Un giorno al crepuscolo nacque il giovane Heracles, e il signor Sweet, che allora sembrava alto come un giovane principe dell’epoca Tudor, sorrise a suo figlio e lo baciò sulle guance, e poi gli tagliò il cordone ombelicale. Guardò il neonato, timoroso di stringerlo a sé perché aveva un fortissimo desiderio di lasciarlo cadere, di vederlo piombare a terra, il corpo intatto eccetto la testa, il cervello sparso sul pavimento della sala parto che si trovava nell’ospedale di una cittadina non lontana dalla casa di Shirley Jackson. La signora Sweet, sdraiata sul lettino, le gambe spalancate, ancora nella posizione in cui si trovava quando il giovane Heracles le era uscito dal grembo, il grembo cioè da cui era emerso il giovane Heracles, il corpo scosso dai brividi per lo sforzo di mettere al mondo il figlio del signor Sweet, li guardò, il suo vecchio marito, il suo nuovo figlio, e per la stanchezza si addormentò. «Come rafforzare il mio regno, in modo da poterlo affidare, da poterlo lasciare in eredità al giovane Heracles, che finora è il mio unico figlio maschio?»: non fu affatto questo il pensiero del signor Sweet, no, niente affatto. Il signor Sweet aborriva il giovane Heracles, appena nato e nuovo e con la pelle gialla perché aveva l’ittero, e i suoi occhi spalancati sembravano vedere tutto anche se non tutto era già comprensibile. Ma che occhi, che occhi, si disse il signor Sweet, questi occhi non avrebbero mai visto i concerti di Beethoven e Mozart e Bach, non glieli avrebbero mai fatti capire, e in ogni caso il giovane Heracles aveva mani grandi che lasciavano presagire una futura goffaggine, perché mani come quelle non avrebbero mai tenuto una lira agevolmente, non l’avrebbero tenuta affatto, non avrebbero sfiorato un pianoforte o portato alle labbra un flauto o portato alle labbra un altro strumento né accarezzato strumento alcuno; aveva le dita grosse come se dovesse stringere un giavellotto e uno scudo e fare a brandelli cose molto più grandi di lui. Così pensò il signor Sweet mentre teneva il figlio tra le braccia, e le sue mani, le sue dita erano delicate e sembravano note musicali che si levavano e fluttuavano libere sopra fogli vuoti e poi atterravano in un ordine che dava vita a melodie bellissime, soprattutto se fischiettate. Ma il signor Sweet non buttò a terra né lasciò cadere il giovane Heracles, e così la loro storia continuò, con un’acredine che aveva un sapore familiare alla lingua del signor Sweet e con un’acredine che aveva un sapore familiare alle epoche; le epoche innumerevoli di padri che non hanno amato i loro figli maschi.
Eppure tagliò il cordone ombelicale del giovane Heracles, quella linea di comunicazione vitale che tutti gli esseri umani hanno con la madre, e questo è sempre un gesto onorabile e tenero, e il neonato Heracles aveva l’ittero e questo metteva in ansia sua madre che lo aveva adorato fin dal primo istante. Adorava i suoi occhi, così spalancati che sembravano fargli vedere tutto quello che essi non capivano, il suo passato era il suo futuro e lui lo vedeva, anche se non lo capiva; comunque lei adorava il suo bambino e le dispiaceva vederlo lì, tutto nudo, nella culla dell’ospedale, sotto le lampade, la pelle di un giallo sempre più intenso fino a sembrare quasi una calendula, così pensò la signora Sweet, e si preoccupò ancor più quando se lo portò ai seni, due grandi sacche piene di latte, stringendolo così forte che per poco non si fuse con lei, ma non successe; invece crebbe bene, liberandosi infine dell’ittero, causato dal gruppo sanguigno della signora Sweet che non andava d’accordo con quello del signor Sweet mentre scorreva intorno e dentro al corpicino del giovane Heracles. Rimase in quello stato per sette giorni e l’ottavo venne dimesso dall’ospedale e mandato a casa insieme ai genitori, il signor e la signora Sweet, che vivevano nella casa di Shirley Jackson. Non era un giorno di settembre, era un giorno di un altro mese, il mese di giugno, e le peonie erano in fiore, alcune molto particolari, petali bianchi con un’unica screziatura rossa disposta a caso su ogni petalo; e anche le iridi e l’aquilegia e una rosa di nome «Stanley Perpetual».
