Capitolo 6
Figlie dell’Olocausto: Helena Janeczek,
Lezioni di tenebra e una difficile identità
E come si può pretendere la lucidità?
Forse che oggi viviamo lucidamente?1
Premesse
Gli anni Settanta, più di ogni altra decade del secolo appena trascorso, sono stati caratterizzati da
una tensione fra la parola e il silenzio da parte dei giovani. In questo
complesso e ricchissimo decennio i giovani cercano di opporsi al sistema
mediante gli strumenti offerti dalla letteratura e dai media, come le nascenti
radio private2. Questa protesta trova origine in larga parte nell’imposizione di un silenzio da parte della generazione dei genitori che avevano
vissuto l’esperienza bellica e la conseguente fase della ricostruzione, un silenzio al
quale i giovani vengono spesso costretti con mezzi intimidatori e una rigida
struttura familiare segnata da ruoli ben precisi. La ribellione contro la
polarizzazione politica che si manifesta nella società italiana sin dal dopoguerra trova nuovi canali d’espressione, per cui i figli si battono per affermare le loro opinioni contro
quelle dei padri e contro i corrotti centri del potere e i tentativi della
destra di forzare il sistema. In questo periodo anche le figlie esprimono un
crescente senso d’intolleranza verso una sciovinistica società patriarcale e si attivano in politica e nel movimento di liberazione delle
donne. I padri e le madri vengono sottoposti a uno strettissimo esame; si
imputa loro una troppo docile e dogmatica acquiescenza al potere, di qualunque
provenienza. Soprattutto viene adesso decodificato il ruolo fondamentalmente di
connivenza passiva svolto dalle madri nell’applicazione di regole restrittive nell’educazione impartita alle loro figlie. Vengono percepite come vittime dell’ordine patriarcale anche le madri, quindi, perché costrette a svolgere il ruolo della sorvegliante di tale ordine all’interno della famiglia. Come bene comprende Elsa Morante, è a questi giovani che vanno diretti gli sforzi per un ripensamento sociale, per
un nuovo orientamento ideologico ed etico. La famiglia intesa nel senso più tradizionale del termine è ormai destinata a ripensare la propria struttura e ragione d’esistere.
Verso la metà degli anni Settanta – questa decade caratterizzata, come si è detto, dalla ricerca, o dal rifiuto, di un dialogo fra generazioni – emerge anche la richiesta di un dialogo estesa ai loro padri e alle loro madri
da un gruppo sì più esiguo, ma che condivide con gli altri il desiderio di opporsi a silenzi e
obblighi familiari senza spiegazioni, senza confronto: stiamo parlando dei
figli dei sopravvissuti della Shoah. La loro richiesta implica la necessità di comprendere i meccanismi che regolano il particolare rapporto intrattenuto
da queste due generazioni, vicine, e pure rese lontane dall’inenarrabile esperienza dei genitori. Questa complessa relazione
intergenerazionale si modella in stretta dipendenza con il trauma che i
genitori hanno subito e che i figli percepiscono, vivendolo a tutti gli effetti
come un problema da cui dipende l’intero equilibrio familiare. Per loro, la Shoah rimane essenzialmente un fatto
personale.
La ricerca delle proprie radici diventa una necessità impellente, soprattutto se la famiglia si è trasferita in un paese relativamente nuovo – e non è rimasta in quello delle proprie origini. Il paese forzatamente abbandonato
viene spesso indicato nelle narrazioni con un laconico lì – una parte che significa il tutto. Quello abbandonato, nonostante la nostalgia e
i ricordi, rimane comunque un paese dove, spesso, se i figli anelano a tornare,
si scontrano con la resistenza dei genitori perché – nello sforzo della ricostruzione dopo il disastro della guerra – non è rimasto nulla del loro mondo. Affrontare le conseguenze emotive che la tragedia
ha comportato diventa per queste famiglie una questione identitaria. In esse il
già complesso rapporto intergenerazionale3 interviene in modo più profondo di quanto non accada in altre famiglie negli stessi anni. La violenza
non è di carattere fisico, come si verifica nel caso delle famiglie e delle società dilaniate dalla rabbia dei terroristi, ma il silenzio domestico le attraversa
comunque. Nel tentativo di capire i silenzi dei loro genitori, i figli
rivolgono la loro attenzione a quei frammenti dell’affresco familiare che, pur componendolo, risultano vistosi nella loro assenza.
Intraprendere un nuovo percorso conoscitivo significa tentare di comprendere le
tante cose non dette, forse soltanto intuite, di casa propria.
Arrivare all’identità come singolo individuo significa anche questo: i figli, allora, riuniscono le
parti mancanti della genealogia familiare per capirsi e per setacciare il
significato di quel silenzio parentale. I figli dei sopravvissuti ricercano
tracce di una cultura privata – quella dei genitori, che ha origine e si intreccia con quella di membri delle
loro famiglie ormai estinti – per ricostruire anche quella pubblica di una società sommersa di cui sentono indistintamente di fare (ancora ma non più) parte. Sradicati dal loro paese d’origine, devono sentirsi parte della nuova società che li ha accolti; devono sentirsi parte, senza riuscirci appieno, del nucleo familiare. Questa sorta di
lotta per la sopravvivenza psicologica determina in loro zone d’ombra. In questi figli entra in azione un tacito senso di rivolta verso quelle
norme d’accettazione della nuova cultura, non dette, ma imposte loro dai genitori.
Quello che provano è un senso d’insofferenza verso un’esistenza per cui ci si sente sempre inadeguati, disarmati per proseguire il
cammino. Una cultura non ancora loro, infine, una società verso la quale devono sentirsi grati e in cui, come afferma Hannah Arendt,
bisogna in qualche misura sempre scusarsi e giustificarsi per la curiosità verso la pratica delle antiche norme che non si voleva disconoscere all’arrivo nel nuovo paese, bensì scoprire e apprezzare. Un senso di ribellione si manifesta nei figli dei
sopravvissuti contro il tentativo di accelerare forzatamente il processo
assimilativo nei paesi (soprattutto oltreoceano) che adesso ospitavano i
rifugiati4. Nonostante l’assimilazione voluta dai genitori e imposta ai figli, l’identità di questi ultimi risulta, in breve, indelebilmente segnata dall’evento. È come se il vischioso inchiostro della Shoah avesse scritto anche le loro vite.
La lettura della rappresentazione della Shoah nell’opera di Helena Janeczek, scrittrice sino a poco tempo fa considerata “diasporica” oppure “migrante,” nata nel 1964 in Germania da genitori ebrei polacchi, sembra offrirci lo
strumento più appropriato per capire come la ricerca di un’identità si sia realizzata per questi figli dei sopravvissuti non soltanto su un piano
socio-psicologico, ma manifesti anche importanti risvolti estetici. Comprendere
il senso del contributo dei figli alla traiettoria delineata dalla
rappresentazione letteraria della catastrofe vissuta dai genitori appare
importante per definire ulteriormente le questioni sui suoi possibili limiti
rappresentativi. Janeczek vive dal 1983 in Italia, nazione che la scrittrice
considera a tutti gli effetti il proprio paese d’adozione e di riferimento culturale.
Un romanzo-campione
Questo capitolo, incentrato sulla sua scrittura e sul suo pensiero, traccia un
percorso d’indagine testuale ribaltato rispetto a quello osservato nel capitolo su Elsa
Morante. Se nel caso di Morante erano state le considerazioni teoriche espresse
dalla scrittrice nel 1965 (riflessioni che, sia per intenzioni autoriali che
per la tipologia stessa del testo, mostravano un impianto concettualmente
rivolto alla collettività degli spettatori) durante la conferenza al Teatro Carignano a guidarci lungo
una pista teorica che ci conduceva agevolmente all’impianto etico-filosofico del romanzo del 1974, nel caso di Janeczek la lettura
dei suoi testi si articola in senso contrario. Si è partiti, cioè, dall’analisi della dichiarata matrice autobiografica in un’opera ricca di parti autofinzionali qual è Lezioni di tenebra, “romanzo” riferibile al trauma personale di figlia di una sopravvissuta alla Shoah, per
chiarire, in prima battuta, la posizione di Janeczek rispetto al senso
etico-estetico della parola in un lavoro paradigmatico della generazione dei
figli della Shoah, per poi esaminare il senso delle sue più recenti considerazioni riguardanti una ri-sistematizzazione del pensiero
ebraico, elaborata in occasione di un convegno di studi tenutosi a Palermo nel
2002, e giungere infine all’ideazione di un romanzo composito quale Le rondini di Montecassino5.
Tenebre e vuoto, ombra e dolore sono le tinte e i sentimenti che
contraddistinguono la narrazione di Lezioni di tenebra. Un libro intenso che segna l’esordio italiano di Janeczek. Quando si redige una storia di tensione e rancore
familiari che diviene pubblica, come nel caso di Lezioni di tenebra, la si sottopone a un processo di straniamento. I contorni delle figure sono
ingigantite nella descrizione abbacinante del dolore che interviene nell’esistenza; le parole dei loro dialoghi diventano pesanti come il piombo; ogni
riflessione appare sarcastica perché non sembra possibile fare della sottile ironia su certi argomenti. Questa “lezione di tenebre” così intensa di donne e tra donne diventa pubblica nel momento in cui l’autrice affida alle stampe un manoscritto di matrice autobiografica in cui il
lacerante rapporto fra una madre e una figlia rivela come sia possibile
generare, ed essere generate, senza che per questo s’instauri un vero dialogo fra le due donne. Le tenebre delle parole non dette si
ripetono in un passato materno che la narratrice non conosceva e che emergerà soltanto mediante il proprio traumatico – ma salvifico – intervento di artista, la quale compone il testo di una memoria che la madre
aveva volontariamente soppresso per anni. Nel caso dei traumi dei figli della
Shoah non si tratta, infatti, di traumi “desiderati”, caratterizzanti la condizione postmoderna e postcoloniale, e che denotano un’istanza imperativa di analisi dell’immaginario quando questo tende a prevaricare sulla cognizione della realtà6. Si tratta di traumi effettivamente, e clinicamente, provati che hanno
contrassegnato un’intera generazione.
L’evidente difficoltà che la stesura del testo comporta, dato che trova l’autrice impegnata a ricomporre un solco profondo nella propria identità persa (o mai trovata) in corrispondenza di quelli aperti dai traumi materni,
produce una forma che problematizza schemi narrativi convenzionali, rifiutando
quindi tipologie classiche, per trovare forme desuete ma più persuasive. La creazione di Janeczek consiste in un testo i cui contenuti sono
troppo vicini all’autrice perché le sue stesse parole non le causino dolore: non c’è alcun grado di separazione fra materia narrata e magma interiore. Se da un lato
esiste allora il peso evidente di un trauma materno – ancora più grave (se possibile) di quanto non si possa immaginare – e di come esso si trasmetta alla figlia attraverso il liquido amniotico, c’è d’altro canto la raggiunta percezione dell’impossibilità di rappresentare adeguatamente la Shoah da un punto di vista espressivo e
stilistico. Quel sapere di non riuscire a dire diviene uno strumento utile per
la figlia-autrice nel momento in cui decide di decostruire nozioni obsolete di realismo e di rappresentazione realistica. La figlia-autrice rivede la forma-romanzo tenendo conto di quanto afferma
Lyotard su come alcune categorie estetiche abbiano sicuramente rivelato
slabbrature e cedimenti di fronte a eventi che dépassent la realité. Abbattere allora le barriere fra il vero e la finzione nel suo accanimento a
ricomporre una duplice tranche de vie – la sua, come quella di sua madre – si presenta come un’opera complessa e ardua: inutile e nocivo quindi (oltre che relativamente
impossibile) attenersi a una rigida codificazione e alla conformità a generi scrittorî dopo la caduta dell’umanesimo, dopo Auschwitz. Pure, quella di Janeczek rappresenta una vittoria sul
silenzio materno, e come tale va approfondita.
Nella prima parte del capitolo valuto le modalità della risposta estetica offerta da Janeczek con Lezioni di tenebra; quali soluzioni la scrittrice propone rispetto al problema rappresentativo
della sopravvivenza. Janeczek cerca un nuovo lessico estetico, formula
categorie diverse di rappresentazione dell’evento. In breve, come rappresentare se stessa e sua madre in modo non convenzionale all’interno di Lezioni. Per questo percorso epistemologico la scrittrice si avvale di una duplice
memoria: la propria, e quella della madre, anch’ella creatrice, suo malgrado, di Lezioni. Janeczek, autrice forte e coraggiosa di letteratura e di poesia, decide di
investigare un dramma lungo almeno quanto la sua stessa vita. Un dramma che,
anzi, s’ingenera prima ancora della sua nascita e per il quale la prima memoria di cui
si nutre il testo, quella della figlia, diviene obbligatoria nella sua duttilità performativa. Dietro la memoria della madre della protagonista, più ovviamente legata alla Shoah, si cela un altro trauma orientato in una
direzione temporale opposta rispetto al rapporto centrale nel libro: quello che
la madre di Helena ha riportato in seguito al suo volontario abbandono di
Zawiercie e della propria madre, la nonna mai conosciuta dall’autrice. Traumi intergenerazionali si ripercuotono e scuotono la figlia come
onde negative in un effetto domino che va comunque scardinato e compreso. La
proposta per dare vigore formale a questo doloroso gioco di matrioske è una ricerca di stilemi unici che sovvertano le più tradizionali forme di scrittura autobiografica e memorialistica.
L’elaborazione parziale della traumatica esperienza di una vita trascorsa in un
silenzio motivato dalla pesante presenza di un passato non-parlato dei propri genitori materia Lezioni di tenebra. Nel discorso tenuto all’università di Palermo a distanza di cinque anni dalla pubblicazione del suo libro (1997),
Janeczek mette in discussione parametri identitari considerati ufficiali.
Rivede la propria identità di “figlia della Shoah” e decide di porla in un contesto sociale allargato alla collettività e a una memoria pubblica che vuole tener conto dell’evoluzione e del messaggio di gioia della storia di quel popolo ebraico che
esisteva prima dell’evento. Per dirla con la bambina del primo romanzo di Lia Levi, la scrittrice
desidera conquistare la sapienza di riallacciarsi alla religione dei padri:
travalica il baratro creato dall’assenza e dal vuoto della Shoah, evento pubblico e allo stesso tempo privato in
precedenza elaborato in Lezioni di tenebra.
Nella seconda parte del capitolo si analizzano le motivazioni addotte da Helena
Janeczek per il rifiuto teorico di un’etichetta a suo parere limitativa quale quella rappresentata dall’Associazione Figli della Shoah a cui la scrittrice preferisce Figli della memoria ebraica. Rifiuta la prima perché si tratta di un’etichetta che circoscrive la generazione e l’esperienza dei figli della Shoah relegandoli, in un certo qual modo, ancora alle
ricerche degli anni Settanta e a quella atmosfera incerta dettata dalle
reticenze a parlare dei genitori. Essa rappresenta un condizionamento nocivo.
La scrittura dei figli dell’Olocausto
Quali sono, allora, le tematiche più frequentate e le modalità narrative con cui le figlie e i figli dei sopravvissuti cercano di
rappresentare letterariamente l’evento che ha contrassegnato una parte così ragguardevole della loro stessa identità? Senza espungere dal testo la parte figurativa del linguaggio, e limitando la
resa a un livello letterale e fattuale degli eventi, il trauma dei loro
genitori e il modo in cui questo si riverbera nella loro stessa esistenza,
questi figli raccontano in qualche misura anche di se stessi e di come la loro
identità si sia venuta plasmando sullo sfondo perenne della Shoah. Non aver vissuto la
Shoah, se non per interposta persona, non significa ignorarne la sofferenza,
filtrata attraverso i genitori. Tutt’altro. È questo che i figli cercano di dire nei loro scritti. Rimangono in ogni caso gli
eredi di una pesante e nebulosa testimonianza, quella ereditata dai genitori, afflitta dall’inevitabile usura del tempo, a cui si aggiunge la difficoltà intrinseca a qualunque rapporto intergenerazionale. Nella resa letteraria della
difficile interazione dei sopravvissuti coi propri figli, questi ultimi, per
amore o per necessità, esplorano le modalità per cui i primi s-tentano a riprendere una vita dove le consuetudini assicurate
dall’attaccamento al lavoro e alle pratiche quotidiane non riescono a riscattarne uno
stato d’inquietudine costante e avvertito, d’altronde, dai figli. Esiste in questi ultimi l’anelito a un’espressione che renda giustizia alla strenue circostanze in cui è avvenuta la loro formazione, che ricostruisca l’atmosfera di casa di cui si comprendono solo l’ansia e le nevrosi ereditate perché non sempre ai figli sono stati svelati i dettagli della tragedia da cui sono
scaturite tali tensioni.
L’assenza di una famiglia estesa, l’assenza di quei «cento oggetti nostri» leviani, di quegli oggetti che decretano l’appartenenza di un individuo a un gruppo etnico, sociale, comunque a una
collettività per cui si nutre un’inspiegabile nostalgia; il senso di isolamento e di estraneità sentiti per alcuni aspetti verso quella in cui si vive nel presente; la
mancanza di un’appartenenza persino da un punto di vista linguistico: tutti questi elementi
fanno di questi figli della Shoah degli autentici displaced, oppure, secondo una traduzione non perfetta ma letterale che Janeczek usa
spesso, degli s-piazzati. A questi s-piazzati compete il dovere morale di rappresentare le difficoltà, i problemi, i traumi di ritorno e reintegrazione della propria famiglia. Il
ritrovamento di quel che erano per capire come diverranno. Non si parla quindi,
come si era trattato nel caso di Millu e di Bruck, di Limentani o di Levi e
Morante, di ri-presentare le realtà vissute da un lato o dall’altro del confine politico italiano, dalle case di Roma ai Lager in Polonia. Per
questi figli della Shoah il compito appare più complesso, perché si tratta di immaginare una raffigurazione plausibile, una Shemà da intendere in senso forse più culturale che strettamente religiosa, rivolta a Israele a latere e alle proprie
famiglie in senso stretto. Forse è la distanza da tali eventi, come sostengono Dori Laub e Michel Allard, oltre
che la tipologia unica degli stessi, che impone ai figli dei sopravvissuti di
trasfigurare le emozioni dei loro genitori nei loro racconti7.
In seguito alla lettura dell’opera di Janeczek, opera che mostra una logica impeccabile seguendo una
traiettoria che dal privato mira a illuminare il lato pubblico (e politico) di
narrazioni della Shoah a volte carenti o svianti, mi sembra che la mia risposta al
quesito rispetto all’efficacia dell’arte nella sua rappresentazione non possa che essere affermativa, perché il mezzo espressivo raggiunge livelli per cui (per usare ancora il neologismo
lyotardiano) diventa corretto e appropriato parlare di elaborazione creativa an-estetica. Infatti, dopo la Shoah, l’arte deve dimostrare il proprio puntuale impegno nell’affrontare la gravità di eventi storici che hanno completamente rivoluzionato il modo stesso di
pensare alla Storia: ripensare la Storia come a una serie di eventi in cui l’individuo si è trovato, cioè, a riconsiderare la propria umanità messa a repentaglio nel più intimo. Se è vero che, al contrario di altri eventi determinati biologicamente nel nostro
stesso esistere, le arti e il discorso storico sono in ultima analisi dominio
esclusivo delle menti, quello di esprimere esteticamente una comprensione dei
fatti che tenda a uno scopo principalmente etico ed epistemologico nel suo
stesso divenire, diventa un imperativo categorico. Errato però sarebbe pensare al mezzo artistico, e alle stesse modalità del raccontare, secondo criteri e stilemi tradizionali. Ecco, questo non
sarebbe più possibile, e non è soltanto Lyotard ad affermarlo8.
