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Vedi adesso allora, la cara signora Sweet che viveva con suo marito il signor Sweet e i loro due figli, la bellissima Persephone e il giovane Heracles nella casa di Shirley Jackson, che si trovava in un paesino del New England. La casa di Shirley Jackson era in cima a un poggio, e dalla finestra la signora Sweet vedeva, in basso, le acque impetuose del fiume Paran che usciva rapido e furioso dal lago, un lago artificiale anch’esso chiamato Paran; e alzando lo sguardo vedeva intorno a sé i monti di nome Bald, Hale e Anthony, che facevano parte della Green Mountain Range; e vedeva la caserma dei pompieri dove a volte partecipava a un’assemblea e ascoltava il suo rappresentante al governo dire cose che potevano avere effetti importanti su di lei e sul benessere della sua famiglia, oppure guardava i pompieri che portavano fuori i camion, smontavano e rimontavano qualche pezzo e poi li lucidavano tutti e li guidavano in giro per il paese con gran fracasso prima di rimetterli in caserma ricordandole il giovane Heracles, che spesso faceva le stesse cose con i suoi camion giocattolo; ma adesso, mentre la signora Sweet guardava dalla finestra della casa di Shirley Jackson, suo figlio non lo faceva più. Sempre da quella finestra vedeva la casa dove era vissuto l’inventore della fotografia al rallentatore, che però adesso era morto; e vedeva la casa, la Casa gialla, che Homer aveva ristrutturato con tanta cura e amore, lucidando i pavimenti, imbiancando le pareti, sostituendo le tubature, tutto questo l’estate prima di quel terribile autunno, quando andò a caccia e dopo aver abbattuto con arco e frecce il cervo più grosso che gli fosse mai capitato schiattò di colpo mentre cercava di caricarlo sul pick-up. E la signora Sweet lo vide steso nella bara alla casa dei funerali Mahar, e allora pensò, ma perché quei posti da fuori sembrano sempre così accoglienti, così invitanti, le sedie dentro così comode, lo splendido bagliore dorato delle lampade che abbraccia morbidamente ogni oggetto della stanza, fra cui l’oggetto principale, il morto, chissà perché, si disse la signora Sweet quando vide Homer, tutto solo e composto nella bara, e vestito con una tenuta da caccia nuova di zecca, una giacca a quadri rossa e nera di lana cotta e un berretto di maglia rosso, roba di Woolrich o di Johnson Bros o di qualche altro negozio di abbigliamento sportivo; e la signora Sweet avrebbe voluto parlargli, perché sembrava proprio vivo, per chiedergli se voleva venire a imbiancare casa sua, la casa di Shirley Jackson, o a fare qualcosa, qualunque cosa, aggiustare le tubature, pulire le grondaie, controllare se ci fossero infiltrazioni nel seminterrato, perché sembrava proprio vivo, ma sua moglie le disse, Homer ha abbattuto il cervo più grosso della sua vita ed è morto mentre cercava di metterlo sul pick-up; e la signora Sweet provò comprensione per la terrenità del morto, perché poteva immaginare l’esercito di vermi e parassiti che avevano, senza premeditazione, cominciato a nutrirsi di Homer e presto lo avrebbero confinato nel regno del portento e della disillusione, triste, così triste tutto quello che la signora Sweet vedeva allora, dalla finestra della casa in cui aveva vissuto Shirley Jackson, di fronte alla casa in cui era morta la vecchia signora McGovern che aveva vissuto lì per molti anni prima di diventare vecchia, aveva vissuto nella sua casa, costruita in una specie di stile neoclassico che rimandava a un’altra epoca, molto tempo fa, molto prima che la signora McGovern nascesse e poi diventasse una donna adulta che si era sposata e aveva vissuto con suo marito nella Casa gialla e aveva coltivato un giardino di sole peonie, grandi peonie bianche screziate di un rosso scuro, vinoso, sui petali più vicini agli stami, come una notte immaginaria che incrociasse un giorno immaginario, così erano quelle peonie nel giardino della signora McGovern, e lei coltivava altre cose ma nessuno ricordava quali fossero, solo le sue peonie si erano impresse nella memoria, e quando la signora McGovern era morta e dunque scomparsa dalla faccia della terra, la signora Sweet aveva tolto le peonie da quel giardino, «Festiva Maxima» si chiamavano, e le aveva trapiantate nel proprio, un luogo che il signor Sweet e la bellissima Persephone e anche il giovane Heracles detestavano. I Pembroke, padre e figlio, tagliavano l’erba, però a volte il padre andava a Montpelier, la capitale, a votare pro o contro, come riteneva fosse meglio per gli abitanti di quel paesino del New England che ancora oggi sorge sulle rive del fiume Paran; e fra gli altri abitanti di quel paesino, i Woolmington avevano sempre vissuto nella loro casa, e anche gli Atlas, e così pure gli Elwell, gli Elkins, i Powers; la biblioteca era piena di libri ma nessuno ci entrava, solo genitori con i loro bambini, genitori che volevano che i figli leggessero libri, come se leggere libri fosse una misteriosa forma d’amore, un mistero che doveva rimanere tale. Il paesino del New England conteneva tutto questo e molto di più, e tutto questo e molto di più era allora e adesso, tempo e spazio che si fondono, diventano una cosa sola, tutto nella mente della signora Sweet.

 

 

