DOMUS DEI SURI SULL’OPPIO
I. Dove si tenta di indossare l’elmo lucente della giustizia
Quando Aurelio si presentò nella domus dei Suri sull’Oppio, Rufino venne ad accoglierlo come avevano precedentemente concordato: era stato difficile convincerlo, aveva ceduto soltanto davanti all’esplicita richiesta di collaborazione. Non c’era stato bisogno di spiegare le ragioni di quel colloquio: il ragazzo era abbastanza avveduto da sapere su chi si accentravano i maggiori sospetti.
«Lei è nel tablino» disse sommessamente, accompagnandolo dentro.
«Che fa qui costui? Chi gli ha dato il permesso di entrare?» sibilò Surilla inviperita.
«Io. È mio diritto farlo, sono il paterfamilias, adesso» spiegò il fratello, quasi scusandosi. «Credo che noi si debba discutere finalmente di alcuni problemi assieme al senatore: dei delitti, del gioco, della morte di Decimo. Per chiarire una volta per sempre che siamo estranei ai crimini.»
«In modo che smetta di guatarci come un cane infoiato che annusa l’usta di una femmina in calore, vuoi dire?»
«Esempio calzante, immaginifico e soprattutto di rara finezza, affascinante Surilla, degno del tuo eloquio sofisticato» ironizzò Aurelio, mentre traeva dalle falde della tunica la palla di stoffa, il velo grigio, il pettine di osso.
Lei lo fissò, dritta come un fuso, in un atteggiamento regale che la denunciava pronta a dar battaglia. Una donna tutta tesa a difendere una scontrosa libertà che non avrebbe potuto ottenere appieno senza una relativa autonomia economica, pensò il patrizio. Una donna che covava rancori antichi e forse inspiegabili, una donna che non sapeva ridere. Una donna che faceva l’amore con rabbia e ferocia.
«Questo è ciò che è stato rinvenuto sul corpo di Decimo o nelle sue immediate vicinanze» disse mostrando gli oggetti che aveva portato con sé. «Mancano il gallo di legno e l’anello di oro e onice trovato al suo mignolo, che dovrebbero essere in vostro possesso.»
Surilla assentì con un breve cenno del capo. Dicono che Dafne inseguita da Apollo cercasse ogni via di fuga prima di vedersi perduta e supplicare gli Dei di trasformarla in alloro pur di non cedere all’amplesso sgradito. Qualcosa, ben celato dall’espressione fiera della donna, evocava quella consapevolezza della fine che doveva aver pervaso la ninfa al momento della sua tragica supplica, davanti all’impossibilità di sfuggire alla sua sorte. Quale sarebbe stato l’alloro di Surilla, quale la supplica?
«L’anello di Oreste rinvenuto al dito di Criso, quello di Criso al dito di Decimo... Pare quasi che l’assassino abbia voluto creare un legame tra i giovinetti, benché il primo fosse morto di febbri e gli altri due uccisi e creare in tal modo una cesura netta tra le due fasi del gioco, sebbene la seconda parte echeggi la prima, con la quadriga al dito di Oreste che indica l’edicola di Quirino e la tunica di Criso che rimanda alla cintura di Decimo col tetragammon. A dire il vero mi ha sempre stupito il fatto che in questa vicenda ci fossero troppi manufatti, troppi monili, troppi accessori, troppi segni, troppe prove, troppi indizi materiali disseminati ovunque, laddove quando si indaga su un delitto di solito se ne trovano pochissimi. Come se il colpevole avesse sparso in giro di tutto, proprio di tutto, per confonderci e impedirci di individuare le uniche vere tracce che potrebbero portare alla sua identificazione: non dimentichiamo infatti che questa vicenda è cominciata da una serie di innocui indovinelli inventati da due ragazzi.»
«Uno dei quali però ha pagato con la vita la brillante idea di mio fratello» commentò Surilla.
