Kurt Kennedy si svegliò con due bottiglie di rosé vuote e il mal di testa. La hostess, lo sa che non si chiamano piú cosí, ma l’altro termine non gli è mai entrato in testa, la stronza, insomma, gli aveva portato via il drink mentre dormiva. Non il rosé, che aveva nello zaino in mezzo alle ginocchia, ma il rum e Coca che aveva ordinato e non ancora finito di bere quando lei gliel’aveva tolto dal tavolino, perché era quella la particolarità dei voli internazionali. L’alcol era gratis e te lo scolavi senza che nessuno stesse lí a centellinarlo. Non chiudevano mai i rubinetti. Accese la lucina sopra il sedile per chiamare l’hostess. Avrebbe insistito per farsi dare un altro drink perché quello che gli aveva portato via non era finito. La hostess arrivò e gli disse che gli aveva tolto il bicchiere perché si era addormentato. Lui disse che serviva proprio a quello, a farlo addormentare, e perciò lo rivoleva indietro.
Lei si chinò parlandogli da distanza ravvicinata.
– Io e lei sappiamo che è una regola stupida, ma non può portare le sue bottiglie di vino sull’aereo.
Cercava d’ingraziarselo con quell’«io e lei». Ho dei programmi quando scendo da questo uccello e tu non ne fai parte, vecchia mia.
Doveva essere sulla quarantina. A dire il vero era una bella gnocca e Kurt una quarantenne se la sarebbe pure fatta. Lui ne aveva cinquantaquattro. La sola idea di una della sua età lo faceva vomitare. Ma all’improvviso erano tante le cose che lo facevano vomitare. Avrebbe potuto vomitare senza motivo. Non si sentiva troppo bene. Aveva passato tutta la notte in giro a Cancún e gli era rimasto il timbro di una decina di locali sul dorso della mano. La seconda metà della notte nemmeno se la ricordava. Gli pareva di essere salito sulla jeep di qualcuno, uno piú vecchio e perfino piú ubriaco di lui che manco riusciva a uscire dal parcheggio, continuava a tamponare la macchina davanti e poi quella dietro e poi daccapo, finché Kennedy non gli aveva urlato di fermarsi ed era sceso dalla jeep, ma cos’era successo dopo? Va’ a sapere. Si era svegliato al Novotel scoprendo di essersi pisciato addosso.
Fortuna che non ha perso l’aereo. E che ha avuto il tempo di farsi una doccia, perché ogni uomo sa che bisogna lavare via lo schifo e mettersi in tiro per il viaggio. Aveva vomitato dentro lo scarico che esalava fumi di metano. La gente non è buona a niente. Non sa nemmeno sfiatare un tubo della fognatura.
Il vino l’aveva preso al duty free perché poteva farlo e perché voleva qualcosa di suo da bere in aereo. Gli veniva la claustrofobia a doversene stare lí seduto ad aspettare che gli portassero qualcosa. Guardare il carrello che non si decideva a percorrere il corridoio gli rendeva la bocca piú secca della Death Valley, e già bastavano i farmaci a seccargli la bocca. Altro che aspettare, la roba da bere per il lungo viaggio da Cancún a San Francisco l’avrebbe portata lui. Aveva preso le due bottiglie e un bicchierino da caffè. Una l’aveva aperta al gate cominciando a servirsi, inclinando lo zaino come se fosse una bottiglia, una T-shirt incastrata fra le due per non farle sbattere.
