La Vita del VII secolo del santo bretone Sansone di Dol racconta i suoi primi anni in Britannia all’inizio del VI secolo2. Sansone proveniva a quanto sembra da una famiglia aristocratica nella quale si esercitava tradizionalmente la professione di precettore regio, originaria di Dyfed (odierno Galles sud-occidentale), ma venne destinato al sacerdozio e mandato alla scuola che il sapiente Illtud teneva probabilmente a Llantwit nel Glamorgan. Da qui si spostò successivamente nel Galles meridionale, nella valle del Severn e in Cornovaglia, alla ricerca di monasteri di più severa austerità, scegliendo infine l’eremitaggio in una fortificazione sopra il Severn. Qui venne riconosciuto e favorito dal vescovo locale; successivamente divenne abate in un monastero fondato dalla madre, e infine, prima di partire per la Bretagna e la Francia, vescovo. Questo tipo di trama è consueto nelle agiografie. Meno familiari sono i suoi avversari, perché non soltanto combatteva e uccideva (o addomesticava) regolarmente serpenti velenosi, ma una volta dovette persino affrontare una strega con un tridente. Una caratteristica particolarmente significativa del testo in questione è che, tra l’origine aristocratica del santo e i suoi successivi incontri in Francia (chiamata dall’autore Romania) con il re Childeberto I (511-58), non viene menzionato alcun re e quasi nessun altro laico all’infuori dei suoi familiari. In Britannia, Sansone sembra muoversi all’interno di un mondo interamente ecclesiastico, anche se viaggia molto conoscendo sistematici avanzamenti di carriera; i più vasti sistemi politici sembrano del tutto assenti dal suo orizzonte, sebbene vengano menzionati subito nei suoi viaggi bretoni e franchi. Il testo che abbiamo di fronte è bretone, non britannico, ma le due aree culturali erano strettamente legate, e in questo periodo bretone e gallese, grazie alla migrazione dalla Britannia alla Bretagna, erano effettivamente la stessa lingua. Era quantomeno inutile per un autore bretone immaginare che il suo protagonista potesse avere avuto a che fare con dei re in Britannia, foss’anche allo scopo di ottenere terra e protezione per i suoi monasteri. Ciò rende Sansone un unicum nel mondo dell’agiografia dell’alto Medioevo, ma può dirci qualcosa riguardo all’evanescenza della regalità britannica nel VII o VI secolo.
All’inizio del V secolo, intorno al 410, dopo il ritiro delle legioni e la fine dell’amministrazione provinciale romana, la Britannia andò incontro al collasso economico3. Non siamo in grado di dire se i Romani intendessero tornare dopo avere fatto fronte alla guerra civile scoppiata in quello stesso periodo in Gallia; ad ogni modo non lo fecero. La Britannia rimase effettivamente al di fuori del quadro politico romano. In termini archeologici, le conseguenze furono gravissime: al più tardi dal 450 le ville furono abbandonate, la vita urbana era di fatto finita, la campagna a sud del vecchio fulcro militare del Vallo di Adriano (sebbene non altrove nell’isola, probabilmente) parzialmente abbandonata, l’intera produzione artigianale su larga scala cessata. In nessun’altra parte dell’impero si ebbe una semplificazione economica altrettanto brusca e completa, ed essa riflette al contempo un’acuta crisi sociale. Le nostre prime fonti scritte sono frammentarie (qualche iscrizione, alcuni brevi testi di Patrizio, il missionario britannico del V secolo inviato a evangelizzare l’Irlanda, un sermone infuocato di Gildas della metà del VI secolo), ma sembrano mostrare che già nel 500 almeno la Britannia occidentale era divisa tra un insieme di sovrani minori, talvolta chiamati re (reges), talvolta tiranni (tyranni: termine negativo in Gildas, ma forse collegato a tigernos, «sovrano» in brittonico). Lo stato romano era stato sostituito da un mosaico di minuscole entità politiche. La Britannia orientale presentava un analogo insieme di microregni governati da Anglosassoni immigrati; nel tardo V secolo si stavano espandendo verso ovest, ma i contrattacchi britannici, guidati in una nebbia semileggendaria da un signore della guerra chiamato Ambrosio Aureliano, li avevano tenuti al margine del bacino fluviale del Severn. Ritorneremo tra breve sugli Anglosassoni, ma per intanto si può notare che le testimonianze che possediamo riguardo alla dimensione ridotta dei regni britannici e dei regni anglosassoni si confermano a vicenda, perché altrimenti un insieme avrebbe più facilmente prevalso sull’altro4.
Come si siano sviluppate le entità politiche britanniche è stato tema di infinite speculazioni, perché è difficile spiegare così grandi cambiamenti a fronte di una documentazione tanto esigua e contestata. (Qui faccio menzione di Artù solo per accantonarlo, perché le fonti che lo citano quale successore, per qualche verso, di Ambrosio nella Britannia occidentale e settentrionale dell’inizio del VI secolo sono tutte tarde; non più tardi del IX secolo era una riconosciuta figura eroica, ma questo è tutto quello che si può dire su di lui5). Si può tuttavia dire altro; in primo luogo riguardo alla lingua. Il latino era ancora la lingua letteraria ordinariamente impiegata per le iscrizioni, e appellativi romani come civis, cittadino, sono in esse presenti, come presenti sono in Patrizio e Gildas, ma la lingua più parlata era il brittonico, l’antenato del gallese. L’élite romano-britannica avrà senza alcun dubbio parlato anche il latino (il gallese attuale possiede un gran numero di prestiti latini), ma non i contadini, persino, per quanto possiamo dirne, nelle aree meridionali pianeggianti della Britannia; e il latino parlato, di nuovo a differenza di molte altre parti dell’Occidente, smise presto di essere comune. In secondo luogo, le aree pianeggianti della Britannia erano fortemente romanizzate dal punto di vista economico e culturale, ma le parti settentrionali e occidentali lo erano meno. Qui l’occupazione romana aveva avuto carattere più militare (soprattutto vicino al Vallo di Adriano, ma anche in gran parte del Galles), le città erano in numero minore e le strutture sociali tradizionali più forti. I regni più vasti della Britannia post-romana sembrano essere stati Dyfed e, nel Galles nord-occidentale, Gwynedd, entrambi in aree relativamente non romanizzate. Ciò non significa che fossero semplicemente dei successori di qualche tradizione politica pre-romana; Gwynedd (Venedotia in latino) era un nuovo nome del territorio, e la tradizione successiva affermava che i suoi sovrani fossero qui giunti nel V secolo provenendo dalle terre a nord del Vallo; Dyfed, per parte sua, era un vecchio nome (i Demezi furono la prima popolazione britannica dell’area), ma il regno fu interessato in questo periodo da una forte immigrazione irlandese, e il suo sovrano Vortipor, aspramente criticato da Gildas, ha lasciato a Castelldwyran, nel Pembrokeshire, un monumento con scritte in latino e in irlandese. Nonostante la complessa storia di entrambi i regni, essi sembrano tuttavia essersi consolidati più facilmente perché erano presenti strutture sociali che non dipendevano dallo stato romano e che possono essere chiamate «tribali»: stretti legami di parentela e dipendenza personale, un forte senso di lealtà collettivo, e una tradizione militare antica propria dell’autorità locale. Queste comunità tribali si estendevano verso sud nella Cornovaglia e nel Devon e verso nord, oltre il Vallo, nella Scozia meridionale, dove in fonti poco più tarde sono attestati i regni britannici di Rheged, Strathclyde e Gododdin. Sembrano essere state stabilmente cristiane, come fanno anche presumere le reprimende di Gildas, ma questa era l’unica chiara influenza romana. Uno dei loro leader può essere stato l’«altezzoso tiranno», che Gildas non nomina ma è chiamato Vortigern già nell’VIII secolo, riprovato per aver sollecitato gli Anglosassoni a insediarsi nell’isola in un periodo non precisato del V secolo; non più tardi del IX secolo i re di Powys e Gwrtheyrnion nel Galles orientale rivendicarono la loro discendenza da Vortigern (Gwrtheyrn in gallese).
Nelle aree pianeggianti, i Britannici post-romani operarono probabilmente su una scala anche più ridotta. Gli unici potentati di cui si può qui seguire nel dettaglio l’evoluzione sono i re di Ergyng, del Gwent, della regione di Cardiff e di Gower, tutti nel Galles sud-orientale, di cui per il tardo VI secolo e oltre si conservano alcuni documenti, in particolare concessioni di terre alle chiese: questi re governavano forse ciascuno un terzo di una moderna contea, talvolta meno6. Si trattava della parte romanizzata del Galles, e questa dimensione può ben essere stata usuale in tutte le aree pianeggianti della Britannia. Era probabilmente il portato dell’azione delle generazioni successive alla fine del governo di Roma, con i proprietari terrieri locali che dovevano pensare alla propria difesa, quando i territori delle città romane, le tradizionali unità di governo in Britannia come dappertutto, si divisero in unità de facto piuttosto piccole. Nel consolidarsi, i re poterono talora fare ricorso al linguaggio romano, come per il termine civis già menzionato, e anche a uno stile di vita pseudoromano suggerito dalla diffusione delle anfore da vino e olio mediterranee e dalla raffinata ceramica presente in numerosi siti collinari fortificati dei primi del VI secolo, probabili centri politici, specialmente a sud e a nord del canale di Bristol7. Essi erano certamente cristiani, come mostrano le concessioni di terra, e come suggerisce la Vita di Sansone: anche se di dimensione troppo piccola perché potesse citarli, nelle aree pianeggianti della Britannia occidentale quell’autore presupponeva almeno un ambiente uniformemente cristiano. Ma è verosimile si rifacessero anche ai modelli politici dei regni britannici occidentali, che ruotavano attorno a un’identità di tipo tribale e ai valori propri di un’attività militare su piccola scala quali la lealtà, il coraggio e la convivialità del banchetto, nuovi nelle pianure, che erano in precedenza di cultura non militare.