«La responsabilità ricade soltanto sull’assassino» puntualizzò il senatore, rivolgendosi al giovane. «Il gallo di legno è l’ultimo indizio che ha lasciato. Tu ne sai qualcosa?»
«Sembra identico a quello che costruii per Decimo, quando era piccino. Però se ne sono sempre fatti parecchi, tutti uguali, ancora si vendono sulle bancarelle come giocattoli o portafortuna, quindi non mi è possibile riconoscerlo con certezza.»
«Stai per caso dicendo che chiunque vive qui poteva avervi accesso?»
«Sì. No. Non lo so!» dichiarò Rufino confuso.
«Sai dove si trova ora? È ancora in casa?» chiese il senatore.
«C’era. Dovrebbe essere in qualche cassa, o forse è stato gettato via» ammise il ragazzo.
Aurelio ebbe conferma del suo atteggiamento poco collaborativo nel mostrargli il fermacapelli di osso.
«Non lo ricordo» disse il giovane a voce bassa.
«Eppure ha una lavorazione molto particolare, dovuta certo a un intagliatore sopraffino: due ninfe dei boschi in chitone, che si tengono per mano. Se fosse di Surilla dovresti averlo notato.»
«Ti ho detto che non me ne ricordo!» ripeté Rufino con un timbro alterato e decisamente troppo acuto.
«Nemmeno tu?» chiese Aurelio alla donna. «Ti faccio presente che Iullo Batraco l’ha riconosciuto, dato che lo portavi in mezzo alle chiome l’ultima volta che sei andata da lui.»
«Potrei averlo perduto in casa sua, non pensi? Ehi, ma che hai ancora lì, una vecchia palla da trigono, forse? Hai chiesto a Iullo anche di questa?» rispose Surilla, coriacea come sempre: sapeva bene che lui non aveva in mano nessuna prova sostanziale e ne approfittava largamente, pensò Aurelio. L’unica via era agire sul fratello, instillandogli un senso di falsa sicurezza, per poi farlo cadere in contraddizione e obbligarlo così a rivelare ciò che certamente sapeva.
Ma Rufino aveva già intravisto in quel nuovo indizio un’occasione d’oro per deviare i sospetti dalla sua casa e dalla sua famiglia. «C’è uno scarabocchio, che pare una firma... Spesso Iullo Batraco usa mettere la sigla a inchiostro sulle palle da competizione.»
«Un giovanotto di estrazione molto umile, popolarissimo e tuttavia spiantato, che riesce a unire i suoi destini con una matrona di buona famiglia dotata di un congruo vitalizio. È un’ipotesi astuta, Rufino, che avrebbe fatto comodo a molti, prima di tutto a me... Ma vale per la palla il medesimo discorso fatto per il gallo: in giro ce ne sono decine e decine. Senza contare che Iullo è mancino, e ciò non quadrerebbe con il tipo di pressione esercitata sul collo di Criso. No, a portarci sulla strada giusta sono il pettine e il velo. Oltre naturalmente alla cintura!»
«La cintura?» impallidì Surilla.
«Quella col gammadion, che indossavi all’Argiletum quando ti hanno strappato la veste. Se non sbaglio ne avevate una ciascuno, da accompagnare agli abiti cuciti nella stessa stoffa: potrebbe trattarsi di un fattore decisivo per discolparti. Ma tornando al velo... lo si usa per dar volume ai capelli nelle acconciature e tu, sempre quel giorno, l’avevi in testa.»
«Ah, te ne sei accorto? Ma saresti disposto a giurare che si tratti proprio dello stesso?» fece lei sarcastica.
Rufino allora prese un lungo respiro, raccogliendo tutto il suo coraggio, a tal punto che quando parlò lo fece senza esitare, balbettare o inciamparsi per via, come se fosse improvvisamente cresciuto, scrollandosi di dosso una parte consistente della goffaggine che lo aveva sempre contraddistinto.
