DOMUS DEGLI AURELI SUL VIMINALE
I. Dove c’è un brindisi in famiglia
«C’è qualcuno di là, venuto a farti visita. Un membro della tua famiglia» disse Castore indicando al padrone il tablino. «Credo che tu sappia di chi si tratta.»
«Sì. Ho rifatto bene i conti dopo averlo visto da vicino, scartando tutto ciò che si rivelava impossibile. Quello che restava, per quanto improbabile, doveva essere vero. E poi c’era il nome: Aurelio, che indicava un liberto della mia stirpe.»
Il segretario annuì, comprensivo. «Spero che tu non me ne voglia per averlo trattenuto contro la sua volontà: dopo l’attentato alla sua vita non sarebbe stato igienico che circolasse per l’Urbe, cercando di correrti dietro per restituirti il favore. Certo, non ha obbedito spontaneamente, traboccava di idee eroiche a base di sacrifici sublimi, così è stata necessaria una piccola coercizione...»
«Per inciso, dove l’avevi rinchiuso?» chiese il senatore incuriosito.
«Dentro la gabbia dei miei strutiocameli, all’interno del recinto a loro riservato nella tua villa sul Gianicolo, domine. Con Sansone di guardia, che si aspetta da te un pieno perdono per la sua defezione e anche un congruo premio in cambio della sorveglianza.»
«Lo avrà, Castore. E ora sparisci: voglio incontrarlo da solo!» disse il patrizio avviandosi verso il tablino.
Il ragazzo era in piedi e si guardava attorno, tra l’incantato e l’intimidito. Aurelio stette a osservarlo per un po’, chiedendosi se fosse vero ciò che aveva sempre negato, che i legami di sangue avanzassero comunque le loro pretese al di là della frequentazione, della confidenza o dell’amicizia. C’era veramente qualcosa da spartire tra lui e quel giovane di cui per anni aveva ignorato l’esistenza, vissuto dall’altra parte del mondo con gente di rango, costumi e mentalità diverse?
«Ave, Aurelio Timandro. Benvenuto nella mia casa» disse infine rivelandosi alla vista dell’ospite.
Il giovane lo fissò e deglutì, cercando di vincere il turbamento.
Allora il patrizio gli andò vicino e gli aprì le braccia in una ruvida stretta. «Fratello!» disse, commosso suo malgrado.
«Fratello!» ripeté l’altro cingendolo a sua volta. E restarono così qualche istante, avvinti in un abbraccio che avrebbe voluto superare gli anni, le distanze e il tempo che non era stato concesso loro di trascorrere assieme.
«Quando l’hai scoperto?» chiese il giovane.
«Tardi, molto tardi: a lungo sono stato attanagliato da un altro dubbio, che mi arrovellava. Ma non avevi nulla, assolutamente nulla che ricordasse Flaminia, senza contare che sapevo come lei comparisse spesso in pubblico ad Antiochia subito dopo il nostro divorzio, e quindi le sarebbe stato quasi impossibile nascondere una gravidanza al marito con cui si era affrettata a sostituirmi. Ma ad Antiochia viveva anche un’altra donna, che da anni non aveva più nessuno sposo a controllarla: tua madre Aurelia Axilla!»
«Nostra madre» lo corresse Timandro.
«Sì, vabbé, nostra, se preferisci» ammise asciutto il senatore.
«Me lo disse sul letto di morte: mi aveva partorito di nascosto sul finire dell’età feconda, quando era già vedova da anni. Non ho idea di chi fosse mio padre, probabilmente non lo sapeva nemmeno lei.»
«È irrilevante: Mater semper certa est, pater semper incertus» fece il patrizio in tono indulgente.
«Per la legge risulto figlio della sua ancella preferita e del marito, un liberto fedelissimo della casa degli Aureli che si era portata con sé da Roma. Crebbi assieme al personale di servizio, ma le sue attenzioni nei miei riguardi erano enormi. Ero felice, veramente felice, fino al giorno in cui mi disse la verità. Allora il mondo parve cadermi addosso, in un momento solo avevo perduto una madre che non sapevo di avere e la mia stessa identità: non ero più il fortunato figlio di un bravo servitore a cui la padrona concedeva la massima fiducia, ma nemmeno un nobile romano come lei.»
«Essendo nato quando il tuo genitore legale era già libero, sei un cittadino romano a tutti gli effetti» affermò il senatore.