Uno tra i lasciti più evidenti della Shoah è quello di aver necessariamente trasformato il modo in cui pensiamo al mezzo
espressivo avente valenze artistiche. Al come, cioè, specifici testi si prefiggono di illuminare l’impegno emotivo e culturale dei loro autori, i quali, nel caso della generazione
che vive dopo la Shoah, inseguono un passato in cui è il loro stesso ruolo ad essere incerto. In questa ricerca, emergono tentativi
di risposta a quesiti personali, soggettivi, rispetto alla loro stessa identità all’interno di un panorama etico-epistemologico molto più vasto di quanto sia stato descritto da altri scrittori della Shoah. La prima
generazione, quella dei testimoni diretti – sia pure con illustri eccezioni quali Primo Levi, Elie Wiesel, Charlotte Delbo,
Ruth Klüger, Robert Antelme, Jean Amery, interpreti della tragedia che hanno
universalizzato la loro testimonianza per via di indiscutibili meriti artistici
– raccontava la propria (sempre singolare) esperienza all’interno dei Lager. Nelle redazioni di questi ricordi ci viene spesso spiegato il
difficile itinerario di riabilitazione in una società in cui la loro presenza diventava scomoda, difficile, perché troppo evidente era in loro il recente tragico vissuto. Difficoltà che comunque spronava spesso questi testimoni a ri-raccontare l’incredibile, salvo poi chiudersi in un ostinato silenzio di fronte ai figli, che
volevano difendere dall’orrore di quei ricordi. Della tangibilità del ricordo primario era però difficile dubitare. La concretezza delle scene riviste da Millu oppure da Bruck
rimangono impresse per i toni vividi di una rappresentazione che ha del
perturbante.
La generazione successiva, quella dei loro figli (e nipoti) o anche coloro (i figli per immaginazione) che per scelta si sono impegnati a scrivere della Shoah, ridisegnano l’evento secondo schemi più vasti rispetto a quelli delle prime testimonianze in quanto investono, anzi “incorporano” direttamente, almeno due generazioni, se non addirittura tre. L’esperienza originaria di uno si ramifica e diventa più complessa, interessando diverse generazioni e le relazioni che intercorrono (o
che si sono spezzate) fra loro. Nello schema rivisitato di rappresentazione di
un trauma, questi pattern allargati che ci presentano gli autori della seconda e della terza generazione
contribuiscono alla formazione di una nuova cultura che, in qualche misura,
completa e, parafrasando il titolo del riuscito romanzo d’esordio di Jonathan Safran Foer, illumina ogni cosa9. Dai testi dei superstiti giungeva un messaggio tremendo sull’umanità, privo dei toni sommessi delle testimonianze orali. Il testo letterario si fa
adesso portavoce della problematica esistenza dei figli soprattutto di coloro
che non avevano parlato per scelta, mantenendo il silenzio sui fatti per tenerezza verso
i loro figli, oppure perché sprovvisti dell’intensità espressiva dei grandi autori.
La necessità di avvincere il lettore con strategie precipue estrapolate da ogni genere
letterario e possibile forma narrativa spiega tutto: il discorso mescidato, il formarsi ibrido di una narrazione che si attua
mediante un interessante repêchage di tecniche narrative con cui presentare l’argomento in un testo in cui s’intrecciano liberamente il romanzo, la testimonianza, l’autobiografia. Il processo identificativo del lettore si lega alla narrazione
romanzesca, che s’incarica di fornire dati sufficientemente credibili per confermare la veridicità delle cose raccontate in un testo convenzionalmente autobiografico (i cui
confini sono sempre labili), e di testimoniare pubblicamente, e per i posteri,
dell’avvenuto. All’interno di tale involucro narrativo fa spicco il tema ricorrente dell’assenza di un’effettiva connessione intergenerazionale dove, come nel caso di Janeczek, i
problemi legati alla forzata assimilazione in una cultura diversa da quella dei
genitori vengono finalmente sviscerati in tutto il loro dolore.
Infine, i testi dei figli decretano, se ce ne fosse bisogno, la giustezza delle
parole di Adorno, che vogliamo intendere nel senso più costruttivo del termine. Negare, cioè, la validità della parola poetica com’era prima di Auschwitz, ma per crearne una nuova altrettanto potente, altrettanto
efficace. La necessità di scrivere nasce dalla necessità tanto di capire quello che si è quanto di comprendere che soltanto un’estenuante ricerca della parola ci consente, veramente, di dire. L’esperita frammentarietà discorsiva, certo involontaria, di un dialogo coi genitori opprime i figli:
essa si ripete con le stesse cadenze nell’assenza testuale di una narrazione continuata e coerente sia nel trattamento dei
temi che nel fluire espositivo. Ri-raccontare Auschwitz (uso la parola nel suo
frequente uso di metonimia del tutto) non significa certo parlare di
revisionismo inteso come “negazionismo”, ma dell’analisi di quelle che sono le conseguenze su un piano personale, imprescindibile
da quello pubblico della storia, che si svolge in tali testi. I fatti
presentati riguardano la Shoah, ma parlano di persone in senso specifico, di
quello che è accaduto ai figli – individuati per nome – di quegli Stücke. Dalla massima universalità al particolare del dolore familiare.
Il fenomeno, modulato attraverso modalità sia saggistiche che romanzesche, avviene in un mondo in cui troppo spesso si
tende a voler dimenticare l’entità dei fatti vissuti in un passato non distante dal nostro quotidiano.
Ridisegnando gli scenari dell’orrore, provando con le loro parole a rivivere ciò che è accaduto nel passato dei genitori, i figli tentano di ri/trovare i parametri
stessi della costituzione dell’individuo che scrive nel post-Umanesimo della post-Shoah. Secondo Alan L.
Berger, i figli della Shoah formano una generazione che è contemporaneamente prima e ultima. Il critico ricorda Menachem Rosensaft nell’affermare che questa generazione è la «prima ad essere nata dopo l’Olocausto e l’ultima ad avere un legame diretto con quell’esperienza degli ebrei dell’Europa orientale che sono stati brutalmente annientati»10. A suo avviso i loro testi pertanto rivestono maggiore utilità se considerati per l’apporto teologico (per via del diverso rapporto con la religione intrattenuto
dalle due generazioni) piuttosto che per il loro interesse letterario; questo
in quanto il patrimonio di scritti dei figli serve come dimostrazione del senso
collettivo da affidare al termine “trauma” quando si discute della Shoah. Essi recano una testimonianza dell’eredità emotiva dell’evento e la loro avvertita e, per questo, sofferta condizione di alterità, va considerata alla luce dell’alterità ereditata in conseguenza di questa tragedia. I figli dell’Olocausto sono particolari perché, come affermano Laub e Allard:
La nostra alterità, il nostro essere “diversi” viene valutato in relazione all’alterità della nostra madre. Siccome la loro madre è diversa per questo anche loro sono diversi. Per i figli dei sopravvissuti, la “ferita senza memoria”, il circolo vuoto che viene trasmesso senza parole, può prendere il posto della forma stessa della loro esistenza, come un senso di
terrore, di essere feriti, e di perdita che sfida qualunque conforto e resiste
a qualunque interpretazione e comprensione. I figli dei sopravvissuti possono
sentirsi destinati ad accettare il verdetto illusorio della loro stessa
disumanità e destino di vita e arrivano a credere di non avere nessuna possibilità nel caso cercassero di combatterlo.11
Il tipo di testimonianza offerto negli scritti della seconda generazione differisce di necessità, si è detto, da quello che troviamo nei testi dei cosiddetti “salvati” intercettati dall’omonima categoria leviana. Una diversità che trova spiegazione nel diverso tipo d’esperienza e conoscenza dei fatti per interposta persona, e si rivela tramite l’utilizzazione per tali narrazioni di tecniche di discorso diverse e importanti
quanto il differente legame che intrattengono con il genere di scrittura a cui
si ascrivono, un genere, come già ricordato, non facilmente categorizzabile, fluido e quantomai diverso, che
produce “oggetti narrativi non identificati”. Secondo una riflessione che accompagna quasi apologeticamente il loro atto di
scrittura e di interposta testimonianza, questi autori non si trovavano lì – una semplice sillaba che metaforizza i campi di sterminio, le marce della
morte, i campi per dispersi, il ritorno ad una vita civile – per vivere la tragedia al fianco dei genitori. Le loro narrazioni offrono una
possibilità di risanamento alla situazione vigente in famiglia. La vita va vissuta a
qualunque costo, e i figli regalano ai loro genitori una (sofferta) favola
sulla bellezza della vita, sull’amore che esiste, nonostante Auschwitz.
L’aspetto salvifico della scrittura che ritroviamo negli scritti di Janeczek, non
basta comunque a cancellare la gravità e l’estensione del trauma pubblico e privato che l’esperienza dei campi ha procurato a un’altra moltitudine di innocenti nati dopo Auschwitz, quei figli la cui voce si integra al percorso rappresentativo dell’evento. Loro sono quel che resta di Auschwitz. L’esperienza dei campi, il sopravvivere alla morte e al processo di
disumanizzazione voluto e realizzato dai nazisti in varie modalità, è tale che l’esistenza stessa dei figli della Shoah ne è colma, nello stesso modo in cui per i giapponesi la bomba atomica continua ad
agire psicologicamente non solo sui sopravvissuti, ma anche su chi è nato dopo Hiroshima e Nagasaki12.
Il peso della memoria
Nell’introduzione alle brevi cronache 16 ottobre 1943 e Otto ebrei di Giacomo Debenedetti, Ottavio Cecchi riflette sull’importanza di due temi: il compianto per la persecuzione e lo sterminio degli
ebrei in Italia e in Europa prima e durante l’ultima guerra e «il significato positivo dell’ebraismo»13. Le calamità da cui il popolo ebraico si rivela da tempo immemore afflitto sono presenti nel
suo discorso, in parte come causa stessa della perdita della memoria di quel
significato positivo. In Essere ebrei di Maurice Blanchot le due tematiche non a caso s’intrecciano perché «[…] la persecuzione e lo sterminio hanno insegnato a riflettere sulla condizione
ebraica. L’antisemita ha capito, se pure gli è rimasta estranea, l’idea di separazione»14. Combattere questo sentimento significa, quindi, riconquistare il senso della
propria collettività. Ma in che modo si può condurre tale utile azione? «Il peso della memoria collettiva e personale, – spiega Efraim Sicher – affligge i figli delle vittime e degli oppressori forse anche di più a causa della loro ignoranza, a causa del loro desiderio di immaginare l’inimmaginabile e colmare i vuoti della storia nazionale e familiare»15. Riconquistare la sapienza (come conoscenza e consapevolezza) del proprio popolo ri-raccontandolo come fa
Janeczek diventa imperativo. Oltre a immaginare “l’inimmaginabile”, compito che, in un certo senso, porrebbe i figli della Shoah nella stessa
categoria di persone che sono afflitte dal suo ricordo, ma le quali, comunque,
hanno vissuto un diverso destino – ebrei le cui famiglie non sono finite in campi di sterminio, oppure non ebrei
che comunque sentono l’esigenza di ricordare e portare testimonianza e studiare l’argomento per un senso più generale di responsabilità morale – il compito che si sono posti in primo luogo questi figli è stato quello di analizzare come tale evento abbia determinato il loro rapporto
con i genitori, trovare un locus per sé in uno spazio che li precede: “loro non c’erano”, quindi, ma in qualche misura erano già lì, in quello spazio non altrimenti precisato dai loro genitori.
L’opera di Janeczek rientra nel più vasto panorama di lavori della seconda generazione o di testimoni della
responsabilità morale recentemente emersi anche nella letteratura italiana: un panorama
importante che raccoglie vari nomi oltre a quelli più noti di Eraldo Affinati d Elena Loewenthal16. Lezioni di tenebra rappresenta a tutti gli effetti un’opera emblematica di questa generazione. È esemplare perché pone su uno stesso piano epistemologico la comprensione “privata” degli eventi passati che hanno portato la famiglia dello/a scrivente a
costituirsi per come la si conosce oggi, permettendo anche il suo inserimento
in un paradigma letterario di riesame (inteso come arricchimento) della parola
scritta. Tale importante procedimento si attua in conseguenza – ma non esclusivamente – delle esperienze estreme di depauperamento in questo secolo appena trascorso.
Se l’etichetta “generazionale” ha mai significato qualcosa per lo studio critico della letteratura, e del
romanzo come genere in particolare, Janeczek riesce a fissare sulla carta molti
elementi che invece sfuggono o suonano retorici in altri lavori a cui si è accennato nel capitolo e che, pertengono, invece, alla sua generazione.
Dei due orientamenti tra cui la critica solitamente divide la seconda categoria
di scrittori dell’Olocausto, scrittori-eredi per Dna e scrittori per immaginazione, la scrittura
di Helena Janeczek sottolinea il primo, quello in cui prevale il peso
psicologico dell’esperienza dei genitori su quella della prole ma anche – e questo è quel che mi preme maggiormente – su quella di scrittrice e poetessa. Lezioni di tenebra rivede un autobiografico percorso di vita alla luce delle esperienze dei
genitori, un percorso che risulta saldamente legato a una ricerca estetica di
nuovi parametri in cui situare la tragedia vissuta dalla propria famiglia,
attraverso se stessa, la madre e la nonna che la Shoah non ha concesso a
Janeczek di conoscere17.
Romanzo, dicono: una scrittura di difficile inserzione
Le modificazioni subite dalla scrittura di questi giovani, sempre secondo
Sicher, sono attribuibili in parte all’osservanza di criteri postmoderni. Sino a qualche anno fa, va detto, tali
narrazioni riaffermavano la disintegrazione delle grandi narrazioni in mille
frammenti che ricompongono l’immagine nel suo intero, l’ironia come strumento retorico imprescindibile (che però trova radici ben più antiche nel witz yiddish), l’interpretazione del significato stesso di scrittura nel senso barthesiano del
termine, di un’écriture cioè «come iscrizione della memoria in tutte le forme»18, che sia recepibile in modo analettico e prolettico. L’interpretazione della scrittura in senso barthesiano viene sostenuta anche da
Berel Lang per il quale l’intransitività «elimina qualunque distanza fra colui che scrive, il testo scritto e coloro che lo leggono»19. Tali opinioni vanno considerate alla luce delle affermazioni fatte in merito
da Hayden White rispetto al concetto di scrittura intransitiva. White rifiuta l’assoluto ideologico esposto da Berel Lang per cui tale tipologia scrittoria deve
servire da modello a tutte le scritture post-Shoah. White chiama in causa il
concetto di middle voice inteso in senso derridiano20 e lo propone come forza opposta a un assolutismo teorico che rende arduo il
comprendere persino l’utilizzazione dell’écriture intransitive se non si chiarisce la sua utilità per evitare riflessioni rispetto alla «realtà in quanto storia»21 e «realisticamente significare il trattamento, non solo del passato ma anche del presente, in quanto storia»22. Quello che si considera come rappresentazione realistica va rivisitato,
conclude White, per poter raccontare, mediante la middle voice o altre possibili tecniche formali, delle esperienze la cui unicità determinano l’utilizzazione di nuove categorie di narrazione.
Nel caso di Lezioni di tenebra non c’è ragione di confutare la tesi di Sicher quando parla di trasformazioni testuali
dovute a criteri postmoderni per i testi prodotti dai figli della Shoah. Il
libro appare una resa testuale delle teorie sostenute da White, ribadisce cioè la conferma di una rappresentazione dei fatti che va molto al di là del realistico o meglio, di quel che si pensa sia il modo “realistico” di narrare eventi. La rappresentazione si presenta interna al significato, lo
precede addirittura, media la nostra esperienza e la traduce infine nel testo
che la middle voice contribuisce a produrre.
Nello specifico, mi riferisco al caso della difficile inserzione di genere del
testo di Janeczek, ancor più rappresentativo della sua generazione (letteraria) proprio per via delle
problematiche legate all’ibridazione dei generi che confluiscono nella creazione di un testo che per
motivi editoriali, di mercato e di facile e grossolano accostamento del genere
romanzo alla readership femminile, hanno consentito alla casa editrice di attribuire la definizione
generica di “romanzo” a questo testo. Wu Ming 1 (l’1 sta per Roberto Bui, membro del collettivo di scrittura Wu Ming) inserisce Lezioni di tenebra nella sua tipologia di UNO, “Unidentified Narrative Objects”, vale a dire romanzi dal genere non facilmente identificabile, dai confini
perennemente incerti23, e in cui il regime rappresentativo si basa, ancor prima che su quella dei
lettori, sull’ambiguità e incertezza percettiva di chi di tali cose vuole scrivere, spesso utilizzando
le pratiche – abbastanza diffuse fra gli autori della seconda generazione – dell’autofinzione.
Gli elementi paratestuali – esterni alla volontà dell’autore – sono illuminanti nel loro forzato apporto comunicativo come nel loro indicare
un percorso di ricezione del testo sin troppo ovvia, confinandolo sin dalla
prima pagina nel recinto generico del “romanzo”. La copertina di Lezioni di tenebra riporta due foto: sul primo piatto vediamo la foto di una bimba, verosimilmente
si tratta dell’autrice, sul cui torace nudo appare una stella di Davide, a cui fa pendant sulla quarta quella di una giovane piuttosto bella. La prima immagine richiama
in modo troppo suggestivo, e direi quasi triviale, questa “difficile eredità” da Dna. Rimane però il significato della stella che gli ebrei, dalle leggi di Norimberga in poi,
furono costretti a cucire sui loro vestiti riprendendo un uso discriminativo
della stella di David invalso nel Seicento e prima ancora nel Medioevo, e che
nella foto della bimba figura sovrimposta sulla sua delicatissima pelle. Per
quanto di gusto discutibile, la foto compie un ottimo lavoro di sintesi visiva
per il contenuto del testo. Un monumento all’eredità difficile di questi figli dei sopravvissuti. Ma Lezioni di tenebra non corrisponde certo alla definizione di romanzo tout court come dichiara, invece, l’apparato paratestuale previsto da Mondadori.
Il titolo scelto da Janeczek, Lezioni di tenebra, è assai suggestivo e non certo fuorviante. Ribadito nella sua forza ispiratrice
anche dalla sua messa in epigrafe – «…habitavit inter gentes, nec invenit requiem: omnes persecutores ejus
apprehenderunt eam inter angustias»24 – esso fa riferimento a un momento particolare della liturgia cattolica, il
servizio cosiddetto delle tenebre officiato il Giovedì Santo. Si tratta di quel rito che conclude, appunto, tale giornata della
Settimana Santa con «il canto dei monaci alla fine del giorno, e le candele dell’altare che si spengono una dopo l’altra»25. È una liturgia legata alla morte del Salvatore, legata alla memoria come al
sacrificio di coloro che non possono più raccontare. Lo spettro della morte e la drammaticità dell’esistenza dei genitori riempiono le pagine di un testo drammatico quale il
memoriale che Janeczek – una delle narrazioni che concorrono alla produzione di Lezioni di tenebra – redige per la madre, il dono doloroso ma necessario della figlia per questa
sopravvissuta. La relazione privata nasce dalla morte per poco evitata dalla
madre, una donna i cui traumi ricorrono costanti nella vita della figlia. Un
mezzo artistico, quello che consente la ripetizione retorica di ossessioni
raccontate dalla narratrice-protagonista, diventa terapia per Helena, e si
trasforma in un canto monotono e oscuro che scandisce le pagine per alleviare
se mai possibile il dolore per lo «straordinario senso di controllo» della madre su di lei26. La parola scritta fa scattare l’intera economia del dono fra le due donne. Janeczek rivolge uno sguardo critico
alla madre per quelle «ossessioni, la depressione, la sfiducia negli altri e la mancanza di interesse
in tutto all’infuori del lavoro e della casa»27. Quei sintomi materni di cui parla la figlia la accomunano agli altri
sopravvissuti. Parlando della madre, Helena parla di, e per, tanti di loro. Se
nel rito delle tenebre le candele si spegnevano una ad una, nel rito ebraico il
venerdì sera una donna accende due candele per illuminare le tenebre e dare inizio alle
preghiere di Shabbath28. Le candele stanno a significare oggi anche i figli dei sopravvissuti: è giusto quindi per molte ragioni che Helena, una donna figlia di sopravvissuti,
indichi a noi come ciascun figlio di sopravvissuti possa divenire una luce, possa essere una “candela memoriale” dell’esperienza dei propri genitori.