Tutto questo era visibile alla signora Sweet mentre se ne stava alla finestra, di fronte alla finestra, ma c’era tanto che allora non le era visibile, stava lì davanti a lei, chiaro e immobile, come intrappolato su una tela, racchiuso in un rettangolo fatto di rami secchi di Betula nigra, e lei non lo vedeva e non l’avrebbe capito neanche se l’avesse visto: suo marito, il caro signor Sweet, la aborriva. Spesso le aveva augurato di morire: una volta, allora, tornando a casa una sera dopo aver eseguito un concerto per pianoforte di Šostakovič per una platea di abitanti dei paesi vicini che di tanto in tanto sentivano il bisogno di uscire di casa, ma appena usciti volevano subito tornare indietro, perché niente era vicino e niente era bello come casa loro e sentire il signor Sweet che suonava il piano gli faceva venire sonno, con la testa che a volte piombava in avanti, e si sforzavano di non ritrovarsi il mento sul petto, ma succedeva comunque e allora trasalivano, si ricomponevano, deglutivano e tossivano, e il signor Sweet anche se voltava le spalle a quel pubblico campagnolo avvertiva tutto questo e sentiva ogni spasmo e ogni fremito che passava in ciascun individuo. Lui adorava Šostakovič, e mentre suonava la musica scritta da quell’uomo – La promessa al commissario del popolo, Il canto delle foreste, Otto preludi – le gravi sofferenze e ingiustizie da lui subite lo travolgevano, e il signor Sweet era molto commosso da quell’uomo e dalla sua musica e mentre suonava piangeva, riversando tutta la sua disperazione in quella musica, al pensiero che la sua vita, la sua preziosa vita stava trascorrendo con quella donna orrenda, sua moglie, la cara signora Sweet, che amava preparare tre portate di cibo francese per i suoi bambini e amava la loro compagnia e amava i giardini e amava lui e lui non era affatto degno del suo amore, perché era un ometto così piccolo che a volte la gente, vedendo i suoi movimenti frettolosi, lo scambiava per un roditore. E lui non era per niente un roditore, era un uomo capace di capire Wittgenstein e Einstein e qualunque altro nome finisse con stein, Gertrude compresa, le complessità dell’universo, le complessità dell’esistenza umana, l’idea di Adesso che è Allora e di come Allora diventi Adesso; sapeva tutto alla perfezione ma non riusciva a esprimersi, non riusciva a mostrare al mondo, almeno quando il mondo gli appariva sotto forma di abitanti di qualche paesino del New England, che persona eccezionale era lui, allora e prima e nei tempi a venire, a quella gente che portava gli stessi calzini per giorni di fila e non si tingeva i capelli quando perdevano il colore naturale e la lucentezza della gioventù e che consumava alimenti imperfetti, svigoriti da patogeni naturali o da insetti, per esempio, gente che si preoccupava che non si spegnesse la fiamma pilota della caldaia e le tubature non si congelassero perché in casa faceva freddo e allora avrebbero dovuto chiamare l’idraulico e quell’idraulico si sarebbe lamentato del lavoro dell’idraulico precedente, perché gli idraulici trovano sempre imperfetto il lavoro degli altri idraulici; e il suo pubblico si preoccupava di ogni sorta di cose che il signor Sweet non aveva mai sentito nominare perché era cresciuto in una città dove viveva in un grande palazzo con molti appartamenti, e quando una cosa non funzionava si chiamava il Custode: il Custode sapeva cambiare una lampadina, rimettere in funzione l’ascensore che si era fermato, far sparire la spazzatura, lavare il pavimento dell’atrio, chiamare l’azienda elettrica quando bisognava chiamarla, il custode sapeva fare molte cose, e nella vita del signor Sweet, quando lui era bambino, era il custode che le faceva e il signor Sweet non le aveva mai sentite nominare finché non era andato a vivere con quella donna orrenda che aveva sposato e adesso era la madre dei suoi figli, in particolare della sua bellissima figlia. Il concerto per pianoforte finì e il signor Sweet si riscosse dalla sua profonda empatia con il compositore della musica e gli spettatori si riscossero per mettersi le giacche imbottite di piume d’oca in cui era intrappolato l’odore di fumo di legna uscito dai caminetti e dalle stufe, un odore invernale che il signor Sweet odiava, il custode avrebbe eliminato quell’odore che non era un odore della sua infanzia; la sala da pranzo del Plaza Hotel e il profumo francese di sua madre, quelli erano gli odori dell’infanzia del signor Sweet, allora: il profumo della madre, il Plaza Hotel. E augurò la buonanotte a quelle persone che odoravano come se vivessero con la stufa a legna sempre accesa, e subito smise di pensare a loro che tornavano a casa con le loro Subaru e Saab di seconda mano, e indossò il cappotto, un cappotto fatto di pelo di cammello, un bellissimo cappotto a doppiopetto che quella bestia di sua moglie, la signora Sweet, gli aveva comprato da Paul Stuart, un ottimo negozio di abbigliamento della città dove il signor Sweet era nato, e lui odiava quel cappotto perché glielo aveva regalato quella sua moglie così arretrata, e come faceva a sapere che era un capo tanto raffinato, lei che era appena scesa dalla nave delle banane o da qualche altro arretrato mezzo di trasporto, perché ogni cosa in lei era arretrata, anche il bastimento con cui era arrivata, e lui adorava quel cappotto perché gli donava, lui era un principe, un principe doveva indossare un cappotto come quello, un cappotto elegante; ed era così contento di essersi liberato di quel pubblico che si mise al volante della sua Saab usata, più bella di tutte le altre, e imboccò una stradina e poi girò a sinistra in un’altra stradina e dopo cinquecento metri vide la sua casa, la casa di Shirley Jackson, la struttura che conteneva la sua maledizione, quel carcere con la secondina dentro, già a letto, probabilmente, circondata da cataloghi di fiori e sementi, o semplicemente sdraiata a leggere l’Iliade o I miti greci di Apollodoro, sua moglie, quella brutta strega arrivata con la nave delle banane, era la signora Sweet. Ma chissà, forse una sorpresa lo aspettava oltre la soglia, aspettava un pover’uomo come lui, perché il signor Sweet si vedeva così, sfortunato a essere sposato con quella strega di donna nata da bestia; chissà, forse la sorpresa era la testa di sua moglie posata sul piano della cucina, il corpo introvabile ma la testa mozzata, a dimostrazione che lei non poteva più impedire la sua avanzata nel mondo, perché era la sua presenza che gli impediva di diventare quel che era davvero, quel che era davvero, quel che era davvero, e chi sarà mai stato davvero, perché era un uomo basso e ne era acutamente consapevole, soprattutto quando si trovava accanto al giovane Heracles, le cui imprese erano note e grandiose e lo avevano reso famoso ancor prima che nascesse.