Davanti alla casa c’era un grande e vecchio acero argentato, proprio quello che ci si aspetterebbe davanti a una casa come quella di Shirley Jackson, segnato qua e là dalle vecchie ferite dei molti fulmini che l’avevano colpito. Lì davanti c’era anche un vecchio melo, così malato che riusciva a malapena a cacciare qualche fiore e così non dava mai frutti; e c’era anche un pero che dava frutti, ma erano amari e immangiabili. L’erba era verde e stava giusto cominciando a crescere rigogliosa, in attesa del primo taglio. Aaaaaaaah! Questo era il suono che uscì dalla casa, un sospiro di intensa soddisfazione, emesso dalla signora Sweet. Era in piedi accanto al bambino, suo figlio, e lo guardava mentre se ne stava sdraiato su un fianco, un piccolo braccio sotto la piccola guancia, l’altro piccolo braccio piegato e appoggiato sotto il mento, la pelle del colore di un bambino sano. Gli occhi erano chiusi.
Oh, che splendido, splendido bambino, così pensava la signora Sweet mentre contemplava il suo dolce figlio, sdraiato nella culla sopra le lenzuola che gli aveva fatto lei, con addosso una delle tante tunichette lavorate a maglia da lei seguendo le istruzioni di un libro intitolato Scuola di maglia; lo aveva comprato alla libreria Northshire, in una cittadina non lontana dal paese dove viveva con la sua famiglia, un’esistenza felice con la sua famiglia, soprattutto adesso che si era aggiunto il giovane Heracles. Il bambino se ne stava sdraiato, il petto che saliva e scendeva in maniera quasi impercettibile, il giovane cuore, la giovane vita, appena all’inizio: quale sarà il suo destino, pensò sua madre, quali sorprese crudeli gli riserverà la vita, quali fatiche ingiuste lo aspettano, quali compiti sgradevoli affronterà, sì, e ne uscirà trionfante, pensò la sua meravigliosa madre, che aveva imparato a sferruzzare da un libro e aveva imparato a cucinare piatti di diverse regioni della Francia da un libro, che aveva imparato a coltivare un giardino da un libro, che aveva imparato a essere, ma quello per istinto. E amava il suo bambino, il neonato, come se fosse il primogenito anche se non lo era, e amava la sua primogenita tanto quanto Heracles, la sua primogenita, una bambina, cioè Persephone, ma il signor Sweet teneva Persephone lontana dalla madre, perché nella sua testa la signora Sweet apparteneva a tutt’un altro mondo, un mondo di merci – persone comprese – arrivate sulle navi; la teneva con sé nello studio perché era molto importante che rimanesse accanto alla lira, come sua ispiratrice, scriveva inni perché lei li cantasse e altra musica adatta alla voce, solo per lei, e Persephone era una cantante bravissima, degna di un teatro ma il signor Sweet non permetteva a nessun altro di sentirla, e se per caso altri la sentivano lui li dissuadeva dall’idea che avesse una bella voce, perché potevano portargliela via, lontano dallo spazio sopra il garage nella casa di Shirley Jackson e il signor Sweet sarebbe rimasto tutto solo e sarebbe morto e aveva paura di morire, anche se era già morto.
