RESIDENZA DI POMPONIA SUL QUIRINALE
I. Dove un malvivente fa mostra di ravvedersi
Dannico dovette raccogliere tutto il suo coraggio per presentarsi alla domus dei Servili sul Quirinale: il suo mondo era finito, poteva costruirsene uno diverso?
La parlantina sciolta gli aveva sempre giovato nell’incantare le belle ragazze alla pari del suo aspetto fascinoso, dunque non capiva perché stavolta si trovasse a corto di argomenti, la lingua arrotolata in bocca come un canapo attorno all’argano. Nei riti più antichi dell’Urbe, Lala, la ninfa chiacchierona di un modesto affluente del Tevere, aveva avuto la lingua mozzata da Giove per averne rivelato i segreti, quindi veniva venerata come Dea Tacita Muta, patrona del silenzio. Tale e quale alla faconda ninfa privata ormai della parola si sentiva Dannico in quel momento: le menzogne e le iperboli che tanto facilmente e indefessamente gli fluivano dalla bocca quando si trattava di fingersi totalmente preso da qualche donna, gli venivano a mancare all’improvviso ora che, davanti a Milla, avrebbe desiderato esprimere un sentimento sincero.
Né lo aiutava il fatto che a fianco dell’amata stazionassero con aria bellicosa non una, bensì addirittura due future suocere: la madre, più o meno sua coetanea, che anziché una scialba donnetta della Suburra appariva ora – complici le vesti di Pomponia – una matrona bennata, e la nonna, temibile e austera nei suoi veli scuri come una Furia vendicatrice.
«Mia nipote che sposa un maledetto energumeno gallo? Non sia mai!» escluse infatti la vecchia, rabbiosa.
«Ho perduto diciotto anni dietro a quel delinquente del tuo capo, prima di conoscerlo per ciò che era e ricominciare finalmente a vivere: per nulla al mondo vorrei che mia figlia percorresse la stessa strada!» ribadì Febe.
«Ma io lo amo!» protestò Milla con veemenza.
«Moglie di un ladro, sai che bello! Tempo due mesi te lo trovi al remo, e tu resti sola con la pancia grossa e gli occhi gonfi di lacrime» sbottò la nonna.
«Sentite, io non sono come Sagitta, che dopo aver eliminato Meticone adesso farà ritorno nella sua Iulia Concordia senza un soldo sì, ma anche libero da ogni accusa e quasi con la fama dell’eroe. Però volevo dirvi che ho cominciato a lavorare» iniziò Dannico esitante. «Non che sia molto bravo, a dire il vero, in vita mia mi sono sempre dedicato a... insomma, ad altre cose. Ma il senatore mi ha assunto come facchino e sto guadagnando qualcosa, quindi ho comprato un paio di ammennicoli, due cosucce meramente simboliche, che spero possano trovare accoglienza presso di voi» disse estraendo dalle falde della tunica due anelli di oricalco. «Ecco, uno me lo metto al dito, come anulus pronubus, per far sapere a tutti che sono vincolato da una promessa di matrimonio, e l’altro... non chiedo che Milla lo indossi fin da ora pubblicamente all’anulare, mi basterebbe che lo portasse al collo con un laccetto, al posto del pendente a forma di gammadion che le regalai dopo averlo rubato e che, come si è ben visto, non porta affatto fortuna: questo gioiellino vale meno, ma non è frutto di un furto, bensì del mio primo salario.»
Ciò detto, mise l’anello nelle mani di Milla, si infilò il suo, poi rivolse alle sue accompagnatrici un breve cenno del capo e fece per andarsene.
Pomponia, che aveva assistito alla scena dietro la cortina delle fauces, non resistette a intervenire. «È un gran bell’uomo, farebbe dei magnifici figli, se fossi in voi non me lo lascerei scappare, e chissà che non diventi anche onesto» suggerì insinuante, assumendo quel ruolo di paraninfa che tanto le si addiceva.
Mamma e nonna alzarono gli occhi al cielo, affidandosi alla clemenza degli Dei.
Ma già Milla, dopo aver appeso l’anellino al laccio di cuoio, era corsa tra le braccia del suo promesso, gettando via la crux tetragammata, che cadde a terra senza che nessuno la raccogliesse.