 

 

Ah, no, no! La signora Sweet guardava i monti di nome Green e Anthony, e il fiume Paran, con il lago artificiale che ne interrompeva il flusso tranquillo giù nella valle, tutto ciò che restava di un grande sollevamento geologico, un Allora che lei vedeva Adesso, e il suo presente sarà sepolto là sotto, così in profondità che non verrà, non verrebbe mai riconosciuto da una creatura simile a lei per forma e dimensione: né razza né genere, né animale né vegetale né alcuno degli altri regni, perché nulla di conosciuto può o potrà beneficiare delle sue sofferenze, e tutta la sua vita era sofferenza: amore, amore e amore in tutte le sue forme e configurazioni, fra cui anche l’odio, e sì, il signor Sweet l’amava, il suo odio era una forma del suo amore per lei: vedi come ammirava il suo lungo collo che emergeva dalla spina dorsale storta e dalle spalle curve; aveva le gambe troppo lunghe, il busto troppo corto; le sue narici si allargavano come una tenda afflosciata e poggiavano sulle guance ampie e grasse; le orecchie comparivano al posto giusto ma poi scomparivano inaspettatamente, e se ci fosse stato bisogno di descriverle per fornire una prova di qualche tipo ci si sarebbe dovuti ispirare al ricordo di orecchie conosciute in chissà che modo; le labbra erano come un disegno della terra prima della creazione fatto da un bambino, un simbolo del caos, la cosa che non conosce ancora la sua vera forma: e quella era solo la sua entità fisica, quasi venisse immaginata come una composizione in un vaso sopra una tavola apparecchiata per il pranzo o la cena di gente che scrive articoli per riviste, o che scrive libri sul destino della terra stessa, o che scrive di come viviamo noi adesso, chiunque siamo, solo i nostri minuscoli sé, nulla di più e nulla di meno. Ma non importa, visto che l’odio è una variante dell’amore, perché l’amore è il parametro e tutte le altre forme di emozione sono solo forme che si riferiscono all’amore, e l’odio, l’esatto contrario, è la forma più simile: il signor Sweet odiava sua moglie, la signora Sweet, e guardando quella naturale conformazione del paesaggio: monte, valle, lago e fiume, le vestigia della violenza della naturale evoluzione terrestre, la signora Sweet non lo sapeva. «Tesoro, vuoi che...» era l’inizio di molte frasi che esprimevano amore per la cara signora Sweet, perché lei gli era tanto cara, e il signor Sweet le riempiva di nuovo il bicchiere di ginger ale e le portava spicchi d’arancia su un piattino mentre lei era nella vasca piena d’acqua calda e cercava di rinvigorirsi in vista di quella cosa terribile chiamata Inverno, una stagione, in realtà, ma una cosa che la signora Sweet non aveva mai sentito nominare nella sua vita precedente alla nave delle banane, ah, la nave delle banane, il luogo del suo svilimento, ah!, e così il signor Sweet le offriva il frutto, l’arancia, nativo della zona riscaldata della terra mentre lei era immersa nell’acqua calda dentro una vasca nella casa di Shirley Jackson. Aaaahhhh, un dolce sospiro, il suono che sfuggirebbe dalle labbra grosse e caotiche della signora Sweet, anche se in realtà non sfugge alcun suono, perché il suono non ha nessun posto dove andare eccetto il nulla sottile che si trova al di là dell’esistenza umana, dentro qualcosa che la signora Sweet non vede né adesso né allora. Ma il signor Sweet la amava e lei amava lui, il suo amore per lui è fuori discussione adesso e allora, era sottinteso, dato per scontato, come i monti Green e Anthony, come il lago artificiale di nome Paran e come il fiume dallo stesso nome.

Qual è l’essenza dell’Amore? Ma quella era una domanda per il signor Sweet, che era cresciuto nell’atmosfera delle questioni di vita e di morte: l’assassinio in un breve arco di tempo di milioni di persone che vivevano a continenti di distanza; per contro, incombente sulla signora Sweet, anche se era stata indotta a considerarla alla stregua dello stile di una gonna o del taglio di una blusa, di un colletto, di una manica, c’era una mostruosità, una distorsione dei rapporti umani: la Tratta atlantica degli Schiavi. Cos’è l’Atlantico? Cos’è la tratta degli schiavi? Questo domandò il signore Sweet guardando la signora Sweet, ferma davanti alla finestra affacciata sui monti che si chiamavano Green e Anthony e sul fiume chiamato Paran, e il signore tornava da un auditorium costruito per contenere trecento persone ma ce n’erano solo dieci o venti mentre lui suonava al pianoforte la musica scritta da un uomo che era un cittadino della Russia e aveva scritto quella musica che incantava l’anima, qualunque cosa sia, del signor Sweet, angosciato perché conosceva e tuttavia non conosceva la morte in tutta la sua inconoscibilità. Qual è l’essenza dell’Amore?

Ma la signora Sweet stava guardando la propria vita: di fronte alla casa di Shirley Jackson si vedevano i monti Green e Anthony e, sotto, i fiumi: il Paran e il Battenkill e il Branch, corpi d’acqua pieni di trote in cerca di una covata pomeridiana di invertebrati, e tutti quei fiumi affluiscono nel fiume Hudson, un corpo d’acqua, uno dei tanti tributari di quel corpo più grande che è l’Oceano Atlantico, tutti tranne il Mettowee che sfocia nel lago Champlain; e lei stava pensando al suo adesso, sapendo che quasi sicuramente sarebbe diventato un Allora proprio mentre era un Adesso, perché il presente sarà adesso allora, e il passato è adesso allora, e il futuro sarà un adesso allora, e il passato e il presente e il futuro non hanno un tempo presente permanente, non hanno alcuna certezza riguardo all’adesso, e la signora Sweet chiamò a sé i suoi figli, il giovane Heracles che sarebbe rimasto sempre così, qualunque cosa gli fosse capitata, e la bellissima Persephone, che sarebbe rimasta sempre così, bellissima e perfetta e giusta.

 

 

