2

Vedere allora il signor Sweet, un bambino piccolo in pantaloncini e camicia a maniche corte che saltellava sull’erba verde di un giardino, vendendo, come fanno i bambini, acqua insaporita con succo di limone e zucchero agli amici dei suoi genitori, vederlo seduto in poltrona ad ascoltare jazz, vederlo mentre mangiava pesche affogate nel succo d’ananas, parlava autorevolmente di essere e non essere, attraversava l’isola che era Manhattan, a quell’epoca incapace di vedere la casa in cui viveva Shirley Jackson, la casa dove lui stesso avrebbe vissuto con le fughe intrappolate nella testa, uccidendo più e più volte il giovane Heracles che ogni volta sarebbe tornato in vita; vedere il signor Sweet con i pantaloncini e la camicia a maniche corte sostituiti dal vestito di velluto a coste marrone che la signora Sweet aveva comprato allo spaccio Brooks Brothers a Manchester; non essere in grado di vedere il suo allora adesso; vedere il signor Sweet allora prima che diventasse il signor Sweet, ignaro di quel piccolo mammifero a pelo corto che prosperava nel Mesozoico; il signor Sweet che spesso si trovava sdraiato sul divano in una vecchia casa un tempo occupata da una donna che scriveva racconti e cresceva i figli e il marito l’aveva tradita e si era comportato come un verme, così documenta una sua biografia.

Con gli occhi chiusi allora, molto tempo fa adesso, ecco il signor Sweet, seduto davanti a quell’antico strumento, l’arpa, mentre lotta con quel grande triangolo e se lo stringe al piccolo petto falsamente virile; mentre lotta con un suono calante qui, con una corda allentata là; di budello al centro e metalliche sotto; i bemolle e i diesis, le tonalità maggiori e minori, i sistemi armonici, le doppie melodie, la polifonia, i monodisti, i melismi nel canto gregoriano, le forme contrappuntistiche, gli allegri, i concerti, non ancora il notturno – non quello adesso ma la ballata – oh sì, oh sì, tutto questo sommerse il signor Sweet mentre sedeva davanti al suo antico strumento, l’arpa, adorandolo e adorandolo, indebolito dalla sua santità, era così giovane, non ancora il signor Sweet eppure sempre il signor Sweet come perfino lui poteva vedere adesso allora.

Oh, ma questa è la voce del monodista, e con l’antico strumento il signor Sweet è tutto solo sul palco, hanno persino spostato il podio, l’auditorium è pieno di sedie ma non c’è pubblico, e questo piace al giovane signor Sweet, giovane e a grandezza naturale com’è allora, non vecchio e grande come una talpa com’è adesso, e suona l’antico strumento con gioia e amore e vigore terreno, tanto vigore, e rompe tutte le corde dell’antico strumento da cui adesso, proprio adesso, in questo preciso istante, non esce nessuna musica. Ma allora, allora, l’auditorium è pieno di sedie ma non ci sono persone, neanche una, e pizzicando le corde dell’antico strumento, le corde fatte di budello e metallo, il signor Sweet suona una canzone, perché non è ancora un teorico e suona una canzone, una canzone completa piena di armonie e melodie così semplici che chiunque potrebbe cantarla, persino Heracles dopo che il signor Sweet lo ha decapitato potrebbe cantare quella canzone. La decapitazione di Heracles era il titolo che il signor Sweet dava a tutta la musica che suonava allora sull’antico strumento, Una dolce notte per Heracles è il nome che il signor Sweet dà alla musica che suona sull’antico strumento Adesso. E alla fine di ogni suite o sonata, perché il giovane signor Sweet suonava tutti i generi nello stesso modo, visto che non c’era un pubblico a fare distinzioni e le sedie erano indifferenti, si sentiva un silenzio assordante, applausi sì, ma comunque silenzio. Allora il signor Sweet si sentiva un immortale di fronte alle sedie vuote, invece era un ragazzo con tutte quelle cose che gli martellavano in testa, note e note musicali, che si disponevano in ogni forma conosciuta ma mai in forme non ancora conosciute.