«A cavallo di due mondi: quello dei servi, per quanto toccati dalla buona sorte, e quello dei padroni. All’improvviso nessuno dei due mondi mi si confaceva più. E sapevo che lontano, nell’Urbe Invitta a cui devotamente tutti si inchinavano, c’era l’altro figlio di Axilla, un grande di Roma...»
«Il figlio che lei abbandonò in fasce, lasciandolo alla mercé dello sposo manesco e meschino da cui stava fuggendo» precisò Aurelio.
«Aveva soltanto vent’anni, fratello, e morì senza che tu, passando per Antiochia, avessi fatto qualcosa per rivederla» la giustificò Timandro.
«Non avevamo niente da dirci» tagliò corto Aurelio.
«Sei come ti avevo immaginavo. Duro, forte, inflessibile, lassù, in quell’Olimpo in terra che si chiama Roma, rivestito della più alta dignità dell’impero, il laticlavio che ti rende uno dei trecento re dell’Urbe. Tanto intrepido da non esitare a combattere per difendermi, tanto implacabile da uccidere il mio aggressore.»
«Avresti preferito che ti lasciassi ammazzare?» chiese seccamente il patrizio. Nulla è semplice, nulla è scontato, nulla è banale nel rapporto tra gli uomini, si diceva intanto, nemmeno quando nelle loro vene scorre lo stesso sangue.
«Sapevo di non essere alla tua altezza, sicuro, deciso, arrogante come te. Per questo ti invidiavo, ti portavo rancore e sono partito al seguito di Macario in modo da conoscerti, seppure da lontano.»
«Mi invidiavi?» sbottò il senatore. «Sei stato allevato con le cure di una madre, hai avuto il suo sostegno, il suo affetto, la sua compagnia, il suo aiuto. Le sei stato accanto fino alla fine: tu eri suo figlio. E invidiavi me, rifiutato dalla donna stessa che mi aveva messo al mondo!»
Sconcertato, Timandro fece per aprir bocca, zittito immediatamente dal senatore: «Non osare dirlo! Stava per scapparti una qualche trita espressione di sciocco compatimento, vero? E io non la tollererei, anche perché alla fin fine Aurelia Axilla mi ha reso un grosso favore: costringendomi a contare solo su me stesso, ha fatto di me quello che sono e che, detto tra noi, sono contento di essere».
«Non riesci a perdonarla, vero?» mormorò Timandro amareggiato.
«È morta, non ha più nessuna importanza.»
«Ce l’ha per me!» lo supplicò il giovane.
«Allora la perdono. Contento?» minimizzò Aurelio.
Fu in quel momento che la tensione si ruppe, perché il serissimo Timandro, impegnato in un discorso tanto grave e pregno di onerose implicazioni, davanti al tono spicciativo e sdrammatizzante del senatore non riuscì a trattenere il riso.
«No, non sei come ti avevo immaginato, sei persino peggio!» affermò, e venne la volta del patrizio di scoppiare a ridere. «Quasi sempre la gelosia cela ammirazione, fratello, e io non volevo ammetterlo» aggiunse Timandro. «Soltanto quando ti ho visto rischiare la vita per salvarmi ho compreso chi eri. Ma sappi che sentirai ancora parlare del tuo fratellastro spurio: un giorno sarai orgoglioso di me come io lo sono stato di te quella notte. O almeno quasi...»
«Ci conto» disse il patrizio, che meditava di proporlo per l’incarico ormai definitivamente sfumato dalle mani di Macario. Sarebbe stato suo grande desiderio anche proclamare pubblicamente la loro parentela, ma doveva assolutamente trattenersi: un riconoscimento ufficiale avrebbe infangato la reputazione del giovane Aurelio Timandro e più ancora quella della loro comune madre, che almeno da uno dei suoi due figli era riuscita a farsi amare.
«Macario è scappato e io sto per ripartire per Antiochia» annunciò il giovane abbassando gli occhi.
«La Siria non è poi così lontana. Sappi però che a Roma hai una casa dove peraltro si mangia un po’ meglio degli avanzi che ti ammanniva Castore fingendo di portarli agli struzzi. E una famiglia, nel caso ti dovesse servire.»
«Lo terrò presente. E sai, non arrabbiarti se lo dico, ma lei non era affatto dolce come credi, spesso si mostrava burbera e brusca... Sapessi quanto le somigli!»
«Sempre meglio che somigliare a quello sciagurato di mio padre» bofonchiò Aurelio mentre riempiva i nappi per il primo e l’ultimo brindisi insieme. A lungo aveva temuto e sperato di avere un figlio, ora invece si ritrovava un fratello. Ma quando il Fato ti offre un dono gratuito, bisogna sempre rendergli grazia.