CLIVUS SUBURANUS A PORTA ESQUILINA
II. Dove si interrogano due lavandai
Il clivus Suburanus si arrampicava tra l’Oppio e il Cispio fino alla porta Esquilina e la fullonica era appoggiata all’ultimo tratto delle mura Serviane prima del varco, piccola, puzzolente e densa di fumi.
«Chi è il padrone qui?» disse Aurelio rivolgendosi al tipo che sbraitava contro tre o quattro bambinetti perché rimestassero a fondo i panni nella grande vasca incassata nel pavimento: evidentemente Romizio trovava meno conveniente comprare degli schiavi che assumere dei giovanissimi operai senza famiglia, ricompensandoli con un angolo in cui dormire e pochi assi di salario.
«Sono io!» esclamò l’uomo avvicinandosi al bancone di pietra, sul quale il patrizio aveva prontamente adagiato la mano per rendere visibile l’anello senatoriale che portava all’indice, la cui esibizione rese Romizio subito molto collaborativo.
«Volete sapere ancora di quel mariuolo?» chiese preoccupato. «Era un ladro, l’ho già detto, un maledetto ladro: scappò con una tunica fine...»
«Ricordi a chi apparteneva?»
«A dire il vero no: a parte le donne, che sono tante, da noi mica vengono i proprietari degli abiti, soltanto i servi che li portano a lavare. Però al banco io ci sto poco, di solito ci pensa mio cognato... aspetta che lo chiamo. Milone, ehi Milone, vieni un po’ qui!»
Milone, come il nome indicato nel quadrato magico, rizzò le orecchie e Aurelio, fiducioso di essere sulla buona strada, si apprestò a ripetere la domanda al secondo fullone.
VICUS CAPITIS AFRICAE AL CELIO
III. Dove una signora elegante perde un tacco
Per una matrona di corporatura robusta sarebbe stato poco agevole anche soltanto caracollare su tacchi vertiginosi, ma se poi doveva tenere il passo con un patrizio dalle gambe veloci, che aveva appena attraversato il centro di Roma quasi di corsa, l’inseguimento diventava un’impresa.
Si tramanda che Euridice, per sfuggire all’eroe Aristeo che la insidiava, si lanciasse in una folle corsa durante la quale calpestò il serpente velenoso che la uccise, facendola precipitare in quell’Erebo dal quale lo sposo Orfeo avrebbe poi tentato inutilmente di strapparla. Non c’erano serpi infide sul cammino di Pomponia, tuttavia il lastricato del vicus Capitis Africae che Aurelio aveva imboccato in direzione del Celio metteva in serissimo pericolo le sue caviglie.
La matrona però non demordeva: era riuscita a intercettare l’amico già nel vicus Curiarum e non aveva intenzione di mollarlo finché non gli avesse estorto qualche dettaglio sconosciuto sull’indagine. L’ultimo delitto, infatti, lungi dallo spegnere la curiosità dei quiriti per la caccia, l’aveva persino enfatizzata: non soltanto la popina di Gallo vicina al tempio di Tellus era stata presa d’assalto dagli avventori costringendo il proprietario ad assumere due nuove serventi, ma anche il thermopolium del Pullus Cycneus sull’Appia, ben oltre porta Capena, sebbene intitolato a un cigno, per analogia ne aveva tratto largo vantaggio, come pure le bancarelle antiquarie della spianata dei Saepta Iulia, che avevano visto andare a ruba tutte le loro scorte di tipiche fibulae galliche a forma di rostro di gallinaceo.
«Movente, mezzo, opportunità, è tutto qui. Sono gli elementi di cui occorre tener conto quando si ragiona sul colpevole di un delitto» disse il senatore, allungando il passo per farla desistere, visto che la presenza dell’amica troppo ciarliera non avrebbe certo propiziato l’incontro con uno dei principali sospetti, dal quale si stava appunto recando.
«Vediamo il movente» considerò Pomponia. «Per l’ultimo delitto Surilla ne aveva uno discreto, ovvero il lascito, che si traduce in una dote cospicua, e chissà che Iullo Batraco, di famiglia modestissima, nonché notoriamente prodigo, non le abbia dato una mano, nella speranza di ammantare con una veste pubblica e legittima un rapporto fino a quel momento meramente orizzontale.»
«Sempre meglio del primo marito, vecchio e manesco.»
«Ma che dici? Era giovane e mite come un agnellino: decisamente troppo per una moglie tanto impetuosa» lo smentì in pieno Pomponia.