Il titolo Lezioni di tenebra quindi racchiude due possibili significati: il difficile compito dei figli di
crescere felici quasi “per forza” come, infatti, sostengono sia Helena Janeczek che altri figli dell’Olocausto29, e personificare quindi la luce per i propri genitori, così come il monito a dover ricordare il loro percorso nella tragedia, in esso s’invera una duplice eredità. A voler fare dell’ironia, si potrebbe azzardare che, del genere succitato, del “romanzesco” cioè, Lezioni di tenebra conserva solo la genesi tormentata, la ricerca di una lingua e di modalità espressive in cui esporre il dramma del dissidio e dell’amore che lega le due donne. Un dramma simultaneamente individuale e collettivo,
quindi legato all’idea dell’individuo che, solo vivendo tutta una serie di esperienze può, in fine di “romanzo”, dichiararsi pronto al proprio inserimento nella società che l’autore e/o il narratore descrive nel corso del libro. Tale fatica si raccorda a quell’impossibilità, constatata da Primo Levi tra gli altri, di trovare lemmi significativi e
consoni al peso di tali eventi.
Vorrei provocatoriamente sostenere che quello di Janeczek è tutto fuorché un “romanzo”. Non lo è nel senso che tradizionalmente si attribuisce a tale termine, neppure
accettando le elastiche posizioni teoriche di Paul de Man e di Gerard Genette
sui rapporti romanzo/autobiografia. Certo, tutto il narrato può essere un romanzo, ci dice Derrida, e la finzione può diventare autobiografica. È importante in questo caso particolare essere invece più specifici proprio perché, se secondo Wu Ming 1 Lezioni di tenebra costituisce un appropriato esempio di UNO, i motivi esistono senz’altro, e su questi non si vogliono lasciare ambiguità. I personaggi di Lezioni di tenebra non sono fittizi, i nomi dei luoghi e delle persone corrispondono a quelli dei
luoghi e della mappa biologica reale dell’autrice. Autobiografia? Il testo segue un andamento che, molto più del romanzo, mantiene i tratti dell’autobiografia, nel senso che racconta, per una serie di necessità, molti dei momenti cruciali dell’esistenza della protagonista con una precisione di dati caratteristica di quest’ultimo genere: nome, nascita, luogo esatto in cui la protagonista narrante vive
e ha vissuto. Ennesima sviante confusione di strategie: troppi gli inserimenti
di dialoghi con altri personaggi, troppo insistito il discorso sulla, e della,
madre, perché si tratti di un’effettiva autobiografia. Si potrebbe, semmai, andare oltre i limiti della
definizione di “romanzo autobiografico”, secondo i criteri di Lejeune. Un romanzo distintamente basato sull’esistenza dell’autrice. Non basta. Si può legittimamente parlare di autofiction30 perché il testo viene definito come “romanzo”, mentre il nome e cognome della protagonista e narratrice corrispondono a
quelli della scrittrice reale. Helena Janeczek scrive di Helena Janeczek e
della storia di sua madre e della madre di sua madre all’interno di un testo che non appartiene né allo statuto testimoniale né a quello romanzesco tout court. In un rovesciamento degli elementi che sovrintendono all’impalcatura della finzione, quel che di fittizio esiste in Lezioni di tenebra, come nel successivo Le rondini di Montecassino, è proprio il dato che si considera solitamente reale: il proprio nome. Il dato reale, cioè, che ci proviene dai fatti riguardanti l’esistenza della madre della protagonista, risulta ancora più irreale e incredibile di quelli che di solito si rappresentano in un romanzo.
Dopotutto, il velo fra reale e vero, fra fittizio e autentico nella vita di
Janeczek è molto più sottile di quanto non si pensi, e la figlia non esita a rammentarlo alla madre
e a noi lettori:
Le sue domande sono spesso a trabocchetto, le conversazioni al telefono prendono
l’aspetto di un terzo grado. Per lei ogni parola può trasformarsi all’improvviso in una possibile menzogna, le cose più comuni in indizi d’altro e le persone in qualcosa di più oscuro, una minaccia. In quei momenti tutto deve per forza essere diverso da
come appare, non può nemmeno unire in sé due o più aspetti. Crede di poter strappare la maschera, che dietro un nome falso ce ne
sia uno vero, e dimentica che un nome falso è diventato il suo vero nome.31
Come scrive il personaggio narrante del suo ultimo romanzo, la cui identità è, di nuovo, autofinzionalmente coincidente con quella della scrittrice:
Ma il nome falso di mio padre è il mio cognome. Con quello sono nata e cresciuta, ne ho spiegato mille volte l’origine, e finisco spesso per essere scambiata per immigrata, per badante,
persino per donna facile perché in Italia, oggi, porto un cognome slavo. Come posso considerare falso qualcosa
che mi ha impresso il suo marchio? Come può esserlo quel nome a cui mio padre deve la vita e io la mia? Che cos’è una finzione quando si incarna, quando detiene il vero potere di modificare il
corso della storia, quando agisce sulla realtà e ne viene trasformata a sua volta? Cosa diventa la menzogna quando è salvifica?32
Una dichiarata posizione girardiana quella del personaggio che narra l’intensa storia dei soldati che parteciparono all’assedio di Montecassino, un momento cruciale per la conclusione della Seconda
Guerra Mondiale al cui interno si muoveva la tragedia della Shoah, lo stesso
che costrinse il padre di Helena a mutare il proprio cognome. Che lo trovò a scegliere, ancora una volta, una simulazione per affermare la verità della propria esistenza di ebreo perseguitato. È soprattutto la domanda che si pone il personaggio sulla natura stessa del
concetto di finzione –«Che cos’è una finzione quando si incarna, quando detiene il vero potere di modificare il
corso della storia, quando agisce sulla realtà e ne viene trasformata a sua volta?» – a consentirci di dire che, se il romanzo trae spesso le proprie caratteristiche
generiche dal discorso narrativo che materia la scrittura autobiografica
confermando l’importanza del dato esperienziale, rimane pur vero che tutto quello che la
finzione reca con sé può diventare anche realtà. Come nel caso delle Rondini di Montecassino, anche il precedente Lezioni di tenebra risulta arduo da leggere tenendo conto soltanto dello statuto romanzesco.
Troppo vicino all’autrice il racconto dei genitori e degli amici dei genitori, fra i quali l’Irka che ritorna in Le rondini di Montecassino. Ci si inceppa, si vuole sapere di più a proposito dei nomi, dei posti, delle date, dei numeri che costruiscono l’impalcatura del racconto. La lettura non scorre perché dietro la narrazione c’è altro. Allo stesso tempo, non si può definire Lezioni di tenebra soltanto in termini di scrittura memoriale. Il testo rivela anche i tratti di questo genere, a cui l’autrice ha poi intenzionalmente (ma anche inevitabilmente, mi sembra)
sovrapposto alcuni elementi tecnici classici del genere romanzesco (trama,
dialoghi, personaggi, tempo-spazio) che finiscono per confermare la forzatura
compiuta da discutibili decisioni editoriali nella scelta del termine con cui
poi vendere il prodotto-libro33.
Lezioni di tenebra racconta di una donna in guerra, di una figlia e di una madre impegnate in un
dialogo dirompente, angosciante. Ma si tratta soltanto di questo? L’autofiction obbliga il lettore a riconsiderare la realtà storica descritta all’interno del testo, o per meglio dire, a riconsiderare l’ineluttabilità della storia che poi diventa, per forze di cose, “storica” per l’individuo. Lo induce anche a riconsiderare i termini per cui, accettando il
criterio dell’autobiografismo implicito e opposto all’autofiction, una narrazione personale fatta da donna costituisca uno strumento di lettura
simultaneamente storico, letterario, etico e psicologico. Prestando fede allo
statuto del libro dichiarato dall’editore (“romanzo”), si potrebbe persino pensare che il privato di questa donna scrittora non
possa intercettare la sfera pubblica. Se etichettato esclusivamente come “romanzo”, il testo perde, invece, parte della propria rilevanza come momento di
riflessione e inserimento in un contesto più vasto di scrittura post-Shoah. Diventa uno dei tanti possibili testi dove si
elaborano le dinamiche del difficile rapporto fra una figlia e una madre senza
comprendere le ragioni “storiche” che ne definiscono la rispettiva schizofrenia. La narratrice – coincidente con l’autrice per sua stessa ammissione, e quindi titolare di una realtà che sa fondere in sé il finzionale con il reale – sa di essere l’unica a poter raccontare dell’esistenza materna, quel che neppure lei conosceva sino al momento traumatico del
viaggio ad Auschwitz. Con la sua scrittura, Helena rivela (persino a se stessa)
di essere l’unica a poter davvero completare il puzzle della saga familiare con i suoi
destini di vita e di morte; Helena è la sola che possa trovare il tassello mancante. Sarebbe dunque una grave
perdita limitare il senso di questo testo, soprattutto tenendo conto di quanto
dichiara la stessa Janeczek:
Quel libro [Lezioni di tenebra] è costruito a partire dalla voragine chiamata Olocausto che separa il presente
dal passato. Chi narra è senza radici, senza legami con la terra, la lingua, la religione, l’ambiente d’origine dei genitori, ha pochi brandelli di racconti di come è stata la loro vita prima della catastrofe e quasi nessuno su come fosse durante
gli anni della persecuzione. D’altro canto, però, si rende conto che a fronte di quel quasi nulla di memoria tramandata c’è nei comportamenti quotidiani il tramandarsi continuo e automatico di una sorta
di fall-out di quell’esperienza taciuta. Si scopre, in breve, segnata da quello che non ha vissuto né saputo ed è consapevole che, anche se disponesse di molte più informazioni, la sua capacità di immaginare e immedesimarsi non basterebbe mai a capire né tanto meno a ricostruire. Cerca di ricomporre quel che può per misurare la profondità di un buco, non per tapparlo […]. Importante è l’essere consapevoli di questo groviglio di appartenenza e non appartenenza, perché fa parte della costituzione di qualsiasi individuo.34
In Lezioni di tenebra l’introspezione di Janeczek si concentra su due fra le possibili tematiche che
Marlene Heinemann individua nella scrittura femminile della Shoah. La prima
ruota intorno alla disamina della separazione madre-figlia: non si parla qui di
Helena e della madre, bensì dello strappo fra la madre della scrittrice e la propria madre, cioè la nonna che Helena non ha mai conosciuto. La seconda tematica riguarda invece,
più convenzionalmente, la problematica relazione madre-figlia intercettata dallo
sguardo di una scrittrice35. Il testo assume la giusta importanza nel momento in cui lo si considera anche
in quanto memoriale reso possibile dal legame di sangue fra una madre e una
figlia. Come un atto di scrittura sorto dal legame biologico, vale a dire da un
legame che promuove l’aspetto più etico dell’atto artistico di questo scriversi per parlare di un trauma generazionale partendo dal trauma di una singola donna
e della sua famiglia. Lezioni di tenebra è un atto d’amore verso la propria madre, un inno alla vita che lei le ha regalato
nonostante tutto:
Io amo una madre sopravvissuta che raccoglie il pane per strada e molto meno l’altra che sale sulla bilancia tutte le mattine, e non riesco a metterle insieme,
e so di avere a che fare con un mistero irrisolvibile, so che non riuscirò mai a conoscere mia madre e so anche che la conosco fin troppo bene e che tutte
le nostre beghe non sono, né più né meno, che i soliti conflitti e le comuni follie familiari.36
Helena sa però che questo non è vero: la Shoah non costituisce lo “sfondo storico” su cui si staglia il romanzo, bensì la reale scaturigine – l’origine stessa – di questa scrittura. Il viaggio delle due al campo di concentramento diventa un
momento chiave perché sarà a partire da quel preciso istante che Helena deciderà di scrivere di sua madre. Situa la figura femminile come in un quadro dell’espressionismo tedesco, in una stanza d’hotel, spoglia, triste:
Mia madre nella stanza marrone di un albergo a Varsavia, brutta e buia come sono
le stanze di tutti gli alberghi molto alti e non nuovissimi, solo un po’ più triste, un po’ più buia, un po’ più marroncina di quelle in Occidente. È la prima volta che veniamo con calma in questo paese, lei dopo cinquant’anni esatti.37
Quel dopo, superfluo il dirlo, si riferisce alla fuga dal ghetto e dalla madre di
Franziscka. La conditio sine qua per cui Lezioni di tenebra esiste risiede nell’ovvietà che la Shoah genera testi: parlarne è imperativo. Quello che è accaduto dopo a causa del prima diventa quindi il motivo per cui si cerca di operare l’analisi di un rapporto così difficile che, partendo dalle leggi genetiche della consanguineità, si addentra in allusioni pericolose, e pure inevitabili, alle teorie sull’inferiorità (genetica appunto) degli ebrei e che gravano sul corpo delle donne di questa
vicenda. Lezioni di tenebra è un testo sulla Shoah che determina il rapporto madre-figlia in modo così particolare che soltanto un atto con valenze estetiche può riuscire a significarlo. Sia per Helena che per la madre, il rapporto stenta da
sempre a farsi veramente tale a meno che non scatti qualcosa che le costringa a
un confronto reale e spietato con quello che si è taciuto per troppo a lungo. Il viaggio e il libro fungono da strumenti
epistemologici per entrambe. Il «tramandarsi continuo e automatico di una sorta di fall-out di quell’esperienza taciuta» chiamata Shoah produce il testo quando Helena, finalmente, lo sconvolge dall’interno e decide di costringere – in qualche misura – sua madre ad aprirsi. Il tacerne non serve a nulla, soprattutto non serve a
loro due: solo grazie al racconto della propria esperienza di ebrea polacca nei
campi di sterminio la madre acquista lucidità e abbandona quell’ostinata e sterile rimozione degli eventi che le sono accaduti, una rimozione
che permea tutto il suo esistere in tanto dolore.
Possiamo dunque dire che l’ibridazione postmoderna si compone e agisce simultaneamente in Lezioni di tenebra su tre diversi generi: un’autobiografia, quella di Helena, un mémoir, quello della madre raccontato da Helena, e una storia pubblica, quella dello
sterminio degli ebrei polacchi38 e della loro ultima diaspora verso mondi migliori. Nel caso del mémoir materno, la storia viene ricordata come trauma la cui rimozione si rende
necessaria per la sopravvivenza. L’angoscia della madre permea tutte le pagine dedicate all’analessi di quel periodo e di quello immediatamente precedente la deportazione.
Simbioticamente, geneticamente, è anche avvertito nel farsi stesso dell’autrice, sin dalla nascita:
Sono nata che mia madre aveva quarantun anni, dopo una serie imprecisata
(cinque? sei?) di gravidanze finite con l’aborto, dopo anni di tentativi andati a vuoto, dati gli effetti sull’apparato riproduttivo della sottoalimentazione, dell’astenia, dell’epatite virale, guarita non si sa come, dello stress e di traumi inesistenti per i medici di allora, e di chissà quant’altro.39
«Traumi inesistenti per i medici di allora». È cosa risaputa che, sino a tempi assai recenti, l’esperienza vissuta dalla madre di Helena avrebbe prodotto, secondo varie scuole
di pensiero psichiatrico, “traumi inesistenti”40. Il problema della classificazione dei traumi e di come persino le vittime
femminili dei campi di concentramento non volessero riconoscerne l’entità, è stato d’altronde attentamente studiato. Il giustificato disorientamento di Ringelheim
per la scarsità d’attenzione allo specifico delle esperienze femminili, che si è protratta dal periodo dei campi sino all’inizio dei suoi stessi studi sulle donne nell’Olocausto, nello specifico di come le esperienze delle donne fossero state
considerate triviali nel loro svolgersi, evidenzia come sino a tempi recenti
sia il discorso medico che quello storiografico trascurassero qualunque
peculiarità di genere41. La descrizione fisica della genesi tormentata della narratrice, dei molteplici
concepimenti terminati con brutti aborti – «(cinque? Sei?)» – riecheggia il trauma materno. Helena non riesce a nascere se non dopo cinque,
sei tentativi. La madre tenta di farla nascere nonostante i precedenti tentativi non riusciti. Come per un contrappasso, la figlia oppone
l’ossessiva ricerca del cibo – del pane, per la precisione – all’astenia da cui è stata afflitta la madre. Una ragazza che, a causa della sottoalimentazione
materna (e paterna), deve accettare di avere denti rovinati e coperti d’oro già a dodici anni. Denti a cui Janeczek si riferisce in termini di «bel bottino per eventuali nazisti»42, denti che sente scricchiolare sino a dolerle la mandibola quando, di notte,
gli incubi la dilaniano conducendola in uno spazio sconosciuto di cui però, invariabilmente, avverte con terrore la presenza.
Senza il peso schiacciante di tale trauma “inesistente” a gravare sulla figlia, il testo sul difficile dialogo fra una madre e una
figlia non sarebbe mai nato. Non si sarebbe forse posto nei termini in cui è stato pubblicato Lezioni di tenebra, quasi contro la volontà dell’autrice, un’intellettuale che, come registra la sua narratrice nelle pagine iniziali,
rifiuta paradossalmente di pensare che il proprio difficile rapporto con la
madre possa sbloccarsi con la confessione materna sulla sua esperienza della
Shoah. «Non c’è niente che si spieghi con un massacro»43, dice la protagonista, che rifiuta inutilmente di spiegare le nevrosi materne – l’ordine, l’igiene e la precisione a tutti i costi – con la sagoma tragica della Shoah. Pure, come abbiamo visto, la storia vede la
sua catarsi compiersi soltanto nel brutto albergo di Varsavia.