Ma la sua testa non era posata sul piano giallo della cucina, mozzata, il resto del corpo disperso nel tempo: il busto conservato nel fango vicino al Delaware Water Gap, le gambe in un affioramento di granito nel massiccio dell’Ahaggar, le mani nelle sabbie mobili delle dune della California, e che spettacolo mirabile sono tutti questi doni racchiusi in quella cosa chiamata Natura ma il signor Sweet non poté mai vederlo, perché aveva paura di lasciare il suo ambiente domestico, la casa di Shirley Jackson e tutti i bei mobili che conteneva: il divano e le poltrone rivestiti di un tessuto che la signora Sweet aveva comprato allo spaccio della Waverley a Adams, nel Massachusetts, mentre l’imbottitura era stata fatta da un tappezziere che viveva a White Creek, nello Stato di New York. Il signor Sweet si era creato una specie di nido nella stanza sopra il garage, uno studio in cui scriveva molte cose, quasi una replica dell’anticamera di una casa dei funerali, così pensò la signora Sweet e quel pensiero per poco non la uccise; ma lui amava quella stanza, perché era buia e piena di ogni genere di cose che lui amava, i suoi ricordi di Parigi, della Francia, delle uova ripiene, le sue numerose collezioni dei libri di Claudine, la foto della bambina a cui aveva chiesto di spogliarsi quando avevano entrambi sei anni, la foto della sua studentessa di cui si era innamorato quando lei aveva diciassette anni e lui ventisette, i burattini che aveva costruito da bambino, i deliziosi budini che aveva mangiato da piccolo, i vecchi biglietti del balletto, i vecchi biglietti del teatro, tutti piccoli souvenir di un’epoca tanto preziosa: la sua infanzia; ma lei era una tale bestia, una tale strega e bestia e non doveva neanche avvicinarsi a quella stanza e lui la teneva chiusa a chiave per impedirle di entrare e portava sempre con sé la chiave, tranne quando entrava nel letto con lei, allora la metteva in un posto segreto, un posto così segreto che non ci pensava mai, per paura che lei gli leggesse nel pensiero. Chissà di cosa sarebbe stata capace? La gente che arriva con la nave delle banane non è gente che si può conoscere davvero, e lei era arrivata con una nave delle banane. Tuttavia la sua testa non era posata sul piano della cucina e il piano della cucina era ricoperto di formica gialla, un’idea che disgustava il signor Sweet, perché il piano della cucina dovrebbe essere bianco o di marmo o di legno grezzo ma la signora Sweet si era data un gran da fare per trovare quell’obbrobrio, la formica gialla, per ricoprire il piano della cucina e poi aveva dipinto la parete della cucina di quei colori caraibici: mango, ananas, non pesca e pesca noce: «La mia casa sembra la casa di uno che la mia cara mamma, quando mi aveva sconsigliato di sposare questa orribile strega, la mia cara mamma che aveva visto subito che non eravamo compatibili, la mia cara, cara mamma mi aveva avvertito di non mettermi con questa donna che non aveva avuto una vera educazione ma io adoravo le sue gambe, erano così lunghe che poteva avvolgermele intorno due volte senza che toccassero terra, quelle gambe che adesso sono sepolte dentro un affioramento di rocce in un posto che non potrò mai visitare; e mi piacevano tanto le sue esagerazioni, come quando vedeva dieci tulipani in un vaso e diceva di aver visto diecimila narcisi in una volta sola, che scuotevano la testa in un’allegra danza;1 a volte metteva un arcobaleno nel cielo, solo perché era una bella giornata ma lei pensava che dovesse esserlo di più e un arcobaleno era proprio quel che ci voleva, era tutto così divertente e così diverso, lei andava in tutti i posti e poi tornava e mi parlava di tutti i posti e lo sapevo che romanzava un po’, ma senza proprio mentire, solo che le cose non erano mai come le descriveva: i boschi del Connecticut non sono affatto belli, sono pieni di mosche succhiasangue che lasciano un ponfo enorme dove ti hanno punto; e io non volevo vivere in questo paesino dimenticato da Dio, dove almeno tre donne hanno lasciato il marito per un’altra donna e sono sicuro che alla fine lo farà pure lei, anche se mi dispiacerebbe per quella poveretta; non volevo vivere in un paese dove un uomo ha lasciato la moglie per diventare una donna in modo da poter sposare un’altra donna, completamente diversa dalla moglie; non volevo vivere in un posto dove sono tutti grassi e imparentati fra loro e le donne non sono affatto belle e io sono così felice di avere le mie giovani e belle studentesse, delle quali mi innamoro, non mi vergogno a dirlo, anche se non lo direi mai ad alta voce, io non alzo mai la voce, e un’altra cosa detestabile di lei è che grida, grida, grida! Io non voglio tornare a casa ogni sera da Aretha Franklin, non volevo vivere in un posto dove in gennaio la giornata finisce alle cinque del pomeriggio e in luglio alle otto di sera, e insegnare in una scuola dove l’insegnante di canto non sa cantare e gli altri insegnanti sono stupidi; odio questo posto, questo paesino, non ho mai voluto vivere qui, io ho sempre vissuto in città, dove la gente è civile e ti disapprova se fai un figlio con tua sorella o con tuo fratello, un posto dove la gente va a teatro, va a vedere film di François Truffaut, I quattrocento colpi li fa ridere tra sé, distraendoli dal fatto che in cima alla Quinta Avenue non si trova mai un taxi quando serve; è stata lei a trascinarmi qui, quella stupida strega arrivata con la nave delle banane e mia madre me lo aveva detto di non sposarla, non avevamo niente in comune allora e non abbiamo niente in comune adesso. È stata lei a trascinarmi qui, dicendo che era meglio per i bambini: l’aria è pura, l’aria è pura ma io odio l’aria pura e tutti quegli alberi, tutti quegli alberi, che perdono le foglie e poi rimettono le foglie proprio quando credevo che fossero morti, perché io amo gli alberi morti, amo gli edifici alti costruiti per sembrare di granito o di qualcosa di indistruttibile, qualcosa di eterno, qualcosa che sarà lì per sempre, una città non dorme mai, ci sono sempre persone che fanno qualcosa e non possono mai dormire e manterranno viva in me l’idea che essere vivi significa essere sempre in contatto con una cosa che non smette mai di essere se stessa, che non fa mai pause, e che mentre io dormo la faccenda della vita prosegue; ma lei no, lei ama il ciclo vitale, o così dice, anche se è un modo bruttissimo di presentare una bella idea: il ciclo vitale, ma lei è una persona orrenda, una iena e una persona orrenda, la sua esistenza mi dà la nausea, lei non si chiama Lulu, si chiama signora Sweet ma non è dolce per niente; e i bambini amerebbero l’aria pura e questi bambini, io non sapevo niente di loro, potevo volerli o non volerli, un giorno mi ha detto che ai bambini sarebbe piaciuta l’aria pura: ai bambini piacerebbe l’aria pura. Io detesto l’aria pura, già solo l’idea, l’aria pura non ha Duke Ellington e io adoro Duke Ellington, e spesso da bambino, seduto nella mia stanza da solo, immaginavo di essere Duke Ellington e di dominare imperiosamente la mia orchestra piena di ottimi musicisti ai corni e alle percussioni e poi comporre brani grandiosi che non verranno mai accolti con stima e riconosciuti per le opere geniali che sono, allora e adesso, pari a quelle di Alban Berg e Arnold Schönberg e Anton Webern, e questo mi riempie di disperazione, perché io mi vedo come Duke Ellington e mi vedo come Alban, Anton, Arnold. E nella casa di Shirley Jackson, annidata in questa prigione di paesino del New England, io adesso vivo con quella passeggera, quella equivoca passeggera di una nave delle banane, ma è una passeggera o una banana? Se era una banana, ha passato l’ispezione? Se era una passeggera, com’è arrivata qui? Mia madre aveva ragione: chiunque arrivi con una nave delle banane è sospetto; mangiare banane in gennaio è un lusso stravagante. In ogni caso, quand’ero piccolo, d’inverno facevo colazione con Rice Krispies e banana a fettine seduto ai piedi del letto dei miei genitori, e le banane non avevano nessun sapore che io ricordi, erano banane, una costante inevitabile come l’ascensore che arrivava quando schiacciavo il pulsante o come la degnazione che mia madre mostrava alla domestica; in ogni caso, la vita è una serie di fatti inevitabili; in ogni caso, un giorno mia madre morì, e mio padre era già morto, e io rimasi tutto solo».