«Agli Aureli!» disse e bevvero assieme, entrambi con gli occhi luccicanti di emozioni mal trattenute.
DOMUS DEGLI AURELI SUL VIMINALE
II. Dove si provvede anche ai posteri
Nel peristilio tutti i servi della casa, Castore e Paride in testa, attendevano il grande evento: la splendida Nefer con gli occhi sapientemente bistrati; Fillide e Gaia elegantissime; Iberina tra il pocillatore e Chandra che si guardavano l’un l’altro in cagnesco; i nubiani; Sansone reintegrato nella sua carica; il cuoco Ortensio e persino il portiere Fabello, che per partecipare all’avvenimento aveva rinunciato al consueto sonnellino.
Tutti attorniavano la matrona Pomponia, superba in una palla d’oro punteggiata di fiori di rose e oleandro, con le inevitabili Dee e ninfe di contorno. La scortavano Prassilla, Febe, Milla e Dannico nella sua nuova veste di onesto lavoratore, tenuto perennemente d’occhio dal sospettoso Carnifex, per il quale fidarsi era bene ma non fidarsi meglio. Accanto alla colonna, gonfio di legittimo orgoglio, signoreggiava Aristodemo, pronto a strappare il drappo che celava la sua opera somma, destinata a immortalare nei secoli dei secoli le fattezze del senatore consolare Publio Aurelio Stazio.
«Eccolo, eccolo!» gridarono le ancelle facendo largo al padrone, che avanzò fino al centro del capannello prima di alzare la mano nell’ordine tanto atteso.
«Ohhh!» esclamarono in coro gli astanti non appena, con un gesto insieme ieratico e teatrale, lo scultore tolse il panno.
«Non ti sembra stupendo, domine?» chiese lo scultore lievemente sulle spine. Grazie al vecchio busto che Castore gli aveva fornito come modello, il ritratto a dire il vero era lontanamente somigliante, sebbene per qualche verso i tratti evocassero anche altri abitanti della domus: l’attaccatura dei capelli ricordava un po’ l’intendente Paride; gli occhi apparivano rotondi alla pari di quelli del bagnino Chandra; il labbro inferiore sembrava tumido come quello di Memnone; infine le gote, lungi dall’essere scavate, presentavano i lineamenti più dolci di Timandro, gli stessi che erano stati di Aurelio cinque lustri prima. La sella del naso, però, era perfetta. Un capolavoro, si compiacque Aristodemo: finalmente un inequivocabile, sontuoso, magnifico naso romano!
Aurelio, a cui tanto poco importava dei posteri che, pur di evitare la seccatura delle sedute di posa, avrebbe accettato anche un busto somigliante all’Idra dalle cento teste, stava per fornire un cauto e tiepido consenso, quando Castore intervenne in tono entusiastico.
«Domine, Aristodemo è riuscito a rendere appieno qualcosa di più della tua fisionomia: ha scolpito i tuoi valori e le tue convinzioni più profonde. Ami sempre ripetere che Roma non è soltanto una città, ma un’idea che unifica i popoli del mondo, fusi insieme nel suo nome. Ed ecco che questo geniale scultore ha fatto intravedere nel viso di un senatore romano il profilo di tutte le genti toccate dall’ombra gloriosa dell’Urbe. Ha eseguito il tuo ritratto, padrone, ma nel contempo ha rappresentato quella Roma universale, regina delle genti, che tu stesso incarni!»
Aurelio dovette tossire un bel po’ per riuscire a soffocare il riso davanti alla dotta e virtuosa spiegazione elucubrata dal segretario per far levitare il compenso dello scultore, e quindi la sua percentuale. Ma l’idea di rappresentare i destini della Roma Eterna gli piacque troppo per non abboccare.
«A dire il vero, manca qualche tratto celtico...» deplorò Dannico.
«Soltanto perché non eri a disposizione per posare» gli fece notare Castore. «Però magari si potrebbe arrotondare un po’ il naso...»
«No, per carità, il naso non si tocca!» gridò Aristodemo ergendosi a difesa del suo capolavoro, che tuttavia non aveva ancora ricevuto l’approvazione del committente.
«È veramente splendido, raddoppio la ricompensa» giudicò infine Publio Aurelio con un largo sorriso, mentre, per evitare che il busto si rovinasse a discapito dei posteri, comandava di chiuderlo al sicuro nel suo studiolo mettendolo al posto d’onore accanto all’erma di Epicuro, dove, da quel momento in poi, lui e solo lui avrebbe potuto posarvi sopra gli occhi.