Non poteva dire di essere sbronzo quand’era salito sull’aereo. Cominciava giusto a rilassarsi. A Cancún era stato per tutto il tempo sulle spine. Doveva essere una vacanza e invece ogni momento stava lí a chiedersi se si divertiva, solo che non lo sapeva se si divertiva e questo gli metteva l’ansia, allora prendeva un altro Klonopin e si stendeva o si alzava o andava al bar o camminava su e giú sulla sabbia, ma si scottava i piedi e gli toccava ammettere che non era tipo da spiaggia, lui, e che voleva soltanto tornarsene a casa, andare al Mars Room e vedere Vanessa, farsela sedere in braccio. Era l’unico sistema al mondo che conosceva per trovare pace. Tutti meritano la pace. Cioè, il punto non era se qualcuno meritava qualcosa. Aveva bisogno di determinate cose per stare bene. Vanessa era tra queste. Aveva bisogno di tende pesanti e scure perché aveva problemi con il sonno. Aveva bisogno del Klonopin perché aveva problemi con i nervi. Aveva bisogno dell’Oxycontin perché aveva problemi con i dolori. Aveva bisogno di liquore perché aveva problemi con l’alcol. I soldi perché aveva il problema di vivere, e vallo a trovare uno che non ha bisogno di soldi. Aveva bisogno di quella ragazza perché aveva problemi con le ragazze. Forse non erano proprio problemi. Aveva il chiodo fisso. Si chiamava Vanessa; era il nome d’arte ma per Kurt era il nome-nome perché lui la conosceva cosí. Vanessa riempiva con qualcosa che era specifico, e reale, quasi tutti i pensieri piú nebulosi che gli giravano per la testa. Quando era vicino a lei stava bene. Tutti meritano di stare bene. Specie lui, perché era se stesso.
– Sí che puoi portare il vino in aereo, – disse alla vecchia hostess che incassò la risposta con una smorfia acida. Kurt indicò le cappelliere piene di bottiglie che gli altri passeggeri avevano comprato al duty free.
– Ma purtroppo non si può bere durante il volo.
Troppo tardi, pensò lui. Ormai aveva scolato tutt’e due le bottiglie, una al gate e l’altra subito dopo il decollo.
Insistette per farsi portare un altro drink. Fece presente che c’era ancora un’ora di viaggio e lui aveva la bocca secca.
Lei diventò subito conciliatoria, un po’ troppo. Mi vuole fregare, lui lo sapeva, e infatti gli portò una Coca liscia, senza bottiglietta, dicendo che dentro c’era del rum.
La coppia che Kurt aveva accanto se ne stava per conto suo, come se non volesse parlare con lui, che però ci provò lo stesso. Certe volte fare quattro chiacchiere serve ad ammazzare il tempo. Si mise a raccontare della sua barca, anche se una barca nemmeno ce l’aveva ma era tanto di quel tempo che parlava come se ce l’avesse che ormai, di fatto, aveva una barca. A quelli però non interessava. Allora si rivolse al ragazzino dall’altra parte del corridoio e si mise a raccontargli della sua barca. Certe volte scambiava le persone per ragazzini, chiamava gli adulti «ragazzino», ma stavolta si accorse che quello era un ragazzino-ragazzino.
Quanti anni hai? gli chiese.
– Tredici.
– Che bello –. Kurt lo disse in tono esaltato, come se fosse chissà che. Ai ragazzini piace essere incoraggiati. Si congratulava con quel ragazzino perché aveva tredici anni. Tredici sono la pubertà, sei abbastanza grande da avere un orgasmo. Gli sarebbe piaciuto far vedere al ragazzino una foto di Vanessa. Metterlo a parte delle meraviglie delle donne che si sanno comportare da donne. Non come quella hostess e probabilmente buona parte delle donne su quell’aereo, donne come se ne trovavano dovunque, ormai, che non sapevano cosa voleva dire comportarsi da donne. Se avesse avuto una foto di Vanessa gliel’avrebbe fatta vedere. C’era un’attrice porno che le somigliava un po’, ma non aveva una foto nemmeno di lei.
Arrivò una donna e si chinò sul ragazzino. Il ragazzino si alzò dal sedile. Arrivò un uomo e si sedette al posto del ragazzino. Erano una famiglia e si scambiavano di posto. Piacere di averti conosciuto, disse Kurt, e il ragazzino disse: piacere mio.
Nessuno voleva parlare con lui, o meglio, dargli ascolto, cosí prese il suo libro, Chickenhawk, una cosa sul Vietnam che cercava di leggere da tre anni. Gli interessava perché tanto tempo prima aveva cominciato a raccontare in giro che aveva combattuto, anche se non era vero. Era stato di stanza in Germania. Il libro parlava di un pilota d’elicottero e Kurt non era arrivato nemmeno a metà. Siccome ci stava mettendo una vita a leggerlo, ed era una copia di seconda mano con la carta scadente, lo teneva in una busta di plastica con la zip. Ne lesse qualche pagina in aereo sorseggiando il rum e Coca senza rum grazie a quella stronza di hostess, ma leggere gli riusciva difficile. Il problema della lettura era che non ti dava tregua. Riuscivi a concentrarti quel tanto da leggere un paragrafo intero e subito dopo ce n’era un altro, e avanti cosí all’infinito. Era piú che altro per fare scena, per mettersi in mostra, solo che nessuno lo guardava né gli faceva caso. Rimise Chickenhawk dentro la bustina con la zip. Non riuscendo a far funzionare il suo schermo, chiuse gli occhi e si organizzò per andare a trovare Vanessa una volta tornato a casa.
