15.

Arrivato al suo secondo anno a Stanville, Gordon Hauser non avrebbe piú confuso il grido di un animale con quello di una donna. L’urlo che aveva sentito la prima notte nella sua capanna di tronchi era stato di un puma. Non di una donna, e tantomeno in difficoltà.

Quando la neve ammantò il terreno il primo inverno, le impronte delle zampe salivano intorno a casa sua, buchi scavati che corrispondevano esattamente per forma e dimensioni a quelle sulla sua guida pratica alle bellezze della natura, secondo la quale la voce del puma era stata variamente definita come l’urlo, lo strepito o il gemito di una femmina umana.

Lui un puma non l’aveva mai visto, soltanto sentito. La mattina presto, calando dalla montagna per andare a Stanville, ogni tanto intravedeva le volpi grigie seguite dalla lucida coda mentre faceva le curve della strada tortuosa, oltrepassando le enormi querce vive seccate dall’aridità, le foglioline frastagliate coperte di polvere, i banchi di ippocastani color ruggine e i manzanita verde fumo. I rami spogli degli ippocastani scintillavano al sole bianchi come ossa. I prati avevano il giallo intenso della paglia bagnata. Non aveva mai visto erbe cosí belle.

Sul rettilineo che portava al bacino marrone, lo scenario mutava mostrando oleodotti e torri di trivellazione che pompavano a tutto spiano. Dopo le torri di trivellazione, dove la strada si biforcava, c’erano un aranceto impolverato e un’unica fattoria con due palme davanti. Le due palme erano di una strana varietà, folte, arruffate e lussureggianti come gli stivali da neve degli inuit.

Al suolo, nella valle, la temperatura era dieci gradi piú alta e l’aria impregnata dall’odore di fertilizzante. Niente piú arance, niente piú trivelle petrolifere, soltanto pali dell’alta tensione e mandorleti in enormi appezzamenti geometrici fino alla prigione.

Come tutte le prigioni della California, Stanville sfoggiava tre bandiere: quella statale, quella nazionale e quella dei prigionieri di guerra dispersi in azione. A Gordon la bandiera dei prigionieri di guerra era sempre sembrata patetica, perché era per chi era rimasto in Vietnam, durante una guerra dove gli Stati Uniti erano stati sconfitti, anzi, stracciati. Tutti i prigionieri non tornati probabilmente erano morti da un pezzo e, comunque, nessuno sarebbe andato a cercarli, ma gli agenti di custodia di ogni struttura statale alzavano una bandiera in loro onore. Adesso, quando catturavano qualcuno, era diverso. Tanti erano mercenari e venivano decapitati in diretta su internet. Il presidente Bush andava in televisione a dire che stava costruendo ospedali e scuole per gli iracheni. Quasi tutte le auto nel parcheggio di Stanville riservato al personale avevano un fiocco giallo sul paraurti.

Orientarsi nella prigione non era facile. A Gordon sembrava tutta uguale, singoli edifici di calcestruzzo a uno o a due piani in un’enorme distesa di terra battuta e cemento circondata da cortine di filo spinato. Attraversò tre porte elettroniche fortificate per raggiungere la sua classe, che era in una roulotte senza finestre vicino ai laboratori attitudinali e alla cucina centrale. Dalla cucina arrivava una puzza costante di grasso rancido, superata solo dalle zaffate di solvente che si levavano dall’autofficina, dove una fila di furgoni – le vetture personali degli agenti di custodia – aspettava servizi di verniciatura a prezzi stracciati dalle detenute.

Gordon aveva licenza di entrare in quella parte della struttura, mentre le sezioni abitative e i cortili gli erano preclusi, con l’unica eccezione di un blocco di celle nel recinto A, il 504, dove poteva lavorare con quelle del braccio della morte e dell’isolamento.

Gordon aveva temuto il braccio della morte, salvo poi scoprire che non corrispondeva affatto ai suoi incubi. Aveva immaginato sbarre di ferro, una visione medievale di sofferenza. Era automatizzato e moderno, ogni cella minuscola con la porta d’acciaio dipinta di bianco e una finestrella di vetro. C’erano dodici donne, una per cella, e un corridoio ingombro di tavoli e macchine da cucire chiusi dentro una gabbia di rete metallica. Un secondino aprí la serratura della gabbia e fece entrare Gordon per incontrare le allieve a una a una mentre le altre sferruzzavano o facevano tappeti con la lavorazione a uncino ai tavoli vicini. Betty LaFrance, che non era allieva di Gordon ma insisteva sempre per parlare con lui, si era portata una radio dalla cella e lavorando ascoltava una musichetta da ascensore. Le donne facevano biglietti d’auguri a mano imitando quelli commerciali stampati a macchina: i migliori somigliavano ai biglietti che si comprano da Rite Aid, con messaggi vagamente motivazionali in una calligrafia neutra. Alle donne era consentito entrare e uscire dalle celle, che puzzavano di deodorante per ambienti Renuzit e avevano delle coperte fatte a mano appese alle sbarre, un po’ per la privacy un po’, probabilmente, per utilizzarle, visto che ne sfornavano a getto continuo sull’assale oliato del tempo.