Ma... la signora Sweet adorava il giovane Heracles e contemplarlo per sempre era uno dei suoi «unici desideri». Era bello ma non in confronto a qualcos’altro, era bello e bellissimo in assoluto. Aveva folti capelli che gli crescevano proprio sopra gli occhi e lo facevano sembrare un leone; ma poi aveva enormi occhi rotondi (chiusi nel sonno adesso, mentre la signora Sweet lo guardava) che lo facevano sembrare un gufo; ma poi aveva il naso molto largo che lo faceva sembrare un orso immaginario, un orsacchiotto di pezza, un giocattolo per calmare i bambini; la sua bocca, oh la sua bocca era grande come quella del sole, quel sole che sorge sopra l’orizzonte noto a tutti e poi percorre il cielo per un po’, cioè per un giorno, e assistere a questo evento, il sole che sorge dall’orizzonte e percorre la distesa del cielo per quel lasso di tempo, è una perfetta definizione dell’essere vivi; le sue orecchie erano enormi, i lobi sembravano un particolare tipo di fiore che si trova in un ecosistema unico e anche un’antenna parabolica, uno strumento fatto per ricevere informazioni in modo non comune ad altri esseri umani. Mentre, in piedi accanto a lui, la signora Sweet ammirava le sue forme infantili, la sua tenera gioventù e vedeva doti straordinarie nei suoi splendidi lineamenti, scoppiò a piangere con lacrime che scorrevano incontrollabili e così abbondanti che dovette subito raccoglierle e portarle fuori, creando un laghetto in cui rane, trote e simili avrebbero vissuto e deposto le uova. Oh, si disse, oh, la sua bellezza mi sommergerà, è così simile a una forza immortale: il fiume di Mahaut, in Dominica, che sua madre doveva attraversare tutti i giorni per andare a scuola; le montagne ricoperte di alberi, a volte color verde scintillante per le foglie nuove e a volte color oro accecante per le foglie vecchie, visibili da ogni punto, interno o esterno, della casa di Shirley Jackson; la luna, come viene ritratta in un libro intitolato Buonanotte luna che la signora Sweet leggeva al suo primo grande amore, l’immortale, armoniosa, bellissima Persephone.
Il telefono squillò; la signora Sweet sobbalzò in tutto il suo essere; nel corpo naturalmente, ma anche nella presenza di spirito. Chi poteva essere: gli incaricati di riscuotere le bollette; la compagnia telefonica chiamata Verizon; quelli della TV via cavo chiamata chissà come; Blue Flame, l’azienda del gas che forniva l’energia per cucinare e riscaldare l’acqua del bagno quando gli Sweet lo desideravano; il gasolio per riscaldare la casa; una voce rabbiosa che esigeva il pagamento delle rate dell’auto; Paul, che pulisce i camini; il signor Pembroke, che pulisce il giardino; gli Hayden, padre e figlio, che hanno aggiustato i due tubi del bagno che gocciolavano giù in cucina; un amico degli Sweet che voleva congratularsi per l’arrivo del giovane Heracles; un’amica degli Sweet che era particolarmente vicina al signor Sweet, non perché avessero una storia d’amore o di sesso torrido, semplicemente un’amica a cui la signora Sweet è antipatica e preferisce il signor Sweet; un’amica a cui sarebbe piaciuto buttare la signora Sweet da una grande altezza in modo che la caduta non la uccidesse ma la rendesse storpia.