Oh, e questa è la parola che sentì la signora Sweet, quella povera cara donna, mentre rammendava le calze al piano di sopra. Oh, era la voce del monodista, il suo povero caro signor Sweet. Bam, è il rumore che produsse Heracles quando fece un putt, un canestro e un punto e tuttavia era sotto il par o sopra il par, la signora Sweet non ne era mai sicura. La testa del bambino, priva del corpo con le sue viscere, occupava tutte le sedie vuote nell’auditorium del recital giovanile del signor Sweet. Quella no, quella no, gridava il giovane signor Sweet mentre liberava le sedie. Le corde dell’arpa, budello e metallo, si ruppero e lui si fece in quattro per riparare lo strumento, che era così antico. La casa di Shirley Jackson gli era sconosciuta, allora. Non immaginava certo, allora – la sua giovinezza era il suo adesso –, che avrebbe vissuto in una casa come quella, così grande, così piena di spazi vuoti che non venivano mai usati, mai riempiti neppure nell’immaginazione, il giovane Heracles con il suo incessante compito di colpire palle, grandi e piccole, per cacciarle dentro buchi di tutte le dimensioni; il giovane Heracles, che cresceva in giovinezza e non in età, cresceva nella sua giovinezza, diventando più perfettamente giovane, con i suoi numerosi compiti da svolgere che svolgeva sempre più perfettamente, all’inizio in modo sgraziato, niente affatto giusto, ma poi diventando così bravo che poteva infilare qualsiasi palla di qualsiasi dimensione dentro qualsiasi buco, non importa quanto largo, profondo o alto. Pam, era il rumore prodotto dal rapido movimento della mano di Heracles che scagliava una palla nell’aria vibrante; zac, era il rumore della sua testa mozzata dal corpo. Oh, è il suono che uscì dalla bocca del monodista, il signor Sweet, il signor Sweet, quando vide Heracles raccogliere la testa da terra e rimettersela sul collo, proprio sopra le spalle, con tanta destrezza che sembrava nato per fare solo quello, tenersi la testa proprio sopra le spalle.

Il giovane Heracles, i suoi compiti così numerosi, così numerosi: lavare i piatti, metterli a posto, pulire la stalla, far muovere i cavalli, aggiustare il tetto, mungere le mucche, uscire dal grembo di sua madre nel solito modo, uccidere il mostro, attraversare il fiume, tornare indietro, scalare la montagna, scendere dall’altra parte, costruire un castello in cima a una collina, imprigionare l’innocente in un sotterraneo, devastare interi villaggi sorprendendo gli abitanti, intrappolare e poi scuoiare la volpe femmina, mangiare le verdure e anche la carne, uccidere suo padre, non uccidere suo padre, desiderare di uccidere suo padre ma non uccidere suo padre, tenere la testa sulle spalle, sopravvivere alla soglia della notte, aspettare l’alba, prendere a picconate le iridi (i suoi occhi, non i fiori nel giardino di sua madre), conquistare il sole, esiliare la luna, la pelle sempre fredda, il fuoco alle sue spalle, attraversare la strada da solo, allacciarsi le scarpe, baciare una bambina, dormire nel proprio letto. Ah, accidenti, papà, disse Heracles, mentre correva a prendere un bicchier d’acqua dal lavandino della cucina per placare la sete implacabile che gli era venuta dopo uno dei suoi tanti viaggi, Scusa, Scusa. Heracles allora si era scontrato con il signor Sweet, colpendolo dritto sulla testa, facendogli uscire stelline dalle orecchie, dalle narici e dagli occhi e mandandolo in coma, e quando il signor Sweet uscì dal coma, molti anni dopo, per prima cosa gli tagliò di nuovo la testa. Ma quell’Heracles, dotato di un istinto di sopravvivenza che non lo avrebbe mai e poi mai abbandonato, raccolse la testa e la rimise al suo posto, dove si trova ancora oggi, sulla protuberanza sopra le spalle.

Oh, è il suono dell’aspro sospiro sfuggito violentemente dalla prigione che erano le labbra del signor Sweet, sdraiato nello studio sopra il garage nella casa di Shirley Jackson. E se ne stava sdraiato su un divano marrone, immobile, come morto, ma non era morto, odiava solo essere vivo, con quella moglie, che adesso, adesso, sferruzzava furiosamente, persino con vigore: il suo cuore batteva forte per la fatica, più forte e più forte e poi ancora più forte. Oh, il suo cuore batteva così pericolosamente forte che batté fino quasi a uccidersi, ma la signora Sweet disse gggggrrrrgghhhh, il suono di sangue e ossigeno combinati che raggiungevano simultaneamente la gola. Che cavolo e oh merda, disse la signora Sweet, e con quale sorpresa sentì quelle parole catapultarsi intorno alla sua testa, perché quelle non erano parole sue, erano le parole di Heracles, Heracles parlava in quel modo quando credeva che nessuno lo sentisse. Ma questo (che cavolo, oh merda) era la reazione a: i bambini – vale a dire Heracles e Persephone – non si alzeranno in tempo per prendere lo scuolabus, il tecnico che ripara gli elettrodomestici non verrà all’ora concordata, pioverà quando dovrebbe esserci il sole, la frutta marcirà sulle piante, il signor Sweet non uscirà dallo studio sopra il garage come signor Sweet, uscirà dallo studio sopra il garage dentro una bara rivestita di velluto color malva, a imitazione di un portagioie, il signor Sweet sarà morto. Quest’ultimo fatto, il signor Sweet morto: se il signor Sweet morisse cosa succederebbe alla signora Sweet, chi diventerebbe? La signora Sweet era una sferruzzatrice e una rammendatrice di calze, e faceva queste cose perché nel frattempo poteva delineare e sezionare e poi esaminare il mondo per come lo conosceva, per come lo capiva, per come lo immaginava, per come le appariva nell’esistenza quotidiana.