I due capoversi precedenti usano espressioni e termini come «sembra», «può», «è verosimile», «probabilmente», quasi in ogni frase: ciò riflette fedelmente la documentazione che ci rimane. Tutto è frutto di congetture. Se seguiamo i Britannici (possiamo ormai chiamarli Gallesi) nel VII e nell’VIII secolo, gli esempi diventano leggermente più chiari, e quanto meno non contraddicono quello che è stato appena detto. Entro il 700 gli Anglosassoni avevano conquistato il Somerset, la valle del Severn ed il Lancashire, in tal modo confinando di fatto i Gallesi in tre aree fra loro non collegate, in gran parte montane, nelle regioni che formano adesso l’Inghilterra sud-occidentale, il Galles e la Scozia meridionale. In queste zone, tuttavia, i regni avevano continuato a consolidarsi, e i minuscoli regni del Galles sud-orientale si fusero in uno più grande chiamato Glywysing, che insieme a Gwynedd, Dyfed e Powys diede vita in questo periodo alle quattro più importanti entità politiche del Galles. Gwynedd fu sempre, probabilmente, la più forte. Gildas stimava fosse tale già alla metà del VI secolo, quando attribuì a re Maelgwn l’appellativo di «dragone dell’isola», e Cadwallon di Gwynedd (m. 634), come racconta Beda, si spinse a razziare le terre anglosassoni sino alla Northumbria settentrionale8. Nel IX secolo i suoi re sarebbero diventati egemoni nel Galles. I nostri primi testi poetici in gallese datano dal VII al IX secolo, e contengono un certo numero di lamenti in morte dei re, compreso il Marwnad Cynddylan, il più antico, per re Cynddylan, che controllava l’odierno Shropshire o le sue vicinanze, morto alla metà del VII secolo, e Y Gododdin, il più lungo, per re Mynyddog di Gododdin, che a quanto sembra condusse gli uomini del suo esercito dalla capitale Edimburgo a Catraeth, forse l’odierna Catterick, dove intorno al 600 trovarono tutti la morte9. Questi testi mostrano un insieme omogeneo di valori «eroici», che al più tardi entro l’800 erano divenuti propri dell’aristocrazia gallese: «Il guerriero […] leverà in alto la sua lancia come fosse un calice di cristallo pieno di vino spumeggiante. Il suo idromele era contenuto nell’argento, ma egli meritava oro». Oppure: «Gli uomini andarono a Catraeth, rapido fu il loro esercito. Idromele pallido fece loro da banchetto, e fu loro veleno». Si può supporre che nel VI secolo questi valori fossero già condivisi. Quando si sviluppavano, segnavano la nascita di un mondo lontano da quello di Roma. Si tratta in questo caso di una conseguenza da non sottovalutare rispetto alla crisi politica da cui abbiamo preso le mosse, perché queste élite militari discendevano in linea diretta da Romani britannici non conquistati dagli invasori; ciononostante, tutti i loro punti di riferimento erano ormai diversi. Punti di riferimento, comunque, paralleli nel complesso a quelli degli Anglosassoni.
Non è agevole dire cosa facessero i re gallesi. Chiaramente la loro esistenza trascorreva nel combattimento, e il loro seguito militare è uno degli aspetti meglio documentati al riguardo. Erano generosi e ospitali con i loro sottoposti, e (almeno nei testi letterari) ne ottenevano in cambio lealtà sino alla morte, sebbene non sia chiaro da dove traessero le risorse per operare in tal senso. Riscuotevano tributi dai sovrani assoggettati e sconfitti, e tributi o canoni anche dal loro popolo, ma il poco che sappiamo al riguardo implica che il tributo dovuto dalla popolazione contadina ai signori dovesse essere modesto; l’oro, l’argento e i cristalli di Mynyddog erano anch’essi immagini letterarie. Amministravano la giustizia insieme a chierici e aristocratici, vale a dire in pubblico, sebbene scarsa o nessuna informazione si abbia riguardo al loro legiferare prima del X secolo. Proteggevano la chiesa, ma quella stessa chiesa operava abbastanza informalmente attraverso famiglie di case religiose, le quali tutte si rifacevano a carismatici fondatori di monasteri del VI secolo, Illtud nel Glamorgan, Padarn nel Centro-ovest, ecc. Nel complesso, agivano nel quadro di un potere diretto basato sulla relazione interpersonale senza alcuna amministrazione istituzionalizzata. Come vedremo nel capitolo 20, questa situazione, con cambiamenti di minor conto, sarebbe durata sino alla fine del periodo coperto da questo libro.
La semplicità istituzionale di cui si è appena detto è tra i motivi delle dimensioni ridotte che furono caratteristica durevole dei regni britannico/gallesi; il potere regio si estendeva a una società contadina non sempre pienamente assoggettata, alle élite che banchettavano con il re (e da lui ricevevano doni), ai popoli recentemente sconfitti in battaglia, e non oltre. Talora prendevano corpo poteri di maggior respiro, ma sino all’850 furono temporanei. Se ci spostiamo a nord, tuttavia, troviamo un regno che talvolta operò su una scala più vasta, quello dei Pitti, in ciò che è oggi la Scozia centrale e orientale: molto più a nord di qualunque area fossero mai riusciti a controllare i Romani, ma almeno in parte in parallelo dal punto di vista culturale a quella britannica/gallese, vi si parlava una lingua che discendeva, come il gallese, dal brittonico. I Pitti rimangono straordinariamente oscuri, persino per gli standard britannici, anche dopo la loro graduale conversione al cristianesimo nel tardo VI secolo e nel VII. Unici tra le società europee, erano a quanto sembra matrilineari, vale a dire che le figlie dei re pitti, sposandosi al di fuori del loro gruppo, potevano trasferire la successione legittima a componenti di famiglie rivali, come nel caso di Talorcan (ca. 653-7), figlio di re Eanfrith della Bernicia: tuttavia, come realmente ciò funzionasse è campo aperto alle diverse congetture. Non sempre erano uniti (tradizionalmente avevano sette province, dal Fife al Caithness), ma il loro re più importante, il re di Fortriu, dominò spesso tutta la Pittavia, e poté respingere i nemici con qualche efficacia, come quando Bridei, figlio di Beli (ca. 672-93), il re più famoso del VII secolo, pose fine a Nechtansmere, nel 685, alla vita dell’ambizioso re Ecgfrith, e con lui all’egemonia politica della Northumbria. Al culmine del potere pitto, nell’VIII secolo, Onuist, figlio di Urguist (ca. 729-61), sconfitti tutti i suoi nemici nell’odierna Scozia diede vita a una egemonia regionale che a fasi alterne durò sino al decennio 830-40. Come i Pitti riuscissero a far questo senza alcuna evidente infrastruttura, in una delle aree geografiche più aspre d’Europa, rimane un mistero; ma quanto meno mostrarono che era possibile10.
Dati i bruschi cambiamenti sociali e culturali nelle zone non conquistate della Britannia, non sorprende che i primi Anglosassoni fossero scarsamente influenzati dalle tradizioni romane. Le nostre fonti al riguardo si focalizzano su un periodo più tardo: la Storia ecclesiastica di Beda il Venerabile, scritta nel decennio 730-40, che inizia ad essere dettagliata con la conversione degli Anglosassoni al cristianesimo dal 597 in avanti, e la Cronaca anglosassone, un testo del tardo IX secolo, che difetta di attendibilità per le epoche anteriori. Prima del tardo VI secolo, la nostra conoscenza deve di necessità basarsi sull’archeologia. Caso vuole, tuttavia, che gli insediamenti anglosassoni si concentrassero nelle zone pianeggianti della Gran Bretagna, in termini archeologici le aree dell’isola sempre meglio documentate, e in esse le ricerche, dal punto di vista degli standard europei, sono state spesso puntuali, così che possiamo delineare al riguardo un quadro relativamente coerente.