«Senatore, penso che tu stia davvero esagerando! Sei voluto venire a interrogare mia sorella e ho acconsentito perché ti stimo molto, ma credevo che avessi argomenti più seri. Invece ti presenti con indizi inconsistenti e una pletora di arnesi assolutamente non probanti, sulla cui base cominci ad accusarla. Ma hai dimenticato di chiedere la cosa più importante: dov’era la mattina in cui Decimo è scomparso. E questo posso dirtelo io: si trovava con me, qui in casa, quindi ogni tua supposizione viene a cadere.»
«Per quanto tempo è rimasta sotto i tuoi occhi?» domandò Aurelio di rimando. «È importante che te lo ricordi, in quanto non comporta solo un alibi per lei, ma anche per te stesso.»
«Questo è troppo, è veramente troppo, non siamo i tuoi schiavi per trattarci così!» fece Rufino in un sussulto di dignità, poi drizzò le spalle e anziché rispondere si diresse alla porta, lasciando il patrizio solo con Surilla.
Il primo segno fu un palpito delle ciglia, poi Aurelio la vide tremare, non di rabbia stavolta, quasi la dura corazza della quale si faceva scudo cominciasse a incrinarsi. Ma come la belva azzanna perché è nel suo istinto farlo, così la donna, pur spaventata, non resistette a domandare con voce tagliente: «È tua abitudine accusare di omicidio le donne con cui sei andato a letto o è un privilegio riservato a me?».
«La cintura, Surilla, dammela immediatamente!» replicò Aurelio imperioso, e per una volta lei tacque.
Poco dopo si avviavano al cubicolo che custodiva le arcae dove i membri della famiglia tenevano le loro vesti.
II. Dove finisce il gioco
Rufino ne stava uscendo in quel momento.
«Rientra, devi esserci anche tu» gli ordinò Aurelio sospingendolo di nuovo dentro.
I due rimasero fianco a fianco mentre Surilla apriva il coperchio di un’arca e vi frugava dentro con una fretta ansiosa.
«È qui, sono sicura che sia qui!» diceva concitata, estraendo tuniche e veli, pallae e sopravvesti, che gettava alla rinfusa sul pavimento con gesti burrascosi.
«È inutile che ti affanni a cercare, non la troverai» disse il patrizio, gelido. «Rufino, tu sei in grado di farmi vedere la tua?»
«Fino a un istante fa avrei detto di sì, ora però non sono più certo di nulla. Ma se proprio vuoi...»
«Mostramela, dunque!»
Il giovane esitò per qualche istante, prima di accovacciarsi accanto a un’altra cassapanca e mettersi a tirar fuori i suoi abiti: una toga praetexta col bordo rosso, giacché non era ancora stato dichiarato maggiorenne, e una lunga serie di tuniche, che il giovane impilava ordinatamente accanto a sé, via via che proseguiva la ricerca, con una puntigliosità ben diversa dal disordine agitato della sorella.
«C’è, deve esserci... Eccola!» disse infine con sollievo, consegnando al senatore una corta cinta giallastra, ricavata da un angolo del tessuto in cui l’insegna del gammadion era presente, ma spezzettata e mal cucita, tanto da essere quasi irriconoscibile.
«Bene, adesso spogliati!» comandò il senatore.
«Ma che ti prende, stai scherzando?»
«Il gioco è finito, Rufino. Ora che mi hai consegnato la cintura della tunica di tuo fratello, troppo corta per strangolare chicchessia, voglio anche l’altro cingulum, quello di tua sorella che hai appena trafugato e ti sei nascosto addosso, abboccando al trucco piuttosto elementare col quale intendevo farti credere che potesse scagionarla. E meno male che ci sei cascato, perché di prove, PRIMA, ne avevo davvero troppo poche!»
«Come puoi pensare che io...» cominciò Rufino, pallido come una larva dell’Erebo.