Per tutto quel giorno, per tutta quella notte, mentre la cosa chiamata tempo si ripiegava su se stessa, la signora Sweet fece calze e in quel modo segnò il tempo, e in quel modo scoprì le cose che non le erano ancora entrate nella mente. Rammendava e sferruzzava calze, chiudendo i buchi, a volte con cuciture normali, a volte coprendo i buchi con un Babbo Natale e un abete rossi e verdi, che alla fine disfaceva per coprire i buchi con stelle a sei punte e rotoli biblici in bianco e azzurro. Il signor Sweet li odiava, ah, quanto li odiava, le stelle a sei punte e i rotoli biblici in bianco e azzurro, gli bastava vederli per giurare che si sarebbe convertito al cattolicesimo in extremis, qualunque cosa volesse dire, pensava la signora Sweet, perché lei amava il signor Sweet e considerava sempre le sue contraddizioni una fonte di divertimento, qualunque cosa fosse un cattolico in extremis. Ma la signora Sweet amava il signor Sweet senza paraocchi.

E fu così che un giorno, di punto in bianco, adesso, per esser precisi, il signor Sweet le disse, tu hai detto cose orribili a me e a Heracles e a Persephone e alle altre persone che non sono ancora nate da te e da me. Sentendo questo la signora Sweet pianse e pianse, non volendo credere di essere il tipo di signora Sweet capace di dire cose che non fossero gentili e dolci, e poi tacque. Vedendo lo spesso manto di feltro nero che era la sua pelle, perché a quel punto la signora Sweet riusciva ogni tanto a essere se stessa, il signor Sweet le augurò di morire ma lei era così viva, quando rammendava per bene i buchi nelle calze, coprendoli a volte con motivi che a lui non piacevano, motivi che detestava; era così viva, quando scendeva le scale dopo aver rammendato le calze, le spalle ben aperte e alte, dritte, come se non avessero mai conosciuto carichi e pesi di nessun tipo, no, proprio nessuno.

Mi hai detto cose orribili, disse il signor Sweet alla signora Sweet che stava varcando la soglia della loro casa, quella in cui aveva vissuto Shirley Jackson, e quelle parole erano nuove alle orecchie della signora Sweet, che rientrava proprio allora dalla sinagoga per condividere con lui una perla di saggezza perfetta per gli Sweet. Il rabbino aveva parlato alla signora Sweet di un’interpretazione della Bibbia. Il rabbino aveva parlato di una visione in cui era stato rivelato che tutti i mattoni fabbricati dagli schiavi che avevano costruito l’antica civiltà egizia contenevano un bambino. Dentro ogni mattone c’era un bambino intero, e il bambino strillava. Dentro ogni mattone stava rannicchiato un bambino perfetto, se ne stava lì senza essere né morto né vivo, rifletteva la signora Sweet mentre rammendava le calze di sopra, a un altro piano rispetto allo studio, e mentre rammendava le calze non pensava a cosa c’era imprigionato in ogni punto, perché ogni punto era una piccola cosa a sé che avrebbe formato un intero. Diventerò cattolico in extremis, le disse il signor Sweet, e con un tale odio, pensò allora la signora Sweet, non sapendo però se diretto contro il bambino che si trovava nell’antico mattone o contro un sacerdote. Diventerò cattolico in extremis, e mentre il mondo girava, continuando per le sue vie misteriose, misteriose per qualsiasi essere umano che volesse capire qual era il posto che le spettava (nel caso della signora Sweet) o gli spettava (nel caso del signor Sweet), ma non ancora a Heracles (era un bambino) o a Persephone (era una bambina), la signora Sweet rigirava fra sé quelle parole.

Il signor Sweet non odiava il rabbino e non odiava i cattolici, così pensò la signora Sweet. Il signor Sweet non odia il rabbino e non odia i cattolici però odia me, non è questo che pensò la signora Sweet. Il mento le scese fin sotto i seni e poi ritornò alla sua posizione naturale, che alla sua età era al livello delle clavicole. Com’era snervante il signor Sweet con le sue sfuriate che lei prendeva tanto sul serio, pensò la signora Sweet, d’altronde nessuno le prendeva più sul serio, nessuno, Meg e Rob – per esempio – trovavano snervanti le sfuriate, i cambiamenti d’umore, l’iracondia dei loro compagni. Heracles chiese a sua madre, vale a dire alla signora Sweet, di preparargli un pasto, una colazione, una cena o una via di mezzo, e lei si offese e litigò con lui, e il risultato fu una grande calma, addirittura silenzio, e la calma e il silenzio erano pieni di molte parole.