Il telefono squillò: la signora Sweet pensò, oh che cos’è e chi è? E il signor Sweet disse, rispondo io, perché aveva sentito quel suono, mescolato ai diesis e ai bemolle. Mentre andava al telefono vide il giovane Heracles nella piccola culla e sua madre in piedi accanto a lui tutta tesa a immaginare il suo futuro, e anche a ricordare il suo futuro, perché il destino di un bimbo è nella memoria della madre! Il piccolo eroe dormiva nella culla, sulle lenzuola fatte dalla signora Sweet con le sue mani, e il signor Sweet ricordava le buie sere d’inverno in cui lei, invece di ascoltare le fughe e le altre tristi melodie da lui composte, sferruzzava e sferruzzava, tesseva coperte, tesseva lenzuola e anche pannolini, sferruzzava tunichette e cose del genere, un gesto molto irrispettoso, perché la creazione di una cosa è superiore alla creazione di una persona, così pensava il signor Sweet! Quel neonato e sua madre sarebbero diventati il titolo di una canzone per bambini, pensò il signor Sweet, e poi cercò di ricordarselo: la signora Sweet che adorava suo figlio e ne immaginava la grandezza nel mondo a venire, i suoi trionfi, eccolo lì che lancia la palla nel canestro, e il canestro era lontano chilometri, e la pallina da golf nella buca, e la buca era lontana chilometri, e la palla da baseball fuori dai confini dello stadio; e lo stadio era grande come la diciassettesima isola in ordine di grandezza sulla superficie del pianeta. La signora Sweet immaginava il futuro di suo figlio ed erano immagini molto amare per il signor Sweet. Vedendo quella scena della madre adorante davanti al giovane figlio, già un eroe per lei, addormentato nella sua piccola culla, il signor Sweet odiò la signora Sweet e il suo odio per il giovane Heracles, nuovo per lui nella sua realtà, aumentò; ma quell’odio era una nuova forma di disagio, così pensò il signor Sweet. Comunque il signor Sweet odiava il bambino e si augurava che una famiglia di serpenti apparisse dal nulla e lo divorasse! Ma questo non accadde, né allora né mai. E così il signor Sweet, di cattivo umore, anche se questa è un’espressione troppo mite per descrivere il suo turbamento, il suo odio, la sua confusione, pensò a diversi piatti che avrebbe potuto servire alla signora Sweet, se solo avesse saputo cucinare: soufflé di neonato senza nome; neonato senza nome in camicia; sella di Heracles con limone e timo; lei li avrebbe divorati, perché amava mangiare, lo si capiva dal girovita in espansione, dall’ingrossarsi di braccia, palpebre, lobi delle orecchie, dalle caviglie simili alle gambe delle poltrone nei salotti dei ricchi, che rappresentavano animali amati e addomesticati; oh quanto odiava la signora Sweet: sembrava una cosa da mangiare, che però dopo ti faceva odiare anche solo l’idea di mangiare; e lui lo immaginava morto, quel suo corpo robusto, troppo nutrito, sulle colline del Montana o del Vermont o di qualche posto del genere, sapete, dove le foglie stanno diventando dorate, gialle, rosse perché stanno per cadere e trasformarsi in una metafora, e le metafore sono il vero regno di un creatore. Ma proprio allora, come se la vedesse adesso, chiara come il presente, la signora Sweet ricordò la sua vecchia amica Matt, titolare di un negozio di alimentari che vendeva formaggi speciali e prosciutti speciali e yogurt speciali e tutte le cose speciali necessarie per preparare un buon pasto da un ricettario scritto da Marcella Hazan o Paula Peck o Elizabeth David. E Matt viveva con un uomo di nome Dan o Jim, la signora Sweet allora non ricordava bene il suo nome, ma solo che parlava benissimo del tempo, dell’atmosfera naturale e fisica in cui vivevamo tutti Allora, e anche Adesso. Matt aveva dato alla signora Sweet diverse ricette per il pane di granturco: quella di Edna Lewis, una cuoca discendente da schiavi della Virginia; quella di Nika Hazelton, adattata così bene da Matt che la signora Sweet aveva perso ogni interesse per l’originale, perché amava Matt non proprio come amava il signor Sweet o il giovane Heracles; e tuttavia il suo amore per Matt faceva eccezione, la signora Sweet amava la sua amica. Ma può l’amore, di per sé, isolato, essere capito, addirittura creduto?
Comunque il telefonò squillò e il signor Sweet rispose ed era un’azienda di servizio pubblico – una delle tante del mondo ora conosciuto –, qualcuno di un’azienda che forniva un elemento essenziale perché casa Sweet rimanesse un posto ragionevolmente confortevole in cui abitare. Il signor Sweet fornì risposte rassicuranti, spiegando i ritardi nei pagamenti in modo da non svelare la verità, cioè che gli Sweet al momento non potevano pagare le bollette, e spiegò con tanta convinzione e comunque gli credettero, e quella falsità convincente lo fece sentire come un assassino che l’avesse fatta franca; non però l’assassino della signora Sweet o del giovane Heracles, perché loro voleva solo ucciderli, non assassinarli.