 

 

Adesso e Allora, si disse la signora Sweet, anche se questo accadeva solo nella sua immaginazione, mentre se ne stava davanti alla finestra, ignara della rabbia e dell’odio e dell’assoluto disprezzo che il suo adorato signor Sweet nutriva per lei nel suo piccolo petto, adesso e allora, vedendo ciò che aveva di fronte, una serie di tableau. I monti Green e Anthony, il lago, il fiume, la valle che si stendeva davanti a lei, tutti sereni nella loro apparente permanenza, tutti creati da forze che non rispondevano ad alcuna entità conosciuta, rappresentavano un rifugio da quel paesaggio tormentato che formava i cinquantadue anni di vita interiore della signora Sweet. Nessuna mattina arrivava in tutta la sua purezza, la sua novità, priva di tracce di tutti i miliardi di mattine che l’avevano preceduta, senza che la signora Sweet pensasse, per prima cosa, alle acque turbolente del Mar dei Caraibi e dell’Oceano Atlantico. Pensava a quel paesaggio prima di aprire gli occhi, e i pensieri che circondavano quel paesaggio glieli facevano aprire. I suoi occhi, scuri, impenetrabili, diceva il signor Sweet guardandoli, all’inizio pronunciava la parola impenetrabili con gioia, perché credeva di scoprire qualcosa che gli era ancora sconosciuto, qualcosa che si trovava negli occhi della signora Sweet e che lo avrebbe reso libero, libero, libero da tutto ciò che lo legava, e poi maledisse quegli occhi scuri, perché non gli offrivano niente; in ogni caso lui aveva gli occhi azzurri, e la signora Sweet era indifferente a quella sua caratteristica. Ma per gli altri gli occhi della signora Sweet non erano affatto impenetrabili, e tutti quelli che la incontravano avrebbero voluto che lo fossero; perché dietro i suoi occhi c’erano scene di rivolte, tumulti, assassinii, tradimenti, per terra e per mare, dove orde e orde di persone venivano trasportate in luoghi della superficie terrestre che non avevano mai sentito e neppure immaginato, e assassino e assassinato, traditore e tradito, l’origine delle rivolte, l’istigatore dei tumulti erano tutti mescolati, come il vaglio della vera verità e l’esecuzione delle sentenze, o l’accettazione dei torti, e accettare questo, accettare e rimanere immobili mentre subite un torto vi consumerà completamente fino a ridurvi alla stregua della sostanza che forma le dune della Imperial Valley in California, o le spiagge rosa che circondano la piattaforma continentale emergente che adesso, proprio adesso, è l’isola di Barbuda, o il giardino di una casa a Montclair, nel New Jersey. Ma quei suoi occhi non erano un velo che nascondesse l’anima, una persona così concreta, così vivace, così piena di quella cosa chiamata vita non aveva bisogno di un velo, perché lei era la sua anima e la sua anima era lei; e la sua infanzia, giovinezza e mezza età, tutto di lei era intatto e completo; nulla in lei, nulla in lei era esente dalle dune o dalle spiagge delle piattaforme continentali emergenti o dai giardini del New Jersey, certo, certo, eppure quando apriva gli occhi in ognuna di quelle mattine che sembravano ignare delle mattine precedenti, il suo adesso e il suo allora erano visti nella luce umana e lei si vedeva con tenerezza e comprensione e persino amore, sì, amore, e girandosi con tutto il corpo vedeva accanto a sé il signor Sweet: i capelli diradati, persi per sempre uno alla volta, un giorno dopo l’altro, un sottile strato di forfora che gli copriva il cuoio capelluto e restava intrappolato nelle ciocche dritte come fili che gli erano rimaste, l’alito profumato dalla cena ben digerita della sera prima; ma lei non vedeva le sue delusioni: L’orchestra di Albany, Quattro quartetti, L’insegnante di musica. Gli occhi della signora Sweet vedevano molto bene la signora Sweet nella stanzetta di fianco alla cucina, dove si animava in tutti i suoi tempi, allora, adesso, di nuovo allora, e nella stanzetta di fianco alla cucina si sedeva alla scrivania che le aveva costruito Donald e appoggiava le mani su un blocco di carta per scrivere.

 

 