Sentite allora il giovane Heracles, ancora ignaro dei concetti di onore e gloria: papà, disse, mi porti al bowling? Ma il signor Sweet vedeva la sala da bowling, dentro c’erano persone che avevano mangiato più del necessario e lo consideravano motivo di vanto, e parlavano ad alta voce e sarebbero morte di malattie curabili, non sarebbero mai morte per cause naturali, ma quali potevano essere queste cause, morire è naturale. Ma col tempo verrà una serie di eventi impregnati di sensazioni e odori e del modo in cui qualcuno li ricorda e del modo in cui una cosa, qualunque cosa, viene percepita, e di suoni e di qualcuno che sperimenta la relazione tra suono e tempo e persino spazio... oh, oh! Oh, oh, disse il signor Sweet, dobbiamo proprio, dobbiamo proprio, e vedeva tutta la gente nella sala da bowling, che lanciava palle da bowling in modo preciso ricavandone soddisfazione, e lanciava palle da bowling con noncuranza ricavandone altrettanta soddisfazione, e lui odiava quella gente, perché nessuno di loro conosceva gli adagi e i si bemolle e le sinfonie e i boogie-woogie e tutto il resto, conoscevano solo la gioia della palla di legno che abbatte i birilli di legno in fondo alla pista. Papà, mi porti al bowling, disse Heracles al signor Sweet e il signor Sweet disse sì, così ti lancio fuori dall’esistenza, ma Heracles era corso alla macchina, una vecchia Golf con la quale sarebbero andati al bowling, e non sentì suo padre pronunciare quelle parole. Subito prima di entrare nella sala, il signor Sweet cadde e si ruppe l’osso del mignolo della mano destra e così per un breve periodo non poté suonare al pianoforte una melodia scritta da un tedesco di metà dell’Ottocento, e la signora Sweet non si scompose. Li amava tantissimo entrambi, il giovane Heracles e suo marito il signor Sweet con l’abito di velluto a coste marrone che gli fasciava il corpo così stretto che sembrava uno dei primi mammiferi.

La signora Sweet era la madre di Heracles e questo era un fatto naturale e certo come la rotazione quotidiana della Terra. La signora Sweet amava il giovane Heracles, lo amava tanto e prestava particolare attenzione a tutte le sue necessità e assecondava tutti i suoi numerosi e divertenti capricci: vedere le macchine che rimuovono la neve – gli spartineve – ferme nel garage municipale dove venivano ricoverate quando le lame giganti non spingevano da parte gli alti cumuli di neve. Heracles adorava quello spettacolo, chilometri e chilometri di strada coperti di neve e gli spartineve che la sgomberavano, creando un varco. Adorava anche vedere la costruzione di alti edifici con macchinari che cigolavano così forte da impedirgli di sentire la signora Sweet che gli diceva quanto gli voleva bene. E gli piaceva indossare solo indumenti caldi e la signora Sweet faceva splendere il sole per scaldargli i vestiti, oppure li scaldava nell’asciugatrice. A Heracles piaceva indossare vestiti caldi e la signora Sweet glieli scaldava. Ma era Heracles a comportarsi in modo naturale con la signora Sweet, non il contrario. Heracles disprezzava la signora Sweet e questo era giusto, perché il debole non deve mai aver soggezione del forte.

La signora Sweet si agitava e si preoccupava ed era ansiosa al pensiero di come sarebbe stata la vita di Heracles. E se fosse uscito dal giardino per inseguire una di quelle palle, da golf, da pallacanestro, da baseball, da football, che lanciava violentemente in aria per gioco? Il giardino della casa di Shirley Jackson aveva un confine. Quel confine erano le stagioni: inverno, primavera, estate e autunno. Ma indipendentemente dalla stagione e dal tempo, Heracles giocava con le palle, la signora Sweet rammendava e faceva le calze, il signor Sweet se ne stava sdraiato sul divano nello studio buio.

Heracles adesso si china a raccogliere il suo timido Mirmidone, un regalo che ha trovato nell’Happy Meal che la signora Sweet gli ha comprato da McDonald’s. I timidi Mirmidoni, pupazzetti di plastica verde rossa e blu, erano timidi; si stringevano lo scudo al petto e tenevano la lancia alzata, sempre pronti a menar colpi e a infliggere dolore e morte immaginaria. Quando aveva quattro, cinque e sei anni, Heracles li schierava gli uni contro gli altri sulle scale davanti alla sua camera, campi di battaglia, e quei pupazzetti di plastica abbattevano fantasmi, fantasmi coraggiosi, ancora e ancora, e poi si riposavano dalla stanchezza della battaglia, e allora l’ignaro e innocente signor Sweet calpestava le loro sagome abbandonate e certe volte a causa di quell’incontro rischiava di rompersi l’osso del collo rotolando giù dalle scale. Merda, diceva e poi si guardava subito intorno, gli occhi che saettavano da una parte all’altra come se fossero controllati da un congegno meccanico, il piccolo bastardo, il piccolo stronzo. Ma sua madre lo adorava e lo portava da McDonald’s a comprare gli Happy Meal, anche quando lei era infelice e non sapeva di esserlo, perché la felicità era l’ambito di Heracles e di suo padre e di sua figlia la bellissima Persephone e dei timidi Mirmidoni, di plastica o no, e di qualsiasi altra cosa saltasse fuori nella casa di Shirley Jackson. Heracles allora si china a raccogliere un timido Mirmidone, perché Allora è lo stesso di Adesso, e Allora di tanto in tanto diventa Adesso.