Qualcosa non quadrava, si disse Aurelio senza rallentare l’andatura, ricordando che Surilla non aveva cicatrici di sorta. L’errore forse era cercare ragioni di un carattere spinoso che andassero oltre l’essere cresciuta senza amore in una famiglia i cui membri di affetti, premure e tenerezze ne avevano conosciuti ben pochi, pensò, mentre la matrona proseguiva: «Rufino non aveva motivo di volere la morte del fratello, dato che sarebbe stato comunque l’erede, come stabilito dal testamento depositato dal nonno parecchi anni or sono e mai sostituito con uno più recente. Resta dunque Ascanio, che stai andando a interrogare: che motivo potrebbe avere avuto?».
«Conosceva Criso: pare che, con la scusa di far lavare le vesti, si servisse della fullonica di Romizio apposta per incontrarlo. Come ha tentato di vendere informazioni alla banda Gallica e a te, il ragazzo può averci provato anche con altri, in quell’ora e mezzo intercorsa tra il rinfresco a casa tua e la sua morte. Forse l’ha fatto una volta di troppo, con la persona sbagliata.»
«Smettila di parlare di quel povero bambino come di un delinquente» protestò la brava signora. «Ci penso sempre, sai? Se fossi riuscita a trattenerlo, se lo avessi invitato a rimanere...»
«Non avrebbe accettato, Pomponia. Era abituato a cavarsela da solo, come quei gatti randagi che, dopo aver divorato il cibo, invece di fermarsi in casa riprendono la loro strada errabonda» tentò di rinfrancarla Aurelio, ben sapendo quanto la matrona fosse stata colpita dalla morte del suo piccolo ospite. «Non dimentichiamo poi che le vittime sono due: anche Decimo è stato strangolato, e sebbene a quanto tutti dicono si trattasse di un ragazzino molesto e capriccioso, non meritava certo di morire in quel modo» affermò Aurelio, che trovava enormemente triste quel sedicente gioco le cui vittime – una stroncata dalle febbri, due da un efferato assassino – stavano appena affacciandosi alla giovinezza. La morte di un adolescente è sempre particolarmente crudele, pensava. Giunge quando, superata l’infanzia, ci si suppone ormai fuori pericolo e si comincia quindi a costruire giorno per giorno le speranze e le attese della vita adulta: è una promessa non mantenuta, uno scherzo atroce dei Numi, un tradimento del Fato. Forse però le vittime non erano state scelte a caso, rifletté, ma proprio perché la loro età ancora pregna di illusioni infantili le rendeva più suggestionabili e la costituzione immatura metteva in grado anche un uomo poco robusto, o addirittura una donna, di averne facilmente ragione...
«Ascanio aveva dunque delle mire subdole. Senza contare che, guarda caso, secondo la testimonianza di Dannico si trovava proprio sul vicus Longus, quel pomeriggio. Inoltre frequentava anche Decimo» aggiunse la matrona. «Movente, opportunità, mezzo, ci sono tutti!» concluse trionfante.
Aurelio preferì non smentirla, sebbene avesse parecchie ragioni per farlo: di tutto aveva bisogno per riuscire a sbrogliare quella intricata matassa fuorché della volenterosa quanto confusa ingerenza dell’amica.
«Che cosa intendiamo domandargli?» chiese infatti Pomponia con un preoccupante plurale che la diceva lunga sulla sua riluttanza a farsi da parte.
Fu proprio in quel momento che, con insperato senso dell’opportunità, il rialzo di sughero di uno dei monumentali calzari della brava signora cedette di colpo, risolvendo il problema.
«Mi dispiace, non sono più in grado di aiutarti. Dovrai proseguire da solo» si rammaricò la matrona azzoppata, con grande sollievo di Aurelio, che benedì il tacco, la scarpa e anche il sutor.
Poco dopo arrivava a destinazione.
CASA DI IULLO BATRACO SUL CELIO
IIII. Dove si disquisisce di tentazioni, provocazioni e altre amenità
«Eccoti, finalmente!» disse Aurelio spicciativo, dopo avere intercettato, grazie ai suoi uomini, Ascanio davanti alla casa di Iullo, in cui tornava dopo due giorni di strategica assenza.
«Io, ehm, ho avuto da fare...» Rimpannucciato in vesti eleganti ma un po’ troppo strette, che dovevano risalire all’epoca non troppo lontana in cui era più assiduo di gare ed esercizi e meno di mense imbandite, il segnapunti teneva il capo chino e le labbra strette in una smorfia tirata.