E un solo sguardo a lei in quella posizione, seduta umilmente come se si trovasse alla scuola morava di Points con davanti una copia del Nelson’s West Indian Readers, seduta alla scrivania che le aveva costruito Donald, le mani su un blocco di carta per scrivere, suscitò al signor Sweet un sospiro di disperazione, perché in verità chiunque, ogni persona al mondo sapeva che era lui il vero erede della posizione seduta alla scrivania in contemplazione della risma di fogli bianchi, e in uno stato di furore salì nel suo studio, situato sopra il garage della casa di Shirley Jackson, e si sedette al suo pianoforte, che non era stato fabbricato da Donald che faceva il falegname per hobby e che in quello spirito, uno spirito di amore e indifferenza verso i valori materiali, aveva fabbricato quella scrivania per la signora Sweet; il piano del signor Sweet era stato fabbricato da Steinway. E il signor Sweet toccò un tasto ma nessuno poteva sentirlo nel garage, non c’era nessuno nel garage, nessuno poteva sentirlo ma lui sentiva il rumore della lavatrice che lavava i vestiti della sua infernale famiglia, un’entità in cui non includeva se stesso: i vestiti dei figli, la tenuta da giardinaggio di sua moglie, la biancheria intima di sua moglie, la biancheria da tavola perché la signora Sweet proibiva i tovaglioli di carta, le lenzuola e le federe, i tappetini da bagno, gli strofinacci da cucina, gli asciugamani, ogni cosa doveva essere lavata e lui non aveva mai pensato alle cose da lavare, tranne quando studiava a Parigi, in Francia, e a Cambridge, nel Massachusetts, e le sue cose venivano lavate ma il fatto che venissero lavate non gli impediva di toccare i tasti del pianoforte. E adesso è così diverso da allora; e allora era una lotta e adesso quella lotta lo avrebbe portato alla morte; com’era felice, pensò fra sé, di essere solo, lontano da quella donna che poteva entrare in una stanza per conto suo e sedersi alla scrivania che le aveva fabbricato Donald, e lì pensare alla sua infanzia, all’infelicità provocata da quella ferita che alla fine sarebbe diventata il suo rimedio, dalla ferita lei aveva creato un mondo, e quel mondo che aveva creato dal proprio orrore era molto interessante, addirittura attraente. Stare lontano da lei, da questa donna che adesso è mia moglie, ma allora quando l’ho conosciuta era una ragazza magrissima, come un ramo storto di un albero isolato in attesa delle cesoie, o un’erbaccia da togliere di mezzo senza alcun ripensamento perché interferiva con qualcosa di veramente bello e prezioso; oh sì, che bello star lontano da quella donna, diceva fra sé pensando alla signora Sweet, che aveva trovato una fonte di infinita meraviglia nella morte di Homer, un uomo che aveva riparato la casa in cui vivevano, quando lo aveva visto morto e disteso nella bara, con addosso una tenuta da caccia fresca di negozio, con l’aria di essere pronto a tirarsi su da un momento all’altro per dire qualcosa che il signor Sweet non avrebbe gradito, mentre la signora Sweet lo avrebbe trovato interessante e fantastico: fantastico, le piaceva dire, e lo diceva delle cose più semplici: un arcobaleno, per esempio; tre arcobaleni, uno dopo l’altro, nello stesso momento, come disegnati da un bambino che verrebbe guardato con sospetto in qualunque cultura di qualunque parte del mondo in qualunque momento dell’esistenza umana; come se fosse la prima volta che si vedeva una cosa del genere; proprio Fantastico, lei dice, avrebbe detto, così si disse il signor Sweet nello studio sopra il garage, e lì nel garage, per fargli un favore, per risparmiargli suoni che non fossero prodotti da lui, non potevano entrare macchine. Però il signor Sweet sentiva il rumore molesto della lavatrice e dell’asciugatrice e il baccano proveniente dalla casa: il signor Pembroke sta tagliando l’erba, l’operaio della Green Oil sta riempiendo il serbatoio della caldaia a gasolio, la Blue Flame Gas riempie le bombole del gas, il tecnico dell’azienda elettrica sta leggendo il contatore, la caldaia si è appena rotta anche se ha solo cinque anni, Heracles ha la tonsillite, Persephone odia sua madre la signora Sweet, la signora Sweet adesso è identica a Charles Laughton che fa il capitano Bligh in Gli ammutinati del Bounty, una studentessa del signor Sweet vorrebbe chiedergli cosa ne pensa di Pierrot lunaire davanti a un bicchiere di Pimm’s Cup nel giardino della signora Sweet, perché la ragazza ama tanto i giardini e forse il signor Sweet ama tanto la ragazza. Ma quel rumore molesto, si disse il signor Sweet guardando fuori, proprio allora, da una finestra nel bellissimo studio che la signora Sweet aveva insistito per fargli costruire, in modo da isolarlo dai figli che potevano trovarsi in una stanza lì accanto e, già che c’erano, decidere di fare una creatura con qualche materiale comprato da Kmart che doveva ricordare l’aspetto di un essere immaginario eppure aveva qualcosa di familiare, e i figli, Persephone e Heracles, bellissimi e giovani, erano così chiassosi, così chiassosi, e lo sarebbero diventati ancora di più e il signor Sweet poteva solo augurarselo, perché se il chiasso non fosse aumentato sarebbe diventato intollerabile e avrebbe ucciso perfino lui. Sì, il signor Sweet era molto triste, perché aveva sposato e reso madre dei suoi figli una donna che amava vivere in un paesino del New England, un posto dove un uomo che andava a caccia di cervi ogni autunno della sua vita era morto mentre ne legava uno sul retro del pick-up, e tutto questo rendeva quella donna mostruosa ai suoi occhi, come se fosse uscita da una storia letta senza riflettere ai bambini per farli addormentare, bambini che non sapevano rintracciare la fonte delle loro paure: i fratelli Grimm! Oh Dio! Harold e la matita viola! Buonanotte luna! La storia di due topini cattivi! Il sarto di Gloucester! La storia di Peter Rabbit! Nel paese dei mostri selvaggi! Sì, il signor Sweet era molto triste, perché aveva sposato e reso madre dei suoi figli una donna che conosceva ogni sorta di cose ma non conosceva lui, vale a dire il signor Sweet, ma chi poteva conoscere una persona come lui, un uomo che si comportava non come un uomo, bensì come un roditore di quell’èra, il Mesozoico, in cui i primi mammiferi avevano assunto quella forma.

E allora in quella stanza situata proprio sopra il garage e malgrado i rumori infernali provenienti da quei cassoni di metallo bianco che servivano a pulire i vestiti, il signor Sweet compose i suoi notturni, perché lui amava solo i notturni, e quello lo intitolò Questo matrimonio è morto e ci mise dentro ogni sorta di rabbia, e quella rabbia era autentica e giustificata, perché guarda, vedi, fuori dalla finestra, là fuori, il giovane Heracles, allora bambino, sistemava la sua collezione di timidi Mirmidoni, regali nascosti negli Happy Meal comprati da McDonald’s, ma in realtà il cibo non gli interessava, lui voleva solo collezionare i piccoli guerrieri di plastica fatti per somigliare ai seguaci di un eroe della guerra di Troia; e adesso li stava sistemando e risistemando mentre una tempesta immaginaria piombava su di loro, sparpagliandoli nel prato verde che lui aveva trasformato in un mare immaginario, e mentre i timidi Mirmidoni tornavano ad annegare, finendo gambe all’aria, sorretti dai fili d’erba che tra poco il signor Pembroke avrebbe dovuto tagliare, il signor Sweet accompagnava quelle scene di battaglie e annegamenti con la musica del notturno Questo matrimonio è morto, anche se a volte cambiava il titolo in Questo matrimonio è morto da molto tempo. Oh, e quanti gemiti, quanto digrignar di denti e battersi il petto, quante lacrime che avrebbero potuto creare un fiume impetuoso e si sarebbe potuta costruire una barca e percorrerlo fino all’oceano, e girandosi a vedere le anse di quel fiume si sarebbe potuto dargli un nome, così pensò la signora Sweet un giorno, un giorno quando sentì per la prima volta le parole Questo matrimonio è morto, Questo matrimonio è morto da molto tempo, però non quando le sentì per la prima volta sotto forma di notturno eseguito in un auditorium, una sera d’inverno, circondata da amici e persone care, mano nella mano con il giovane Heracles, perché voleva che sentisse la musica di suo padre, perché voleva che pensasse che suo padre lo amava, perché voleva che pensasse che suo padre la amava, perché voleva decisamente troppo; quando aveva sentito per la prima volta quel notturno, aveva rivisto Dan che mandava su di giri il motore della vecchia Volvo, ferma al semaforo davanti alla cooperativa della piazza accanto a una Porsche, e l’autista della Porsche non aveva gradito il rumore della Volvo e allo scattare del verde era partito a tutta velocità e Dan e Heracles erano rimasti lì a ridergli dietro senza sapere chi fosse e senza chiedersi se li conoscesse, continuando a ridere e basta.