I timidi Mirmidoni venivano talvolta schierati, disposti in formazione, pronti a attaccare e sconfiggere un gruppo di nemici, invisibili a Heracles ma anche ai timidi Mirmidoni e così tutto andava in quel modo, un modo che piaceva a Heracles adesso, allora, allora o adesso, essendo piacere o fardello la medesima cosa. Altre volte i timidi Mirmidoni venivano divisi, sparsi qua e là: sul pavimento della camera dove Heracles dormiva tutto solo; nella cesta dei panni sporchi, salvati da un giro in lavatrice dall’intervento della signora Sweet; sulle scale che il signor Sweet scese poco dopo essersi alzato dal letto un bel mattino, scivolando e rompendosi una vertebra. La vertebra guarì ma il signor Sweet no. Heracles disse scusa papà, come diceva sempre, e per lui chiedere scusa era una cosa normale come l’ossigeno. Piegarsi a dire scusa papà, e piegarsi a ogni cosa che succedeva adesso, che alla fine sarebbe diventato Allora, a tutto quello su cui aveva una forte opinione ma le forti opinioni si dovevano affrontare allora, non adesso, mai adesso.

Però i tanti timidi Mirmidoni, risultato di tante visite da MacDonald’s per comprare tanti Happy Meal, vennero schierati e ingaggiarono battaglia contro qualche nemico immaginario e naturalmente trionfarono, ancora e ancora, naturalmente trionfarono, e il campo di battaglia immaginario si coprì di sangue, sangue puro, così abbondante da coprire tutto; così pensò Heracles, così si disse, così anche immaginò. I timidi Mirmidoni sono invincibili, è un’altra cosa che disse, o immaginò. E poi si addormentò. Svegliati, svegliati, gli gridò sua sorella, perché Heracles aveva una sorella con i capelli ricci. Svegliati, gli gridò sua sorella, nella tua culla c’è un serpente a nove teste. E allora il giovanissimo Heracles fece una capriola, e piazzandosi davanti al serpente mostrò la lingua a tutte quelle teste; senza troppa fatica strappò le teste e se le buttò dietro le spalle, tutte e nove, sul pavimento della cucina appena pulita della signora Sweet. Oh Dio, si disse la signora Sweet, quel bambino non ne fa una giusta, che pasticcio ha combinato adesso. E raccolse le nove teste di serpente e le mise in un sacchetto, pulì il pavimento e chiese al signor Sweet di portar fuori la spazzatura.

Ma il signor Sweet era nel suo studio sopra il garage, dove voleva sempre stare, non era la casa dei funerali però lui era in lutto e stava facendo il funerale alla sua vita, quella che non aveva mai vissuto, e la voce della signora Sweet che lo chiamava interruppe il suo lutto, lei non faceva altro che interrompere, la sua vita o la sua morte, non faceva altro che interrompere. Lo studio era buio, allora, adesso, ma non completamente, ogni cosa era ben visibile ma come ombra di se stessa. Al signor Sweet piaceva molto che ogni cosa fosse l’ombra di se stessa. Ma c’era quella voce della signora Sweet, non l’ombra di una voce, non era capace di sussurrare, di comunicare le sue emozioni più profonde con uno sguardo, o semplicemente di smettere di respirare, di smettere e basta, basta, basta, adesso. Signor Sweet, urlava a squarciagola, più forte di un banditore, più forte dell’avviso di una catastrofe incombente, com’era chiassosa la signora Sweet, com’era chiassosa. Signor Sweet, potresti per favore portar fuori la spazzatura? Flaap. Flaap, fecero i piedi del signor Sweet dentro a un paio di pantofole di flanella mentre li trascinava sul pavimento e la sua rabbia era così grande che quasi riportò in vita il serpente a nove teste. In ogni caso la sua rabbia era tale che gli squarciò il petto e gli fece esplodere il cuore ma la signora Sweet, abituata a rammendare calze, si applicò a quel compito e ben presto rimise a posto il signor Sweet, il cuore tutto intero dentro il petto rammendato.