Gli Anglosassoni raggiunsero la Britannia dal mare, per la maggior parte dalla Sassonia, nella odierna Germania settentrionale, compresa la piccola regione nota come Angeln: parlavano varianti delle lingue germaniche della costa sassone e frisona. Le loro scorrerie in Britannia avevano avuto inizio a partire almeno dal III secolo (i Romani costruirono fortificazioni per respingerli), ma non vi è prova che il loro insediamento permanente sia iniziato prima del secondo quarto del V secolo. Non è dato sapere se qualcuno di questi insediamenti fosse associato alle sollecitazioni a intervenire in Britannia come quella poi attribuita a Vortigern. Simili storie sono comuni dopo le invasioni, e nella Britannia orientale scarse sono le tracce di unità politiche post-romane forti abbastanza da potere rivolgere un invito in tal senso, ma sarebbe poco assennato assumere una qualunque posizione rispetto a notizie che non possono essere smentite (lo stesso deve dirsi per l’esistenza di Artù). Ciò che può essere detto con certezza, tuttavia, è che la colonizzazione anglosassone fu particolarmente frammentata – una frammentazione persino maggiore di quella franca che in epoca pre-Clodoveo aveva interessato la Gallia settentrionale – e tale rimase. Persino nel tardo VI secolo, dopo un periodo di ricomposizione politica, troviamo documentati non meno di nove regni nella metà orientale di ciò che adesso chiamiamo Inghilterra, dalla Bernicia a nord al Wessex a sud, e ve n’erano probabilmente molti di più. Gran parte di questi regni avevano le dimensioni di una o due delle moderne contee, equivalenti all’estensione dei territori civici romani: dimensioni minori delle più piccole unità ex romane che i sovrani germanici controllavano sul continente. Ma ciò che è diventato sempre più chiaro in anni recenti è che gran parte di questi regni, pur così ridotti, erano essi stessi costituiti da componenti di base molto più piccole, talvolta chiamate regiones dagli storici moderni (è parola che si trova anche in alcuni testi dell’VIII secolo). Si trattava di aree che raggiungevano spesso i 100 chilometri quadrati circa, talvolta più talvolta meno; per dare un’idea 100 chilometri quadrati equivale esattamente a un quarto dell’isola di Wight, e a giusto più di un quarantesimo del Kent. Intorno al 600, regni gallesi quali Ergyng erano più estesi, ma l’ordine di grandezza è paragonabile. Tra queste componenti di base le meglio documentate si trovavano nelle Fenlands e nelle aree delle Midlands ad ovest e a sud di queste, le quali persino nel tardo VII secolo, a differenza delle loro vicine ad est e ad ovest, rispettivamente East Anglia e Mercia, non erano unite in un regno più grande. Quest’area a sé, chiamata da Beda un po’ sbrigativamente «Angli di Mezzo», veniva elencata in una lista dei tributi, il Tribal Hidage, risalente con ogni probabilità al tardo VII secolo, come un insieme di unità separate: i Gyrwa settentrionali e meridionali dell’area di Peterborough, gli Sweord Ora di parte dello Huntingdonshire, e così via. Unità di questo tipo, che sopravvivono rimanendo identificabili in molti regni più grandi, sono anche occasionalmente citate in documenti più tardi, e la ricerca topografica ne ha identificate molte di più11.
Tale modello relativo agli insediamenti anglosassoni, che nel complesso accetto, significa quindi che gli invasori si stanziavano in piccolissimi gruppi, comprendenti all’inizio per la maggior parte una manciata di comunità locali, le quali potevano, come nel Galles, essere definite tribali. La leadership politica sarebbe stata molto semplice e informale, sebbene, com’è ovvio, necessariamente militare, perché una conquista frammentaria rimane pur sempre una conquista. Questo quadro conferma inoltre i dati archeologici relativi ai primi insediamenti e cimiteri anglosassoni, i quali mostrano una cultura materiale straordinariamente semplice, sotto ogni aspetto molto più semplice di quella che si rinviene ovunque nel continente ex romano eccettuati i Balcani12. Prima del 700 le ceramiche sono tutte fatte a mano, senza neppure l’utilizzo di fornaci; le produzioni di ferro sono in scala sufficientemente piccola da far pensare che fossero tutte locali; la lavorazione del vetro e delle pietre preziose è rara prima del 550, e persino allora in gran parte limitata al Kent, un regno culturalmente influenzato dai Franchi e forse talvolta da questi governato; rispetto alla Sassonia, persino la tipologia delle case era più semplice, e la struttura dei villaggi più frammentata. Tutto ciò indica una modestissima classe dirigente e una gerarchia sociale appena abbozzata. E, come prima osservato, le entità politiche britanniche orientali, di cui queste piccole unità avevano preso il posto, difficilmente possono essere state più grandi. Come gli stessi Britannici della pianura si adattassero a tali nuovi regni rimane tuttavia affidato a congettura. Gli Anglosassoni si insediarono in un paesaggio, per quanto ci è dato vedere, ancora romano, ma raramente nei siti ex romani: se non trassero quasi nulla dalla cultura materiale romano-britannica (ciò che attesta ulteriormente la crisi sistemica della Britannia post-romana), ancora minori sono i prestiti della lingua anglosassone dal brittonico. La maggioranza britannica, che deve essere stata schiacciante, ha evidentemente adottato la cultura anglosassone, piuttosto che viceversa. Questo sembra essere il caso persino delle enclave rimaste sotto controllo britannico sino agli anni intorno al 600, come i Chilterns ad ovest di Londra e la regione di Leeds.
La fine del VI e l’inizio del VII secolo sembrano essere stati il momento in cui queste piccole unità, che nel frattempo si stavano senza dubbio sviluppando, iniziarono a cristallizzarsi in regni di dimensione equivalente a una o due contee; tale fatto emerge in seguito nei documenti scritti, ma l’archeologia mostra anch’essa l’inizio di una gerarchia interna negli insediamenti rurali, insieme ad alcuni prestigiosi centri regi come Yeavering nel Northumberland (che aveva persino qualcosa di simile a un palco da teatro di chiara influenza romana; infra, cap. 10), e alla considerevole ricchezza delle tombe regali a Sutton Hoo nel Suffolk e a Prittlewell nell’Essex13. I regni che si consolidarono per primi furono il Kent, l’East Anglia, Deira (grosso modo l’odierno Yorkshire), la Bernicia sulla costa del Northumberland, e il Wessex negli odierni Oxfordshire e Hampshire; tra i principali regni anglosassoni, la Mercia sembra essere stato l’ultimo ad emergere14. Il tardo VI secolo fu anche, probabilmente come risultato di questa cristallizzazione, il periodo in cui gli Anglosassoni, dopo una situazione di stallo militare agli inizi del VI secolo, iniziarono nuovamente ad espandersi a spese dei regni gallesi. Æthelfrith della Bernicia (ca. 593-616) compare quale combattente nelle fonti sia anglosassoni che gallesi: attaccò ad est Chester impadronendosi probabilmente di Gododdin sino a Edimburgo; a Ceawlin del Wessex (m. 593 ca.) si deve verosimilmente la conquista della parte meridionale della valle del Severn e dei Chilterns, benché in questo caso la testimonianza sia tarda. «Probabilmente» e «sembra» ricorrono anche qui, perché le nostre fonti sono particolarmente incerte. Ciò che è chiaro, tuttavia, è che tra i leader di questi regni nuovamente coesi si assistette a un protagonismo militare di gran lunga maggiore. Essi si combattevano tra di loro, in effetti, molto più di quanto combattessero i Gallesi. Alcuni rivendicarono una temporanea egemonia sopra i regni limitrofi, come Æthelfrith fece con Deira, Æthelberht del Kent (m. 616) sui suoi immediati vicini, e il re di Deira, Edwin (616-33), sulla Bernicia come pure su alcuni dei regni meridionali.
In termini politici, il VII secolo venne dominato da due regni, la Northumbria e la Mercia. La Northumbria era il risultato dell’unificazione della Bernicia e di Deira, definitiva dopo il 651. Edwin, quindi i figli di Ælthefrith, Oswald (634-42) ed Oswiu (642/51-70), e successivamente il figlio di Oswiu, Ecgfrith (670-85) rivendicarono tutti, in momenti diversi, l’egemonia sul Meridione; estesero pure sia il dominio regio sia la loro signoria sulle aree britanniche e pitte, mentre nel 684 Ecgfrith attaccava persino l’Irlanda. Nel complesso si trattò di egemonie intermittenti, ma la loro frequenza fu presumibilmente dovuta alla dimensione del regno, il più grande all’epoca in Inghilterra. La Mercia fu all’inizio molto più piccola, e non è certo se esistesse persino quale singolo regno prima del suo primo potente re, Penda (ca. 625-55). Si concentrava in un’area interna, intorno a Tamworth e Lichfield nello Staffordshire, vicina al confine del primo insediamento anglosassone, e il suo consolidarsi comportò probabilmente l’assimilazione anche di unità più piccole controllate dai Britanni. Penda fu anche alleato di Cadwallon di Gwynedd, con il cui aiuto uccise Edwin nel 633; tale successo (e la morte di Cadwallon l’anno successivo) lo misero nella posizione di acquisire o riportare una primazia sui vicini, e nel 642, questa volta in una guerra difensiva, uccise anche Oswald. Oswiu lo uccise a sua volta nel 655, ma il figlio di Penda, Wulfhere (658-75) fu in grado di ripristinare la sua primazia regionale. Da qui in avanti la Mercia dominò politicamente i vicini regni di Hwicce nel Gloucestershire e Worcestershire settentrionale, Lindsey nel Lincolnshire settentrionale, e gran parte delle minuscole entità politiche delle Fenlands: esattamente al centro della Britannia meridionale, occupava un’eccezionale posizione strategica. Di conseguenza, l’influenza della Northumbria verso sud venne stoppata, e molto presto la morte di Ecgfrith per mano dei Pitti ne diminuì l’influenza anche nel lontano Nord. Non più tardi del 700, o giù di lì, il potere politico nelle terre anglosassoni era diviso tra quattro regni, la Northumbria, la Mercia, il Wessex (che stava ormai estendendosi alla Britannia sud-occidentale) e l’East Anglia, con menzione d’onore anche per il Kent, piccolo ma insolitamente ricco grazie ai suoi legami con i Franchi. Di questi regni, la Mercia era chiaramente il più potente. Ad eccezione del Kent, sarebbero tutti sopravvissuti sino al tardo IX secolo.