Ma a parte tutto questo, poiché tutto questo ha avuto il suo allora e ha il suo adesso, il signor Sweet era seduto su uno sgabello nello studio sopra il garage, con il den-den, shhh-shhh, uiii-uiii delle macchine per il bucato, e lui era lì seduto, chino sui tasti bianchi e neri di quello strumento musicale fabbricato dalla ditta di nome Steinway, le mani sospese su quei tasti, le dita tese, le dita somiglianti ai suoi antichi progenitori vissuti in quell’èra antica, e componeva notturni, notturni e ancora notturni: la sua vita non era quella che lui desiderava, non era quella che aveva immaginato anche se non aveva immaginato niente in particolare tranne che sarebbe stata principesca e in un palazzo con il portiere, e povera ma principesca e in un palazzo con il portiere, e triste perché lui adorava il balletto e Wittgenstein e l’opera ma in un palazzo con il portiere, in ogni caso doveva esserci un portiere. Ma adesso, proprio là fuori mentre guardava dalla finestra, c’era il giovane Heracles che diceva papà, papà, e adesso il giovane Heracles stava giocando a golf, immaginando di essere un campione con indosso una stupida giacca di una specifica sfumatura di verde, o un campione di questo o di quello e il signor Sweet aborriva tutto ciò che piaceva al bambino e non lo avrebbe mai e poi mai portato alla Basketball Hall of Fame di Springfield, nel Massachusetts, ma lo avrebbe portato nella casa di Dmitrij Šostakovič se fosse stata a Springfield, nel Massachusetts, e voleva che quel bambino, il giovane Heracles, morisse, e che un altro bambino prendesse il suo posto, uno che potesse stare fermo a guardare un cartone animato al cinema senza bisogno di Adderall o di qualche altro stimolante per stare fermi, e che la persona che diceva papà, papà! fosse un bambino che sapesse essere vivo anche quando era fermo; ma poi, anni dopo, adesso, adesso, adesso, il giovane Heracles, quando gli chiedevano di ricordare la devastazione della sua giovane vita da parte di quelle parole che erano diventate il titolo di una canzone, un libro, la ricetta di un pan di Spagna, le istruzioni per togliere le macchie rimaste sul vestito o sulla camicetta dopo che hai allattato il bambino, girandoti a sinistra mentre tuo marito era sicuro che dovessi girarti a destra: Questo matrimonio è morto, che a volte diventava Il matrimonio è morto, e a volte, quando viene ridotto a una canzone folk, s’intitola Il marito l’ha lasciata, quando gli chiedevano: «Dunque, giovane Heracles, la tua vita era a pezzi, ma adesso ti sembrerà un incidente, un mucchio di roba sparsa qua e là, vista dallo specchietto retrovisore»; e il giovane Heracles, senza indugio, rispondeva: «Sì, ma gli oggetti visti nello specchietto sono più vicini di quanto appaiano».

E così, senza tregua, allora e adesso, il matrimonio morto si trasformò in una creatura chiassosa e bestiale che danzava in giardino proprio sotto gli occhi del signor Sweet, seduto nella stanza sopra il garage a scrivere e riscrivere quel notturno, le braccia che sfioravano le cime dei monti Taconic a ovest, le gambe che si mescolavano liberamente con la foresta boreale a est, librandosi sui vari corsi d’acqua di nome Hudson, Battenkill, Walloomsac, Hoosic, Mettowee che scorrevano in mezzo. Il matrimonio morto occupava ogni spazio vuoto che era innocentemente scoperto nel paesino dove vivevano gli Sweet, persino all’ufficio postale, dove la direttrice guardava la signora Sweet con pietà e disprezzo prima di consegnarle l’avviso di pagamento per una bolletta arretrata; così come era vivo nell’emporio del paese, perché quando entrava la signora Sweet ogni conversazione si interrompeva, e tutti la guardavano con pietà e disprezzo e forse erano dispiaciuti di non avere una bolletta arretrata da consegnarle, e forse erano contenti di non avere una bolletta arretrata per lei, e la signora Sweet comprava un po’ del formaggio e dello yogurt fatti dalla signora Burley.

Il notturno Questo matrimonio è morto o Il matrimonio è morto da molto tempo, o la popolare canzone folk Il marito l’ha lasciata rendevano così felice il signor Sweet da farlo sentire realizzato per la prima volta nella vita; la sua vita era stata vissuta interamente, tutte le sofferenze della sua vita erano finite proprio allora, perché lui aveva sofferto molto: la vita di un principe, quando era bambino e viveva in un appartamento davanti a quella piantagione di verde appositamente progettata per New York City, Central Park, aveva sopraffatto tutto il suo essere e lui infilò la mano nella tasca della giacca di tweed, che aveva l’etichetta di J. Press, un negozio di abbigliamento da uomo all’angolo tra Madison Avenue e la Quarantaseiesima Est, e trovò un pezzo di carta, un biglietto che lesse con la sorpresa della novità e con la familiarità con cui dici a te stesso, in qualunque incarnazione ti trovi: bambino, adolescente, ventenne, trentenne, uomo di mezza età, vecchio, in un ospizio poche ore prima che il tuo cuore si fermi, sì! Racconta adesso, Racconta allora, sul biglietto non c’era scritto niente e sul biglietto c’era scritto questo: Ecco come vivere la tua vita, ed era firmato, Tuo padre.