Lo chiamavano cocco, amore e tesoruccio, appellativi smielati che gli ricordavano il batjuška con cui la vecchia usuraia Alëna si rivolge a Raskolnikov prima che lui metta in pratica l’idea di ammazzarla.

L’isolamento, al piano sopra il braccio della morte, non aveva spazi comuni e l’unica forma di interazione fra le detenute era urlare. Si strillavano le cose da una cella all’altra, importunavano i secondini, facevano rumore tanto per passare il tempo. Gordon aspettava in un ufficietto che un’allieva arrivasse incatenata tintinnando dal fondo del corridoio e venisse chiusa in una gabbia per la lezione con lui. Proprio lí aveva incontrato per la prima volta Romy Hall, che adesso frequentava il suo corso. Di lei l’aveva colpito che lo guardasse negli occhi. Tante avevano l’abitudine di guardare di lato, o alle sue spalle. Spostavano gli occhi dovunque pur di evitare i suoi. E poi era carina, nonostante le condizioni. Occhi verdi ben distanziati. Aveva la bocca a cuore, come si dice, con il labbro superiore che scendeva, risaliva e riscendeva. Una bella bocca che diceva: fidati di questa faccia. E la faccia diceva: non è come sembra. Aveva proprietà di linguaggio, capiva quello che leggeva. Lui non cercava una che avesse proprietà di linguaggio. Non cercava proprio niente, fra le donne di Stanville.

L’aveva rivista in quello che i secondini chiamavano il canile: le gabbie esterne dove mettevano le detenute in isolamento per fare ginnastica. Il passaggio pedonale per raggiungere il 504 costeggiava varie di quelle gabbie e lui per istinto evitava di guardare le donne intrappolate nei piccoli recinti spogli. Hall l’aveva chiamato con la massima disinvoltura, come una donna che chiede a un uomo se ha da accendere o sa a che ora passa il treno.

Gli piaceva averla in classe. Faceva le letture con grande serietà. Tante delle sue allieve lo prendevano per stupido, parlavano in codice e ridevano di lui, ma del resto era anche comprensibile. Scontavano condanne che lui non riusciva neanche a immaginare, ergastoli multipli o senza la condizionale. A lui bastava un solo ergastolo a confondergli le idee.

Distribuiva parti di libri fotocopiate, Julie dei lupi, Laura Ingalls Wilder, ma alle detenute non diceva che erano libri per ragazzi, e pazienza se a loro piacevano. Gordon la metteva sul semplice, perché tante avevano fatto soltanto le elementari. Avevano una calligrafia a lettere rotonde come le adolescenti. Perfino London, che le altre chiamavano Conan e che sembrava un maschio, scriveva con le lettere rotonde. London era sveglio, si capiva subito. Non leggeva mai i libri assegnati ma faceva ridere le altre, che non era cosa da poco.

Seno è plurale? – aveva chiesto London.

– Dipende da chi è la proprietaria, – aveva risposto un’altra.

– Il seno di Jones. Sembra un film d’avventura. Il tenente Jones e il seno del fato.

Geronima Campos, una vecchia indiana d’America, passava la lezione a dipingere su un album da disegno. Gordon si domandava se non sapesse leggere né scrivere. Un giorno dopo la lezione le chiese che cosa dipingeva. Se avesse ammesso di non saper scrivere, decise, le avrebbe proposto di lavorare con lui separatamente.

Ritratti, disse lei. Aprí l’album da disegno e glieli fece vedere. In ogni pagina c’era un’immagine e, sotto, un nome. Sapeva scrivere. Solo che le immagini non erano volti. Erano strisce di colore impazzite. – Questo è lei, – gli disse, e gli mostrò uno scarabocchio di righe nere con una chiazza colorata di blu.

Quando a lezione discussero un capitolo del Cavallino rosso di John Steinbeck, le donne parlarono delle montagne del libro e di quelle che loro vedevano dal cortile principale. Sembravano aver paura delle montagne, e questo lo sorprese. Immaginava che associassero le montagne alla libertà, essendo l’unica cosa che riuscivano a scorgere del mondo naturale. – Lassú ti tocca vedertela con gli orsi, – disse Conan. – Qui almeno ci sono soltanto i cuccioli. I cuccioli e i cuculi. E so che posso vincere.