I quattro regni di cui sopra erano ormai più grandi dei regni gallesi, ma ciononostante presentavano molte analogie con essi. Grande risalto hanno infatti, nelle fonti scritte, i valori propri di un militarismo su piccola scala. Beowulf, il più lungo testo poetico in anglosassone, in maniera analoga a quanto è dato leggere in Y Gododdin, esalta la lealtà e l’eroismo, l’ospitalità regale e l’importanza del dono. La datazione del Beowulf oscilla tra l’VIII, il IX ed il X secolo, ma le immagini di cui fa uso si accordano pienamente con quelle dei primi testi in nostro possesso. Un esempio è fornito dalla Vita di Guthlac, scritta da Felice nel decennio 730-40. L’aristocratico santo merciano viene descritto da giovane, nel decennio 690-700, mentre a capo di una banda di guerrieri, «ricordando le valorose gesta degli eroi di un tempo», distrugge con festevole slancio gli insediamenti nemici con ciò accumulando, prima di mutare vita e diventare monaco, un immenso bottino. In altre parole, ancora nel decennio 690-700 (o 730-40) era possibile essere un predone indipendente su piccola scala e ottenerne fama, giacché Felice ne scrive non senza entusiasmo. Gli stessi re, tuttavia, non operavano ancora su una scala così ampia. La Cronaca anglosassone, in un passo tratto probabilmente da un testo precedente, racconta la morte nel 786 di re Cynewulf del Wessex: sorpreso dal rivale Cyneheard, fratello del suo predecessore, nella casa della donna che amava, venne ucciso prima che il suo seguito potesse intervenire; gli uomini del seguito poi, nonostante fosse stata loro offerta la vita, combatterono attorno a lui sino alla morte; il giorno seguente l’esercito di Cynewulf assediò a sua volta Cyneheard e, dopo un fallito tentativo di trattativa, Cyneheard e gli ottanta uomini del suo seguito vennero uccisi; ancora una volta, gli uomini del seguito non avrebbero abbandonato il loro signore, e i vendicatori di Cynewulf «mai avrebbero accettato di servire il suo assassino». Il testo sottolinea con forza l’universo simbolico incentrato sulla lealtà, ma è anche importante osservare che, ancora nel decennio 780-90, un esercito di meno di cento uomini, all’interno di una singola fortificazione, stava determinando il destino di un intero regno15.
L’altra faccia di una simile situazione è l’insieme piuttosto limitato delle risorse regie. I re avevano diritto a un tributo in natura dal loro territorio, ma le testimonianze che abbiamo al riguardo suggeriscono che, come in Galles, esso fosse piuttosto esiguo, e forse dovuto soltanto quando il re o il suo entourage si riunivano per consumarlo. Sino al 700, è difficile affermare che i re anglosassoni disponessero di grandi risorse: avevano oro e argento in misura tale da poter lasciare sepolture di grande effetto, come Sutton Hoo, ma non necessariamente abbastanza per stipendiare più che un piccolo seguito o esercito, eccetto negli anni fortunati in cui depredavano un nemico. Controllavano anche la terra, e Beda chiarisce che già nel decennio 730-40 la usavano per remunerare un’aristocrazia militare, fatto tuttavia non esente dai consueti rischi legati a questa prassi nell’alto Medioevo; Beda riferisce anche che se un re fosse rimasto senza terra i più giovani tra gli aristocratici avrebbero lasciato il regno16.
È probabile che simili condotte contribuissero a mantenere una regalità di tipo semplice, un’amministrazione regia approssimativa e i regni di dimensioni ridotte, come accadeva in Galles. Ma per altri aspetti i regni anglosassoni stavano iniziando a svilupparsi. In primo luogo, occupavano le aree pianeggianti della Britannia, più ricche dal punto di vista agricolo, in grado di sostenere una popolazione più numerosa, e più vicine al continente. L’archeologia mostra che il tardo VII secolo e l’inizio dell’VIII videro una notevole crescita degli scambi commerciali tra l’Inghilterra e il continente, attraverso una serie di porti presto controllati dai re: Hamwic (odierna Southampton) nel Wessex, Londra nella Mercia (con ogni probabilità, la Mercia conquistò l’area del basso Tamigi nel decennio 660-70; le banchine lungo lo Strand a Londra si fanno risalire al decennio 670-80), Ipswich nell’East Anglia, York nella Northumbria (infra, cap. 9)17. I porti diedero presto vita a un artigianato locale, ed è possibile designarli con il termine di città, i primi centri urbani dell’Inghilterra anglosassone; rimanevano tuttavia strettamente legati ai re, destinatari elettivi dei loro prodotti sui quali esigevano pedaggi. Simili tributi spettavano ai re in tutta Europa, ma in Inghilterra, dove il potere regio aveva dimensioni così ridotte, costituirono un importante introito aggiuntivo per le loro ricchezze.
In secondo luogo, i re erano strettamente sostenuti dalle aristocrazie. Forse non dovremmo attribuire un così gran peso alle immagini di lealtà del Beowulf o al racconto di Cyneheard (dopo tutto, gli uomini che morirono con Cyneheard avevano tradito re Cynewulf), ma è quanto meno ragionevole sostenere che gli aristocratici che non rimanevano, o non potevano mantenersi, fedeli ai re andavano incontro a situazioni difficili, perché spesso, piuttosto che essere semplicemente accolti in una corte rivale, finivano «esiliati» – così li chiamano i testi – senza il chiaro sostegno di un protettore18. I re e gli aristocratici erano anche legati dalla lenta evoluzione del potere sulla terra. Le prime unità territoriali anglosassoni non sembrano essere state proprietà fondiarie con un unico proprietario e affittuari dipendenti, ma piuttosto territori dai quali i re, e forse anche gli aristocratici della loro corte, potevano esigere un tributo, che come abbiamo visto poteva essere minimo, sebbene sia anche probabile che i dipendenti non liberi che stavano su questi possedimenti pagassero molto di più. Fra il tardo VII secolo e il X, questi territori divennero lentamente proprietà private, con canoni e servizi molto più elevati, a beneficio dei re ed insieme degli aristocratici, come vedremo nel capitolo 1919. Può ben essere che la politica delle donazioni fondiarie descritta da Beda nel decennio 730-40 non fosse poi molto antica, e che rappresentasse anzi uno dei primi segni di questo lento cambiamento. Ma lo sviluppo della proprietà terriera avrebbe potuto mantenersi costante solo se i sistemi politici fossero stati forti e i re potenti. Era dunque interesse delle aristocrazie, esse stesse in crescita, accettare un rafforzamento del potere regio.
Un terzo mutamento vide i regni anglosassoni convertirsi al cristianesimo. Sappiamo molto al riguardo perché si tratta del tema centrale dell’opera di Beda. Monaco nei monasteri collegati di Wearmouth e Jarrow nella Northumbria settentrionale, Beda (673-735), intellettuale di raffinata cultura, non orientava la sua azione in via primaria a livello politico (sebbene conoscesse re e arcivescovi). Nelle sue pagine, la conversione assume i contorni di un’avanzata eroica20. Iniziata con la missione romana inviata da Gregorio Magno nel Kent nel 597, ed estesasi a numerosi regni compresa, nella successiva generazione, la Northumbria, arretrò tuttavia dopo la morte di Edwin. Rianimata dopo il 634 da una missione irlandese nella Northumbria da Iona, dopo la morte del pagano Penda nel 655 il cristianesimo venne infine quasi dovunque accettato, almeno dai re e dal loro seguito. Si ritrovò quindi consolidato da due eventi chiave: nel 664 il sinodo di Whitby segnò l’accoglimento nella Northumbria e altrove della data romana per la Pasqua e, più in generale, delle strutture istituzionali romane (piuttosto che irlandesi) per la chiesa; nel 669, dopo che una pestilenza aveva ucciso la maggior parte dei vescovi d’Inghilterra, Roma inviò Teodoro di Tarso in qualità di nuovo arcivescovo di Canterbury (668-90), ed egli riformò l’episcopato secondo linee amministrative e gerarchiche valide per tutti i regni anglosassoni. Nel 672 presero avvio i concili ecclesiastici sul modello continentale, e la chiesa anglosassone divenne sempre più chiaramente un corpo organizzato21.