«Lo so, eri impegnato a spendere i tuoi ultimi soldi nei bordelli particolari dell’Esquilino.»
«Non è proibito dalla legge.»
«Ma è proibito rivolgere certe attenzioni a un giovinetto nato libero, quindi deve essere stata una brutta sorpresa quando il piccolo Criso, vistosi soppiantato, ha tentato di ricattarti. E, guarda caso, quel giorno ti trovavi proprio sul vicus Longus, a due passi dalla domus di Pomponia!»
«Questi piccoli prostituti, tu non li conosci, senatore...» cominciò il segnapunti.
«No, in grazia ai Numi non li conosco» grugnì Aurelio.
«Sono falsi e subdoli. E lussuriosi, tanto. Sono peggio delle donne, non ne hanno mai abbastanza e sanno come provocarti, come sedurti, come tentarti...»
Il senatore vide rosso. Afferrato Ascanio per il collo della tunica lo appiccicò al muro tenendolo fermo con un solo braccio, mentre con la mano stringeva la stoffa per togliergli il fiato.
«Ah, erano loro a tentarti, lurido pezzo di escremento maleodorante, erano loro a provocarti, i ragazzini senza cibo, senza casa, senza famiglia che tu andavi a spiare nella fullonica nella speranza di comprarli per pochi assi? Ed eri tu la vittima, tu, libero e con la pancia piena, tu con le tue belle vesti, le tue monete tintinnanti, la fama riflessa di cui godi come allenatore del campione?»
«Lasciami respirare, mi stai soffocando!»
«Respirerai quando ti sarai reso conto di quale disgusto provochi in ciascuno di questi bambinetti ogni volta che ti avvicini. Quando avrai finalmente capito che non appena esci, loro vanno a vomitare!»
«Pietà, pietà!» farfugliò l’altro.
«Non ti piace essere strozzato, eh? Credi forse che a Criso sia piaciuto?»
«Non sono stato io, era vivo quando ci siamo lasciati!» riuscì a balbettare Ascanio.
«Dunque quel giorno l’hai incontrato!» affermò il patrizio allentando la presa quel tanto che consentiva al segnapunti di riprendere fiato.
«Lui voleva, diceva, pensava...»
«Che tu fossi molto interessato al giovane Surillo, che adesso è morto anche lui» concluse Aurelio. «Sei in un guaio, Ascanio, in un guaio molto grosso!»
«Criso minacciava di rivelarlo alla famiglia. Però non l’ho ucciso, che vantaggio avrei avuto ad ammazzare poi anche Decimo Surillo? Qualcun altro invece ci avrebbe guadagnato: quel gonzo di Iullo, che non ha più un sesterzio e spera di sposarne la sorellastra. Se le va dietro come un cagnolino, facendosi trattare a pesci in faccia mentre sospira ancora per la sua schiava mora, è perché ha fatto i suoi bravi calcoli: senza più Decimo di mezzo, l’intero patrimonio andrà al fratello mezzo scemo, che Surilla potrà manovrare a suo piacimento... Bisognerà vedere però se lei accetterà di mantenere un marito soltanto perché è belloccio e sa giocare a trigono.»
«Non deviamo dal discorso: Decimo portava il tuo anello quando è stato trovato morto.»
«Non sono stato io a darglielo!» protestò vivamente il segnapunti.
«Poche storie, Ascanio: se insisti ad affermare che ti è stato rubato, posso sempre chiedere al ladro stesso, visto che lo conosco bene, ma mi sembra assai probabile che fosse piuttosto il frutto di una estorsione. Due ragazzini per cui spasimavi, con i quali probabilmente avevi illeciti contatti e che ti ricattavano, entrambi morti di morte violenta... molto significativo, non ti pare?»
«Dico la verità: l’anello con l’onice avevo pensato di regalarlo a Decimo, sapevo che gli piaceva e volevo ingraziarmelo, non differentemente da quanto tu stesso avresti fatto con una bella donna. Invece sono stato costretto a cederlo a Criso, per comprare il suo silenzio: a quel piccolo delinquente non bastavano i soldi, ha preteso proprio quel gioiello, per sottrarlo al suo rivale, di cui era certamente geloso» affermò Ascanio, deciso a legittimare fino in fondo le sue condotte meschine.