La lingua e l’Italia
L’opera del 1997 di Janeczek, ebrea polacca cresciuta a Monaco di Baviera, è stata inserita nella collana Mondadori dedicata agli “scrittori italiani”. È la lingua l’elemento unificante della collana, eppure è proprio l’uso dell’italiano a segnalare e significare il dis-placement della scrittrice. Un senso di spaesamento che, come leggiamo nel libro, si
placa soltanto all’approdo a una terra e una lingua in cui l’autrice si sente sicura, l’Italia e l’italiano. Sono molte le scrittrici migranti che hanno adottato la lingua
italiana, ma Janeczek è una delle poche venute dal Nord. Oltre a lei, e per motivi simili, anche Helga
Schneider e Edith Bruck scrivono in italiano. Al contrario di Schneider44, figlia di una volontaria nazista, la cui vita è stata tragicamente segnata dalla scelta materna, Janeczek non rinnega
completamente il tedesco. Continua a tradurre poesie e lavora per testate
tedesche. Ma la mancanza di un proprio “situarsi” viene accresciuta dall’assenza di una lingua comune fra lei e la madre che non sia il tedesco, quindi
una lingua che non è d’origine né di appartenenza ma che pure le avvicina. Una madrelingua dovrebbe pure
esistere, sarebbe naturale, ma l’yiddish e il polacco non vengono parlati in casa e l’autrice ne conosce solo alcune parole legate a rare manifestazioni di tenerezza
materna. Queste lingue non parlate, che risalgono alla loro comune origine di
ebree e di polacche, svelano un’assenza semiotica che ovviamente interferisce con la capacità della scrittrice di costruire una relazione positiva con la madre. La lingua
rappresenta già di per sé un “impaccio” al rapporto; non costituisce neppure una lingua della nutrice, e non procura quella certezza nei rapporti che ci conferisce appunto la
sapienza trasferita mediante la lingua della nutrice come un latte dolce e
bianco, indispensabile per rompere il silenzio da parte di tutte e due le
interlocutrici. L’italiano non è la madre lingua né di Helena né della madre, che invece le ha insegnato, per una questione di difesa, a parlare
nella «lingua del nemico», il tedesco. O forse, più che per ragioni di difesa personale, la madre le ha imposto quella lingua per
conquistare una distanza tale dalla figlia da non sentirsi obbligata a
spiegarle nulla, non soltanto della Shoah, ma anche di quel dramma antecedente
all’esperienza nel Lager che la riguarda molto da vicino. Il dramma rappresentato
dall’abietto comportamento che Franziska ha tenuto nei confronti della propria madre:
l’aver decretato l’abiura delle radici è significato l’abiura della madre. L’abiura, persino, della lingua impostale e mai veramente accettata.
L’italiano è quindi di necessità l’unica lingua in cui Helena riesce a esprimersi per dar conto di una tragedia che
investe non due, ma tre generazioni. Contrariamente all’opinione espressa da Hannah Arendt45 – dettata da motivazioni logiche in quanto il tedesco costituiva la lingua madre
della filosofa (Arendt era nata in Germania e si sentiva tedesca) – la lingua acquisita diventa la sua unica attendibile pietra di paragone. L’ottimistica convinzione di possedere «una lingua madre che non conosc[e], ma vallo a spiegare a qualcuno»46, giustifica parzialmente l’assenza di qualcosa che Janeczek sa bene quanto sia vitale per l’individuo: una lingua comune e derivata dal Dna dei familiari. Una lingua introdotta nell’organismo per mezzo del latte materno che, ironicamente, Helena ricorda di non
aver mai ricevuto. Il tedesco, Muttersprache di Arendt, non assume la stessa valenza per Janeczek. La lingua, se non è o non la si sente propria, non protegge, non infonde sicurezza. Semmai il
contrario. Il rapporto con la madre è difficile persino in questo senso. Le “prove di valore” a cui viene sottoposta Helena vogliono dire anche questo: spiegazioni penose
per le difficoltà incontrate a scrivere in italiano. Nel codice materno, le paure della figlia «devono essere le sue, uguali e identiche. Non ammette che possa averne alcune in
proprio»47.
Lezioni di tenebra parte dalla spunto offerto da uno dei soliti programmi televisivi in cui si
trivializza – mercificandolo – qualunque evento umano. In questo caso è la Shoah di cui si parla nell’italiano “mediasettaro” da televisione:
L’altra sera in televisione una tizia sosteneva di essere la reincarnazione di una
ragazza ebrea uccisa in un campo di sterminio. Me l’ha detto il mio amico Olek, al telefono da Roma, e parlando con me continuava a
seguire le tappe ricostruite non si sa come di quella vita precedente, il
racconto preciso dei ricordi prenatali, e ripeteva “è allucinante”.48
La televisione, simbolo contemporaneo frequentemente utilizzato per denotare la
superficialità e l’ubiquità dell’informazione, della simulazione bidimensionale, dell’inevitabile appiattimento degli eventi, è la fonte magica del sapere per gli italiani. I “soliti sospetti”, «psicologi, parapsicologi, preti, lama buddhisti con monaci interpreti»49, sono lì pronti a straparlare non appena il presentatore dà loro la parola. Durante l’arco della trasmissione, Helena sente parlare della Shoah come di un’esperienza “altissima”50. Si avverte come un senso di profanazione per questa tragica esperienza che
Helena teme «non sia affatto un’esperienza, che non si impari niente, che non si diventi né più buoni né più cattivi, e una volta che è passata è passata, ritratta nei più remoti accessi dell’anima, che logora, opprime, persiste»51. Una tragica esperienza che diventa oggetto di un programma per la massa, una
sorta di Shoah-pop-show che, come sappiamo, spinge l’autrice a porsi una domanda, una domanda da cui si dipana l’intero testo:
Io, già da un pezzo, vorrei sapere un’altra cosa. Vorrei sapere se è possibile trasmettere conoscenze e esperienze non con il latte materno, ma
ancora prima, attraverso le acque della placenta, o non so come, perché il latte di mia madre non l’ho avuto e ho invece una fame atavica52, una fame da morti di fame, che lei non ha più. Parlo solo di questo, di questa fame particolare e chiaramente nevrotica che
si scatena in certi momenti davanti a un pezzo di pane, pane di qualsiasi tipo,
buono, cattivo, fresco, gommoso, secco. Arrivo perfino ad azzannare tozzi di
pane duro, non ne butto mai via nemmeno un po’, raccatto le briciole dalla tovaglia per mangiarle. […] Me l’ha insegnato lei che il pane è sacro, che lei, quando vede in strada un pezzo di pane lo raccoglie e lo mette
da qualche parte più in alto, per non lasciarlo lì, per terra. Ho imparato fin troppo bene la lezione, forse sta tutto qui.53
La “lezione” è ciò che costituisce il legame fra madre e figlia: una lezione di tenebra, un’eredità non detta ma praticata, di sofferenza passata attraverso il liquido amniotico
di una nel corpo dell’altra, corpo che si è formato mentre assume biologicamente il dolore e il peso dell’esistenza materna. La fame che spinge Helena a mangiare perennemente del pane
deriva da quella fame che la madre ha sofferto lì dove «“non c’era niente da mangiare”»54. L’ellissi sta per un posto innominabile e, infatti, non menzionato dalla madre.
Come spesso accade, viene occultato/rimpiazzato da metafore: avanza lo spettro
dell’innominabile Auschwitz, quel posto in cui, con un’altra metafora, «quello che è successo»55 è successo, e per cui non esistono parole. Un posto dove la madre, «per puro caso o miracolo non è morta di fame o, più probabilmente, morta ammazzata per astenia da denutrimento, ammazzata col gas»56. Mentre la madre sta maniacalmente attenta alla bilancia, i duri occhi della
figlia adolescente l’osservano nel momento in cui l’ama forse meno per tutte le paranoie che introduce nel suo mondo:è una madre che si pesa, che non mangia, che non trasmette amore per il cibo, ma
soltanto ansia perenne. Per tutta risposta, Helena mangia con ingordigia il
pane. Nel presente della scrittura, la narratrice si chiede se la madre le «[..] ha passato la sua fame da mezza morta per superare quella mezza morte e
riconquistare il suo carattere, la personalità, la psicologia individuale di prima della fame»57. Tutto quello che ha fatto Helena l’ha fatto sempre per essere uguale e contraria alla propria madre-insegnante di
tortura che applicava la tortura alla propria figlia avvolgendola, malgrado il
suo amore, nelle tenebre del proprio passato. L’anoressia materna viene compensata dalla figlia con un altro disordine
alimentare, la bulimia.
Percorsi della memoria e costruzione identitaria
Privo di una convenzionale divisione in capitoli, la materia del libro si
raggruppa, piuttosto, in sezioni tematiche, che stanno a simbolizzare i diversi
gradini verso la conoscenza di, e tra, queste due donne. L’identità e la nazionalità sono loro paradossalmente assicurate da un passaporto tedesco. Un passaporto
sino a poco tempo fa impossibile da ottenere per chi non fosse effettivamente
tedesco, il principio dello Jus Sanguinis parlava chiaro. Eppure per una perversa serie di circostanze definite retribuzione, la madre come la figlia dispongono di un passaporto tedesco: «siamo tedesche, c’è scritto sul passaporto», dice Helena58. Non è effettivamente “tedesca”, Helena, e lei questo lo sa molto bene. L’ha imparato nel duro apprendistato della sua vita. Pur essendo nata e vivendo a
Monaco di Baviera, i suoi genitori le hanno ripetuto in un’incessante litania: doveva ricordarsi di non essere tedesca. L’aggettivo “tedesca” conferma soltanto una grottesca situazione giuridica che Helena non ha
desiderato veramente. Dopo aver trascorso i suoi primi diciott’anni in Germania, Helena risiede ormai da molto tempo in Italia, da quando cioè ha deciso di studiare letteratura italiana e di vivere in un paese dove
sentirsi a proprio agio. Così come in precedenza aveva fatto la madre, che aveva deciso di vendere calzature
italiane, oggetti cioè che per lei rappresentavano la sicurezza che proviene soltanto da quello che
appaga il senso estetico59, allo stesso modo Helena ha deciso di andare a vivere in un paese la cui lingua
appaga il suo desiderio di appartenenza a una cultura che sente più sua.
Alle orecchie di Helena, il concetto di Patria – sul cui valore riflette Primo Levi nei Sommersi e salvati60 – suona vuoto. Molto più che per la Millu del Tagebuch, tale concetto resta per Janeczek inattivo, perlomeno sino al suo arrivo in
Italia. Privata prima della propria identità a causa della Shoah, su di lei è stata imposta in modo contraddittorio un’altra Heimat, la Germania. Ma persino questa è presente solo a metà nella sua costruzione di un’identità sociale, dato che i genitori le ricordano in continuazione che lei non è tedesca, che lei non può uscire con ragazzi tedeschi. Tutto le è familiare a Monaco, ma nulla significa davvero “famiglia” per Helena. Lei è dis-placed, appartiene a quella categoria di individui definiti «letteralmente “persone spiazzate”»61. Le rimane impresso sulla pelle il termine con cui i suoi genitori sono finiti
a vivere in Germania dopo essere sopravvissuti ad Auschwitz. Sovraimposto, come
la stella di David sul cuore della foto dell’autrice bimba sulla copertina di Lezioni di tenebra. Al termine della guerra i suoi genitori hanno trovato riparo in un Displaced Persons Camp: per molto tempo è questa la categoria in cui sentiva di rientrare Helena, “displaced”. L’eredità della Shoah sta a indicare anche questo: non avere un posto dove sentirsi a posto, e perciò, quando può, il/la sopravvissuto/a della seconda generazione cerca di spiegare il proprio
trauma, la personale interrogazione della Shoah. Questo avviene sempre e
comunque: come diceva la guardia di Levi, nella Shoah non si possono trovare
spiegazioni dato che non esiste neppure la parola stessa “perché” che possa significare il tentativo di una spiegazione. Quel «Hier ist kein Warum» abbaiato dai soldati tedeschi di Se questo è un uomo, funziona come monito.
Eredità: per Helena il retaggio familiare non è certo legato a delle cose. Oggetti, mobili, fanno quel che siamo. I ricordi si
formulano osservando cose che ci ricordano di altre persone, della nostra
tradizione62. L’assenza di cose appartenute alla famiglia, ninnoli che non trovano posto nell’appartamento di Helena a Monaco richiamano altre parole di Levi; la soluzione
finale non ha solo spazzato via le persone care, la propria genealogia, ma
anche gli oggetti che potrebbero farceli ricordare, ricostruire un passato che
non esiste più. C’è un vuoto tangibile e irrimediabile. Certo, l’appartamento a Monaco è pieno di oggetti, ma nessuno di essi svolge la funzione di ricordare i legami con quella
famiglia che Helena non ha mai conosciuto. Nessuno di quegli oggetti è investito di quell’autorità precipua delle cose che marcano l’indissolubile nodo di relazioni che è il fulcro di una famiglia63. Siamo di fronte alla più ampia reificazione del nulla, dell’assenza di una trasmissione di affetti, della scomparsa del lógos che legava la madre di Helena alla sua famiglia. Le cose care che ci si
tramanda di generazione in generazione sono state sostituite da oggetti di puro
uso pratico, o che definiscono lo status symbol della famiglia. Il dramma degli ebrei dell’Europa orientale viene rapidamente ritratto in quel non-essere degli oggetti che
denotano una linea genealogica, che danno un senso di appartenenza a una
collettività. Il peso della memoria esiste dunque per entrambe le donne: non può essere altrimenti sino a quando Helena e Franziska-Nina non ritrovano un
passato trascorso e vissuto in realtà dall’ultima, ma il cui peso è sentito anche dalla prima.
Il viaggio ad Auschwitz – topos classico della letteratura post-Shoah – servirà a costruire i tasselli mancanti nella relazione madre-figlia. È la riemergenza del trauma materno dell’abbandono della propria madre e il senso dell’eterna colpa che crea i tasselli. Il risveglio di Nina, il cui vero nome è Francizska e non il tedeschizzato Franziska, le farà finalmente raccontare il suo orribile segreto, quello di essere fuggita dal
ghetto di Zawiercie lasciando la propria madre al suo ineluttabile destino64. Il 26 agosto 1993, nell’hotel a Varsavia, Nina grida «mamma, mamma»65 pregando la figlia di scrivere tutto quello che adesso, soltanto adesso, le
riesce di dire. La sua voce, prima ripresa dalla scrittura di Helena, e quindi
raccontata attraverso la voce della figlia, ci giunge adesso sovrapposta a
quella di Helena. Dal desiderio di capire della figlia scaturisce quello di
confessarsi della madre. Nel libro di Janeczek la resa narrativa degli eventi
appartenuti al passato materno crea un effetto simile a quel che segnala Hayden
White a proposito di Maus di Art Spiegelman: «la storia dell’Olocausto che è raccontata nel libro ha la cornice in una storia di come è stata raccontata la storia»66. L’autofiction – un genere ibrido per sua stessa natura, e quindi più ospitale di altri – va oltre l’autobiografia perché consente a Helena di raccontare e ospitare, nel proprio racconto di una
difficile educazione, la voce materna che ricorda traumatizzata – ancora dopo tanti anni – il proprio vivere Auschwitz. Ci troviamo alla presenza di un concerto a quattro mani, mémoir-autofiction, la figlia per amore e desiderio di comprensione per la madre
ma, in un certo modo, anche per se stessa: la madre per il desiderio di
liberarsi – dopo il catartico viaggio ad Auschwitz – di un insuperabile senso di colpa, mentre la figlia per liberarsi di quell’insofferenza verso la madre/addestratrice che il destino le ha regalato67. Reagire alla realtà grazie alla scrittura, insomma, è un dono che soltanto la finzione ci può fare. La figlia è diventata la madre della propria madre; Helena è anche la madre di un libro di memorie di Franziska-Francizska-Nina68 ingenerato dalla propria autobiografia. Senza la procreazione di Helena,
letteralmente “figlia della Shoah”, non esisterebbe il memoriale materno. Helena vede finalmente la madre come un
individuo costretto da eventi tragici a diventare la donna stoica, dura ed
esigente che lei ha conosciuto senza capirla, e che troppe volte le è sembrata impegnata nella sua educazione alla stregua di un marine nell’addestramento delle reclute. Una madre indomita69.
La rimozione del dato fisico del tatuaggio sull’avambraccio sinistro recante il proprio numero di matricola ad Auschwitz
equivale simbolicamente e praticamente alla rimozione dell’esperienza di Auschwitz da parte di Nina, scappata da Zawiercie ma non incolume
dalla Shoah. Rimuovendo quel numero, simbolo di disumanizzazione, con cui era
stata conosciuta, frustata e vilipesa nel campo di concentramento, Nina pensa
di aver rimosso anche un intero periodo della propria esistenza, di essere
riemersa dalle malebolge di Auschwitz “quasi” indenne. Si ritorni alla scena di La finestra di fronte, allo stupore di Giovanna di fronte al braccio di Davide marchiato da quel
ricordo terribile. Servirà a comprendere come il tatuaggio del numero di matricola costituisca, a tutt’oggi, una delle poche evidenze della Shoah note e riconoscibili da tutti. La rimozione fisica del segno appare giustificata per via del ricordo traumatico che la madre
riesce, finalmente, a raccontare alla figlia. Una nazista le prese il numero di
matricola e il giorno seguente per punizione fece rasare a zero i capelli
biondi a Nina e a tutto il suo gruppo.
Fregavamo i vestiti, per noi stesse o per organizzarci qualcosa da mangiare,
qualche sigaretta, ma un giorno ci chiamano a un appello, all’improvviso. Dovevi spogliarti in fretta e buttar via la roba che avevi sotto l’uniforme, farla sparire. Non so come ho fatto, ma mi sono dimenticata addosso
una mutandina, devo aver perso la testa: la sorvegliante mi ha chiamato e si è segnata il mio numero. Fine. Arrivederci e via, “durch den Kamin”.
Siamo rientrate nella nostra baracca per la notte e tutte quelle donnette
cominciavano a fare “ojoj” e “ojwej”, sai come fanno, sono andate avanti per un po’ con quel loro “ojojojojoj”, insomma mi davano per spacciata, eravamo già al lamento. C’era una sopra di me che tutte le sere, prima di addormentarsi, diceva in
yiddish, “ah, se potessi un giorno tagliarmi una fetta da una forma di pane intera”, come una preghiera.
Il giorno dopo ci hanno rapate a zero tutte quante, punizione collettiva,
capisci, ma non mi hanno presa. Eravamo disperate. – Disperate? – Completamente calve. – Ma a momenti ti ammazzavano. – Sì, però neanche un capello in testa, che orrore.70
Eliminare i capelli dal corpo di una donna significa – più che per un uomo – privarlo degli attributi più evidenti della sua identità sessuale. Inoltre, eliminare la traccia della femminilità – persino adesso che queste ebree erano percepite dalle guardie naziste quali
meri Stücke, Figuren – serviva al regime. Tramite la trasformazione dei loro capelli in panni e feltri
per acquirenti civili tedeschi, questi pesi morti contribuivano in qualche modo all’economia tedesca. Come la cenere dei corpi utilizzata come concime.
Il processo di disumanizzazione in versione femminile voleva dire anche questo,
essere tosate per colpa di un paio di mutandine. Oltre al tatuaggio, Nina ha
voluto rimuovere anche questo ricordo. Una rimozione non soltanto fisica ma anche psicologica, quindi,
dell’offesa arrecata alla propria femminilità. La negazione dell’evento vissuto trova giustificazione nell’offesa arrecata da un’azione così volgarmente pratica alla propria identità e anche al senso estetico di Nina. Nina, una donna, non soltanto la madre di Helena-colei-che-scrive, ma una donna la quale ha potuto ricrearsi un’esistenza dopo Auschwitz grazie al proprio innato senso della bellezza, alla propria classe ed
eleganza. Nina ha aperto nel centro di Monaco di Baviera un negozio di
calzature italiane, le migliori. Col suo Dna, ed insieme ai denti cariati, alla
fame atavica (da cui si difende con un’attenzione nevrotica per la linea), Nina ha saputo trasfondere in Helena anche
il proprio amore per l’Italia. Il mondo consumistico in cui Nina si è letteralmente tuffata con la sua attività di commerciante di belle scarpe italiane pone l’accento su come la soluzione al problema economico post-Lager, ottenuta grazie
al suo senso estetico, contribuisca a allontanare Nina dalle brutture vissute,
ma non a dimenticare. In ultima analisi, anche Helena capirà e darà un senso ai propri incubi, incubi che sono condivisi (Helena se ne rende conto
solo in età adulta) da altri figli dell’Olocausto:
[...] sogni che non ho mai smesso di fare, sogni di persecuzione. In tutti i
film e i sogni sono io la preda. Adesso [dopo il viaggio, nda] capita che si presentino in uniforme e stivali, con cani al seguito. Ma quando
ero piccola e avevo incubi tutte le notti non sapevo niente e non credo di aver
potuto intuire qualcosa da certi indizi, come il non avere nonni, zie e cugini,
visto che non andavo ancora a scuola, e non potevo confrontarmi con i compagni.71
In questo testo così emblematico si avverte il peso di una storia pubblica, resa tale dopo il fluire
degli eventi, sul rapporto fra una madre e una figlia, e di come il trauma si
estenda alla figlia attraverso il liquido amniotico. La coscienza dell’impossibilità, paradossalmente ma comprensibilmente, legata alla non-volontà di rappresentare la Shoah smantella nozioni ormai obsolete di realismo e
rappresentazione realistica, di stretta codificazione di generi scrittorî, nella ricerca di stilemi unici che sovvertano le più tradizionali forme di scrittura autobiografica e memorialistica. Quel “buco” a cui Janeczek rivolge la propria attenzione esiste tuttora. La profonda unione
a un bene prezioso come la propria madre ci fa parlare di una memoria che
trascorre attraverso un sottile filo ombelicale grazie al quale il passato
materno è per Janeczek sempre presente.