Beda vedeva questi eventi come divinamente sovraordinati. Il processo di conversione fu senza dubbio più politico e ambiguo, ma il suo quadro di una chiesa vittoriosa già entro il decennio 670-80 è non soltanto convincente, ma sostenuto anche da altre testimonianze. In seguito alle donazioni regie, la cui prima documentazione risale al decennio 670-80, tanto i vescovi che una rete continuamente in crescita di monasteri conobbero una vigorosa fioritura; si potrebbe sostenere che la chiesa sia stata il primo beneficiario delle nuove politiche fondiarie, forse persino prima dell’aristocrazia. Entro l’inizio dell’VIII secolo, se vi fu un tratto della società anglosassone che correva in parallelo rispetto al continente, era la chiesa. La gerarchia episcopale anglosassone fu molto più solida di quella del mondo gallese o, come vedremo, del mondo irlandese: si trattò fondamentalmente di un’importazione continentale, che si ispirava alla Francia e soprattutto a Roma. Fu essa a collegare per la prima volta tutti i regni. Beda, in realtà, considerò la conversione di un unico popolo, gli Angli, termine che era incline a intendere in modo generico come «Inglesi» piuttosto che «Angli» in senso stretto. Non è certo che prima di Alfredo, nel tardo IX secolo, molti altri condividessero la sua visione della comune identità inglese. Ma la rete di vescovi, da uno a tre per regno, che comprendeva tutte le entità politiche anglosassoni ad esclusione delle aree di dominio gallese, e che faceva riferimento a un singolo arcivescovo a Canterbury, rappresentava almeno un potenziale sostegno per i re che desiderassero estendere la propria egemonia al di là del loro regno. L’appoggio ecclesiastico era potenzialmente tanto più utile in quanto di rado in Inghilterra i vescovi si impegnavano in qualunque attività politica indipendentemente dai loro re; la sola eccezione, Wilfrid (m. 709), di formazione franca, vescovo di Ripon e York in epoche diverse, venne espulso dalla Northumbria tanto da Ecgfrith che dal suo successore Aldfrith (685-704). Essi non introdussero nei regni anglosassoni nessuno dei cerimoniali politici laici dei regni continentali; sino al tardo VIII secolo il governo regio rimase semplice, probabilmente basato sulle assemblee. I re anglosassoni tuttavia, iniziarono a legiferare; dapprima nel Kent, con le leggi di Æthelberht, il primo re a convertirsi, intorno al 602, e di tre suoi successori, alla fine del secolo, e quindi nel Wessex, con le leggi di Ine (688-726) intorno al 69022.
Le chance di successo per un’espansione dell’autorità regia implicite in queste dinamiche furono colte anzitutto da tre re della Mercia, che governarono quasi senza interruzioni per un secolo, Æthelbald (716-57), Offa (757-96) e Cenwulf (796-821). Non erano strettamente imparentati, e la successione dall’uno all’altro non fu facile, ma ciascuno riuscì a costruire sul sistema di potere ereditato dal predecessore. In primo luogo diedero vita a una politica di conquista: per la maggior parte del periodo del loro dominio, tutti i regni anglosassoni eccetto la Northumbria (e dopo l’802 il Wessex) riconobbero la loro primazia. In secondo luogo, in maniera più sistematica di quanto fosse avvenuto in precedenza, si spesero per assorbire molti di questi regni nella Mercia. Nei documenti, già nel 709, il re di Hwicce è chiamato subregulus, «sotto-re», termine che per due successive generazioni si alterna con regulus da una parte e minister dall’altra, e poi dopo il 789 diventa stabilmente minister o dux. Tra l’812 e l’835, il re dell’Essex conobbe un percorso simile. Il Kent venne inglobato in maniera più violenta: liberatosi dal dominio merciano nel 776, e dopo che nel 785 Offa ne fu di nuovo a capo quale re senza intermediari, tra il 796 ed il 798, subito dopo la morte di Offa, la dinastia locale riprese per qualche tempo il potere. Alla fine, Cenwulf insediò quale re suo fratello, e il Kent non fu mai più indipendente. La Mercia conobbe quindi un veloce processo di espansione; Carlo Magno, contemporaneo di Offa, lo considerava come l’unico vero re dell’Inghilterra meridionale23.
L’espansione territoriale si accompagnò a testimonianze molto più chiare di un qualche tipo di infrastruttura amministrativa. Dalla metà dell’VIII secolo, i privilegi concessi dai re alle chiese iniziano a escludere dalle loro concessioni tre «gravami comuni», il servizio in armi, la costruzione di ponti e la costruzione di fortezze, servizi ancora dovuti ai re; quantunque il servizio in armi fosse indubbiamente di carattere tradizionale, gli altri due sembrano essere nuovi, e dovettero essere organizzati24. Nel IX secolo l’elenco dei funzionari regi che non gravavano più sui beneficiari di queste concessioni divenne piuttosto lungo: il re ormai poteva contare su un personale decisamente più numeroso. Sembra certa la tradizionale associazione con il re Offa del Vallo di Offa, il terrapieno di cento chilometri che delimita i confini del Galles, e la costruzione di questo vallo, che attraversa aree spesso relativamente remote, avrà certamente richiesto una notevole organizzazione25. Offa riformò la coniatura e fu tra i primi re anglosassoni a sud dello Humber a porre il proprio nome sulle monete. La Mercia non era affatto la parte più ricca dell’Inghilterra; la ricchezza era appannaggio della costa orientale, dove si trovavano i porti e dove nell’VIII secolo si stava sviluppando una economia di scambio; ma Offa controllava ormai quella costa, e poté iniziare a trarne un regolare profitto economico. I re inoltre, seguendo l’esempio franco (infra, cap. 16), cominciarono a trarre vantaggio dai concili ecclesiastici; tra il 747 e l’836 è documentata una serie di concili, presieduti dai re, le cui decisioni riguardarono in gran parte ambiti secolari. Uno di essi, nel 786, con la partecipazione di una delegazione papale, prese decisioni ad ampio raggio26. Questo insieme di provvedimenti e procedure indica una struttura del potere regio che, con Offa e Cenwulf, potrebbe essere chiamata stato.
La costruzione del potere regio appena delineata non era scontata. In primo luogo, sebbene dopo Teodoro di Tarso la gerarchia della chiesa collegasse tutti i regni anglosassoni, quando la Northumbria ottenne il proprio arcivescovato a York nel 735, forse per rintuzzare l’influenza della Mercia, e la Mercia il proprio a Lichfield nel 787, la situazione si ritrovò modificata. Nel caso della Mercia, i problemi che Offa aveva avuto con Canterbury, legata in specie all’autonomismo del Kent, lo spinsero a creare un’arcidiocesi posta, almeno temporaneamente (nell’803 il Meridione fu riunito sotto Canterbury), sotto il suo personale controllo27. In secondo luogo, l’VIII secolo fu un’epoca di guerre tra i rami rivali della famiglia regia per il potere sovrano nel Wessex, nella Mercia e nella Northumbria28. La Mercia, sino all’821, non conobbe conseguenze strutturali, ma in seguito le lotte politiche intestine ne minarono l’egemonia. La grande stabilità delle ultime tre generazioni andò persa, e sarebbe stata ritrovata solo da Alfredo in circostanze (infra, cap. 19) estremamente diverse. Carlo Magno poté riconoscere Offa come un pari (almeno con riguardo all’etichetta diplomatica), ma il potere sovrano anglosassone aveva una portata assai minore ed era decisamente meno stabile29. Inoltre le sue radici erano molto diverse, e non potevano attingere a nessuna precedente infrastruttura romana, a differenza della Francia. Per contro, si stava almeno muovendo in direzione delle strutture politiche franche. I re merciani furono probabilmente del tutto consapevoli della loro azione; la Francia era talmente più potente che sarebbe stato certo assolutamente sensato muoversi il più velocemente possibile in quella direzione. Esempio, quello di Offa, che Alfredo e i suoi successori avrebbero seguito.