La nebbia rotolava giú per la strada quella sera quando scese dal taxi davanti a casa sua. Certe volte quella città era il posto piú freddo sulla faccia della terra. Lui era in pantaloncini come i turisti in fila sulla Powell in attesa del taxi. Che imbecilli, mai che ascoltassero le previsioni del tempo a San Francisco. Lui lo sapeva che faceva freddo. Gli era toccato mettere i pantaloncini in aereo perché gli unici pantaloni lunghi che aveva puzzavano di piscio.
Il giorno dopo si alzò e andò al Mars Room. Era sabato e Vanessa lavorava sempre il sabato.
Non c’era.
A quanto pareva, nella settimana che Kurt aveva passato a Cancún lei aveva lasciato il Mars Room, cosí gli disse il cassiere all’ingresso. Il cassiere, mai visto prima, non doveva aver capito di avere davanti un cliente fisso che spendeva un sacco di soldi in quel club. Kurt alzò lo sguardo – il gabbiotto del cassiere era una piattaforma simile a quelle dove distribuiscono le fiches al casinò – e gli disse di chiamargli il direttore. La piattaforma rimpiccioliva tutti quelli che si avvicinavano, era cosí alta che il cassiere avrebbe anche potuto essere un nano, cosa assai improbabile. Il direttore arrivò e strinse la mano a Kurt. Kurt era un cliente fisso e il direttore non aveva nessuna intenzione di giocarselo. Ma ripeté quello che aveva detto il cassiere: non abbiamo una Vanessa in calendario. Una Vanessa. Come se ce ne fossero tante e nessuna lavorasse di sabato o nemmeno gli altri giorni.
Andò al Clown Alley per un hamburger, perché non aveva nient’altro da fare. Il Clown Alley era a North Beach, a due passi da un altro locale che Kennedy bazzicava a suo tempo, quando ancora non sapeva. Non sapeva del Mars Room, e di Vanessa.
Il locale vicino al Clown Alley era un palco con delle cabine private. Le donne ballavano toccandosi per finta e gli uomini, nelle cabine private ai bordi del palco, guardavano le donne toccarsi per finta mentre loro si toccavano-toccavano. Potevi scegliere se volevi un vetro trasparente o un vetro a specchio, cosí le donne che si toccavano per finta potevano vederti o non vederti mentre ti toccavi-toccavi. Se volevi il contatto visivo o eri una specie di esibizionista potevi avere quello che volevi ma costava, come tutto nella vita. Quel locale gli andava bene perché ancora non sapeva che c’era di meglio. Quando aveva cominciato a frequentare il Mars Room, in Market Street, non era mai piú tornato al locale con le cabine, anche se mangiava ancora al Clown Alley perché lí gli hamburger erano proprio buoni e poteva parcheggiare la moto, una Bmw K100, davanti alla vetrina e tenerla d’occhio nel caso qualche testa di cazzo l’avesse fatta cadere, uno di quelli, e non erano pochi, che sbarellavano lungo il marciapiede come zombi.
Quel sabato sera tornò al Mars Room, nella speranza che Vanessa lavorasse, invece non era in calendario.
Forse aveva cambiato nome d’arte? Certe lo cambiavano spesso. Una settimana erano Cherry, o Secret, e quella dopo erano Danger, Versace o Lexus, o qualcosa di altrettanto stupido. Vanessa era un nome femminile tradizionale e credibile che le si addiceva, e lei non l’aveva cambiato, o cosí parve a Kurt Kennedy, che pagò il biglietto, entrò e trascorse un’ora a scrutare la sala senza trovarla, né quella sera né il giorno e la sera dopo, e nemmeno in seguito.