Figli della memoria ebraica
L’orrore si diluisce nelle fibre, si trasmette ai figli,
i figli lo trasmettono ai nipoti... va avanti di generazione in generazione, va
avanti sempre un po’ più debole certo, alla fine anche si estingue.
Si estingue nel momento esatto in cui un altro orrore
è pronto, è fresco e vivo sta lì e attende e…72
Secondo la poetessa ebrea tedesca Esther Dischereit la scrittura si fa mezzo di
coesione per i figli dei sopravvissuti. Nella sua concretezza, la parola
scritta diventa un collante amoroso che lega i figli alle famiglie aiutandoli
nella ricerca di quella identità ebraica interrotta e sovente riesaminata soltanto alla luce della Shoah. La
ricerca di coloro che Helen Epstein – lei stessa figlia di sopravvissuti – definì alla metà degli anni Settanta con la formula assai efficace di “Figli dell’Olocausto”, continua a svolgersi, sia pure con modalità e fini diversi, anche ai nostri giorni. I parametri investigativi del testo di
Helen Epstein, oltre a una certa consonanza con quelli segnalati da Maurice
Halbwachs in La memoria collettiva, rivelano anche la nozione di una «storia vivente, che si perpetua o si rinnova attraverso il tempo»73. Di una storia, cioè, che si materia di nozioni soggettive, di informazioni e riflessioni che
superano il dato statistico, quest’ultimo considerato superfluo da chi, come i figli dei sopravvissuti, certe
esperienze le vive direttamente nel quotidiano:
Non avevo bisogno di conoscere le statistiche quando ero una bambina: sapevo che
i miei genitori avevano attraversato un abisso, e che ciascuno di loro lo aveva
attraversato da solo. Io ero la loro prima compagna, una nuova foglia, e sapevo
che questa foglia doveva rappresentare la vita. Questa foglia era lontana dalla
morte come il bene lo era dal male e il presente dal passato. Testimoniava il
potere della vita sul potere della distruzione. Era la prova che essi non erano
morti. La porta che dava su questa stanza speciale era segreta: il luogo doveva
essere protetto.74
La metafora che Epstein sceglie per se stessa, quella di una foglia, «Io ero la loro prima compagna, una nuova foglia, e sapevo che questa foglia
doveva rappresentare la vita», utilizza schemi classici rispetto alla figura della foglia, ramo-albero-linfa,
un campo semantico consueto per tale figura. Lei è una foglia che germinando rinnova l’albero con nuova linfa e rinvigorisce la famiglia. Pone poi in luce – non paradossalmente – il suo evidente desiderio di voltare pagina rispetto all’esistenza condotta dai genitori dopo l’evento. In inglese leaf significa infatti “foglia” come anche “foglio”. Chi scrive è consapevole di essere la prova vivente dell’impegno dei genitori a non soccombere al peso di quell’abisso che Janeczek chiama “voragine”. La foglia doveva mascherare «il potere della distruzione», doveva testimoniare «il potere della vita». Pure, per poter compiere questo gesto così grande che i genitori le richiedono, non sarebbero state sufficienti le sue
sole forze. La figlia doveva capire come generare quel potere, non bastando soltanto la propria presenza. Doveva aprire
quella scatola di metallo che «conteneva una stanza speciale per mia madre e mio padre, calda e umida, come una
serra. Essi vivevano là dentro di me, rarefatti e separati dagli altri esseri»75.
Per difendersi dall’usura del tempo e del gelo familiare, la figlia-foglia doveva interagire con
altri che vivevano la sua stessa esperienza. Lo scrivere e il parlare con altri
figli di sopravvissuti, identificarsi metonimicamente con un nome per tutti,
diventa, come sostiene Dischereit, il collante psicologico ed empatico per la
generazione di Epstein in un periodo in cui la costruzione culturale del
concetto stesso di “figli dei sopravvissuti” era ancora un processo socio-politico tutto da farsi, anche se facilitata negli
Usa grazie al movimento degli hippies, come scrive la stessa Epstein.
Interrogare gli altri figli, «trovare un gruppo di persone che, come [lei] erano ossessionati da una storia
che non avevano vissuto» significava per Epstein «raggiungere la parte più inafferrabile di [se] stessa»76. Il quadro così composto nel suo libro – uscito oltre trent’anni fa – la “ricomposizione” del passato mediante persone che Epstein incontra, soddisfaceva le necessità per la realizzazione del proprio testo scaturite da lei per prima. Allo stesso
tempo il libro si faceva testimone di un pensiero ebraico americano allora
diffuso fra i figli dei sopravvissuti77, assai omogeneo in quelle logiche “geografiche” in quella “topografia fisica” che Halbwachs enumera nel teorizzare le linee costruttrici della memoria
collettiva78.
L’interesse per tutti i Children of the Holocaust era quello di poter parlare liberamente dei propri tabù e delle comuni paure all’interno del gruppo, di poter sviscerare temi mai discussi con i genitori, di
comprendere – all’interno di una qual certa ritrovata omogeneità culturale – quegli elementi che li facevano sentire diversi rispetto alla società americana. La loro condizione ibrida, che Arendt spiega così efficacemente in “Noi profughi”, era quella duplice di figli di sopravvissuti e di americani, persino di reduci79. Quello di Epstein credo rappresenti, ancora oggi, uno dei casi più salienti di una ricostruzione fatta a partire da dati comuni presenti nel
discorso dei figli in una condivisione di interessi e di modi di pensare dei
propri genitori che si attualizza nel testo di una figlia. Questo procedimento
non prescinde dalle nozioni che legano i membri del gruppo i quali, a loro
volta, si contrappongono, ontologicamente ed epistemologicamente, ad altri
gruppi, non coincidenti, che formano differenti quadri di definizione del
passato. Nella costruzione culturale della Shoah la ricerca di coloro che Helen
Epstein definì con la sua riuscita formula, continua nel suo farsi-in-divenire ma segue modalità e fini diversi. Assimilabile nella concettualizzazione a quella proposta negli
anni Settanta da Epstein, per Janeczek tale definizione costringe, per via di
un’insita insufficienza semantica, la propria generazione e la propria esperienza
in un limitato orizzonte in cui vivere e formare la propria identità, ponendo ai figli dei sopravvissuti forti condizionamenti psicologici e morali.
A questa formula, infatti, Janeczek ne contrappone un’altra, Figli della memoria ebraica. Da cosa nasce tale desiderio, questo non indifferente slittamento linguistico
dal più piccolo al più grande elemento della nostra stessa origine?
L’esigenza di Janeczek non deve stupire se si pensa alle riflessioni di Maurice
Halbwachs circa la costruzione della memoria collettiva. Per il teorico «la memoria collettiva non è infatti resurrezione o reviviscenza del passato come tale. Essa è essenzialmente ricostruzione del passato in funzione del presente»80. Paolo Jedlowski sostiene che per Halbwachs «le trasformazioni che la sua immagine [del passato] subisce non sono deformazioni più o meno accidentali, ma la legge stessa del funzionamento della memoria»81 perché «i quadri collettivi della memoria [...] sono degli strumenti dei quali la
memoria si serve per ricomporre un’immagine del passato che in ogni epoca si accorda con i pensieri dominanti della
società»82. È appunto in conseguenza di un mutato orizzonte culturale che le maglie di quel
che costituiva l’identità dei figli della Shoah rivelano nel tempo il peso di tale costruzione e della
memoria. Trent’anni dopo la pubblicazione di Figli dell’Olocausto, la costruzione di Helen Epstein, pure ottenuta attraverso un sapiente lavoro
di ricerca che la avvicinava agli altri figli dell’Olocausto, si rivela culturalmente (oltre che esteticamente) inadeguata per
Helena Janeczek. Per lei, l’ostinazione – di cui parla Dischereit – della ricerca della propria identità in quanto ebrea, e non solo in quanto ebrea figlia di sopravvissuti, diventa un progetto di vita che non vuole più sentirsi limitato e condizionato dall’immediato passato della sua origine. È un progetto di gioia e di vita per i propri figli, per una collettività di cui vuole sentirsi partecipe. È un progetto che tende alla riconquista di una storia e di una memoria ebraica
che sappiano guardare al passato di prima della Shoah con la stessa ostinazione
con cui si tenta l’avvicinamento a tutti i figli della Shoah. Così – scrive Dischereit:
La scrittura diventa la possibilità di essere legati agli Altri a cui si appartiene; anche se nella scrittura
talvolta è riconoscibile un bisogno quasi ossessivo di leggerezza. [...] La scrittura
subentra al posto del parlare privato e personale. Rimane generalizzante per
mantenere la distanza e diventa pubblica prima di essere stata privata. A
questo rendere pubblico quanto di traumatico è rimasto celato nel privato e tenuto in scacco si accompagna allo stesso tempo
qualcosa di indecente. Agli occhi di un pubblico tedesco non ebreo questa
scrittura assume un tratto di prostituzione. Come una donna che si spoglia
davanti agli occhi degli uomini. Lo so, ma non vedo alternativa. Per la seconda
e la terza generazione questa scrittura ha assunto anche un tratto di
ostinazione. Chi si manifesta pubblicamente, rimane sempre presente.83
Lo scrivere di sé, per sé e per gli altri come sé, può allontanare dalle mistificazioni dei media a cui va soggetto il discorso non
appena la collettività se ne fa carico. Una scrittura diventa simbolicamente anche il paese in cui si
può parlare e nel quale è possibile far convivere le due pratiche indicate da Dischereit.
Nella prefazione all’edizione italiana de I quadri sociali della memoria di Maurice Halbwachs, Antonio Cavicchia Scalamonti84 commenta la difficoltà di alcuni gruppi ad «assorbire» certi ricordi piuttosto che altri. Attribuisce alla «relazione fra memoria collettiva ed identità» la possibilità o l’incapacità di «metabolizzar[li]» in quanto «troppo dolorosi perché disturbanti l’immagine di sé così faticosamente costruita»85. Per Cavicchia Scalamonti, «è come se il gruppo – muovendosi in modo analogo all’individuo – “rimuovesse” o “accantonasse” quanto può rappresentare una discontinuità nell’identità posseduta»86. Se per gruppi minoritari, infatti, un dato evento è degno di un indispensabile e continuo ripensamento intellettuale, etico,
politico e antropologico legato alla loro identità stessa, non necessariamente l’evento continua a significare lo stesso a tempo indeterminato. Restare legati a “certi ricordi” vuol dire continuare a pensare a ciò che non può più essere riparato nella logica del lutto, un lutto che per Helena Janeczek, al
contrario di altri, dev’essere elaborato e inserito in una memoria inestimabile quale quella del popolo
ebraico. Stiamo riferendoci alla difficoltà per i figli dei sopravvissuti di definirsi, ancora e sempre, Figli della Shoah. La difficoltà di comprendere la Shoah – verbo gravoso questo perché “comprendere” vuol dire “far entrare” tale concetto all’interno di un sistema etico che ci appartiene e ci fa quel che siamo in quanto
individui – invera un’osservazione di Zygmunt Bauman relativa al problema identitario. Tesi fondativa
del suo famoso Modernità e Olocausto87 è quella secondo cui l’Olocausto non ha apportato vistose modificazioni nella storia successiva della
nostra coscienza e autocomprensione collettiva. L’impatto, quindi, si è rivelato molto meno drammatico di quanto non ci si sarebbe aspettato e, di
conseguenza, anche la costruzione di una memoria collettiva della
Shoah/Olocausto stenta a realizzarsi concretamente. Secondo Dan Diner, la
memoria di eventi passati, oltre che dal trascorrere del tempo, dipende anche
dall’incidenza delle memorie collettive:
Una memoria collettiva forma i suoi ricordi in analogia con il modo in cui ci si
ricorda di essa. Il suo sguardo retrospettivo su avvenimenti fantasticati o
reali accumula un canone di ricordi. Quando il canone viene identificato e
tramandato, altre persone possono aderire a una siffatta memoria. Il peso e l’efficacia della memoria dipende in gran parte dalla sua durata. In ogni caso
occorrono alcune generazioni perché all’interno di una comunità solidale si possa formare una memoria collettiva. Con il passare del tempo il
canone dei ricordi si condensa e si razionalizza fino a dar vita a una storia
delle origini, un ethnos.88
Sprovvista del «canone di ricordi» suggerito da Diner, «la storia delle origini» non può confluire entro un percorso utile alla modificazione dell’identità sociale di quel popolo per cui tale memoria collettiva dovrebbe costituirsi,
specie se, come aggiunge lo storico, «Il ricordo svanisce ancora più rapidamente qualora i membri del gruppo siano stati uniti da circostanze che si
prestano poco ad essere tramandate»89.
L’itinerario di ricerca e di riflessioni di Janeczek si muove fra un momento del
suo privato, la pubblicazione di Lezioni di tenebra nel 1997, e quello dell’intervento del 2002 a Palermo intitolato “Figli della Shoah?” In mezzo, limes fra la memoria personale, anche se indiretta, dell’evento, e quella sociale dello stesso, si situa la già ricordata istituzione della Giornata della Memoria in Italia dal 27 gennaio 200190, momento emblematico del riconoscimento del significato collettivo dell’eredità della Shoah nel nostro paese. Fra il privato dei figli dei sopravvissuti,
passato rimosso, o poco discusso in famiglia, e il pubblico, vale a dire dell’autocomprensione collettiva che poco era stata, secondo Bauman, modificata, la Giornata della Memoria fa scattare una serie di riflessioni.
In Lezioni di tenebra, testo pubblicato prima dell’istituzione in Italia della Giornata della Memoria – in un periodo in cui Anna Rossi-Doria lamentava ancora, e con molta ragione,
una certa indifferenza degli italiani rispetto al problema della responsabilità91 – la traiettoria narrativa impiegata dall’autrice dirigeva – si è detto dianzi – il lettore sul suo privato. Ebrea polacca, figlia di deportati, senza Heimat né Muttersprache per mezzo della quale riferire dei propri ricorrenti incubi notturni, con cui
parlare di quella «scatola di ferro, sepolta» nel proprio io, nella coscienza – come scrive Epstein – «di trasportare cose instabili, infiammabili, più segrete di quelle del sesso e più pericolose degli spettri e dei fantasmi»92, Janeczek cresce metaforicamente all’ombra di Auschwitz, impara a vivere dietro una spessa ombra, con la tenebra del
titolo del libro ispirato alla musica di de Couperin. Come sulla copertina del
libro, vive con una stella di Davide impressa per sempre sul cuore. In modo
analogo all’esperienza tracciata da Helen Epstein nel suo testo autobiografico, Janeczek
impara a convivere con la reticenza dei genitori, soprattutto quella della
madre. Le sue riflessioni riprendono da dove Epstein aveva smesso di tenere
chiusa la scatola, da quando aveva deciso cioè di cercare altri figli dell’Olocausto per parlare della loro esperienza comune. Come lei, anche Helena
impara a vivere con le ombre del passato. A quasi quarant’anni, Helena ritrova ricordi e sentimenti, alcuni dei quali mai prima esternati,
di una madre, la sua, che ha fatto della propria forza e resistenza una gabbia
psicologica dalla quale non riesce a liberarsi. Due culture diverse s’incontrano, come nel caso dell’autrice e della madre alla ricerca di una comune e sepolta identità ebraica, in una memoria individuale che non sia opposta a quella di una
collettività, di un gruppo:
Non basta ricostruire pezzo a pezzo l’immagine di un avvenimento passato per ottenere un ricordo. Bisogna che questa
ricostruzione sia fatta a partire da dati o da nozioni comuni che si trovano
dentro di noi tanto quanto negli altri, perché passano senza sosta da noi a loro e reciprocamente; questo è possibile solo se tutti fanno parte, e continuano a far parte, di una medesima
società. Soltanto così si può comprendere come un ricordo possa essere contemporaneamente riconosciuto e
ricostruito.93
Un privato, segnato dalla comunicazione telefonica fra due amici che comunque discute il pubblico, lo spettacolo televisivo. Quella telefonata con cui inizia Lezioni di tenebra, quella in cui l’amico Olek Mincer, attore polacco trasferitosi a Roma già da vari anni, riferisce all’autrice con toni increduli di un programma televisivo in cui «una tizia sosteneva di essere la reincarnazione di una ragazza ebrea uccisa in
un campo di sterminio»94 spiega meglio di mille parole come i personaggi in questione siano quindi più d’uno e non soltanto Helena. Spiega come persino il tubo catodico con le sue
rappresentazioni raccapriccianti di un passato che, attraverso i propri
genitori, appartiene alla vita di Helena, appartenga anche alla collettività che in quel momento sta osservando la stessa anziana signora. Come annota più in generale per tutta la cultura massmediatica contemporanea Giorgio
Todeschini, si potrebbe dire che il plot del libro di Janeczek tiene molto bene
conto della manipolazione eseguita «dagli idoli mass-mediatici», un’alterazione per alcuni versi necessaria se si vuole offrire un prodotto al
grande pubblico, e grazie alla quale è possibile «una storia fatta di soggetti perfettamente e facilmente raccontabili»95. Grazie agli «idoli mass-mediatici» è comprensibile, tra l’altro, la strumentalizzazione dell’insistenza teorica più volte notata nel proporre il concetto di unicum concentrazionario legato alla Shoah, e venderlo come «un tentativo di complicità degli ebrei alla inanità generale rispetto ad altri genocidi passati e presenti»96 in un fondamento di quello che è stato definito da Michel Wieviorka come il neo-antisemitismo97. A livello di impianto narrativo questa scena iniziale conferma quanto sostiene
Astrid Erll sulla costruzione mediante i media dei quadri collettivi, che la
studiosa chiama quindi mediatici e costituenti la memoria collettiva nel nostro
contemporaneo. Helena, subito dopo la telefonata e il programma, ricorda di
aver consultato
[…] una sola volta un libro enorme dal titolo: Calendario degli avvenimenti nel campo di concentramento Auschwitz-Birkenau
1939-1945. Alla data del 27 Agosto 1943 – cinquant’anni prima e un giorno e mezzo dopo il nostro arrivo a Varsavia – un paragrafo annota:
“Con un trasporto del RSHA sono arrivati circa 1500 uomini, donne e bambini ebrei
dal ghetto di Zawiercie. Dopo la selezione, 387 uomini, cui sono stati
assegnati i numeri da 140334 al 140720 e 418 donne, marcate con i numeri da
56520 a 56937, vengono internati nel campo. Le circa 700 persone rimanenti
vengono uccise nelle camere a gas”.