Il patrizio allentò di malavoglia la stretta, mentre l’altro tossicchiava penosamente per respirare. Aveva saputo ciò che gli serviva, ovvero a chi era stato dato veramente l’anello di onice. Dunque il cerimoniale era completo: l’anello di Oreste infilato al dito di Criso, e quello di Criso al dito di Decimo Surillo, con un rito che legava indissolubilmente tra loro i tre crimini, come se l’assassino avesse voluto sottolinearne l’intimo rapporto.
«Non li ho ammazzati io, non li ho ammazzati io, devi credermi!» farfugliò Ascanio.
Quell’uomo era un infame, pensò il patrizio disgustato: non tanto per le sue discutibili propensioni, ma perché si permetteva poi di disprezzare i ragazzini che aveva pagato, come se chi compra fosse migliore di chi vende. E non lo sfiorava alcun pensiero di rammarico per la loro morte, quasi quelle brevi vite brutalmente stroncate fossero esistite soltanto in funzione della sua perversa lascivia. Era un infame, certo, ma ciò non significava che fosse anche un assassino.
«Ti credo, ma soltanto perché so che non avresti avuto modo di commettere il secondo delitto» rispose tranquillamente Aurelio. «Il tempo che non hai trascorso ad allenare Iullo mentre Decimo veniva ucciso, l’hai passato tutto al bordello dell’Esquilino, dove ti sei fatto notare dal mio barbiere Azel, che ne è un attivo frequentatore.»
«Lo sapevi? Ma allora perché mi hai bistrattato in quel modo?» chiese stupito il segnapunti.
«Ringrazia i Numi che il nostro discorso finisca qui. Fossi in te lascerei Roma e mi terrei lontano per un po’.»
«Da chi?»
«Da me: il tuo collo mi ispira, Ascanio, la prossima volta non mollerò la presa» disse gelido, prima di voltargli le spalle.
PONTE SULL’ANIENE, VIA SALARIA
V. Dove un romano lascia per sempre l’Urbe
Dopo aver camminato fino al ponte Salario, dirigendosi verso Fidenae lungo una strada che in tutti quegli anni trascorsi nella capitale non aveva mai visto una sola volta, Sagitta si rese conto di stare lasciando l’Urbe per sempre.
Quanto l’aveva vagheggiata nei suoi sogni e come diversamente gli si era presentata nella realtà, rammentò, ma stranamente non gli dispiacque.
Tornava senza un sesterzio per andare a produrre frecce assieme ai suoi fratelli, come era scritto nel suo nome: a Iulia Concordia, nel piccolo fabbricato sulla via Annia, avrebbe avuto una nuova vita, più dura, più semplice, ma forse anche più soddisfacente. Non vedeva l’ora di cominciarla: il poeta Ennio aveva ragione, si poteva essere Romani dappertutto, e probabilmente altrove era anche più facile che a Roma stessa. Ma era grato all’Urbe per avergli insegnato, magari in ritardo, magari all’ultimo momento, che da cittadini romani non ci si dimette mai, nemmeno volendo.
Gli era andata bene, non poteva chiedere di più alla buona sorte, grazie alla quale gli era stato attribuito il merito di aver fermato il ricercatissimo Meticanio, con la conseguente rinuncia a indagare a fondo sui suoi trascorsi poco lodevoli.
Quando ci pensava, ancora si chiedeva come avesse trovato l’animo di affrontarlo. Non era stato solo per la squadra Gallica, che il capobanda aveva ignominiosamente tradito, non era stato nemmeno per Roma, e neanche per la ragazza. Due anni interi aveva ammirato da lontano quella sua stravagante bellezza, senza mai toccarla e senza mai rivolgerle la parola, come dagli ordini ricevuti, ma sempre domandandosi che cosa ci facesse una simile meraviglia nel covo di una banda di ladruncoli. L’aveva sognata, si era immaginato nei panni del suo liberatore, prima di leggerle negli occhi un vuoto incolmabile, una stanchezza estrema, un’assenza totale di speranza.
Appostato nei pressi della nuova casa di Meticanio ai confini con le Carinae, l’aveva visto uscirne nottetempo trasportando il suo lugubre fardello e depositarlo poi nel boschetto di Tellus.
Allora era corso al covo della Suburra e si era messo ad aspettarlo. E soltanto adesso, mentre tornava al suo paese a testa alta, capiva per chi l’aveva fatto: per se stesso, solo per se stesso, per potersi guardare negli occhi davanti a uno specchio.