Nella frammentazione delle sue strutture politiche l’Irlanda, che non fu mai sotto il dominio romano, mostra taluni paralleli con il Galles e l’Inghilterra, con la differenza che qui il decentramento politico era persino più forte. Nessuno sa quanti re abbia avuto l’Irlanda in un dato periodo, ma da 100 a 150 è stima ampiamente presa in considerazione. Ciascun re governava una túath o plebs, i termini rispettivamente irlandese e latino che indicano il «popolo» di ognuno di loro; nel latino continentale plebs indica una comunità locale, ma in questo caso può ben essere tradotto con «regno». Questi «regni» o «popoli» variavano alquanto per dimensione e importanza, ma ciascuno era strettamente legato a un re, traendo spesso il proprio nome dalla sua famiglia, i Cenél Conaill, la parentela di Conall, gli Uí Dúnlainge, i discendenti di Dúnlang. Riprendendo quanto già esposto per il contesto gallese, si possono sicuramente considerare come tribù. Ciascun regno, persino i più grandi (i piccoli possono aver contato solo alcuni gruppi familiari), aveva una struttura sociale piuttosto semplice: una rete di gruppi parentali liberi aveva obblighi di clientela nei confronti di una rete di signori, i quali analogamente avevano obblighi nei confronti del re (egli stesso imparentato con molti o con la maggior parte dei suoi signori). Questi obblighi venivano generalmente espressi in bestiame, e si basavano sulla temporanea relazione patrono-cliente tra proprietari indipendenti. Solo i non liberi erano in permanenza dipendenti. Le fonti irlandesi sono inusuali, giacché in larga misura composte da trattati giuridici – i manuali personali degli uomini di legge – spesso sorprendentemente e inverosimilmente dettagliati in relazione a minime differenze di status, obbligo e posizione giuridica: ad esempio, nella società libera vi erano a quanto sembra sino a quattordici posizioni gerarchiche. Come davvero operassero in concreto queste relazioni minuziosamente differenziate è impossibile dire. Certamente venivano controllate con la massima semplicità: la maggior parte dei re avrebbe impiegato un amministratore per riscuotere quanto dovuto, un gruppo di uomini armati perché lo si rispettasse e un’assemblea annuale della túath per deliberare, e questo era tutto. Ma gli uomini di legge, insieme con i poeti e i sacerdoti pagani (dopo la cristianizzazione, questi ultimi furono sostituiti dai chierici), facevano parte dei corpi professionali presenti in tutta l’isola, i quali avevano proprie gerarchie e propri criteri di formazione. L’elaborazione del diritto da parte degli uomini di legge poteva quindi andare molto oltre la sua applicabilità, sebbene, per contro, una competenza giuridica qualificata fosse qui di gran lunga più disponibile rispetto alla maggior parte delle società semplici dello stesso tipo30.
I regni irlandesi erano ordinati gerarchicamente: i re di grado inferiore dovevano un tributo e un supporto militare ai re di grado superiore, e talora si contavano tre o quattro livelli di regalità. I livelli più bassi erano probabilmente abbastanza stabili, perché le túatha più piccole non avevano alcuna chance di operare autonomamente con successo, e una relazione clientelare di tipo permanente con una túath più grande costituiva la più sicura condotta d’azione. Di rado, tuttavia, questi «regni clienti di status inferiore» (aithechthúatha in irlandese) venivano assorbiti in raggruppamenti più grandi; talvolta accadde, perché taluni regni si espansero, ma per quanto possiamo dire riguardo al periodo considerato, molti sopravvissero31. Simile stabilità è stata talvolta considerata come il prodotto dell’arcaismo della società irlandese, perché i trattati giuridici sono icastici relativamente ai rituali e alle norme che regolano la regalità. Il Críth Gablach, il più importante trattato sullo status sociale dell’VIII secolo, spiega: «Relativamente ai doveri di un re esiste anche un ordine settimanale: la domenica per bere la birra […]; il lunedì per giudicare e per la composizione delle dispute delle túatha; il martedì per giocare a fidchell (un gioco da scacchiera); il mercoledì per assistere alla caccia al cervo con i cani; il giovedì per il rapporto sessuale; il venerdì per la corsa dei cavalli; il sabato per amministrare la giustizia». Ovvio che l’insieme ha dell’inverosimile, ma probabilmente offre una caratterizzazione ragionevolmente accurata dell’insieme dei compiti regi32. I re erano soggetti anche a tabù, gessa: un poema dell’XI secolo elenca quelli di ciascuna delle cinque province d’Irlanda, Ulster, Connacht, Meath, Leinster e Munster, riportando, ad esempio, che il re di Tara non poteva interrompere il viaggio a Mag Breg di mercoledì o entrare a Tethba settentrionale di martedì33. Ciononostante, anche se gli arcani infinitamente affascinanti della regalità irlandese ci illuminano in maniera considerevole riguardo alla forza rituale dei legami comunitari tribali, essi non spiegano perché accadde che un ambizioso re di rango superiore non sia stato in grado di eliminarli. In questo caso, la migliore spiegazione è che l’infrastruttura di governo di cui potevano disporre i re irlandesi era adeguata a controllare solo un piccolo territorio, cosicché la struttura cellulare dei singoli regni rimaneva necessariamente in condizioni di autogoverno. Ai livelli gerarchicamente superiori, anche i legami patrono-cliente tra re erano meno stabili; nessun re poteva dominare tutto l’Ulster o il Leinster se non per periodi molto brevi, poiché sarebbero presto scoppiate rivolte e le coalizioni sarebbero andate in pezzi. I re erano combattenti (incombenza curiosamente omessa nella lista del Críth Gablach), e non molto altro.
Le due più importanti dinastie rivali d’Irlanda – la Uí Néill, la più potente delle due, che controllava Meath e Ulster occidentale, e la Éoganachta, che dominava il Munster – erano entrambe a capo di numerosi regni separati. Ciascuna disponeva di un centro rituale destinato esclusivamente al cerimoniale, rispettivamente Tara e Cashel (Tara era una antica fortificazione abbandonata; Cashel, più recente, ospitò in seguito una chiesa); in un qualunque momento dato, il re supremo della dinastia era re di Tara o di Cashel. Gli Uí Néill e gli Éoganachta sembra abbiano stabilito la loro primazia nel V secolo, sebbene rimanga oscuro come ciò sia avvenuto34; Níall Noígíallach, l’antenato degli Uí Néill, è figura in gran parte leggendaria. Prima della loro comparsa, un luogo di particolare importanza era Emain Macha (oggi Navan Fort), vicino Armagh. Quest’ultimo luogo costituiva il cuore della saga interamente leggendaria di Cúchulain, eroe che combatté per re Conchobar dell’Ulaid, la tribù originaria dell’Ulster i cui re furono spinti ad est, nelle odierne Antrim e Down, dagli Uí Néill; questi entro il VI secolo avrebbero qui istituito quattro regni. Il Leinster era totalmente al di fuori della sfera delle due dinastie, e lo stesso vale per il Connacht, la provincia più povera, sebbene gli Uí Néill sembra fossero originari di quest’area e vi rivendicassero la parentela con le più importanti dinastie di re. I re vittoriosi degli Uí Néill poterono nondimeno rivendicare una temporanea egemonia sui regni di tutte le province esclusa Munster (gli Éoganachta, per contro, rimasero nel Munster sino all’VIII secolo).
Tra le centinaia di re irlandesi, su cui scarsa è la documentazione di raccolte annalistiche rivali, alcuni spiccano. Diarmait mac Cerbhaill (m. 565) fu probabilmente il re con cui si operò il passaggio degli Uí Néill dalla leggenda alla storia (sebbene molti racconti della tradizione si rifacciano a lui); antenato delle principali dinastie degli Uí Néill nel Meath, al più tardi dalla sua epoca in avanti il dominio della famiglia all’interno e nel Nord dell’isola divenne in larga misura stabile. Báetán mac Cairill (m. 581), del regno ulaide di Dál Fiatach, tentò di imporre il proprio dominio sull’isola di Man e su Dál Riata nella Scozia occidentale quale centro di potere alternativo agli Uí Néill. Fallì, mostrando tuttavia che il quadro politico del V secolo non era immutabile35. La politica del VII secolo fu più stabile, con re dei rami rivali delle principali dinastie che si succedettero regolarmente in tutte le province. Iniziamo nuovamente a osservare ambizioni di più ampio respiro nell’VIII secolo. Un esempio è dato da Cathal mac Finguine (m. 742), degli Éoganacht Glendamnach nell’odierno Cork settentrionale, che diede vita a un’alleanza con i re di Leinster attaccando Meath, sino a che Áed Allán (m. 743) dei Cenél nÉogain, degli Uí Néill settentrionali di Tyrone, nel 737-8 lo ridusse al Munster. Possiamo altresì considerare Donnchad Midi mac Domnaill (m. 797) dei Clann Cholmáin degli Uí Néill di Meath, che dal decennio 770-80 rappresentò nel Leinster il potere supremo con mire anche sui re di Munster36. I loro successori, Feidlimid mac Crimthainn (m. 841) degli Éoganacht di Cashel, di gran lunga il più aggressivo re di Munster prima della fine del X secolo, e i suoi nemici Uí Néill, verranno presi in considerazione nel capitolo 20; il IX secolo, con il venir meno delle norme tradizionali in seguito agli attacchi vichinghi e all’atteggiamento di sfida tenuto pure dai sovrani locali, fu più distintamente un periodo di aggregazione politica. È possibile tuttavia rinvenire una continuità con l’VIII secolo: fu quando una regalità ambiziosa spezzò per la prima volta il vecchio confine tra gli Éoganacht e gli Uí Néill. Per contro, Donnchad Midi non ebbe manifestamente uno stile di governo che differisse da quello del suo antenato Diarmait mac Cerbhaill; gli Irlandesi furono molto lenti ad abbracciare il tipo di cambiamento che stava interessando le strutture politiche in Inghilterra.