E questo accadde in quel momento agli Sweet, il signor e la signora, con le rispettive posizioni riguardo al figlioletto da punti di vista molto diversi, mentre il bambino se ne stava nella culla, vestito con la tunichetta confezionata con amorevoli intenti dalla signora Sweet, la tunichetta che rappresentava uno scudo contro gli elementi naturali dai quali un neonato deve essere protetto. Ma il signor Sweet era molto contrariato, perché le bollette e le altre faccende quotidiane interferivano con la sua opinione su come il mondo, sapete, la quotidianità, dovesse procedere: per esempio, quando voi, o chiunque altro se è per questo, premete l’interruttore, la luce, che sia un lampadario o una lampada da tavolo, si accende; quando lui voleva l’acqua calda per il caffè (gli piaceva il caffè istantaneo Maxwell House) gli bastava accendere il fornello per far apparire una fiamma brillante che riscaldava l’acqua per la sua bevanda ed era così che cominciava ogni giornata; quando voleva chiamare sua madre e suo padre, che all’epoca erano nella tomba, prendeva il telefono e componeva il numero: chi pagherà per tutto questo, chi pagherà per la vita stessa, questa era una domanda che preoccupava molto la signora Sweet e come faceva il signor Sweet a non conoscere sua moglie, a non sapere chi fosse veramente, a non sapere che lei era un virus, il raffreddore che ti butta giù in estate.
La odio, pensava il signor Sweet, ma lei gli si avvicinava fluttuando, con una lunga camicia da notte bianca che aveva comprato nel negozio di Laura Ashley nella Cinquantasettesima tra la Quinta e Madison Avenue a New York; il costo di quell’indumento avrebbe coperto un mese di telefonate ai suoi parenti che vivevano lontano, o un giorno di medicine che allora potevano tenere in vita per settimane una persona che stava morendo di AIDS, o la paga dei copisti che copiavano il complicato guazzabuglio di note che il signor Sweet chiamava musica. Quella camicia da notte, di una stoffa così leggera perché era tessuta con cotone egiziano, così romantica nell’immaginazione della persona che l’aveva confezionata e che poi era morta cadendo dalle scale, si poteva facilmente trasformare in un cappio, ma come indurre la signora Sweet a infilarci il collo dentro? Il signor Sweet entrò nella stanza, abbassò lo sguardo sul piccolo Heracles e baciò sua moglie. Vedi Adesso Allora, Vedi Allora Adesso, anche solo vedere una cosa qualunque, soprattutto il presente, voleva dire trovarsi sempre dentro il grande mondo del cataclisma, della catastrofe, e anche della gioia e della felicità, ma di queste ultime due non si dà conto nella storia, erano e sono relegate ai ricordi personali. E lei guardò di nuovo suo figlio nel lettino e in nessun ordine particolare e anche tutto d’un colpo venne sopraffatta da questi pensieri e relativi sentimenti. L’episiotomia, una ferita necessaria inferta dalla dottoressa (Barbara, si chiamava) incaricata di far nascere senza problemi il giovane Heracles, provocò moltissimo dolore alla signora Sweet, un dolore che non aveva mai immaginato, ma avrebbe dovuto ricordarlo perché lo stesso taglio era stato praticato alla sua vagina quando stava partorendo la sorella del bambino, ma quel tipo di dolore, quel particolare tipo di dolore, un’altra persona che vive comodamente dentro di te e poi, dopo un po’, si apre a forza un varco nel mondo, e così facendo ti lacera il corpo, e tu l’amerai più di quanto potrà mai amarla chiunque altro, un tale dolore, così forte, e a volte aveva una consistenza, ruvida, ondulata, aguzza e bruciante, intermittente, poi piatta e fredda e costante.
