa sullo spigolo dell’arca distrutta che aveva contenuto il modesto armamentario della banda e non si mosse più, quasi i suoi Numi dell’estremo Settentrione, riconoscendolo come vile traditore, avessero voluto negargli l’onore di morire di spada.

DOMUS DEI SURI SULL’OPPIO

IIII. Dove ci si parla tra fratelli

«Siamo rimasti solo tu e io» disse Rufino avvicinandosi alla sorella che sedeva assorta su una cathedra di vimini. «Forse sarebbe ora di mettere fine a questa guerra sorda e cominciare a fidarsi l’uno dell’altro.»

«Di che guerra parli?» replicò Surilla gelida.

«È vero, tu non mi hai mai veramente osteggiato, era più semplice fingere che non esistessi... Probabilmente pensi che sia morto il fratello sbagliato» gemette il ragazzo.

«Si tratti di te o di Decimo, per me poco cambia» fece lei impietosa.

L’importante è che ce ne sia uno solo dei due, per godere di lascito e dote, pensò maligno Rufino, ma per quanto avesse deciso di parlar chiaro con Surilla, non osò ancora pronunciare una frase simile a voce alta.

«Non credo che lo pensi davvero: come potresti essere così fredda, così indifferente?» disse invece.

«A voler bene si soffre. E io non voglio soffrire» rispose lei in tono spento.

«Fino a che punto saresti disposta ad arrivare per evitarlo? Hai partecipato alla caccia dal primo momento: non hai trovato strano che Decimo andasse a colpo sicuro a cercare l’ostrum nel cortile di Iullo Batraco? Vuoi convincermi che, diffidente come sei, non hai sospettato che sapesse benissimo dove cercare?»

«Stai illazionando che nostro fratello fosse coinvolto in qualche modo nell’organizzazione del gioco o ne fosse addirittura l’inventore? È assurdo: non avrebbe avuto i mezzi per seminare gli indizi, era poco più di un bambino, i suoi movimenti erano troppo controllati.»

Fu allora che Rufino prese fiato e, raccogliendo tutto il suo coraggio, balbettò: «I suoi, ma non i miei!». Ecco, l’aveva detto finalmente!

«Che cosa intendi farmi credere?» chiese Surilla stupita.

Rufino tacque e abbassò gli occhi.

«È impossibile, non ne saresti stato capace!» esclamò la donna mentre allargava le braccia. Ma l’enfasi era esagerata, il gesto troppo ampio e la sicurezza tetragona baldamente esibita veniva inficiata dal brevissimo lampo di paura che le era passato negli occhi: e se avesse sbagliato nel giudicare il fratello soltanto un inutile pasticcione?

«Perché? Soltanto perché rompevo qualche soprammobile con i miei gesti impacciati? O forse perché a diciotto anni mi facevate ancora portare la bulla?» domandò lui d’impeto, ma l’orgoglio cedette all’usuale timore e subito tornò sui suoi passi facendosi di nuovo piccolo piccolo.

«Surilla, io non volevo, non intendevo, non avrei mai creduto... Era iniziato come un semplice diversivo, nient’altro che uno svago. Lo confidai a Decimo, che mi chiese di parteciparvi. E poi all’improvviso il gioco è sfociato in tragedia, però non ero più io a tirarne le fila, ma qualcuno che mirava a uccidere!»

«Dunque è tua la colpa!» irruppe la donna livida. «Hai mandato allo sbaraglio nostro fratello e l’hai fatto morire. Tu, piccolo subdolo scarafaggio, che non valevi la metà di lui!»

Rufino emise un lungo sospiro: non sarebbe mai stato perdonato, stava pensando, quando si accorse che, pur fingendo di ignorarlo, la sorella lo guardava di sottecchi con una curiosità non del tutto aliena da un certo rispetto.

«Adesso tocca a me farti qualche domanda: come mai hai tentato di sottrarre al senatore la tunica di Criso? E se non sospettavi minimamente di me o di Decimo, con quale coraggio hai osato indossare in pubblico l’abito con il gammadion, a rischio di attirare l’attenzione dell’assassino?»

«Non tutti sono codardi. Comunque credevo si trattasse di qualcun altro» si giustificò lei imbarazzata.

«Intendi Iullo, per caso? Oh, non fare la finta tonta, tutti sanno che è il tuo amante! Non ha più un soldo, ti ha messo gli occhi addosso e spera di sistemarsi sposandoti, ma non è presumibile che abbia agito senza qualche solida promessa...»

«La mia vita privata non ti riguarda!» esclamò lei con la solita arroganza.

«D’ora in poi potrebbe riguardarmi invece, e parecchio. Però, Surilla, voglio che tu sappia che qualunque cosa dovesse accadere, non sarò mai io a puntare il dito contro di te!»

«Ma sei impazzito? Che bisogno avrei del tuo aiuto?»

Di nuovo il fratello non rispose, si accontentò di fissarla a lungo, con insistenza.

Lei alzò le spalle e prese la porta. Soltanto quando fu sola nel suo cubicolo si accasciò tremando, in preda a emozioni che mai avrebbe ammesso di provare: l’angoscia, lo sgomento e la paura.