«Non lo penso, ne sono sicuro» disse tranquillamente il senatore. «Quando hai voluto trasformare il gioco in un meccanismo di morte – e sono convinto che tu l’abbia deciso non all’inizio, ma in un secondo momento – sei stato bene attento a distinguere le due fasi, perché si potessero attribuire ad autori diversi. Inventando questo trastullo, infatti, non avevi già in progetto i delitti, per cui non ti curasti troppo degli eventuali testimoni che avrebbero potuto vederti seminare i primi indizi. Poi, quando alla tua iniziativa arrise un inaspettato successo, ti trovasti di fronte a due possibili alternative: o farti riconoscere per l’ideatore della caccia che entusiasmava Roma, uscendo dall’ombra in cui ti avevano sempre relegato, per salire sul palcoscenico di una effimera fama, oppure sfruttare la tua creazione per garantirti un solido futuro, liberandoti di chi si interponeva tra te e un cospicuo patrimonio, cioè il tuo fratellastro e complice, che peraltro era anche l’unico a sapere la verità.»
Rufino ascoltava, incredulo e attonito.
«Di fatto, c’è sempre stato un solo giocoliere, tu, risoluto a far credere che fossero due. Hai ragionato esattamente come Meticanio Meticone, che nel capeggiare una banda di giovani delinquenti commetteva una mancanza modesta e confessabile, dietro alla quale trincerarsi per nasconderne crimini ben più gravi. Analogamente, tu ti sei protetto le spalle, costruendo a posteriori gli strumenti per riconoscerti all’occorrenza responsabile della parte innocua del gioco, ma non di quella letale.»
«La tua è pura follia, senatore: non avevo alcun bisogno di uccidere mio fratello. Sono sempre stato io l’erede!»
«Ma non lo sapevi, anzi eri convinto del contrario, come d’altronde presumevano tutti: è stata una delle poche cose vere che hai detto mentre, da abile manipolatore quale sei, cercavi di creare attorno a te un’aura di simpatia come ragazzo negletto trascurato dalla famiglia. Alla pari di tutti i bravi mentitori mescolavi verità e fandonie, ma abbondavi troppo nei dettagli nel tentativo di essere più convincente: così la storia pietosa del marito anziano e manesco di tua sorella che hai stupidamente inventato lì per lì, senza calcolare che avrei potuto facilmente verificarla. Così anche la tua cura nello spargere falsi indizi che portassero a Surilla, non soltanto il gallo di legno a cui chiunque in casa era in grado di accedere, non soltanto la palla con uno scarabocchio che evocava il suo amante Batraco, ma soprattutto il pettine d’osso e il velo grigio che avrebbero dovuto caderle durante l’omicidio. Questi ultimi due sono stati gli errori più gravi, quelli che ti hanno perduto!»
Il giovane ascoltava allibito, rifiutando di accettare la realtà: non soltanto il disastro di vedere scoperta la sua condotta assassina, ma soprattutto il crollo della convinzione di essere il meglio del meglio, troppo ingegnoso, sottile e scaltro per venire riconosciuto da un mondo di mediocri ai cui occhi si appare invece inetto e pasticcione.
«In quella zona degli Horti Lamiani, tuttora in costruzione, si aggirano molti mendicanti, pronti a raccogliere qualunque oggetto ancora usabile e vendibile: se fosse caduto dalla chioma di tua sorella, un pettine tanto elegante sarebbe scomparso immediatamente nella scarsella di qualche pitocco, quindi devi avercelo messo dopo, quando, avvertito dai vigiles, ti sei recato sul posto per riconoscere il corpo. E solo tu avresti potuto farlo, non certo Iullo, non certo Surilla: praticamente cercando di raffinare il tuo delitto con una falsa pista, hai finito per metterci la firma!»
Negli occhi di Rufino passò un bagliore fosco: il pettine, il dettaglio tanto studiato, quello che doveva inchiodare sua sorella... possibile che fosse stato un errore?