Quando arrivarono al terzo capitolo, «La promessa», quello sulla giumenta Nellie incinta, una alzò la mano e disse che, quando aveva partorito lei, aveva la pancia a forma di cuore: – Divisa in due, – disse, – proprio come una cavalla, e l’ha confermato pure il medico che le cavalle hanno la pancia a forma di cuore.

Lessero il capitolo a voce alta. Quando nominarono i maiali, un’allieva intervenne dicendo che una cugina le aveva scritto dalla sua cella in Arizona che lí avevano una camera a gas dove una domenica al mese mettevano un maiale per verificare se funzionava.

Gordon cercò di riportare la discussione sul libro. Qual era la promessa che aveva fatto Billy Buck?

La ragazza che aveva ricevuto dalla cugina la lettera sui maiali uccisi con il gas la domenica disse che quando il maiale «saliva lungo la canna fumaria», si sentiva l’odore in tutto il cortile. – Un odore come di fiori di pesco, – disse. – Cosí m’ha detto mia cugina.

Romy Hall alzò la mano. Disse che Billy Buck aveva promesso a Jody, il ragazzo, un puledro sano. In precedenza Billy Buck aveva promesso di prendersi cura del pony rosso e il pony era morto. Quel nuovo impegno era la sua occasione per dimostrarsi un uomo di parola, facendo nascere il puledro sano e salvo.

E teneva fede a quell’impegno? chiese Gordon.

Lei disse che la trovata della storia stava proprio lí. Tecnicamente sí, ma per far nascere il puledro doveva uccidere la giumenta. Uccideva la giumenta per salvare il puledro podalico. Le rompeva la testa con il martello, che era un modo di merda di mantenere una promessa. La giumenta avrebbe potuto avere altri puledri che non erano podalici, invece doveva morire perché un cowboy voleva a tutti i costi passare per uno di parola.

Fare una promessa va bene, – disse London a Gordon, quasi riassumesse a beneficio dell’insegnante come stavano davvero le cose, – ma mantenerla non sempre è una buona idea.

Una sera, finita la lezione, Romy Hall non si decideva ad andarsene. Gordon cominciò a raccogliere i compiti da una posizione scomoda, il lato opposto della cattedra, per mettere una maggiore distanza fra loro.

Nel giro di cinque minuti lei gli raccontò molte cose di sé. Le disse con voce controllata. Gordon ebbe l’impressione che le tenesse in serbo da un po’. Continuava ad arretrare per allontanarsi da lei, che invece continuava ad avvicinarsi, ma Gordon non ci stava a farsi manipolare. Una detenuta aveva cercato di convincerlo a portarle di nascosto dei telefoni cellulari, un’altra il tabacco. Personale e agenti di custodia erano indistintamente coinvolti in quelle trame. Gordon non voleva averci niente a che fare.

Gli raccontò di essere un’ergastolana, e madre di un bambino. Si scusò se lo importunava. Disse che si svegliava depressa. Sentiva la nebbia dentro la cella, anche se non c’era la finestra, e disse che quell’umidità la faceva pensare a casa.

Voleva che chiamasse un numero di telefono per scoprire dov’era suo figlio. Lo aveva messo per iscritto e quello era esattamente il genere di cosa da cui Gordon si ritraeva, mentre l’altra avanzava verso di lui. Soltanto perché le aveva comprato dei libri o l’aveva trovata carina, soltanto perché gli capitava di pensare a lei, non significava che andasse in cerca di drammi famigliari.

L’assistenza che Gordon forniva di sua iniziativa, e contro le regole, era cominciata con Candy Peña nel braccio della morte. Candy aveva pianto come una bambina perché aveva finito la lana e i soldi e non poteva piú aiutare i neonati. Le altre nel braccio della morte facevano copertine a maglia destinate a un istituto di beneficenza di Stanville.

Lui sapeva di poterle portare la lana. Non controllavano quasi mai dentro la sua borsa. Stava facendo colazione da Baressi’s quando prese la decisione. Quel locale lo calmava con le sue foto incorniciate delle auto da corsa, le vittorie sulle piste locali. Un lato era trattoria e l’altro era bar con un pianoforte nell’angolo. Il sabato sera una donna suonava.