Le tende erano tirate eppure la signora Sweet vedeva attraverso di esse che la luce nella Casa gialla, una casa dipinta di un giallo così luminoso e senza tracce di altri colori, un giallo che una volta la signora Sweet aveva visto in Finlandia e in Estonia, posti per nulla vicini all’equatore; nella Casa gialla viveva una famiglia, una madre, un padre e sei bambini e tutti quei sei bambini erano così meravigliosamente inseriti nella vita reale, così educati, così gentili, così buoni (c’erano quattro femmine e due maschi, e i maschi non avevano mai annegato un criceto tanto per vedere com’era né abbandonato un gatto nei boschi dopo avergli tagliato i baffi tanto per vedere com’era) che la signora Sweet desiderava che la sua famiglia – il signor Sweet, Persephone, il giovane Heracles – fosse come i bambini della famiglia che viveva nella Casa gialla e si chiamava Arctic. Fino all’età di tredici anni la signora Sweet bagnava il letto ogni notte mentre dormiva e per questo ha avuto paura di addormentarsi fino adesso, questo adesso, ed è per questo che conta un gregge immaginario di pecore mentre cerca di addormentarsi ogni notte e non ci riesce e così inghiotte una capsula di Restoril. Ogni anno per Halloween il signor Arctic si trasformava in una bella donna, con le gambe depilate e anche le ascelle, e si vedeva, perché indossava i collant e un sensazionale vestito senza maniche; e portava un paio di scarpe con i tacchi altissimi, tacchi così alti che facevano ridere la signora Sweet, convinta che le scarpe di quel tipo fossero una forma di divertimento, che anche quando le donne le portavano il loro scopo fosse quello di far ridere tutti quelli che le vedevano, non subito, non fra sé di nascosto, non completamente, ma solo dicendo a se stessi, che ridere. Ma quello era il signor Arctic, ogni anno per Halloween, mascherato con un vestito e una bella parrucca e orecchini e braccialetti e perle false e collant (qualche volta a rete, qualche volta trasparenti, color carne oppure no); e qualche volta quando la signora Sweet lo vedeva, perché succedeva anno dopo anno, da tanto tempo, e questa volta, anno dopo anno, tanto tempo sono cinque anni, che per la signora Sweet erano un’eternità; la signora Sweet si disse: come fa? Cosa ne pensa sua moglie? I suoi figli, tutti e sei, quattro femmine, due maschi, sono contenti di vedere il padre, cosa insolita nel nostro piccolo mondo confinato e definito dalla presenza della casa di Shirley Jackson, più simile a una bella donna di quanto lo siano molte belle donne, che chiede a tutti noi di non vedere niente in tutto questo se non gioia, gioia e ancora gioia? E ogni anno dopo che il signor Arctic e il signor Sweet avevano finito di portare i bambini a chiedere dolcetto o scherzetto, la signora Sweet si sedeva con il signor Arctic al tavolo della sala da pranzo e insieme bevevano rum Cavalier da piccoli tumbler.
Ogni mattina è la mattina dopo la notte precedente: e la notte precedente è Adesso e Allora e nello stesso tempo è la mattina dopo la notte precedente: il giovane Heracles gridava a squarciagola come se volesse svegliare il mondo intero, e la signora Sweet doveva dargli il latte da quelle sacche attaccate al petto e il giovane Heracles beveva come la terra su cui non cadeva la pioggia da tre o sette o dieci anni.