È l’unica pagina che commemora quelli che durante il viaggio con mia madre in
Polonia mi sono forzata, per la prima volta, a chiamare nonni e zii. [...]
Quei carri avranno deportato anche i nonni e gli zii paterni. Ne so ancora meno.
A mio padre non posso più chiedere niente, a mia madre non ho mai domandato. Non posso chiedere degli
altri se non è lei che accenna a volermi dire qualcosa.98
Il rifiuto dell’informazione sterile, che non traduce il dolore di una gente, e per cui si rende
necessario attraversare confini fra generi letterari per trovare la forma e la
struttura adatte per un contenuto che trova troppo restrittivi i confini
dettati da generi convenzionali (il romanzo, la testimonianza, il racconto del
reduce, nessuno di questi può soddisfare le istanze presentate da Helena Janeczek, scrittrice e figlia di
sopravvissuti) è evidente in questo breve riferimento al testo di Czech Danuta, consolidato nel
suo valore: testo che informa e fornisce numeri, ma non offre altro. Un passo
come questo sembra riconfermare quanto scriveva Maurice Halbwachs, e cioè che «[...] non è sulla storia imparata, bensì sulla storia vissuta, che si basa la nostra memoria. Per storia non bisogna
intendere una successione cronologica di eventi e di date, ma tutto ciò che fa sì che un periodo si distingua dagli altri, e di cui i libri e i racconti non ci
presentano in genere che un quadro assai schematico e incompleto»99. E incompleto risulta essere un aggettivo insufficiente per riempire il baratro fra il testo
storiografico, il “libro enorme” dal titolo Calendario degli avvenimenti100, e l’assenza che tale giornata, il 27 agosto 1944, da quel momento in poi, ha
significato per l’autrice. Viene svilito se ci si affida a un talk show. Così come, se esiste una frattura fra il testo storiografico, il “libro enorme”, e l’assenza che, a partire dal 27 agosto 1944, ha segnato per sempre la vita di
Janeczek e dei suoi due cugini, ne esiste un’altra, altrettanto ampia, fra ciò che l’evento ha poi significato per l’autrice e quello che vede mercificato in televisione. Il rifiuto dell’informazione di carattere storico, che non traduce il dolore di una gente, così come non lo traduceva il dato statistico per Helen Epstein, è evidente nel breve riferimento al testo consolidato, scritto, che informa e
fornisce numeri, ma non conosce altre connotazioni.
La scena iniziale di Lezioni di tenebra riconferma come sia accaduto qualcosa di più grave rispetto alla costruzione culturale in fieri della Shoah e della memoria indiretta dei figli della Shoah. Dal non riuscire a
parlare di sé, dal silenzio obbligato, si è arrivati allo spettacolo della memoria mercificata in televisione, al proprio
trauma condiviso da altri e trasferito sullo schermo. Tutto questo,
effettivamente, fa ripensare a cosa ne è della nostra identità e come salvaguardarla. Nel percorso che segue a Lezioni di tenebra in Janeczek si manifesta una tensione verso la costruzione di un’identità che, se prima faceva cerchio intorno al privato nello sforzo di comprendere
tanto se stessa quanto le ragioni del comportamento materno, anela ora a
raggiungere non solo indirettamente (mediante la lettura del testo da lei
scritto) una dimensione collettiva, quella di coloro che compongono la
generazione dello strappo. Quella cioè che ha visto la luce dopo la Shoah, e non solo. Janeczek vuole allargare il suo
discorso a qualcosa di più vasto. Rimane il quesito riguardante il suo stesso fare parte, com-partecipare,
sia della narrazione cronachistica del Calendario sia di quella mistificante del talk show:
Cosa significa trovare il minimo denominatore comune della nostra identità in un evento storico così assolutamente negativo (come la Shoah) dall’essere stato assunto dalla cultura in cui viviamo, e non solo da quella ebraica,
come un evento metastorico?101
– si chiede Janeczek – «un evento tanto incombente quanto inaccessibile anche per noi della “seconda generazione” visto che non rappresenta la nostra esperienza diretta?»102 Per far sì che la memoria non si cristallizzi, la sua progettualità deve essere in grado di eliminare elementi statici quali la «paura ereditata», per porsi risolutamente contro «la cultura della vittima».
All’ombra del “totem mortuario”, la cultura della vittima limita il progetto di una crescita identitaria,
legata com’è a un solo, tremendo momento della storia del popolo ebraico. Impedisce in un
certo senso ai figli dei sopravvissuti la definizione di se stessi secondo
modalità diverse da quelle ormai culturalmente accettate per la loro generazione. Un
progetto ambizioso quello di capire e sapersi rappresentare. In questo momento,
Janeczek rifiuta la cesura, lo strappo creato da Auschwitz nella sua famiglia.
L’autrice partecipa del problema comune a coloro che, ancora oggi e nonostante la
tragedia della Shoah, stanno patendo torture, a coloro che, impotenti,
subiscono la morte dei propri familiari e amici, costretti ad assistere all’annullamento della propria cultura. Problematizza e decostruisce una serie di
luoghi comuni legati al processo identitario su cui si fonda la sua
generazione. Cosa è meglio: essere chiamata/etichettata/definita quale “figlia della Shoah” oppure come “figlia del popolo ebraico”? Soprattutto, «Qual è il prezzo che paghiamo – chiede Janeczek – se assumiamo l’identità di Figli della Shoah?» Esclude la vecchia formula dei “Figli dell’Olocausto’’, preferisce, invece, quella di “Figli del popolo ebraico” in quanto, a suo avviso, «la storia non è finita come si credeva qualche anno fa, e quindi credo che sia più giusto per tutti – ebrei e non ebrei, discendenti della Shoah o meno – restituire laShoah alla storia ebraica e alla storia del mondo»103.
Per Janeczek è preferibile «riavvicinar[s]i alla definizione che rimanda al passato più remoto e punt[a] verso un futuro più ampio di un’appartenenza simbolica, quella che rimanda al passato più remoto e punto verso un futuro più aperto». Ciò non può offrire completezza alla propria identità, che è intrinsecamente legata alla Shoah ma non si materia esclusivamente di essa. Che
l’individuo partecipi e contribuisca attivamente a entrambe le memorie, quella
privata e quella collettiva, è un fatto certo, i suoi ricordi, il suo punto di vista costruiscono il sociale
come e quanto il sociale costruisce il suo. D’altro canto, se non vi ha assistito personalmente ma per interposta persona – quale è, effettivamente, l’esperienza dei figli dei sopravvissuti – questi può eventualmente assegnare ad altri, alla madre come a dei giornali o a un
programma televisivo, il compito di sopperire a certe lacune fattuali della
memoria individuale nel suo contributo alla costruzione della memoria sociale.
La ricerca di un’identità ebraica viene coltivata, per motivi comprensibili, con intensità quasi ossessiva nella letteratura dei sopravvissuti. Tale ricerca si pone anche
quale contenuto del lavoro d’indagine che i loro figli continuano a svolgere. Per molti di loro il peso della
Shoah si pone su due livelli di interpretazione e indagine. Esso si definisce
[…] come punto ineludibile, tema obbligato di ininterrotto confronto. Come paura
ereditata, pesante condizionamento, forse ancora più opprimente quando è avvolta dal silenzio che si è costretti a squarciare. La vincolante istanza del passato comincia ad essere
spezzata. Insieme all’imperativo della memoria, all’impegno di ricostruzione degli eventi, alla denuncia del silenzio e dell’oblio colpevole è ricorrente il tentativo di allontanarsene, di scrollarsi di dosso una pesante,
dolorosa eredità di morte.104
Come reggere al «condizionamento», al «peso dell’eredità di morte», di quel tipo di morte – ci sentiamo in dovere di aggiungere – e allontanarsi, al tempo stesso, da questa stessa eredità che ci ha resi quello che siamo oggi, costituisce il complesso asse tematico
della relazione presentata da Janeczek a Palermo. A ben vedere, i parametri
investigativi che contrassegnano Figli dell’Olocausto di Epstein sono quelli segnalati da Halbwachs. Una «storia vivente, che si perpetua o si rinnova attraverso il tempo» si materia, come è noto, di nozioni soggettive, di informazioni e riflessioni che vanno oltre il
dato statistico, oltre i numeri. I figli dell’Olocausto, di fronte a varie barriere, propongono altre vie per colmare il
baratro. Nel momento successivo alla pubblicazione di Lezioni di tenebra, Janeczek rifiuta la separazione dal proprio passato e la segregazione del
proprio gruppo di “Figli di sopravvissuti” per allargare il problema anche a coloro che, ancora oggi e nonostante la
tragedia della Shoah, sono vittime di torture e subiscono la morte dei propri
cari e l’annichilimento della propria cultura.
Nel discorso tenuto a Palermo – marca temporale intermedia di tale percorso, posto com’è fra Lezioni di tenebra e Le rondini di Montecassino – la scrittrice problematizza una serie di luoghi comuni, ormai fin troppo
retorici, legati al processo di pretesa elaborazione dell’evento fondativo della propria generazione. Il punto di vista che offriva dieci
anni fa un esperto in letteratura della seconda generazione come Efraim Sicher
appare drasticamente superato. Janeczek propone altre vie per la sutura della
ferita, non limitate alla storiografia intesa in senso tradizionale. Esistono
altri modi per far riemergere in modo utile quella “scatola di ferro” di cui parlava Epstein, senza per questo allontanarsene psicologicamente, né restarne imprigionati. Se è vero che «ciascuna memoria individuale è un punto di vista sulla memoria collettiva» come sostiene Halbwachs – se «la memoria individuale si nutre sempre di una combinazione di influenze che,
tutte, sono di natura sociale»105, ne risulta che anche lo scrivere dei figli della Shoah si fonda su mutazioni
culturali che rivelano come, dopo il riconoscimento del loro status di
discendenti di sopravvissuti, una volta riconosciuto il loro fortissimo
elemento di coesione in virtù di quell’evento fondativo, possa allora esistere il desiderio di un legame comunque
generazionale con la cultura ebraica che, incorpori, ma non si fondi, però, esclusivamente su quel evento. Nella scrittura, pare affermare Janeczek, si
deve riscoprire quell’identità ebraica interrotta e riesaminata troppo spesso unicamente alla luce della
Shoah.
Dopo aver elaborato o tentato di elaborare il trauma materno insieme a quello
personale in Lezioni di tenebra, Janeczek ci conduce attraverso un itinerario ragionato di immagini di genocidi
fino a un passaggio linguistico di importanza espressiva non trascurabile. La
storia, la memoria storica di Halbwachs, si scontra col desiderio di una
memoria che vuole rivedere il passato. Per tale motivo secondo la scrittrice è
giusto per tutti – ebrei e non ebrei, discendenti della Shoah o meno – restituire la Shoah alla storia ebraica e alla storia del mondo, storia che ha
continuato e continua a produrre “pulizie etniche” e genocidi – Cambogia, Bosnia, Ruanda, solo per elencarne alcuni – crimini diversi per scala e metodo dalla Shoah, ma che in molti casi sembrano aver “imparato” dalla Shoah, mutuato parzialmente progetto e propaganda dai nazisti. L’unicità della Shoah non deve oscurare nessun crimine successivo.106
Inoltre, importante è anche il ruolo costruttivo che la Shoah può e deve rivestire agli occhi della generazione dell’autrice:
[...] proprio perché questi fatti [i genocidi in altre parti del mondo] riguardano un aspetto fondamentale della mia identità, preferisco riappropriarmi di un titolo di appartenenza ancora più simbolica, ma diversamente proiettata nel passato e nel futuro, anche se è un futuro inquietante.107
Futuro e storia sono strettamente intrecciate come sempre, ma cambiano i termini
con cui Janeczek li avvicina:
I concetti storici conservano la loro verità – verità che “l’unicità della Shoah” mantiene (per fortuna?) a tutt’oggi – fino a quando restano tali e non quando rischiano di diventare qualcosa che il
pensiero anti-idolatra per eccellenza, quello ebraico, dovrebbe espellere come
un corpo estraneo.108
L’appartenenza multipla a vari gruppi, a varie nazionalità per un ebreo è un dato normale, la propria identità si materia di appartenenze multiple, che però, nel caso dei figli dell’Olocausto, non possono più essere pacificamente, serenamente accettate. Il trauma raccontato in Lezioni di tenebra, la relazione così sofferta con la madre, fanno parte costituente dell’identità della scrittrice per la quale il concetto di appartenenza identitaria, da
quello di appartenenza a una nazione, si trasferisce interamente nell’appartenenza a una narrazione, come asseriscono Homi Bhabha e altri esponenti
del pensiero post-coloniale. Tuttavia, come scrive Dan Diner, «nel discorso post-moderno non c’è più verità, ci sono solo narrazioni. E ogni narrazione equivale a un’altra»109. Vale forse la pena di aggiungere quel che sostiene Masao Maruyama però, che una narrazione può riuscire più convincente di un’altra110. Lo spiazzamento dello scrittore diasporico (forse non più, nel caso della scrittrice), unito al senso d’inutilità del recupero delle radici di cui Janeczek aveva discusso nella sua intervista
con Davide Bregola (in cui pure confermava l’importanza della consapevolezza di «avere un groviglio di appartenenza e non appartenenza perché fa parte della costituzione di qualsiasi individuo»111), trovano ora altre ragioni. Al tempo del suo intervento a Palermo anche l’atto di non voler attribuire la propria ebraicità al «legame fra la [sua] storia con la Shoah e nient’altro»112 – quello che in definitiva l’aveva costretta a lavorare sul fondo scuro, tenebroso che regolava il proprio
rapporto con la madre biologica e con la madrelingua nel testo di Lezioni di tenebra – significa per Janeczek il positivo recupero dell’ebraismo nel mondo che c’era prima della Shoah. Vale a dire che le motivazioni a proseguire, a procedere
per il cammino di un ebraismo sereno, non contaminato dalla vergogna altrui,
scaturiscono dal passato e si radicano nel presente. Soltanto così i lembi della ferita, del prima e del dopo Shoah, possono unirsi. Indispensabile la memoria, per cui bisogna tenere conto
anche del cammino difficile della civiltà ebraica, delle sue infinite diaspore. Le motivazioni a continuare a credere nel
proprio gruppo, distinto ma non inferiore ad altri gruppi, emergono dal greto
del fiume, come nel già citato Ogni cosa è illuminata di Safran Foer. Emergono da una storia che precede il tempo attraversato dalle vicende della propria madre:
Per molto tempo ho pensato che quel sentirmi più ebrea di tutto il resto dipendesse dal legame della mia storia con la Shoah e
nient’altro. [...] Ma oggi credo che qualcosa mi sia arrivato dai nonni e forse in
genere dagli antenati attraverso i miei genitori, quei genitori che essendo
sopravvissuti alla Shoah, sono nati e cresciuti, si sono formati e addirittura
incontrati nel mondo che c’era prima della Shoah.113
Quel che lei non potrà mai dire è quello che si legge in una nota del libro di Halbwachs: «Al di là stesso dei miei genitori, cioè di mio padre e di mia madre, attraverso i miei nonni, attraverso le persone
anziane che ho conosciuto durante la mia infanzia, io ho potuto penetrare
direttamente in un periodo della storia ancora più lontano»114. Per Janeczek, il forzato non-ruolo dei nonni nella sua esistenza, significa un’assenza che l’accomuna agli altri figli della Shoah nel difficile reperimento di una storia
che, pur appartenendole, non sente sua se letta semplicemente su testi ricchi
di dati, di numeri, ma non di narrazioni, come il Calendario di Czech Danuta. Janeczek allarga il concetto, va oltre “il buco,” quell’enorme campo deserto con cui Safran Foer, ancora una volta, simboleggia cosa è stata la Shoah per lui. Janeczek va oltre quel terribile strappo colmandolo con
la propria scrittura.
Ecco perché credo preferibile riavvicinarmi alla definizione che rimanda al passato più remoto e punto verso un futuro più ampio di un’appartenenza simbolica, quella che rimanda al passato più remoto e punto verso un futuro più aperto. Ma al tempo stesso voglio raccontare la mia storia, raccontarla in modo
analogo di come è costretta a parlare di sé la mia amica: come testimonianza di uno sradicamento irreversibile causato dalla Shoah, come figlia dei miei genitori, come nipote di vittime che avevano nome e
cognome, come persona che, portandosi dietro tutto questo, ha vissuto la
propria vita in Germania e in Italia e continua a viverla. Non accetto più che qualsiasi definizione di appartenenza diventi la maschera che copre le
falle immancabili nella costruzione dell’identità personale, di qualsiasi identità, anche se persona, in origine, voleva dire maschera.115
Janeczek vuole che la Shoah rientri nella sua storia, una storia modellata da
tale evento, ma non che tale evento soffochi la sua identità. Contro un’identità cristallizzata, legata a quel momento, una cristallizzazione che le impedisce
di crescere, Janeczek si ribella, dicendo: «[o]ggi preferisco chiamarmi “figlia del popolo ebraico”, proprio perché do per scontato che quella definizione non mi esaurisce, non fissa la mia
identità»116. Janeczek rifiuta un modo di “fare memoria” legato in parte al contesto in cui si svolgono le commemorazioni per la Giornata della Memoria – che anche Liliana Picciotto ha sostenuto come non confacente alla tradizione
ebraica – perché «[i]l popolo ebraico ricorda la Shoah come la propria immane catastrofe, la sente
come una ferita insanabile, ma non come una cesura nella propria storia»117. Continuare a descriversi come figli della Shoah per Janeczek equivarrebbe
altrimenti alla «eterna vittoria del passato su presente e futuro, il trionfo della grande morte
sulle nostre piccole vite [...]»118.
La penna e la parola, per lei come per altre artiste, diventano gli strumenti di
una sapiente arte della coesione fra genti, di un desiderio di costruire, di
creare, di sottrarre l’umano al destino di distruzione. Per Janeczek trasformare la definizione per la
propria generazione in “Figli del popolo ebraico” equivale ad un’accettazione positiva, gioiosa, della propria discendenza che si ricollega a
quello che scrive Daniel Vogelmann a proposito del proprio ebraismo, quando
afferma che un ebreo «è fatto per la gioia e la gioia è fatta per l’ebreo»119, un ebraismo in cui è importante occuparsi di semitismo piuttosto che di anti-semitismo. Parlando di
Spielberg, Janeczek ipotizza che il regista «abbia agito dietro la spinta di un’identificazione che rende la conservazione della memoria storica di quell’avvenimento l’equivalente di un dovere ereditario». Pur nella consapevolezza di essere, come Spielberg, una “Figlia della Shoah” a pieno titolo in quanto «ashkenazita, europea, totalmente laica e assimilata», Janeczek «scopr[e] oggi di sentir[s]i più a [suo] agio e forse “a [suo] posto” chiamando[s]i “figlia del popolo ebraico”». “Figlia del popolo ebraico” per la scrittrice assume varie significazioni, tutte ugualmente importanti,
soprattutto perché non «to[glie] niente» ad altre vittime e «[a]l tempo stesso, non perd[e] niente di quanto non abbia già perduto»120.