Quel piccolo idiota per poco non mi ammazzava di nuovo, si disse il signor Sweet, e non è l’ultima volta, si disse ancora, e ripensò a quella volta, non molto tempo prima, in cui stava scendendo le scale e Heracles stava salendo le stesse scale e si incrociarono a metà e accidentalmente si scontrarono e accidentalmente Heracles, per mantenersi in equilibrio dopo lo scontro, afferrò i testicoli del signor Sweet e li gettò via e li gettò con tanta forza che andarono a finire nell’Oceano Atlantico, che si trovava Allora e si trova Adesso a centinaia di chilometri di distanza. I testicoli allora caddero in quel grande corpo d’acqua ma non produssero tifoni, onde di maremoto, uragani, eruzioni vulcaniche, smottamenti inaspettati di proporzioni incredibili né alcun’altra cosa degna di nota; caddero e basta e caddero in silenzio nella parte più profonda di quel corpo d’acqua e non si sentirono più nominare.

Oh, il silenzio che calò sulla famiglia, sulla famiglia Sweet, che viveva nella casa di Shirley Jackson: sul povero Heracles, che si fermò a lungo in cima a quelle scale; sulla sorella, che si raggomitolò nel letto e si addormentò come un seme di fagiolo piantato nel suolo fertile di un orto ben curato; il signor Sweet tolse le dita dalle corde della lira; sulla cara signora Sweet, che s’irrigidì nel suo rammendo, nel lavoro a maglia, l’ago da cucito in mano, i ferri da calza sul punto di infilzare il calcagno di qualche lavoro, sul punto di completare qualche lavoro. E allora, ricomponendosi ed esaminando quello che aveva davanti, la signora Sweet passò in rassegna le numerose paia di calze che aveva rammendato tante volte, e prendendone un paio ne ricavò due nuovi organi per il suo amato signor Sweet, riuscendo a renderli identici ai due testicoli interi che gli erano appartenuti ed erano stati distrutti accidentalmente da suo figlio, il giovane Heracles. E quando il signor Sweet cadde in un dolce sonno di disperazione perché non sapeva cosa fare per i suoi testicoli perduti, la signora Sweet cucì al loro posto le calze rammendate, i calcagni che imitavano la vulnerabile sacca di liquido e materia solida che erano stati i testicoli del signor Sweet.

Allora, oh sì allora, le belle mani brune della bella e cara signora Sweet erano diventate tristemente bianche, tutte ossute e secche. Il resto del corpo rimaneva di un bel bruno, un bruno che brillava e scintillava, un bruno che era solo suo, nessun’altra signora Sweet poteva avere quel bruno, così brillante, così scintillante, così ardente che a volte la faceva assomigliare a una forma segreta di comunicazione, un puntino di luce che le colpiva l’estremità dell’orecchio poteva significare qualcosa, poteva essere un segnale che bisognava mettere in moto enormi cambiamenti; o la luce del mattino che entrava brevemente dalla finestra sopra il lavandino della cucina, e per un momento atterrava sulla superficie piatta che era la punta del naso piatto della signora Sweet, la quale stava prendendo l’acqua per il caffè della colazione; la luce allora avrebbe creato uno sprazzo così intenso da potersi considerare un avviso di cataclismi incombenti. Ma la triste bianchezza delle mani ossute e secche non interessava alla signora Sweet, perché si armonizzava bene con le calze logore che andavano costantemente rammendate. Così la signora Sweet proseguì, da allora ad adesso per poi tornare indietro.

Allora venne il momento, di punto in bianco, in cui il signor Sweet scoprì la propria rabbia, perché dovette affrontare un fatto inevitabile, Heracles in un anno era cresciuto di quindici centimetri, e se non avesse smesso subito sarebbe presto diventato molto più alto del signor Sweet. Il signor Sweet ardeva di rabbia silenziosa nello studio senza sole sopra il garage. Per commemorare queste sensazioni, il suo isolamento, la sua solitudine, il suo lutto eterno, il signor Sweet scrisse una fuga per un’orchestra formata da cento lire. «Ecco,» disse alla signora Sweet porgendole l’intera partitura, di ben cento pagine «non ti sembra originale, non ti sembra una cosa che nessuno ha mai fatto?». E la signora Sweet, cara e dolce com’era, sapeva e quindi non aveva bisogno di sentirsi dire che non sapeva niente di musica, e si chiese dove avrebbe trovato, nei dintorni della casa di Shirley Jackson, cento musicisti specializzati in lira. In lira! Mentre sedeva alla scrivania che le aveva fabbricato Donald, una cavalletta verde riuscì a entrare nel suo rifugio e lei desiderò immediatamente che fosse una tartaruga, ma la cavalletta non lo diventò e strofinò insieme le zampe posteriori, e la signora Sweet trasalì allo stridio che seguì. Criiiii!

Le molte pagine della partitura del signor Sweet erano così pesanti che la signora Sweet si curvò sotto quel fardello. Cosa fare? Cosa doveva fare? La signora Sweet perlustrò i paesini e le frazioni circostanti, guardando dentro chiese e sinagoghe e rifugi per senzatetto, e poi chiese consiglio a capifamiglia e a vagabondi finché, dopo anni e anni, mise insieme cento illustri musicisti specializzati in lira. Si riunirono e formarono una folla nella piccola zona verde di fianco alla casa in cui Shirley Jackson aveva vissuto per un po’. Ma allora il signor Sweet si buscò un raffreddore e gli si bloccarono anche le spalle e la gola gli diventò rossa e infiammata e gli vennero i piedi piatti e fu sopraffatto da una grande paura degli spazi aperti.