«In quanto al velo... per scrupolo ho fatto alcune prove sulle mie ancelle, ma avevo già sperimentato di persona come quel tipo di posticcio venga fissato abbastanza solidamente sulla testa delle signore da resistere anche a impetuosi e ripetuti sommovimenti!»
Surilla sottolineò il commento del senatore con un’occhiata feroce, mentre lui proseguiva: «Sei un perfezionista, Surio Rufino. Tuttavia, come tutte le persone che si reputano più intelligenti degli altri, tendi a esagerare. Non ti accontenti della visione di insieme, scendi nei particolari, curi le minuzie fino alla pedanteria, e questa ossessione alla fine si ritorce contro di te. Il cingulum di tuo fratello, cucito con un pezzo di stoffa in cui il tetragammom si intravedeva poco e male, sarebbe stato privo del segno fatale che rispondeva all’indizio proposto, quindi hai scelto di lasciare sul luogo del delitto la tua stessa cintura, quella con cui l’hai strangolato. Nella tua mentalità ossessiva tutto doveva corrispondere all’enigma e il cingulum di Decimo avrebbe rovinato l’esattezza dello schema, con quel dettaglio così poco riconoscibile.»
«Non significa niente!» protestò Rufino, terreo.
«I fulloni dai quali i vostri servi facevano lavare il bucato ricordavano le vostre tre vesti del medesimo tessuto, nonché la differenza tra le varie cinture. E ricordavano anche come un giovane della casa, uso a sbrodolarsi a tavola, talvolta portasse di persona i suoi abiti macchiati per non essere rimproverato dai parenti. Forse è lì che, dopo aver appreso la morte appena avvenuta del piccolo Oreste, hai concepito il tuo piano, a partire dal macabro arto sottratto ai libitinarii. Ed è certamente lì che una delle tue tuniche venne rubata da Criso, la stessa che il ragazzino indossava quando venne ucciso, sulla quale avevi vergato il quadrato magico con la croce uncinata. Molte parole sarebbero state adatte all’enigma, ma per una inconsapevole associazione di idee ti tornò in mente Milo, ovvero Milone, uno dei lavandai della fullonica, di cui però non hai mai fatto cenno...»
«Questa favola è un parto della tua immaginazione, senatore! Che ragioni avrei avuto di ammazzare anche Criso?»
«Credo che quell’omicidio non fosse premeditato. Probabilmente avevi stabilito di uccidere Decimo, in modo da proseguire il gioco con un assassinio – di un debole, di un adolescente, di un bambino totalmente indifeso, da vile quale sei – destinato a confondere le acque facendo pensare che tuo fratello fosse una vittima tra le tante, non quella specificatamente designata. Ma poi hai incontrato Criso: quel giorno eri venuto da me in mia assenza, ricordi? La residenza di Pomponia da cui era uscito da poco il ragazzino non è lontana dal Viminale... Non so esattamente come sono andate le cose: o tu stesso hai fermato Criso riconoscendo la tunica che ti era stata rubata, o più probabilmente è stato lui che non ha resistito a ricattarti, dicendo di averti notato al portico di Ottavia. Sapeva chi eri per via del suo lavoro alla fullonica, e forse ha lavorato di fantasia affermando di averti visto deporre la mano amputata dall’angolo nascosto in cui aveva dormito, o forse diceva il vero. In ogni caso, tu hai cambiato rapidamente i tuoi piani uccidendolo. Poi è stata la volta di Decimo, e magari saresti andato avanti con la serie, se il corpo della schiava della banda Gallica, trovato per caso nei pressi di una popina con il nome giusto, non ti avesse persuaso a soprassedere. Anche perché tua sorella aveva cominciato a nutrire parecchi sospetti su di te – il fatto che abbia osato presentarsi in pubblico col gammadion la dice lunga in proposito –, sul tuo andare e venire anche in piena notte, sul tuo grande interessamento alle indagini. Ma, chiunque fosse il colpevole, a Surilla l’omicidio di Decimo aveva spianato la strada dell’indipendenza, quindi dubito che volesse andare veramente a fondo sulla questione, ritengo anzi che preferisse non sapere.»