Adesso, con in mano una matita, la signora Sweet cominciò a scrivere sulle pagine di fronte a sé:

«È vero che mia madre mi amava tantissimo, così tanto che credevo che l’amore fosse l’unica emozione e addirittura l’unica cosa esistente; allora conoscevo solo l’amore e fino all’età di sette anni rimasi un’infante e non potevo sapere che l’amore, pur essendo autentico e un parametro stabile, è più mutevole e instabile di qualunque elemento o sostanza sorga dal nucleo della terra; mia madre mi amava e io non sapevo di dover ricambiare il suo amore; non avevo mai pensato che potesse arrabbiarsi perché non ricambiavo l’amore che mi dava; accettavo l’amore che mi dava senza pensare a lei e consideravo mio diritto vivere come più mi piaceva; e allora mia madre si arrabbiò con me perché non ricambiavo il suo amore e poi si arrabbiò ancora di più perché non l’amavo affatto, perché non volevo diventare lei, ma avevo in mente di diventare me stessa; la faceva arrabbiare il fatto che avessi un io, un’entità separata che lei non avrebbe mai potuto conoscere; mi insegnò a leggere e fu molto contenta di vedere che mi veniva naturale, perché considerava la lettura un clima al quale non tutti si adattano; non sapeva che prima che lei mi insegnasse a leggere io sapevo scrivere, non sapeva che lei stessa stava scrivendo e che quando avessi saputo leggere avrei scritto di lei; voleva che morissi ma non per l’eternità, voleva che morissi alla fine del giorno per potermi partorire di nuovo al mattino; in una stanzetta della biblioteca pubblica di St. John’s, ad Antigua, mi mostrò dei libri sulla formazione della Terra, sul funzionamento dell’apparato digerente, sulle cause di alcune malattie conosciute, sulle vite di alcuni compositori di musica classica europei, sullo scopo della pastorizzazione; non ricordo di aver imparato l’alfabeto, le lettere A B e C una dopo l’altra in sequenza con tutte le altre per finire con la Z, solo adesso vedo che quelle lettere formavano parole e che le parole mi saltavano agli occhi e che poi i miei occhi le passavano alle labbra e così fra l’oscurità dei miei occhi impenetrabili e le mie labbra che hanno la forma del caos prima che gli venga imposta la tirannia dell’ordine è dove trovo me stessa, la vera me stessa ed è da lì che scrivo; ma sapevo scrivere prima di saper leggere, perché tutto ciò di cui avrei scritto era esistito prima che io imparassi a leggere e a trasferirlo in parole e a metterlo su carta, e tutto il mondo era esistito ancora prima che sapessi parlarne, era esistito ancora prima che sapessi capirlo, e a ben guardare io non so davvero scrivere perché ci sono ancora tante cose davanti a me che non so ancora leggere; non sono capace di scrivere perché non amavo mia madre allora quando lei mi amava così profondamente; quello che provavo per lei non ha un nome che io sappia ritrovare adesso; credevo che il suo amore per me e il suo io fossero una cosa sola e che quella cosa fosse mia, completamente mia, tanto che io ne facevo parte e non potevo esserne separata e così l’amore per mia madre mi era sconosciuto e così la sua rabbia nei miei confronti era incomprensibile a entrambe; mia madre mi insegnò a leggere, all’inizio leggevamo insieme e poi leggevamo separatamente ma non in conflitto, ma allora, per come la vedo adesso, solo io scrivevo; dopo che mi insegnò a leggere creai un grande scompiglio nella vita quotidiana di mia madre: le chiesi altri libri e lei non ne aveva e così mi mandò in una scuola dove sarei stata ammessa solo se avessi avuto cinque anni; ero già alta per la mia età, tre anni e mezzo, e mia madre mi disse, ora ricorda, quando ti chiederanno quanti anni hai rispondi che ne hai cinque, più e più volte mi fece ripetere che avevo cinque anni e quando la maestra mi chiese quanti anni avevo risposi che ne avevo cinque e lei mi credette; forse fu allora che presi confidenza con l’idea che saper leggere poteva cambiare la mia condizione, e scoprii che la verità può essere instabile mentre una bugia è dura e scura, perché non era una bugia dire che avevo cinque anni quando ne avevo tre e mezzo, perché tre anni e mezzo allora era adesso, e la me stessa di cinque anni allora sarebbe presto entrata nel mio adesso; la maestra si chiamava signora Tanner ed era una donna molto grossa, così grossa che non riusciva a girarsi in fretta e noi le pizzicavamo il sedere a turno, e quando si girava per vedere chi era stato prendevamo una posa innocente e lei non capiva mai chi di noi fosse stata così villana e dispettosa; e fu alla presenza della signora Tanner che arrivai a sviluppare interamente i miei due sé, allora e adesso, uniti solo dalla vista, e andò così: la signora Tanner ci stava insegnando a leggere su un libro con parole semplici e figure, ma siccome io sapevo già leggere vedevo delle cose dentro il libro che non avrei dovuto vedere; il libro parlava di un uomo che faceva l’agricoltore e si chiamava signor Joe e aveva un cane di nome signor Dan e una gatta di nome signorina Tibbs e una mucca senza nome, la mucca veniva chiamata semplicemente la mucca, e poi aveva una gallina che si chiamava Mamma Gallina e aveva dodici pulcini, undici dei quali erano normali pulcini dorati, ma il dodicesimo era più grande degli altri e aveva le piume nere e un nome, Percy; Percy era fonte di grande preoccupazione per sua madre, perché faceva sempre arrabbiare la signorina Tibbs e il signor Dan cercando di mangiargli il cibo; ma sua madre si preoccupava soprattutto quando vedeva che tentava di volare sulla stecca più alta della staccionata della fattoria; tentò e ritentò e fallì e poi un giorno ci riuscì ma solo per un istante e poi cadde e si ruppe un’ala e una zampa; il signor Joe disse: “Il pulcino Percy è caduto”. Quella frase mi piaceva allora e mi piace adesso ma allora non avevo modo di capirne il significato, potevo solo tenerla in testa, dove rimase e si trasformò nell’embrione che poi sarebbe diventato la mia immaginazione; dopo tre anni e mezzo abbondanti incontrai di nuovo Percy ma in un’altra forma; come punizione per essermi comportata male in classe, venni costretta a ricopiare i libri I e II del Paradiso perduto di John Milton e mi innamorai di Lucifero, soprattutto per come era ritratto nell’illustrazione, ritto su un piede in posa vittoriosa sopra un globo bruciato, l’altro piede alzato, le braccia spalancate come un vincitore, la spada in mano e la capigliatura folta e viva perché fatta di serpenti pronti a mordere; allora ricordai Percy e adesso conosco Percy».

1. «Ten thousand saw I at a glance / tossing their heads in sprightly dance», William Wordsworth, I Wandered Lonely as a Cloud, 1804 [N.d.T.].