I timidi Mirmidoni erano schierati fianco a fianco, i capelli di plastica gialla svolazzanti nella stessa direzione delle tuniche di plastica verde, lontano dal corpo, dando un’illusione di movimento incessante e rapido. Di fronte a loro c’erano le legioni di uomini di plastica che indossavano gusci di tartaruga e brandivano spade pronte a colpire i timidi Mirmidoni. Anche le legioni di uomini di plastica che indossavano gusci di tartaruga e brandivano spade erano arrivati in omaggio con gli Happy Meal che Heracles non mangiava mai, era solo appassionato delle cose che ci trovava dentro: timidi Mirmidoni, uomini con indosso gusci di tartaruga, o a volte con un mantello sulle spalle, cavalli alati, uccelli dai piedi d’uomo. Adesso i timidi Mirmidoni attaccarono le legioni di uomini con indosso il guscio di tartaruga e c’era sangue dappertutto mischiato a ossa e gusci e altri tipi di materia corporea, e in mezzo a tutte le urla immaginarie e alle grida di dolore immaginario c’era il suono del signor Sweet che rivedeva e riscriveva parti della fuga, le note dolci che diventavano amare, quelle amare che lo diventavano ancora di più. Sovrastando il sangue, le ossa e gli altri tipi di materia corporea (perché era molto alto, il giovane Heracles), il giovane Heracles ruotò su un tallone, l’altro piede perfettamente arcuato a mezz’aria per mantenere l’equilibrio, e scoppiò in una grande e sonora risata che si propagò in tutta la valle e si fermò a ridosso della montagna che si ergeva sopra quella stessa valle e tornò indietro verso Heracles e la vecchia casa di Shirley Jackson ma non prima di aver sfiorato il cimitero ebraico dove erano sepolti i suoi progenitori e il campo da golf e il Powers Market e il Paper Mill Bridge.

Heracles, Heracles, si disse la signora Sweet, ma anche se nessuno la sentiva, per lei allora il suono del suo nome era come se si fosse trovata in una stanzetta con tutti i sensi bloccati, dove solo il nome, Heracles, riempiva quel tempo allora e quello spazio adesso. Spesso il nome di suo figlio le lasciava quella sensazione, quel nome e anche lui occupavano, riempivano tutto, tempo o spazio, spazio o tempo, uno o l’altro. Quel nome allora approfondiva la leggera ruga sulla fronte della signora Sweet ma l’approfondimento era visibile solo con l’aiuto di un microscopio. E il signor Sweet, sentendo quella grande e sonora risata, augurava a suo figlio un bel viaggio fino ai confini dell’universo a bordo di una capsula spaziale difettosa; quanto gli sarebbe piaciuto vedere la faccia di Heracles dopo un viaggio così.

Ma allora: cento lire, cento musicisti per suonarle, pensò la signora Sweet e si mise all’opera per fabbricare gli strumenti e i musicisti. La sua concentrazione era ferrea, la sua devozione indiscutibile, il suo amore infinito. La cara signora Sweet amava tanto il signor Sweet e così amava anche tutto quello che lui produceva, fughe, concerti, brani corali, suite e variazioni. Ma un milione di lire e i musicisti per suonarle! La signora Sweet si diede da fare. Seminò campi e campi di cotone e canna da zucchero e indaco e spedì molte famiglie nelle miniere di sale. La signora Sweet portò i suoi prodotti al mercato come colture da reddito, beni industriali, manodopera grezza, e ne ricavò guadagni fuori dall’ordinario con i quali fabbricò lire e persone che sapevano suonarle e poi costruì una sala da concerto, una sala da concerto così grande che per visitarla tutta occorreva il fanatismo di un pellegrino. Il giorno in cui la signora Sweet raccolse le lire e le persone che sapevano suonarle nella grande sala da concerto nella quale finalmente sarebbe stata eseguita l’elaborata e complicata e unica e rivoluzionaria fuga del signor Sweet, i tendini del tallone del signor Sweet si infiammarono. Ed era verissimo, i suoi tendini erano infiammati e gli facevano molto male, e come se non bastasse gli venne una gran rabbia nel vedere che la cara signora Sweet aveva reso possibile la sua impossibile pretesa. In quell’atmosfera pervasa dalle doti della signora Sweet, così magiche, il signor Sweet si rafforzò, ma nel risentimento e nell’odio, non nell’amore, non nella gratitudine.