«Può darsi» intervenne la donna. «Però adesso sono qui e voglio vederci chiaro, quindi levati il vestito, Rufino, e fammi vedere se sotto c’è davvero la mia cintura o se Publio Aurelio ha ricamato tutta questa incredibile storia su una nuvola di fumo!» gli ordinò poi in tono brusco. Il patrizio la lasciò fare, ben sapendo come sottrarre scampoli di stoffa nascosti negli abiti altrui fosse una delle sue specialità. Infatti, dopo un breve tafferuglio in cui Rufino ebbe la peggio, Surilla estraeva a forza il compromettente cingulum dalle falde della tunica del fratello.
«Sì, è la mia cintura, ma che ha di speciale, perché mai avrebbe potuto discolparmi?» si meravigliò esaminandola.
«Assolutamente niente» dichiarò il senatore. «In effetti, Rufino, ti sei tradito per nulla: la cintura di Surilla sarebbe stata troppo alta e rigida per strangolare chiunque, mi è servita soltanto per indurti a venire allo scoperto, cosa che tu hai puntualmente fatto!»
Surilla si sentì venir meno, comprendendo solo in quel momento le tragiche implicazioni di quel discorso: altro infatti è sospettare, cullandosi in una idea tremenda ma che resta una semplice ipotesi, altro è essere messi di fronte a una certezza sconvolgente.
«Decimo era poco più di un bambino, e sì, pensavamo tutti che avrebbe ereditato lui» mormorò. «Ma da qui ad ammazzarlo... Gli hai stretto il collo fino a farlo rantolare, gli hai tolto il respiro, l’hai guardato morire. Ti credi il sale della terra, invece sei un mostro, e un mostro stupido, per di più!»
Fu quella parola a far perdere al giovane il lume della ragione.
«Ancora non capisci, ancora mi sottovaluti?» ringhiò, torvo. «Sono io che ho terrorizzato Roma, io che ho diretto le mosse di mezza città, io che ho deciso chi doveva vivere e chi morire! L’eredità negata sarebbe stata soltanto l’ultimo sfregio, dopo tanti soprusi. A diciotto anni ero agli ordini di un bambino odioso e saccente; possedevo una mente capace di concepire progetti arditi, ma mi si giudicava in base alle macchie sul vestito e al mio eloquio incerto, frutto delle vostre continue critiche: a chi non tremerebbero mani e voce sentendosi perennemente sotto giudizio? Ma la sentenza era già stata emessa, una volta per tutte, e a nulla valevano i miei studi, il mio intuito, la mia perspicacia: ero il fratello sbagliato, da tenere nascosto, di cui provare vergogna. Invece la stupida sei tu, sorella mia, e voi tutti!» si gloriò poi, ebbro di collera e di compiacimento.
Il momento dopo le si mise al fianco, facendole guizzare sul collo bianco un baluginio metallico, non un’arma vera, nient’altro che uno stilo da pugillares, tuttavia lungo, sottile, puntuto, mortale.
«Non ridi più di me, sorella?» chiese a Surilla, terrorizzata.
Aurelio restò immobile: al minimo gesto, Rufino, ormai fuori di sé, le avrebbe conficcato lo stilo in gola. Nel frattempo ragionava: il ragazzo era certamente intelligente, anche se non tanto quanto credeva, però niente affatto astuto, come aveva dimostrato abboccando poco prima al suo modesto tranello. Sarebbe cascato anche in un altro vecchio e scontatissimo trucco? si chiese mentre, senza muovere un solo muscolo del volto, spostava lo sguardo dietro ai due, rapidamente e quasi con ritegno, come se non avesse voluto farlo notare.