La prima volta che l’aveva vista, Kurt era in compagnia di una testa calda di nome Angelique. Lui e Angelique stavano ballando in quella specie di galleria in fondo al Mars Room. Lo chiamano ballare anche se per tutto il tempo cerchi soltanto di strusciarti addosso a loro. C’era un’altra coppia in quella specie di galleria, un uomo d’affari e Vanessa. Lei teneva il corpo appiccicato a quello dell’uomo d’affari. Ballava con lui come se facesse sul serio. Lei, in mutandine e reggiseno, stava incollata al tipo in giacca e cravatta. Angelique aveva detto a voce alta che Vanessa stava infrangendo la regola, cos’era, fatta, per caso, che droga aveva preso, perché mica puoi scopare dentro la galleria. Va bene massaggiare il pacco con le chiappe, ma se lo facevi girata di fronte, le altre ti davano addosso.
– Sí, sono fatta, embè? – aveva detto Vanessa, dimenandosi contro l’uomo d’affari. – È una droga che si chiama felicità. Dovresti provarla ogni tanto –. Aveva continuato a sfregarsi contro l’uomo d’affari, che da parte sua non aveva fatto caso alla lite tra le due e aveva continuato a muoversi contro la bella Vanessa come uno che balla con la moglie all’anniversario delle nozze d’oro, o in una pubblicità che gioca su una ricorrenza del genere per vendere il Viagra.
Kurt l’aveva trovato divertente. Piú tardi l’aveva anche detto a Vanessa, quando gli era passata accanto nel corridoio. Lei gli aveva detto parlare non mi piace, ma se vuoi una lap dance sono venti a canzone. Lui le aveva dato un Andrew Jackson, come dicevano le ragazze, ed era cominciata cosí. Come cominciava sempre con le ragazze al Mars Room, con la differenza che quella non lo usava soltanto per i soldi. Tra di loro stava nascendo qualcosa.
Dovevano fare tutte, almeno in teoria, un numero sul palco, e quando toccò a Vanessa lui si sedette piú vicino del solito. Quando Angelique lo vide da solo e cercò di offrirgli compagnia, le disse di sparire.
Vanessa aveva una canzone che sembrava fatta apposta per il suo numero. Si muoveva dentro quella canzone come se parlasse di lei. La voce che la cantava era strana. Kurt non sapeva se fosse maschile o femminile, il che era curioso ma calzava a pennello a quella ragazza, che pure era femmina al cento per cento. Come on down to my place, baby, we’ll talk about love, vieni da me, baby, che parliamo d’amore. Vanessa portava gli occhiali da sole a specchio che davano un tocco comico al suo numero. Alzava le gambe ed erano le gambe piú straordinarie che lui avesse mai visto. Alcune delle ragazze che c’erano lí avevano le gambe bianche e flaccide, tubi informi che gli ricordavano le siringhe di vetro. Le gambe di Vanessa erano gambe-gambe, lunghe e affusolate. Era uno scherzo, una barzelletta, che quella ragazza di prim’ordine fosse sul palco del Mars Room. Kurt se ne intendeva, altroché. Lei era drogata di vita e avrebbero dovuto provarci tutti ogni tanto, ma non volevano o non potevano perché non erano liberi come lei, come quella ragazza sexy dalle gambe strepitose. Gran bel culo. Gran belle tette, anche. Da agguantare. Stavano dentro una mano. E poi ti faceva vedere tutto, da dietro, piegandosi a testa in giú. Era la posa che lui preferiva, da dietro, quando si piegano, sembrava tutto sospeso a mezz’aria. Vanessa lo faceva soltanto per lui. Sapeva il fatto suo. La ragazza sapeva davvero il fatto suo. Ecco la particolarità di Vanessa. Non era una scema che bussava alla porta sbagliata. Era sempre la porta giusta. Sapeva come arraparlo e lo faceva.
Finito il numero sul palco, si sedette con lui.
– Lo sai che cosa mi piace di te? – Kurt si fece la domanda per rispondersi da solo. – Tutto.
Gli piaceva essere quello che parlava. Con lei stava bene. Si sentiva a suo agio. Amava toccarla. Le mise le mani dappertutto.
Le diede una banconota da venti dopo l’altra, uscí a prendere altri soldi e glieli diede, ne prese ancora e le diede anche quelli, perché quella ragazza gli piaceva davvero, ma davvero davvero.