Non ho vissuto una vita da studioso, disse il signor Sweet, ancora sofferente per gli insulti che gli aveva lanciato la signora Sweet, soprattutto quello recente con la sala da concerto e i cento musicisti; gli aveva chiesto di chiudere la porta del garage, lavare i piatti, pulire il piano della cucina, risciacquare il lavello, portar fuori la spazzatura, non ho vissuto una vita da studioso, è vero, disse il signor Sweet, però non tocca a me occuparmi di queste cose, non posso fare queste cose.

E il signor Sweet si adagiò sulla poltrona nel suo studio sopra il garage, la poltrona con le gambe che terminavano come due grandi zampe di gatto. Dalle finestre chiuse entrarono un forte schiocco e un ruggito. Heracles aveva liberato dalla gabbia il suo branco di leoni. Una scarica d’odio attraversò rapidamente il corpo del signor Sweet ma non rischiò di distruggerlo, e così il signor Sweet si calmò e guardò in su. Sopra di lui c’era il soffitto a cupola dipinto di celeste, che si perdeva nell’infinito a fissarlo troppo a lungo. Qua e là comparvero luci fioche, e poi brillarono luminose le costellazioni a partire da Orione, l’Orsa Maggiore, l’Orsa Minore, il Gran Carro, il Piccolo Carro, l’arco fino ad Arturo, il Cane Maggiore e Minore, Castore e Polluce, e così via, in continua espansione verso il margine della notte. Piramidi di pensieri e sensazioni perseguitavano il caro uomo adesso che se ne stava piacevolmente adagiato in poltrona: le adorate pantofole di flanella che gli aveva regalato sua madre per il suo dodicesimo compleanno avevano le suole bucate e non si potevano riparare e neppure sostituire con altre pantofole dello stesso tipo perché non le facevano più. Il signor Sweet poteva ancora indossare quelle pantofole anche adesso che era un uomo di mezza età, da quando aveva compiuto dodici anni non era cresciuto di un centimetro. Il mondo era freddo e incurante della sua povera anima. Il cielo lassù, anche se era solo il soffitto celeste dello studio sopra il garage, era immenso e continuava a espandersi, liscio e anche increspato, contenente paradisi e anche rifugi, spazi che pulsavano come un’importante arteria in un corpo ma senza averne l’importanza e la responsabilità, spazi in cui l’esperienza quotidiana non poteva fermarsi. Il margine sottile della notte, non ancora scuro, incorniciava il celeste. Il margine sottile della notte lascerà il posto a un’inesorabile oscurità ma il signor Sweet in quel momento lo teneva, il margine sottile della notte, non troppo vicino a sé. Il margine sottile della notte è una metafora, scriverò una sinfonia, una velata allusione, il margine sottile della notte è una metafora, disse il signor Sweet a se stesso, e solo a se stesso. Nel frattempo il punto fisso nel soffitto celeste continuava a espandersi nella mente del signor Sweet, come sotto l’effetto di una sostanza alterante o come se si fosse imposto di vederlo in quel modo. L’universo, o almeno questo sembrava al signor Sweet o a chiunque altro, e per chiunque altro lui intendeva la signora Sweet, il giovane Heracles e la sorella dai riccioli lucenti, mentre se ne stava a guardare all’insù; il margine sottile della notte continuò a espandersi e discese su di lui e poi lo inghiottì, e lì dentro il signor Sweet dormì e dormì e dormì e dormì!

Il battaglione di timidi Mirmidoni era sparpagliato per tutto il giardino e nelle aiuole fiorite della signora Sweet, alcuni a faccia in giù, altri a faccia in su. Heracles li sovrastava, nella mano destra un ramo di abete caduto e secco. Uuuh! Eeeea! Aaah! Iiii-ahh! Una serie di suoni gli usciva di bocca, a volte rabbiosi, a volte no. Si chinò a riordinare il battaglione di timidi Mirmidoni. Alcuni erano dispersi; alcuni si erano impigliati nelle radici dell’ibisco della signora Sweet costringendo le radici a curvarsi, ad avvitarsi su se stesse aggrovigliandosi ferocemente fino a morire. Ma il caro e dolce Heracles non lo sapeva, come avrebbe potuto, la signora Sweet era sua madre, sua madre era la moglie del signor Sweet, il signor Sweet era suo padre, Heracles era il figlio del
signor Sweet. Il caro figlio del signor Sweet abbassò lo sguardo sul battaglione di timidi Mirmidoni, giacevano tutti ai suoi piedi e alcuni si erano impigliati nelle radici degli ibischi della varietà «Lord Baltimore», della varietà «Anne Arundel», della varietà «Lady Baltimore», che crescevano tutte nel giardino della signora Sweet. Le formiche camminavano sui timidi Mirmidoni mentre svolgevano le loro faccende di formiche; le api volavano dentro e fuori dai fiori carichi di polline dell’ibisco nel giardino della signora Sweet, imitate da un colibrì. E Heracles raccolse i timidi Mirmidoni e li ripose in una grande scatola nera e li mise da parte per un po’, per un bel po’.