Accettare il cambiamento propugnato da Janeczek significa introdurre la
possibilità di un’attenuazione dell’assuefazione al dolore ed evitare inoltre quello che Rita Calabrese non esita a
definire il «mercato della memoria» senza per questo cadere facili prede del neo-negazionismo, di strumentalizzare
negativamente cioè che Carolyn J. Dean definisce «una iperbolica retorica di vittimizzazione». Cosa tenta di ottenere la scrittrice con il suo gesto contraddittorio di
eliminare per poi riconfermare il concetto di unicum dal pesante vocabolario ideologico legato alla Shoah? È forse perché un percorso personale di iscrizione etico-artistico nella e per la storia dei
propri genitori, e la coscienza di essere ebrea e scrittrice ma non soltanto
scrittrice ebrea, diventano un peso quasi insostenibile, che Janeczek sente il
bisogno di assimilare la Shoah ad altri genocidi?121 Forse, interviene un periodo di riflessione sul fatto che l’oblio permette la memoria e viceversa, oppure Janeczek ha compreso come tutta la retorica sull’unicità della Shoah non abbia nessun valore euristico, e si riveli una trappola
identitaria. Se per gli ebrei ricordare è un dovere testimoniato nella Torah, è anche vero che per i figli della Shoah la memoria rimane fondamentalmente una memoria di assenza. «Il vuoto, l’oblio del padre è lo spazio della memoria del figlio. L’ebraismo salva paradossalmente il suo passato insistendo, oltre ogni oblio, sull’eternità del rammemorare, purché sia consapevole che il silenzio è più eloquente d’ogni racconto, d’ogni romanzo»122. D’altro canto, è sempre Halbwachs a scrivere che
la storia non è tutto il passato, ma non è nemmeno tutto ciò che resta del passato. O, se si preferisce, a fianco di una storia scritta c’è una storia vivente, che si perpetua o si rinnova attraverso il tempo, e dove è possibile ritrovare un gran numero di queste vecchie correnti che erano sparite
solo in apparenza. Se così non fosse, che diritto avremmo di parlare di una memoria collettiva, e che
servizio ci potrebbero rendere dei quadri che sopravviverebbero solo allo stato
di nozioni storiche spoglie e impersonali?123
Janeczek circoscrive d’altronde al simulacro mortuario della Shoah l’eredità in negativo: «Una, ripeto, solo una delle sembianze con le quali la Shoah e la sua unicità è venuta a presentarsi in questi ultimi anni è quella di un idolo e di questo grande totem mortuario a mio avviso è meglio liberarsi»124. Quella “obliosa memoria” di cui parlava Blanchot nel suo saggio sul disastro, forse, può davvero essere utile, costituire un conforto ai figli della Shoah che non
intendono vivere un inerte baratro ma colmarlo di aiuti, di pensieri per chi
come loro ha vissuto l’odio di altri. La trasformazione di sé, quel partire da sé teorizzato tra gli altri da Luisa Muraro125, è un processo politico verso un’identità che non vuole e non può essere individuale né individualista – se è vero, come sostiene Bauman, che l’individualità, «in quanto atto di emancipazione personale di autoaffermazione, appare gravata da
una aporia congenita, da una contraddizione insanabile [...] il bisogno della
società sia come culla che come punto d’arrivo»126. «L’eccesso di memoria è un segno non di fiducia nella storia ma di un ritirarsi dell’agire politico», avverte, fra l’altro, Charles Maier127. Partendo dal sé in quanto soggetto di un processo identitario, Janeczek propone allora un
passato la cui linea d’orizzonte non si arresta di fronte a commemorazioni che, a meno che non siano
ripensate nella loro logica socio-culturale, rischiano di diventare simulacri
del male, anzi di esaltarlo secondo quanto sostenuto da alcuni teorici come Broszat128. In Everyman un personaggio di Philip Roth sostiene che il suo modello in negativo dell’orrore ha caratterizzato e macchiato qualunque giorno del Novecento, e nel suo
orrore, ha gettato un’ombra, una tenebra su altre nazioni e altre genti come una vergogna universale e
collettiva: ebbene, se questo è vero, la costruzione della Shoah non deve macchiare soltanto, ma anche
costruire, farci andare oltre il male. Inoltre, se l’Olocausto è una costruzione culturale collettiva in continuo evolversi – come, tra gli altri, sostiene Dan Diner – possiamo affermare e accogliere allora il senso dell’auspicio che la scrittrice formula in questi termini:
Il nostro essere-con in quanto essere-in-tanti non è affatto fortuito, non è affatto la dispersione secondaria e aleatoria di un’essenza primordiale: costituisce invece lo statuto e la consistenza propria e
necessaria dell’alterità originale in quanto tale. La pluralità dell’essente è a fondamento dell’essere.129
Come il bellissimo desiderio di Daniel Vogelmann, come il discorso tenuto a
Palermo da Janeczek, così anche l’ “Asse della continuità” progettato da Daniel Libeskind per il museo di storia ebraica a Berlino indica
la speranza di rimediare al dolore mediante l’impiego dell’ontologia dell’essere singolare-plurale teorizzato da Jean-Luc Nancy. A partire dal mondo che costruisce il nostro sé. Credo che per Janeczek l’unica eredità possibile sia quella di una memoria positiva, ritrovare quel «significato positivo dell’ebraismo».
Janeczek appartiene al gruppo di coloro che vogliono recepire un «messaggio universale»130 della Shoah, «un imperativo a migliorare la società in generale»131. Quell’ambizione a «cercare di misurare la profondità» della «voragine chiamata Olocausto», rievocata dall’autrice nell’intervista rilasciata a Bregola, trova la sua conferma a distanza di anni nel
romanzo Le rondini di Montecassino, che costituisce la terza fase dell’ascissa conoscitiva di Janeczek. Il progetto autoriale di questo romanzo ruota
intorno alla possibilità di ristabilire il proprio legame personale col luogo da cui si proviene;
analizzare eventi storici nel momento in cui questi segnano la sfera privata,
rivedere la propria «storia immaginaria e reale e quella accaduta una sessantina d’anni fa a esseri umani in carne ed ossa»132. Per Helena Janeczek, la guerra costituisce il punto da cui lei è nata:
Seconda guerra mondiale: da lì, databile attraverso un passaporto falso, traggo le mie origini. Seconda guerra
mondiale: una sola e indivisibile. Unico gorgo che risucchia pressoché ogni luogo della terra, ogni animale e paesaggio, e che gettandoli alla
rinfusa, unisce e divide gli uomini. Troppo vasta per poterla afferrare tutta,
troppo estranei i suoi attori per poterli raggiungere senza il veicolo dell’invenzione. Eppure troppo vere le loro vite e le loro morti corrose dall’oblio per non cercare di aderire il più possibile alle fonti che mappano le loro traiettorie e documentano il loro
passaggio da un continente a un altro, dal tempo passato al tempo presente.
Mio padre non ha mai combattuto a Montecassino, non è mai stato un soldato del generale Anders. Ma per quell’imbuto di montagne e valli e fiumi della Ciociaria, forse, è passato qualcosa di mio: di me perduta e ritrovata in un punto geografico, un
luogo che ci contiene tutti.133
Janeczek restringe il campo sconfinato dell’evento bellico a un solo luogo, Montecassino. L’osservatorio privilegiato della scrittrice si situa in questo preciso punto
geografico, quest’abbazia benedettina collocata nello «imbuto di montagne» dove si combatté una delle battaglie più lunghe della seconda guerra mondiale. Pure, nonostante la vastità dell’argomento e il pericolo di cadere preda della stessa partigianeria mostrata da
altri scrittori e altri storici prima di lei, Janeczek si sente obbligata a
narrare alcune storie e vite dei molti che sono stati dimenticati. Abbandona l’idea di raccontare tutta la storia servendosi soltanto di fonti, in parte perché questa è «troppo vasta» e «troppo estranei [sono] i suoi attori» per poterli raggiungere senza il «veicolo dell’invenzione», in parte perché la sua «storia immaginaria e reale» si deve affidare anche all’invenzione. Sa che perché la finzione sia veridica deve prendere in considerazione i fatti su cui si
basa: deve essere quello che Lawrence Langer definisce factual fiction, anche per rendere onore alle persone delle cui vite reali si materia il
romanzo.
Nel romanzo, la convergenza fra immaginario e reale risulta sorprendente se si
considera che, semmai, ciò che di fittizio esiste nelle Rondini di Montecassino è quello a cui si attribuisce per scontato un valore di realtà: per esempio, quel dato reale che deriva da eventi concernenti l’esistenza dei propri genitori. Nel caso di Helena Janeczek, infatti, il velo fra
finzionale e reale risulta essere molto più sottile di quanto non ci si aspetti. Sappiamo che il suo cognome non
corrisponde a quello originario del padre, bensì a quello adottato che gli ha assicurato la salvezza. Un cognome che costrinse l’ebreo a scegliere, ancora una volta, una simulazione per affermare la verità della propria esistenza. È soprattutto la domanda che si pone il personaggio narrante sulla natura stessa
del concetto di finzione. Quel quesito che la scrittrice pone a tutti noi: «Cosa diventa la menzogna quando è salvifica?», ci consente di dire che, se il romanzo trae spesso le proprie caratteristiche
di genere dal discorso narrativo che informa la scrittura autobiografica,
avvalorando così l’importanza del dato esperienziale, rimane pur vero quanto possa diventare verità tutto quello che la finzione reca con sé. L’opera letteraria è desiderio mimetico, è imitazione, soltanto dietro la menzogna si può cogliere la verità. La storia della famiglia di ciascuno di noi, come nel caso della scrittrice
personaggio narrante della storia di Montecassino, è immersa nella globalità di questo romanzo post-coloniale del ventunesimo secolo in cui la storia viene
raccontata con uno sguardo agli eventi del ventesimo che l’hanno preannunciato. In altre parole, la produzione letteraria di matrice
storica è quasi deterministicamente legata alla responsabilità dell’autrice. La storia della famiglia di Janezcek inizia quando una studiata
dissolvenza conclude la storia del maori Rapata Sullivan, nipote di uno dei
soldati che combatterono a Montecassino: laddove scompaiono i tatuaggi maori di
Rapata emerge il tatuaggio di Auschwitz sul braccio della madre di Helena, un
tatuaggio che Franziska aveva fatto rimuovere dopo la guerra134. Ma quella cicatrice rimane in Helena, lo sappiamo da un passo di Lezioni di tenebra. Quella cicatrice le è stata trasmessa come la voglia atavica di pane. Rimane sulla sua pelle come i
tatuaggi che Rapata ha voluto, e fatto eseguire dopo la sua laurea in studi
post-coloniali, per l’orgoglio di appartenenza a una razza subalterna e oppressa quale la sua, per l’orgoglio di un nonno che lo ha cresciuto e ha combattuto in una Guerra in un
paese letteralmente sconosciuto a entrambi. Mentre i tatuaggi di Rapata
scrivono sul suo corpo una mappa necessaria per capire il senso del suo futuro,
il tatuaggio della madre porta Helena a indagare il passato della sua gente, ma
sempre nella chiara prospettiva di un progetto di serena convivenza futura. Il
suo passato e il suo presente abbracciano una moltitudine di persone nel mondo
e la scrittrice si fa testimone partecipe del desiderio di Rapata – che non a caso si laurea in studi post-coloniali – di capire il proprio mondo.
Nel romanzo, oltre all’abbattimento di luoghi comuni e binarismi forzati fra ebrei buoni e polacchi
cattivi, fra l’ebreo che non combatte e il tedesco glorioso milite135, tutto il discorso si muove e ruota intorno ai movimenti diasporici intesi in
un senso davvero globale, dove nel continuo spettacolo delle nostre esistenze
siamo tutti vulnerabili – nostro malgrado – alla globalizzazione del dolore: noi siamo indifesi. La strumentalizzazione
delle risorse umane, in un interessante parallelo con lo sfruttamento degli
animali, costruisce nel romanzo una trama subordinata, imperniata sulla critica
allo sfruttamento dell’ecosistema. Nell’era post-coloniale, il sistema schiavistico si allarga e comprende gli animali
in un rinnovato parallelo fra merce umana e merce animale, fra diaspore umane e
diaspore animali. Secondo il personaggio narrante, l’ecosistema è sconvolto dalle guerre e dagli imperialismi di ogni tipo. Una globalizzazione,
politica prima ancora che economica, da cui, in coerenza alla logica di
interessi ed egoismi legati all’egemonia dell’Occidente, non sono esenti né indiani esperti gemmologi completamente integrati nel sistema capitalistico
occidentale né i cervi importati “per nostalgia” dai colonizzatori anglosassoni in Nuova Zelanda136. Qual è il senso di un processo economico per cui dei cervi importati nel nuovo
continente un secolo prima distruggono l’ecosistema «nel quale non erano previsti»137 per finire poi «[…] nella filiale periferica lombarda di una hard discount con sede centrale nel
Baden-Württemberg?»138. Ormai, lo sfruttamento è totale:
Nessuno, in nessun angolo del mondo, ha più il diritto naturale di esistere al di fuori dai rapporti di forza e di profitto
che si irradiano da un centro unico. Non esiste più natura, ma solo cittadinanza che va meritata e conquistata come una terra
vergine che deve dare frutto, anche al costo della vita quando occorre.139
Sicuramente, con i suoi multipli agenti, razze e paesi coinvolti, la seconda
guerra mondiale diviene pienamente quella che Enzo Collotti descrive in termini
di «perfetta polifonia»140. La Seconda Guerra Mondiale: un’esperienza che marca la netta separazione fra la prima metà del secolo ventesimo e la seconda, un cinquantennio paradossalmente composto di
speranza e di cinismo, di opportunismo e mascheramento di altre guerre e di
altri genocidi con nomi che, distinguendosi lessicalmente dalle etichette
tradizionali mediante appropriati aggettivi quali guerra fredda, guerra preventiva, guerra umanitaria potevano stornare l’attenzione dall’idea di crudeltà e di intolleranza insite nel concetto stesso di guerra. La guerra, uno spazio
in cui l’altro è, per definizione, il nostro nemico. L’idea di una tensione ideologica e/o politica consolida il desiderio di parlare
di conflitti, di lotte, di battaglie. Per Janeczek la tensione ideologica si
deve intendere in termini di dialettica tesa alla prassi di una convivenza di
razze e gruppi etnici in cui il concetto di diversità non venga più a motivare e dunque a coincidere con razzismo o subalternità. Come afferma Giorgio Baratta:
Democrazia implica convivenza, è in fondo la convivenza stessa degli umani che ha acquisito una valenza politica
e sociale. […] Il principio della democrazia (e della convivenza) è la distinzione. Il principio della rivoluzione (e del conflitto) è la contraddizione. Dai due principi discendono due logiche che variamente si combinano o si
alternano, si intrecciano o si integrano nella dinamica sociale: egemonia e dialettica. […] Il mondo è sempre più unificato dai bisogni e dalla dinamica del capitale, è sempre più diviso in classi sociali che […] tendono a fondersi con divisioni territoriali di diversa, a volte anche enorme
ampiezza. […] L’umanesimo della convivenza non è che un’ideologia, che si contrappone alle ideologie oggi egemoni, che corrono tutte all’insegna del fondamentalismo.141
Questa ideologia necessita di prassi della democrazia, si rivela, anzi, aggiunge
Baratta, quale «unica praxis in grado di opporre resistenza ai flussi giganteschi di fatti e di
idee propugnati dagli opposti fondamentalismi, forieri di violenza, di guerra e
di terrorismo»142. Per capire il progetto di Janeczek, volto all’analisi delle radici dell’intolleranza razziale e alla sua strumentalizzazione ai fini dello sviluppo dei
totalitarismi e del capitalismo globalizzante, l’aggettivo mondiale, che solitamente segue il gruppo nominale “la Seconda Guerra,” si può agevolmente sostituire con globale. Si è detto che la visione di Janeczek è figlia del pensiero post-coloniale. L’idea di una memoria pubblica, spazio ospitale per memorie provenienti da gruppi
diversi, sollecita la rilettura quindi di vari eventi storici nella prospettiva
di una società effettivamente pluralistica. In linea con Rothberg, anche Janeczek sembra
riflettere su una possibile convivenza in cui le narrazioni della Shoah non
siano più in conflitto con quelle legate alla schiavitù e al razzismo in senso lato, da molto tempo ormai impegnate in «una brutta gara di vittimizzazione comparativa»143.
Il differimento degli assi di indagine esercitato nella concezione di questo
romanzo – assi che si spostano dalle nazioni agli oppressi, dai grandi allineamenti alle
differenze e subordinazioni – situa il problema a grande distanza da una faziosa resa storiografica delle
narrazioni di guerra, dove il punto di vista risulta invariabilmente di parte e
sempre mascherato da pretese di obiettività, e di cui il discorso comune sembra essere ancora vittima, quasi a ricordare lo
stesso impeto nazionalistico iper-strumentalizzato dai grandi capitali che alla
guerra, di solito, conduce. Se la seconda guerra mondiale precede temporalmente
l’attuale fenomeno della globalizzazione, si può dunque sostenere che il conflitto bellico l’abbia ampiamente facilitato in quanto ha costituito il punto di sutura ideale
fra le forme del colonialismo e dell’imperialismo dei secoli appena trascorsi e quelle delle attuali forme di
schiavismo, che secondo le teorie di Toni Negri e Michael Hardt rendono il
concetto di “comune” del ventunesimo secolo non soltanto possibile ma necessario all’attuale capitalismo144.
L’immagine della polifonia utilizzata da Collotti costituisce il concetto sotteso
all’intero romanzo, dove ogni storia che confluisce nell’affresco delle Rondini problematizza la nozione stessa di verità, oltre a quello dell’unicità della Shoah145. La nozione di polifonia ne costruisce sia la struttura che il discorso. Un
evento di per sé multiculturale come la seconda guerra mondiale giustifica l’uso di lingue diverse in passi che sono stati opportunamente lasciati senza
traduzione. Polacco, yiddish, tedesco, inglese, maori: la polifonia dei personaggi incarna la babele delle
lingue della Guerra come quella del Lager, così spesso ricordata anche nella letteratura dei reduci. La babele di razze e di
lingue determinata dalle proporzioni sterminate del conflitto mondiale si
rivela nelle trame parallele di storie private che s’intrecciano poi in una sola, e la cui coerenza viene paradossalmente assicurata
proprio dalla frammentarietà della narrazione – quella storia s-composta e immaginata da Janeczek. Nella sua storia, lo xenos non è più percepito negativamente in quanto tale perché di lui e di lei se ne accetta la lingua, qualunque essa sia.
Il «rifiuto del destino dell’Occidente non implica necessariamente uno scivolamento nell’oblio storico e un suicidio culturale», sostiene Chambers146. Chi racconta deve anche saper ascoltare e capire il senso di una lingua che
sfida se stessa. Capire come, collegando i maori e il loro sfruttamento prima e
durante la guerra, si colgano le dirette incidenze delle politiche coloniali
dell’Ottocento sui genocidi e le persecuzioni del Novecento. Come si possa ritrovare
un filo che ci collega anche al sistema concentrazionario da cui sono scampati
i propri genitori, sui cui precisi legami intervengono evidenze notate fra l’altro da Michele Sarfatti147, quello che Primo Levi definiva il «ripristino dell’economia schiavistica»148, significa accettare la sfida lanciata dalla nuova babele. Volendo ricorrere a
dei termini neo-adorniani, quello che preme all’autore nel recupero di un evento definito storico consiste nello scoprire le
infinite modalità con cui il linguaggio resiste all’ovvietà dell’evento in sé e riesce a concepire nella sua narrazione, comunque soggettiva, un elemento ad
essa aggiuntivo, vale a dire riesce a creare la dimensione etico-estetica della
sua narrazione su cui si fonda la speranza autoriale della sua resa letteraria.