Cominciò ad andare piú spesso al Mars Room. Campava con i sussidi d’invalidità e aveva un sacco di tempo libero. E poi era stregato. Spendeva tutto con quella ragazza. Bastava che si girasse a guardarlo, che gli sedesse in grembo, e le sganciava i bigliettoni.
Prima di ottenere il posto di ufficiale giudiziario, che era ben pagato ma per poco non lo aveva ucciso, aveva fatto servizio di vigilanza al Warfield Theatre, che era a un isolato dal Mars Room, sulla Market. Ne aveva di storie da raccontare. Otto sere con la band di Jerry Garcia. Dieci con Jerry Garcia. Quegli hippy sfigati si accampavano sul largo marciapiede allestendo i loro schifosi villaggi di strada con i tamburi e la gente che strippava per le droghe e la vigilanza doveva sgombrare quegli accampamenti e ripristinare l’ordine. Era rimasto abbastanza amico con alcuni della vigilanza del Warfield e quando aveva cominciato a frequentare il Mars Room parcheggiava la moto davanti al teatro e chiedeva a loro di tenergliela d’occhio.
A San Francisco c’erano donne che guidavano la moto. Quanto gli dava sui nervi. Perché come facevano le donne a capire la fisica della cosa. Se non capisci la fisica, la velocità mica la controlli. Non avrebbe mai sorpreso Vanessa alla guida di una moto. Lei aveva quelle scarpine col tacco alto e i vestiti corti quando usciva dal Mars Room. Però avrebbe potuto portarla lui dietro sulla sua, di moto. Insegnarle a reggersi forte, a inclinarsi quando s’inclinava lui. Tante non sapevano neppure fare le passeggere, s’inclinavano dalla parte sbagliata quando lui faceva le curve. Reggiti come se fossimo un tutt’uno, cercava di spiegare lui, ma niente da fare.
Avrebbe dovuto stare a casa a riprendersi dall’incidente, ma si annoiava a casa. Era andato fuori strada su a Potrero Hill maciullandosi una gamba, si era fatto tutto l’incrocio in scivolata col ginocchio incastrato sotto il serbatoio enorme e pesantissimo della sua K100. Aveva subito quattro interventi e adesso zoppicava. Un incidente, avevano detto, ma secondo lui era tentato omicidio. I ragazzi delle case popolari avevano buttato dell’olio motore in mezzo alla strada per fargli la festa. Lui si era presentato in una delle case popolari per notificare dei documenti, era semplicemente il suo lavoro, ma senza mai riuscirci. Alla sesta visita aveva capito, appena preso quello scivolone all’incrocio, che cosa gli avevano combinato. Ma non c’era stato modo di risalire ai responsabili e dimostrarlo.
Era bloccato a casa nell’attesa che il ginocchio guarisse. Gli avevano detto che poteva anche non guarire. Il suo appartamento sulla Woodside era diventato la sala di un’attesa senza fine. Girava per casa, si sedeva sul divano, sfogliava una rivista, cambiava canale alla tv, sbirciava nel frigo, guardava le macchine passare in strada, faceva i suoi dieci esercizi, guardava le macchine cercare di fare un parcheggio parallelo, quasi nessuno sapeva fare un parcheggio parallelo come si deve, si sedeva sul letto, leggeva e rileggeva la stessa frase del suo libro, Chickenhawk, se ne accorgeva, metteva il libro nella bustina con la zip, cambiava canale alla tv, e alla fine si alzava, andava al Mars Room ed entrava zoppicando per vedere se Vanessa lavorava.
Ormai conosceva un sacco di ragazze del locale ma l’unica che gli piaceva era Vanessa. Le aveva raccontato di essere un investigatore della omicidi. Era una bugia solo in parte. Voleva indagare per scoprire chi erano i ragazzi che avevano cercato di ucciderlo mettendo un lago di olio motore all’incrocio vicino alle case popolari. Aveva imparato a non dire a nessuno che era un ufficiale giudiziario perché quando spiegava come notifichi i documenti, le tattiche che sei costretto a usare, non ci facevi una gran bella figura. Gli altri lo trattavano come se fosse la feccia del recupero crediti.
Con Vanessa parlava delle tensioni della sua vita senza addentrarsi nei particolari. Parlava, parlava.
Le toccava la pelle nuda con le mani e diceva cose, esprimeva sentimenti, e si affezionava. Si era affezionato a lei.