E tutto questo mentre durante la nascita e poi l’infanzia del giovane Heracles il signor Sweet si era addormentato, ignorando la moglie con la sua bella camicia da notte, senza svegliarsi per i deboli strilli del bambino, anche se qualunque passante avrebbe percepito quello strillo come proveniente dalla gola di un esercito di assassini venuti per uccidere o essere uccisi, lui invece dormiva in pace, contento, in uno stato di sonno che qualunque studioso del sonno dichiarerebbe ideale, perfetto, uno stato di sonno che andrebbe universalmente prescritto. E dormiva per tutta la notte, pienamente soddisfatto nel mondo del sonno, sognando un universo in cui ciascun essere cosciente fosse un trionfo e potesse diventare tutto quello che immaginava di essere; e c’era armonia in tutte le questioni: fisiche, emotive, mentali; e in quell’universo la signora Sweet amava profondamente suo marito fino alla fine del tempo e il tempo non finiva mai. Accanto a lei c’era il corpo del signor Sweet, grande come un giovane principe Tudor, sepolto sotto lenzuola bianche di cotone comprate da qualche parte e una coperta e un piumone, tutto drappeggiato in modo da farlo sembrare una sacra reliquia vivente, un sarcofago, insensibile al mondo della signora Sweet, il mondo in cui lei viveva nella casa di Shirley Jackson e oltre, insensibile agli Arctic, e agli Elwell, e ai Jenning, il cui figlio squilibrato aveva annegato il cane di famiglia nell’urina che aveva raccolto da varie fonti, e ai Pembroke che mandavano i loro operai a tagliare l’erba; e agli Atlas, che vivevano in una casa vicina al fiume Walloomsac; e ai Woolmington, che la signora Sweet adorava, perché la loro esistenza bastava a rallegrarle la vita; ai Joseph, che andavano a caccia durante ogni stagione di caccia e tornavano a casa con un cervo ucciso e dopo averlo scuoiato lo appendevano alla porta del granaio per esporlo all’adorazione generale; e quella scena di caccia al cervo conteneva Homer Adesso e Allora, allora c’erano le due anziane signore che vendevano giornali, o almeno così dicevano, ma vendevano anche una collezione di riviste, con titoli diversi, dedicate alle motociclette, e le illustrazioni che accompagnavano gli articoli erano tante foto di donne nude, in pose che invogliavano a fare sesso con loro; e poi c’erano gli altri, famiglie che provavano felicità e disperazione, ma proprio allora, solo allora. All’alba la signora Sweet era in piedi, giù dal letto, e guardandosi intorno non vedeva granché, o vedeva il letto in cui aveva dormito, il marito accanto a sé, il sole che stava per riversarsi troppo nel giorno, nessun grido di fame o di qualche altra necessità profonda ed essenziale proveniente dal giovane Heracles, gli uccelli cantavano, i pipistrelli, che spaventavano la signora Sweet con i loro eleganti svolazzi nell’aria ignota e perciò immateriale, tornavano verso i loro nascondigli diurni; il rombo dei motori delle macchine i cui passeggeri andavano verso qualche destinazione compresa nel mondo degli Sweet e dei loro conoscenti, o delle persone su cui contavano, risuonava fortissimo e poi si allontanava come il suono uscito da uno strumento a fiato così elaborato che la base poggiava sul pavimento e la persona che lo suonava doveva sedersi su una sedia robusta; la signora Sweet voleva farsi il caffè, ma era stata avvisata che un ingrediente essenziale di quella bevanda deliziosa poteva nuocere allo sviluppo del neonato se andava a finire nel latte materno, e così si preparò una tisana con le foglie di menta fresche che aveva raccolto da un’inestirpabile chiazza di menta e le lasciò in infusione nell’acqua riscaldata con un fragile bollitore elettrico che lei e il signor Sweet avevano comprato da Kmart, e bevve il tè quando sentì che era il momento di berlo.