Sprovveduto com’era, Rufino non resistette e, temendo un attacco alle spalle, guardò a sua volta, soltanto per un breve istante, sufficiente tuttavia al patrizio per disarmarlo. Gemendo, il giovane arretrò verso la porta e si diede alla fuga.
«Non andrà lontano: le mie guardie hanno circondato la casa.»
«È tutto orribile, molto peggio di quanto avessi mai pensato!» mormorò Surilla affranta.
«Delitti squallidi e banali per un assassino squallido e banale: forse ci sarebbero molte cose da capire in tuo fratello, ma francamente io non ho voglia di farlo» commentò Aurelio.
«Come è potuto arrivare a tanto?»
«A volte la rabbia e l’invidia, mescolate al convincimento di essere oggetto di ingiustizia, sobbollono dentro fino a deflagrare all’improvviso con violenza inaudita. Per Rufino l’innesco dell’incendio è stata la straordinaria affermazione della sua caccia, un trionfo troppo grande per non soggiacere alla lusinga di puntare più in alto. È come se fossero esistiti veramente due diversi giocolieri, con due personalità diverse: prima il Rufino che scherzava, poi il Rufino che uccideva.»
«Che ne sarà di lui adesso?» chiese Surilla.
«La pena di morte è tuttora in vigore, però è raro che venga applicata ai cittadini romani per reati comuni, anche gravi come l’omicidio, soprattutto se si tratta di un minore. Probabilmente sarà condannato all’esilio a vita in qualche posto estremamente sgradevole, dove vivrà privo di qualunque agio.»
«Non tornerà mai più, vero?» disse Surilla, e allora accadde l’imprevedibile. Nei suoi grandi occhi neri e feroci brillò qualcosa di umido, come le gocce di rugiada con cui si tramanda che Eos, Dea dell’Aurora, piangesse al nascere del nuovo giorno il figlio mortale Memnone, ucciso da Achille nella piana di Troia. Silenziosamente, le lacrime scesero sulle guance, bagnarono la veste , vennero spazzate via con un gesto della mano che nulla aveva più di arrogante e superbo. «Decimo ucciso, Rufino un assassino: la mia famiglia non esiste più!» mormorò mesta.
«Tu non li amavi» osservò Aurelio.
«Erano pur sempre i miei fratelli: facevano parte di me, della mia storia, del mio sangue. Solo chi ha un fratello può capire!» spiegò lei in tono sommesso, e il senatore silenziosamente assentì.
«Coraggio: sei l’ultima dei Suri, diventerai abbastanza facoltosa.» E tremendamente sola, pensò il senatore, ma aggiunse invece, tentando di sdrammatizzare: «Da donna libera, ti farai una nuova famiglia: se non fossi già ricco sfondato mi verrebbe quasi voglia di sposarti!».
«Non dire sciocchezze!» replicò lei stizzita. «Ma spiegami: il castello di accuse che mi hai costruito addosso, ti serviva veramente solo per smascherare Rufino?»
«È così: gli ho fatto credere di considerare la tua cintura una prova importante, in modo che fosse tentato di farla sparire immediatamente.»
«Dunque la tua era tutta una recita, nient’altro che un gioco!»
«Con un giocoliere, si combatte sul suo terreno» ammise il patrizio.
«Davvero non hai mai dubitato di me?» chiese Surilla scettica.
«Neppure per un istante» confermò Aurelio sorridendo.
«Perché eri tanto sicuro che io fossi innocente?»
«L’assassino non poteva essere qualcuno di tanto antipatico: non avrebbe corrisposto al profilo» rispose lui soave.
«Ah, brutto pezzo di...» cominciò la donna con slancio.
«Sss, zitta... hai già dato spessore al concetto» la interruppe lui chiudendole la bocca con un bacio, mentre le asciugava le lacrime in una lieve carezza.