L’Irlanda iniziò a convertirsi al cristianesimo nel V secolo, in larga misura grazie alla missione del britannico Patrizio, i cui scritti sopravvivono ma la cui vita (e la relativa datazione) è in gran parte oscura. Già nel tardo VI secolo, epoca alla quale risalgono le prime fonti scritte irlandesi, il paganesimo ufficiale sembra costituire solo un ricordo, almeno tra le élite, e il clero si inserì facilmente nell’insieme delle professioni dotte. Tuttavia il cristianesimo irlandese era diverso. Se disponeva di una rete episcopale legata ai regni, poté tuttavia contare anche su un insieme sempre più ricco e potente di famiglie di monasteri, i cui legami andavano in direzioni diverse rispetto a quelle delle gerarchie politiche ed episcopali. Dal VII secolo in avanti, sulla base di un legame in gran parte spurio con Patrizio, Armagh rivendicò la primazia episcopale, ma questa era contestata da Kildare nel Leinster e in larga misura ignorata dalle chiese sottoposte al monastero di Iona nella Scozia occidentale; quest’ultimo era il principale sito di culto di Dál Riata, ma, fatto notevole, dall’epoca della sua fondazione da parte di Colum Cille (Colomba di Iona, m. 597) nel 563, era controllato da una dinastia Uí Néill37. Il monastero di Clonmacnois al centro dell’Irlanda ebbe minori pretese di primazia, ma raggiunse una considerevole ricchezza ottenendo terra e monasteri minori in un’area di regni relativamente deboli (i suoi abati venivano in genere dalle aithechthúatha), e già alla metà dell’VIII secolo stava portando avanti una propria politica secolare in armi. Rispetto a molti re ed aristocratici, le chiese episcopali e monastiche avevano punti di vista più precisi sul fatto di accumulare ricchezza fondiaria (al posto del bestiame), ed entro l’VIII secolo i loro superiori erano probabilmente più ricchi di molti re; nel futuro avrebbero costituito una risorsa per il potere politico (già nel IX secolo oggetto di saccheggio anche tra re rivali). In Irlanda, la chiesa era in qualche modo consapevole dell’esistenza di una più ampia identità irlandese, proprio come lo era stata la prassi giuridica. I concili ecclesiastici ebbero inizio già nel decennio 560-70, l’istruzione in latino deve anch’essa essersi avviata all’incirca in quel periodo, e nel VII secolo si ebbe una fioritura di letteratura ecclesiastica – agiografie, libri penitenziali, opere poetiche, grammatiche – parallela a quella che osserviamo nel diritto secolare. Ecclesiastici ed intellettuali irlandesi, da Colombano (m. 615) a Giovanni Scoto (m. 877 ca.), il più grande teologo occidentale del IX secolo, esercitarono una chiara influenza in Francia. Ma, a differenza di quanto avvenne alla fine in Inghilterra, l’identità non riuscì ad essere in se stessa un sostegno per l’ambizione laica: al suo interno, la chiesa irlandese era altrettanto frammentata dell’autorità secolare.
Dalla fine del V secolo, il minuscolo regno di Dál Riata nell’Antrim settentrionale sembra aver conosciuto un’espansione nella Scozia occidentale che lo avrebbe portato a occupare la zona dell’odierna Argyll e alcune delle isole Ebridi. Il suo re, Áedán mac Gabráin (m. 609 ca.), protettore di Colomba, fu per trent’anni un attivo protagonista militare nella Britannia settentrionale (combatté Æthelfrith che lo sconfisse nel 603), seguito in questa politica, almeno sino al decennio 640-50, da alcuni dei suoi successori; dopo quest’epoca, il potere di Dál Riata in Scozia si divise in due o tre lignaggi rivali con basi di potere separate, un processo, questo, consueto anche in Irlanda. Argyll costituì nondimeno un solido centro politico; per dimensioni, anche se probabilmente non per risorse, era già più grande di ogni altro regno d’Irlanda. La scommessa coloniale del Dál Riata del V secolo fu, in questo senso, vincente. Nell’VIII secolo, a partire da Onuist figlio di Urguist, esso fu più spesso soggetto al dominio pitto, situazione che si protrasse nel IX, sebbene da allora i legami matrimoniali tra le due famiglie al potere (resi più agevoli dal fatto che i Pitti erano matrilineari, quantunque entro il IX secolo la successione patrilineare stesse subentrando persino lì) implicassero che lo stesso re poteva rivendicare entrambe le eredità38. Fu questa la base per quello che sembra essere stato un duplice colpo di stato da parte di Cináed (Kenneth) mac Ailpín (m. 858), un principe di Dál Riata, dapprima intorno all’840 quando prese Dál Riata, e quindi intorno all’842 nella stessa Pittavia39. Kenneth trasferì la sua sede politica nel cuore del Perthshire nella Pittavia meridionale, fatto questo che rifletteva l’assoluto dominio delle terre pitte ma anche, probabilmente, la pressione vichinga su Argyll. Sembra che abbia regnato in effetti come un re pitto, ma il regno di Alba o Scotia governato dai suoi discendenti fu, dopo la fine del IX secolo, in modo persino più evidente dominato dai Dál Riata, vale a dire, dagli aristocratici irlandesi, dal diritto irlandese, dalla cultura ecclesiastica irlandese e infine dalla lingua irlandese. L’unificazione fu un processo lento ed intermittente, ma già all’altezza del 900 Alba era nondimeno molto più grande e stabile di qualunque altro regno o regno superiore irlandese, riflettendo il fatto che la sua area centrale doveva ormai essere costituita dalle province ex pitte. Dál Riata, così piccolo in Irlanda, fu quindi in termini puramente politici il regno irlandese di maggior successo. Quale che fosse l’infrastruttura politica pitta, essa ne ha costituito il fondamento.
1 La storiografia in inglese sui temi affrontati in questo capitolo è, com’è ovvio, particolarmente estesa. Sul Galles, l’ultima area oggetto di studio intensivo, cfr. W. Davies, Wales in the Early Middle Ages, Leicester 1982. Per quanto riguarda l’Inghilterra, F.M. Stenton, Anglo-Saxon England, Oxford 19713, e J. Campbell (a cura di), The Anglo-Saxons, Oxford 1982, costituiscono rispettivamente il testo classico e la migliore e (relativamente) recente visione d’insieme. Sui primi regni anglosassoni egualmente fondamentali sono S. Bassett (a cura di), The Origins of Anglo-Saxon Kingdoms, Leicester 1989, e B. Yorke, Kings and Kingdoms of Early Anglo-Saxon England, London 1990. Per l’archeologia del primo periodo anglosassone cfr. C.J. Arnold, An Archaeology of the Early Anglo-Saxon Kingdoms, London 19972. Sull’Irlanda imprescindibili punti di riferimento sono F.J. Byrne, Irish Kings and High-kings, London 1973, N. Edwards, The Archaeology of Early Medieval Ireland, London 1999, e T.M. Charles-Edwards, Early Christian Ireland, Cambridge 2000; opere di sintesi G. Mac Niocaill, Ireland before the Vikings, Dublin 1972, e D. Ó Cróinin, Early Medieval Ireland, 400-1200, London 1995. D. Ó Cróinin (a cura di), A New History of Ireland, vol. 1, Dublin 2005, attesa per decenni, presenta saggi di valore e una vasta bibliografia, benché più schematica per quanto riguarda la struttura politica. Per la chiesa, oltre a Charles-Edwards, cfr. K. Hughes, The Church in Early Irish Society, London 1966, e L. Bitel, Isle of the Saints, Ithaca, NY, 1990. Sulla Scozia l’opera fondamentale è quella di M.O. Anderson, Kings and Kingship in Early Scotland, Edinburgh 19802; A.A.M. Duncan, Scotland: The Making of the Kingdom, Edinburgh 1975, arriva sino al 1286; A.P. Smyth, Warlords and Holy Men, London 1984, costituisce un valido punto di vista alternativo. La storiografia di Irlanda e Scozia in questo periodo è decisamente mutevole, con interpretazioni di base fortemente divergenti. T.M. Charles-Edwards (a cura di), After Rome, Oxford 2003, rappresenta l’unico tentativo di offrire una sintesi di quattro diversi approcci storiografici; W. Davies, Celtic Kingships in the Early Middle Ages, in A.J. Duggan (a cura di), Kings and Kingship in Medieval Europe, London 1993, pp. 101-24, ed in NCMH, vol. 1, pp. 232-62, offre una sintesi di tre di essi.
2 R. Fawtier (a cura di), La Vie de Saint Samson, Paris 1912, pp. 92-155.
3 A.S. Esmonde-Cleary, The Ending of Roman Britain, London 1989; per il Vallo di Adriano e la campagna, P. Dark, The Environment of Britain in the First Millennium AD, London 2000, pp. 140-56.
4 Sulle entità politiche post-romane D. Dumville, in G. Ausenda (a cura di), After Empire, Woodbridge 1995, pp. 177-216, e C.A. Snyder, An Age of Tyrants, Stroud 1998, rappresentano il meglio di molti approcci alternativi. Gildas è tradotto in M. Winterbottom, Gildas: The Ruin of Britain and Other Documents, Chichester 1978.