Oh, che mattina fu, quella prima mattina in cui la signora Sweet si svegliò prima del piccolo Heracles e dei suoi strilli furibondi coi quali esprimeva la fame, il disagio del pannolino bagnato, l’esasperazione provocata dall’essere nuovo nel mondo; i raggi del sole cadevano su giusti e ingiusti, belli e brutti, facendo evaporare la rugiada innocente; il sole, la rugiada, la piccola cascata accanto alla caserma dei pompieri, con il suo scroscio, anche se in realtà era un’imitazione dello scroscio di una vera cascata; il profumo di qualche fiore, lieve, mentre schiudeva i petali per la prima volta: oh che mattina! Un momento per riflettere, per ricordare il passato, quel modo di vedere Allora Adesso: un pomeriggio d’inverno, a metà febbraio, e la signora Sweet non era ancora la signora Sweet, anche se lei e il signor Sweet erano già sposati, lei era ancora giovane e aveva una personalità che non era ancora quella della signora Sweet; portava abiti strani, vestiti che andavano di moda anni fa tra le casalinghe che vivevano in quella zona chiamata Grandi Pianure e che li confezionavano usando modelli ordinati e ricevuti tramite l’ufficio postale. La signora Sweet trovava quegli indumenti in negozi di nome Enid’s, Harriet Love, negozi che vendevano vestiti vecchi che andavano di moda tanto tempo fa, e anche altre cose: una lampada, una sedia, una scrivania, la sua macchina per scrivere, bicchieri per l’acqua e tazze da caffè, pentole di ghisa, un tavolo con il piano fatto di uno spesso strato di smalto bianco cotto in forno, e molte altre cose, tutte utili e tutte già usate da altre persone ancora vive poco tempo prima, cose di seconda mano, o di terza mano, numerose mani sconosciute le avevano già rivendicate; sì, tutto quello con cui la signora Sweet viveva nel suo Allora aveva un Allora prima di lei; adesso sorrideva, non a se stessa, sorrideva apertamente, distendendo le labbra grosse e larghe, e vederla avrebbe significato vedere una definizione della gioia o un’immagine della felicità o una persona che si stava divertendo un mondo; e un pomeriggio di un inverno che era apparso inaspettatamente alla signora Sweet al mattino presto – Allora, Adesso – le fece ricordare il colore della luce solare sui muri di cemento dell’edificio vuoto che vedeva da dietro la sua scrivania usata, seduta sulla sua sedia usata davanti alla macchina per scrivere usata mentre cercava di vedere un Allora – perché c’è sempre un Allora da vedere Adesso –, e la luce era di un tenue color malva (anche se per lei il malva era un viola tenue), come una pietra semipreziosa (ametista), come un campo di lavanda (L. officinalis) non raccolta... e all’epoca, allora, la signora Sweet si sciolse in una dolce tristezza, perché non poteva trovare altre similitudini per quella luce che illuminava il muro dell’edificio vuoto e allora scrisse un racconto sulla sua infanzia lungo non più di tre pagine, perché allora poteva sopportare il ricordo della sua infanzia solo per quella quantità di tempo e di spazio.
Ma quella mattina era solo l’inizio della giornata, e dopo aver visto sfrecciare verso le loro importanti destinazioni molte delle persone che rendevano comoda (non meno difficile) la sua vita, e dopo aver avuto un momento di Allora, Adesso (il ricordo di quando era giovane e viveva a New York, al 284 di Hudson Street, appena sposata con il signor Sweet, innamorata di lui e di tutto quello che lui sapeva, perché capiva così bene le tante teorie, le teorie che formavano il suo Adesso). E poi l’adorabile, stridente, terrificante e irritante vagito del giovane Heracles le arrivò alle orecchie, non di soppiatto ma con la violenza di un fulmine scagliato da un dio, poi venne il signor Sweet e le chiese di preparargli la solita colazione a base di toast alla Chernobyl (gli piacevano bruciati), una ciotola di Cheerios con pesche sciroppate e una tazza di caffè istantaneo Maxwell House con latte scremato. Il bambino, disse la signora Sweet al signor Sweet. Il bambino? rispose lui, e poi disse, ah sì, povero Heracles, stanotte l’ho sognato, e la signora Sweet corse al piano di sopra della casa di Shirley Jackson e trovò la stanza dove il giovane Heracles giaceva nella sua piccola culla, e lo prese in braccio e se lo portò al petto, dove si trovavano le sacche traboccanti di latte. Il giovane Heracles bevve da lei con una ferocia possibile solo in una fiaba, bevve da lei come se il futuro di qualche grande ma ancora ignota civiltà dipendesse da quel gesto, bevve come se sapesse che c’era un Allora e un Adesso, e un Adesso da cui poteva sorgere e sarebbe sorto un Allora, essendo il tempo completamente al di là dell’umana comprensione. E la signora Sweet era prosciugata, esausta, sfinita, ma quanto amava il giovane Heracles mentre lo guardava e lui non sapeva che la sua vita dipendeva da lei.