Non potevi farti curare i denti a Stanville. Non c’era un calzolaio. Non potevi comprare una pentola decente, nemmeno una che corrispondesse ai criteri piú infimi di Gordon, ma c’erano tre negozi di bricolage e fai da te. Entrò in uno. Comprò quattro gomitoli di colori diversi. Candy aveva detto lana, solo che lí al negozio non vendevano filati fatti con la lana, nemmeno in parte, ma forse lana non significava piú lana, significava una cosa pelosa che si poteva lavorare a maglia. Il giorno dopo diede a Candy quello che aveva comprato. Lei si sciolse per la gratitudine, e questo lo fece sentire osceno. Non perché fosse contro le regole ma perché non aveva fatto nessuno sforzo, eppure lei piangeva dicendo che nessuno aveva mai fatto una cosa cosí gentile per lei, mai, in tutta la sua vita.

L’unico rimedio sembrava fare favori anche alle altre, cosí non sarebbe stato il santo di Candy, avrebbe neutralizzato il gesto di dare dando di piú.

Betty LaFrance chiese a Gordon di spedirle una lettera, a un vecchio amore, spiegò, anche lui in una prigione californiana. Ai detenuti non era consentito mettersi in contatto con altri detenuti senza l’approvazione diretta del dipartimento di correzione, questo Gordon lo sapeva per certo, ma immaginò che quella storia d’amore che Betty gli aveva raccontato fosse una fantasia. Quando l’aveva conosciuta urlava per attirare l’attenzione degli agenti di custodia. – Agente! – sbraitava. – Per favore, dica all’addetto al parcheggio di riservare un posto per il mio parrucchiere! – Snobbava le altre nel braccio della morte, diceva a Gordon che non erano del suo calibro. Una volta gli chiese se aveva mai volato in business class sulla Singapore Airlines. Quando Gordon aveva risposto di no, lei aveva dato l’impressione di compatirlo. Era una povera illusa condannata a morte. A Gordon dispiaceva per lei. Spedí la lettera.

Comprò i semi per un’allieva del suo corso che faceva giardinaggio. Gli aveva regalato della menta fresca e quando Gordon le aveva chiesto dove l’aveva presa, aveva risposto che cresceva spontanea lungo le vecchie assi di legno della prigione, quelle da dieci per trenta che usavano nell’edilizia. Lei l’aveva ripiantata, annaffiata. Gli disse che guardava il cielo e aspettava che gli uccelli espellessero i semi, poi li faceva germogliare di nascosto nelle salviette di carta bagnate. Le regole vietavano di coltivare piante. Ma il capitano del cortile D, dove lei viveva, gliele lasciava tenere lo stesso. Era un’ergastolana. Gordon le diede un pacchetto di semi di papavero californiani. Lei si coprí il viso con le mani per nascondere le lacrime. – Questa è una benedizione divina, – disse. – Grazie per questa benedizione divina –. Il che rimise in moto il circuito: il disagio, la gratitudine spropositata. Quel pacchetto di semi gli era costato ottantanove centesimi.

Cosí aveva cominciato a mandare libri a Romy Hall. Vai su Amazon. Clicchi un pulsante. Cos’erano venti dollari per lui, se spenderli significava tante settimane di libertà di pensiero per una persona in prigione? Ma andare a ficcarsi nella sua vita privata nel mondo esterno, chiamare un numero per conto suo: quella era un’altra faccenda. Era un’intromissione bella e buona, non soltanto nella vita di quella donna ma anche nella propria.

Mise il foglietto che lei gli aveva dato sul tavolino. Un numero di telefono e il nome del figlio. Non chiamò e fu un sollievo, almeno parziale, che lei non gli chiedesse se l’aveva fatto. Chiacchieravano, ma del piú e del meno. Penserà che non voglio aiutarla, che non me ne importa. Invece voleva farle sapere che gliene importava eccome, e che per lui non era cosa da poco che gli avesse chiesto quel favore.

Si sedette sul divano di casa, prese il foglietto con il numero e lo posò di nuovo. Anziché comporlo, andò online e cercò di capire come ordinare una nuova scatola di colori per Geronima da un catalogo. Una cosa semplice, che non richiedeva troppe decisioni.

Geronima portò la nuova scatola di colori in classe e lavorò diligentemente per diverse settimane prima di avvicinarsi a Gordon.

– Vorrei farle vedere a che cosa sto lavorando. Ritratti, ma del tipo che forse lei preferisce.

– Che preferisco?

– Be’, che preferiscono quasi tutti –. Glieli mostrò. Erano disegni ben fatti, immediatamente riconoscibili. Lei. London. Gordon. Romy. Tutta la classe. Avevano l’economia delle caricature. Girò la pagina e un viso sconosciuto lo fissò dal foglio, le guance rigate di lacrime. – Lei è Lily, che vive nel mio blocco e mi ricorda la mia sorella minore. Non ho una foto di mia sorella, perciò le ho chiesto di posare.