5 Cfr. T.M. Charles-Edwards, P. Sims-Williams, in R. Bromwich et al. (a cura di), Arthur of the Welsh, Cardiff 1991, pp. 15-71.
6 Cfr. W. Davies, An Early Welsh Microcosm, London 1978, pp. 65-107; Id., Land and Power in Early Medieval Wales, «Past and Present», 81 (1978), pp. 3-23.
7 E. Campbell, in K.R. Dark (a cura di), External Contacts and the Economy of Late Roman and Post-Roman Britain, Woodbridge 1996, pp. 83-96; J. Wooding, Communication and Commerce along the Western Sealanes, AD 400-800, Oxford 1996, pp. 41-54.
8 Beda, HE, 2.20, 3.1.
9 Marwnad Cynddylan, trad. e commento in J. Rowland, Early Welsh Saga Poetry, Cambridge 1990, pp. 120-41,174-8 (cfr. anche Davies, Wales, cit., pp. 99-102); Y Gododdin, trad. di K. Jackson, The Gododdin, Edinburgh 1969, pp. 141-2 e 118 per le citazioni.
10 Cfr. I. Henderson, The Picts, London 1967, e per il punto di vista tradizionale Anderson, Kings, cit., pp. 119-31, 165-204, messo variamente in discussione da Smyth, Warlords, cit., pp. 57-83; D. Broun, Pictish Kings 761-839, in S.M. Foster (a cura di), The St Andrews Sarcophagus, Dublin 1998, pp. 71-83; B.T. Hudson, The Kings of Celtic Scotland, Westport, Conn., 1994, pp. 8-33, che seguo solo in parte. Persino la matrilinearità è oggetto di contestazione; vedine l’analisi d’insieme in A. Woolf, Pictish Matriliny Reconsidered, «Innes Review», 49 (1998), pp. 147-67; cfr. anche Id., in «Scottish Historical Review», 85 (2006), pp. 182-201, per la localizzazione di Fortriu.
11 Sulle regiones cfr. S. Bassett, in Id., The Origins, cit., pp. 3-27; C. Scull, in «Anglo-Saxon Studies in Archaeology and History», 6 (1993), pp. 65-82; J. Blair, Anglo-Saxon Oxfordshire, Stroud 1994, pp. 29-32; H. Hamerow, in NCMH, vol. 1, pp. 263-88. Per le Fenlands, W. Davies, H. Vierck, The Contexts of Tribal Hidage, «Frühmittelalterliche Studien», 8 (1974), pp. 223-93. La datazione del Tribal Hidage è contestata.
12 Arnold, An Archaeology, cit., in part. pp. 33-100; H. Hamerow, Early Medieval Settlements, Oxford 2002, pp. 46-51, 93-9; C. Hills, Origins of the English, London 2003.
13 B. Hope-Taylor, Yeavering, London 1977.
14 N.P. Brooks, in Bassett, The Origins, cit., pp. 159-70; S. Bassett, in «Anglo-Saxon Studies in Archaeology and History», 11 (2000), pp. 107-18.
15 Beowulf presenta numerose traduzioni in inglese moderno; S. Heaney, Beowulf, London 1999, è un classico; ho tuttavia utilizzato quella di S.A.J. Bradley, Anglo-Saxon Poetry, London 1982, pp. 408-94 (la trad. it., Beowulf, Torino 1987, utilizza l’edizione critica di C.L. Wrenn, riveduta da W.F. Bolton [London 1973]). Felice, Life of St Guthlac, trad. e cura di B. Colgrave, Felix’s Life of Saint Guthlac, Cambridge 1956, qui 16-18. La Anglo-Saxon Chronicle è ottimamente tradotta in EHD, vol. 1, London 19792, pp. 146-261, qui alle pp. 175-6, 180; cfr. S.D. White, in «Viator», 20 (1989), pp. 1-18, di gran lunga la migliore analisi dell’anno 786 per il Wessex.
16 Letter to Ecgbert, trad. EHD, vol. 1, pp. 799-810.
17 Sui porti, le migliori opere di recente pubblicazione sono C. Scull, in J. Hines (a cura di), The Anglo-Saxons, Woodbridge 1997, pp. 269-310 e D. Hill, R. Cowie (a cura di), Wics, Sheffield 2001. Rimane un classico R. Hodges, Dark Age Economics, London 1982.
18 Sugli esiliati, ad es. The Wanderer, trad. EHD, vol. 1, pp. 870-1; Felice, Life of St Guthlac, 40, 42.
19 R. Faith, The English Peasantry and the Growth of Lordship, Leicester 1997.
20 B. Yorke, The Conversion of Britain, 600-800, Harlow 2006; J. Blair, The Church in Anglo-Saxon Society, Oxford 2005, pp. 8-181; H. Mayr-Harting, The Coming of Christianity to Anglo-Saxon England, London 19913; J. Campbell, Essays in Anglo-Saxon History, London 1986, pp. 1-84; P. Wormald, Bede, Beowulf and the Conversion of the Anglo-Saxon Aristocracy, in R.T. Farrell (a cura di), Bede and Anglo-Saxon England, Oxford 1978, pp. 32-95.
21 Sull’organizzazione della chiesa, C. Cubitt, Anglo-Saxon Church Councils, c. 650-c. 850, Leicester 1995. Riguardo alla considerazione che ne aveva Beda, P. Wormald, in Id. (a cura di), Ideal and Reality in Frankish and Anglo-Saxon Society, Oxford 1983, pp. 99-129; N. Brooks, Bede and the English, Jarrow 1999.
22 P. Wormald, Legal Culture in the Early Medieval West, London 1999, pp. 179-99.
23 Sulla fine dei regni autonomi, Yorke, Kings, cit., pp. 31-2, 51; H.P.R. Finberg, The Early Charters of the West Midlands, Leicester 19722, pp. 177-80.
24 N. Brooks, Communities and Warfare, 700-1400, London 2000, pp. 32-47.
25 P. Squatriti, in «Past and Present», 176 (2002), pp. 11-65.
26 Sulle monete, P. Grierson, M. Blackburn, Medieval European Coinage, vol. 1, Cambridge 1986, pp. 158, 277-82; J. Story, Carolingian Connections, Aldershot 2003, pp. 190-5. Sui concili, Cubitt, Church Councils, cit.
27 N.P. Brooks, The Early History of the Church of Canterbury, Leicester 1984, pp. 111-27.
28 P. Wormald, in Campbell, The Anglo-Saxons, cit., pp. 114-16.
29 Su Offa e Carlo Magno, J.M. Wallace-Hadrill, Early Germanic Kingship in England and on the Continent, Oxford 1971, pp. 98-123; Story, Carolingian Connections, cit., pp. 169-211.
30 Cfr. F. Kelly, A Guide to Early Irish Law, Dublino 1988, pp. 29-33 (il libro costituisce il migliore studio sui trattati giuridici); T.M. Charles-Edwards, Early Irish and Welsh Kinship, Oxford 1993, pp. 337-63; Id., «Críth Gablach» and the Law of Status, «Peritia», 5 (1986), pp. 53-73; N. Patterson, Cattle-lords and Clansmen, Notre Dame, Ind., 19942, pp. 150-78.
31 Sull’espansione dei regni, D. Ó Corrain, Nationality and Kingship in Pre-Norman Ireland, in T.W. Moody (a cura di), Nationality and the Pursuit of National Independence, Belfast 1978, pp. 1-35, in part. pp. 9-10.
32 Críth Gablach: trad. E.O. MacNeill, in «Proceedings of the Royal Irish Academy», 36 C (1921-4), pp. 281-306; p. 304, traduzione modificata.
33 Byrne, Irish Kings, cit., p. 23 (e in generale pp. 15-35 per i rituali).
34 Cfr. in part. Charles-Edwards, Early Christian Ireland, cit., pp. 441-68.
35 Byrne, Irish Kings, cit., pp. 87-114.
36 Ivi, pp. 202-29; Charles-Edwards, Early Christian Ireland, cit., pp. 594-8.
37 Su vescovi e monasteri, cfr. Charles-Edwards, Early Christian Ireland, cit., pp. 241-81, 416-29; M. Herbert, Iona, Kells and Derry, Oxford 1988, in part. pp. 53-6. Colomba è il soggetto di una vita di santo emblematica del mondo irlandese, tradotta di recente in R. Sharpe, Adomnàn of Iona: Life of St Colomba, Harmondsworth, 1995. Il riferimento classico è in questo caso Hughes, Church in Early Irish Society, cit.
38 Riguardo ai Pitti cfr. supra, nota 10; per Dál Riata cfr. J. Bannerman, Studies in the History of Dalriada, Edinburgh 1974; Anderson, Kings, cit., pp. 145-65, 179 sgg. e R. Sharpe, The Thriving of Dalriada, in S. Taylor (a cura di), Kings, Clerics and Chronicles in Scotland, 500-1297, Dublin 2000, pp. 47-61.
39 Cfr. Anderson, Kings, cit., pp. 196-200; Hudson, Kings, cit., pp. 36-47; P. Wormald, in B. Crawford (a cura di), Scotland in Dark Age Britain, St Andrews 1996, pp. 131-60.