Se quest’operazione si palesa in modo più luminoso nella poesia, ciò non significa che non si possano raggiungere effetti ugualmente significativi
anche in narrativa. Ecco, io credo che nell’atto di creazione delle Rondini di Montecassino si possa chiaramente individuare “la forma” che Janeczek regala alle proprie convinzioni circa il senso di una convivenza
fra razze su cui fondare una reale, efficace democrazia. In questo Janeczek è figlia del pensiero post-coloniale poiché la sua scrittura si fa testimone del potere della cultura di rileggere gli
eventi legati al potere politico149.
Se siamo convinti che la letteratura non sia a sé stante, non sia sovrastrutturale rispetto al potere politico, che si faccia sul
serio «specchio della plasticità umana» secondo quanto asserisce Iser, possiamo credere che la scrittura di Janeczek
partecipi di quella che Chambers definisce «l’eredità di Gramsci». Che essa partecipi, dunque, al lavoro da svolgere circa «la questione cruciale di come dare forma teorica all’ingiustizia che attanaglia il sud del mondo, reso oggetto e subalterno dinanzi
alla sovranità apparentemente illimitata dell’Occidente»150. Oltre al tentativo di rileggere la storia recente secondo quest’ottica, capire le dinamiche fra sud e nord del nostro pianeta, nel proposito di
tracciare una mappatura alternativa per la aeconda guerra mondiale interviene
per Janeczek anche il desiderio di una via possibile di convivenza fra razze su
cui fondare una reale, efficace democrazia. Ritengo che questa sia la tesi
fondamentale nel romanzo. Per altri versi, forse ancora più rilevanti, il senso etico delle Rondini scaturisce anche dal nostro approccio, vale a dire nel come vogliamo leggere
queste pagine, che tracciano un disegno complesso e che non vogliono raccontare
il già detto, poiché non è quello che preme all’autrice. Non si può più chiedere nulla ai propri padri, perché, in realtà,
Possiamo solo ricordare le loro vite e le loro verità, anche quando assumono la forma della diceria inverificabile o si ricoprono
della pietà mai abbastanza grande, mai abbastanza permeabile, della menzogna.151
Testimoniare significa quindi interrogare la storia e i fatti legati ai padri.
Significa l’interrogazione del linguaggio dentro cui viviamo mostrando comunque fiducia
verso la realtà152. Come sostiene Chambers, «[…] incontrare gli altri, in questo tessuto significa tirarlo, piegarlo,
interrogarlo e rifarlo»153. La critica eco-postcoloniale si applica con molta coerenza al tema dei
conflitti globali. Il monito per la realizzazione di una vita migliore, compito
che Janeczek affida alle generazioni future, rimane quello già affermato nel discorso che la scrittrice tenne a Palermo nel 2002: senza l’abbattimento dell’intolleranza razziale e il senso di appartenenza a un certo ceto da cui è sempre stata afflitta l’Europa, non si può raggiungere una vita migliore. Il Vergangenheitsbewältigung, un cambiamento reale, non potrà mai essere possibile.
Vorrei in conclusione ricordare le parole di Giacoma Limentani sul tema della
convivenza:
L’ideale messianico tende all’armonica (osmotica) convivenza fra individui diversi, diversificati e perciò in se stessi integri, mentre i corrispettivi ebraici dell’aggettivo integro e del verbo pagare – vedi anche saldare i propri debiti sia materiali che morali – derivano dalla radice Shlm, la stessa di Shalòm. Qualunque convivenza che tenda ad alterare l’intrinseca natura dei conviventi (e cioè non osmotica né solvente) come pure qualsiasi traumatico sconfinamento deriva invece dall’infrazione dell’unico divieto imposto dal Creatore alle due prime creature.154
Una radice – suo malgrado – anche teologica (come nei testi di alcuni autori americani di seconda
generazione) corrobora la tesi e il desiderio di Helena Janeczek in questo
progetto letterario. Ai giovani si affida il compito di conservare la memoria
di quello che sono stati i loro gruppi di appartenenza, le loro famiglie
estinte. Nell’assurdo processo di appiattimento culturale che stiamo sperimentando, risulta
importante capire i legami fra produzione e cultura155, mantenendo saldi anche i legami con il passato di cui la religione, la cultura
e l’etica fanno parte. La forza etica della letteratura viene chiamata spesso in
gioco in questo romanzo. A chi legge non si concede una conclusione morale o
politica ovvia156. Janeczek ci impone una pratica di lettura attiva: non ci chiede semplicemente
di collegare i tasselli del romanzo attraverso le varie ellissi, oppure di
ammirare la spregiudicata abilità della scrittura. La scrittrice vuole che chi legge conquisti la consapevolezza
che
Importa l’urgenza di conoscere che va oltre uno scopo, che non si illude di poter colmare
i vuoti né tanto meno sostituirsi all’esperienza, ma è soprattutto un movimento verso, una tensione con cui cerchi di accorciare una
distanza che non riguarda più soltanto quello che sai, ma quello che senti e immagini.157
Il «luogo che ci contiene tutti» non giace semplicemente fra le pieghe di una storia nascosta della Seconda
Guerra Globale: in verità esso rappresenta lo spazio che l’artista costruisce per i sui lettori affinché – attraverso l’interpretazione del testo – si facciano parte del suo mondo158.
La coerenza d’impegno da parte di quest’autrice che, dopo il brillante esordio di Lezioni di tenebra, continua a studiare il rapporto fra storia privata, storia pubblica, le
narrazioni del passato e la loro valenza nel presente all’interno di una cornice narrativa che oscilla abilmente fra il finzionale e l’autofinzionale, rivela un senso etico difficilmente ravvisabile in altri autori
del nostro tempo, fondamentalmente affossati in una sorta di palude ideologica
anti-berlusconiana, oppure troppo presi a sprecarsi in quelle che Andrea
Cortellessa definisce «le industrie del cinismo»159. Tale disattenzione verso problemi etici di più vasta natura rende persino i più abili tra i nostri scrittori incapaci di cogliere altre implicazioni della
nostra società, e questo con gravi ripercussioni rispetto al senso del nostro vivere nell’era globale. Non è tale il caso di Helena Janeczek.
Note
1. Intervento di Primo Levi in La vita offesa, a cura di Anna Bravo e Daniele Jalla, cit., p. 99.
2. Su questo decennio si veda la raccolta di saggi Speaking Out and Silencing: Culture, Society and Politics in Italy in the 1970s, a cura di Anna Cento Bull e Adalgisa Giorgio, Londra, Maney Publishing, 2006.
3. Cfr. Zygmunt Bauman, L’arte della vita, trad. di Marco Cupellaro, Roma-Bari, Laterza, 2008.
4. «Ci è stato detto di dimenticare, e abbiamo dimenticato più velocemente di quanto sia possibile immaginare. Ci è stato amichevolmente ricordato che il nuovo paese sarebbe diventato una nuova
casa; poi, dopo quattro settimane in Francia o sei settimane in America, si è preteso che fossimo o francesi o americani. I più ottimisti fra noi sarebbero persino disposti ad ammettere che tutta la loro
vita precedente è trascorsa in una sorta di esilio inconsapevole e che solo dal loro nuovo paese
hanno imparato che cosa sia realmente una casa. […] Non so quali ricordi e quali pensieri dimorino nei nostri sogni notturni. Non
oso fare domande perché anch’io sono stata piuttosto ottimista. Qualche volta immagino tuttavia che almeno di
notte pensiamo ai nostri morti o ricordiamo le poesie che un tempo amavamo». Cfr. Hannah Arendt, “Noi profughi”, in Ebraismo e modernità, cit., p. 36 e p. 37.
5. Helena Janeczek, Le rondini di Montecassino, Milano, Guanda, 2010.
6. Questa la tesi che sottende al recente studio di Daniele Giglioli sulla
letteratura del nuovo millennio, Senza trauma. Scrittura dell'estremo e narrativa del nuovo millennio, Milano, Quodlibet, 2011. L’autore dell’autofinzione si slega dal patto di verità solitamente firmato col lettore, decretando la propria presenza all’interno della finzione stessa. Anzi, qualunque racconto – anche il più “falso” – risulta autentico in quanto vissuto dall’autore. Il gioco allora si gioca per paura della propria non-esistenza. Caduta
la credibilità della realtà in quanto tale, s’instaura il bisogno di affermarsi. L’esibizionismo dell’artista, più che un narcisismo fine a se stesso, riflette la sua condizione, quella – rispetto alla qualità dei tempi – che viene condivisa dai lettori e che riguarda la consapevolezza di una propria
«non necessità» (p. 57). Non si smette comunque di essere umani nonostante ci sfugga l’essenza di cui è permeata la nostra realtà.
7. Dori Laub e Michel Allard, “History, Memory, and Truth”, in The Holocaust and History, cit., p. 806.
8. Vorrei riconoscere, ancora una volta, il merito ad Hayden White per aver
saputo avvertire il senso di inutilità delle categorie con cui si formulavano ipotesi storiche e con cui si
costruivano narrazioni in senso tradizionale. Secondo White, dopo Auschwitz
tali categorie moderniste sono diventate obsolete, e occorre dunque che, oltre
a queste, vada rivista la nozione stessa di realismo secondo Auerbach. Cfr.
Hayden White, “Historical Emplotment and the Problem of Truth”, in Saul Friedländer (a cura di), Probing the Limits of Representation, cit., pp. 37-53.
9. Jonathan Safran Foer, Ogni cosa è illuminata, trad. di Massimo Bocchiola, Milano, Guanda, 2004.
10. Alan L. Berger, “Ashes and Hope: The Holocaust in Second Generation American Literature”, in Reflections of the Holocaust in Art and Literature, a cura di Randolph L. Braham, New York, CUNY-Columbia University Press, 1990,
p. 99.
11. Dori Laub e Michel Allard, “History, Memory, and Truth”, in The Holocaust and History, cit., p. 807.
12. Si veda l’interessante raccolta di saggi sullo sterminio di massa nelle sue
rappresentazioni giapponesi intitolata Dopo Hiroshima. Esperienza e rappresentazione letteraria, a cura di Gustav-Adolf Pogatschnigg, Verona, Ombre Corte, 2008.
13. Ottavio Cecchi, “Introduzione”, in Giacomo Debenedetti, 16 ottobre 1943 e Otto ebrei, cit., p. 7.
14. Ivi, p. 8.
15. Efraim Sicher, “Introduction”, in ID. (a cura di), Breaking Crystal: Writing and Memory after Auschwitz, cit., p. 3.
16. Cfr. opere ibride come Campo del sangue di Eraldo Affinati, cit., e un pamphlet come Lettera agli amici non ebrei, Milano, Bompiani, 2003 e il romanzo Lo strappo nell’anima, Roma, Frassinelli, 2002, entrambi di Elena Loewenthal.
17. Si ricordino almeno alcuni dei lavori in questo campo: Helen Epstein, Figli dell’Olocausto, cit.; Robert Prince, The Legacy of the Holocaust, Ann Arbor, MI: UMI Research Press, 1985; Aaron Hass, In the Shadow of the Holocaust: The Second Generation, Cambridge, Cambridge University Press, 1990 (particolarmente pp. 25-50) e The Aftermath: Living with the Holocaust, Cambridge, Cambridge University Press, 1995; ancora Reflections of the Holocaust in Art and Literature, a cura di Randolph L. Braham, cit., Breaking Crystal: Writing and Memory after Auschwitz, a cura di Efraim Sicher, cit., e Le candele della memoria: figli dei sopravvissuti dell’Olocausto: traumi, angosce, terapia, di Dina Wardi, cit., oltre al più specifico studio di genere Daughters of Absence: Transforming a Legacy of Loss, a cura di Mindy Weisel, Sterling, Capital Books, 2000.
18. Efraim Sicher, “Introduction”, in id. (a cura di), Breaking Crystal, cit., p. 6.
19. Cfr. Hayden White, “Historical Emplotment and the Problem of Truth,” in Saul Friedländer (a cura di), Probing the Limits of Representation, cit., p. 47. Il corsivo è nostro.
20. Ivi, p. 49.
21. Ivi, p. 50.
22. Ibidem.
23. Wu Ming, New Italian Epic. Narrativa, sguardo obliquo, ritorno al futuro, Torino, Einaudi Stile libero, 2009, p. 12.
24. Helena Janeczek, Lezioni di tenebra, cit., p. 7.
25. Philippe Beaussant, François Couperin, trad. di Alexandra Land, Portland, OR, Amadeus Press, 1990, p. 145.
26. Helena Janeczek, Lezioni di tenebra, cit., p. 60.
27. Robert Prince, The Legacy of the Holocaust, cit., p. 56.
28. L’inizio dello Shabbath con l’accensione delle candele rappresenta una delle scene più tipiche della letteratura dei figli della Shoah. Alan L. Berger non esita a
caratterizzarle come vere e proprie «icone centrali dell’Olocausto per la seconda generazione» (“Ashes and Hope”, cit., p. 101). Fra i vari esempi di romanzi della seconda generazione vale
citare quello di uno straordinario lavoro di Barbara Finkelstein, Summer Long-a-Coming, New York, Harper & Row, 1987. L’aspetto religioso dell’ebraismo americano rivela tratti molto marcati rispetto a qualsiasi altro
esempio che abbiamo trovato nella letteratura italiana.
29. Mindy Weisel, “Memorial Candles: Beauty as Consolation”, in id. (a cura di), Daughters of Absence, cit., p. xix.
30. Per quanto riguarda la teorizzazione dell’autofiction vale ricordare il saggio di Serge Doubrovski, “Autobiographie/verité/psychanalise”, in id., Autobiographies: de Corneille à Sartre, Parigi, puf, 1988, pp. 68-79. In seguito tale argomento è stato ripreso dalla scrittrice e critica Marie Darieussecq, “L’autofiction: un genre pas sérieux”, Poétique 107 (1996), pp. 369-80; da Jean Lecarme e E. Lecarme-Tabone, L’Autobiographie, Parigi, Armand Colin, 1997, pp. 266-83; e da A. Kotin-Mortimer, “Mort de l’autobiographie dans Le Livre brisé”, in Temps modernes 611-12 (2000-01), pp. 128-66; Stefania Ricciardi, Gli artifici della non-fiction. La messinscena narrativa in Albinati, Franchini,
Veronesi, Massa, Transeuropa, 2011. Mi permetto di citare anche un mio studio
sull'argomento: Stefania Lucamante, “Le scelte dell’autofiction: il romanzo della memoria contro il potere della Storia”, in Studi novecenteschi 56 (1998), pp. 367-81.
31. Helena Janeczek, Lezioni di tenebra, cit., p. 65. Il corsivo è nostro.
32. Helena Janeczek, Le rondini di Montecassino, cit., p. 13. Il corsivo è nostro.
33. In fondo, ancora oggi risulta meno complicato situare sul mercato e vendere
un libro di autrice donna se la copertina e la prima pagina recano la dicitura romanzo, questo a conferma di tutta una tradizione critica impostata lungo la
traiettoria che intercetta la lettura di un romanzo come un’azione più “semplice” rispetto alla lettura di un testo di non-fiction. La bibliografia su questo argomento è molto vasta. Ma credo che anche una veloce lettura dello studio di Dale Spender
intitolato Mothers of the Novel: 100 Good Women Writers before Jane Austen, Londra, Pandora, 1986, sia sufficiente per capire quale itinerario abbia
seguito il genere del romance distinto da quello del novel sin dagli inizi (a differenza dell’italiano in cui i due termini sono stati accorpati nel lemma “romanzo”), oltre alla loro ben distinta readership.
34. Helena Janeczek, “Riuscire a trasmettere il gelo”, in Da qui verso casa, a cura di Davide Bregola, Roma, Edizioni Interculturali, 2002, p. 132. Il
corsivo è dell’intervistatore. Tali affermazioni confutano parzialmente il parere di Antonio
Scurati rispetto al lavoro degli scrittori riassunto nella seguente
riflessione: «[L]a mia generazione di scrittori ha dovuto e deve affrontare il problema di
come trasformare in opera letteraria l’assenza di un mondo eclissatosi assieme all’autorità del vivere e della testimonianza». Cfr. Antonio Scurati, La letteratura dell’inesperienza, Milano, Bompiani, 2006, p. 61. Fare i conti con la propria capacità d’immaginazione rispetto a un passato familiare è ancora un compito umanistico, in un certo senso. E certo, la testimonianza in
prima persona di una data esperienza conserva un aspetto rilevante nel discorso
storiografico ed estetico del nostro tempo. Si continua a confutare l’importanza della testimonianza e del ricordo per interposta persona, assai
vitali, invece, nel caso della letteratura dei figli della Shoah.
35. Marlene Heinemann, Gender and Destiny: Women Writers and the Holocaust, cit.. Altre categorie riguardano problemi medici tipici delle donne, come l’aborto in conseguenza di situazioni di stress. Come ha spiegato Catherine
Bernard in “Women Writing the Holocaust”, in http://remember.org/educatecintro.html, esiste il pericolo di un
essenzialismo ingombrante in queste pagine, ma comunque il contenuto di Lezioni di tenebra rispecchia varie categorie fra quelle delineate nello studio di Heinemann. Si
guardi anche al secondo capitolo del mio A Multitude of Women, cit., per un’analisi della seconda tematica.
36. Helena Janeczek, Lezioni di tenebra, cit., p. 14.
37. Ibidem. Il corsivo è nostro.
38. È importante notare come il superamento dei confini di genere sia un problema
condiviso anche dagli autori cinematografici. Il problema pratico della
rappresentazione di tali eventi nel presente rende quasi necessaria la loro sfida alle leggi del realismo inteso in termini
di intreccio, di finale, insomma tutte le tecniche e categorie che costruivano
l’impianto narrativo di una storia. Emmanuel Finkiel, il regista di Voyages (1999), un film su tre sopravvissute alla Shoah, dichiara di aver seguito l’idea godardiana di un film impostato per metà come fiction e per metà come un documentario dei ricordi delle tre donne che rivisitano la Storia.
Metodo di lavoro, la soggettività dichiarata (Liberation, 22 settembre 1999).
http://www.liberation.fr/recherche/?mid=9241989d11a70ac56ba281c761324c51&l=fr&xml=ON&showExtr=1&sortBy=date&channelUrl=recherche,99728&engine=synomia&q=finkiel+voyages&typeQuery=2 (letto il 7 dicembre 2009).
39. Helena Janeczek, Lezioni di tenebra, cit., p. 19. Il corsivo è nostro.
40. L’aggettivo “inesistente” richiama gli studi di Laura S. Brown sul trauma, in particolare “Not Outside the Range: One Feminist Perspective on Psychic Trauma”, in Cathy Caruth (a cura di), Trauma: Explorations in Memory, cit., pp. 100-12. La terapeuta spiega il bisogno di riconsiderare la nozione
di “umano” e quella di “trauma” come qualcosa di molto diverso dalle definizioni solitamente date dai medici
(maschi).
41. Tra i vari lavori di Joan Ringelheim sull’argomento, si veda il saggio “Women and the Holocaust: A Reconsideration of Research”, in Different Voices, cit., pp. 373-418, in precedenza pubblicato in Signs: Journal of Women in Culture and Society, 10.4 (1985), pp. 741-61.
42. Helena Janeczek, Lezioni di tenebra, cit., p. 9.
43. Ibidem.
44. Di Helga Schneider si ricordino almeno Lasciami andare, madre, Milano, Adelphi, 2001, Il rogo di Berlino, Milano, Adelphi, 1995, e Io, piccola ospite del Führer, Torino, Einaudi, 2006.
45. Vale la pena citare quello che in proposito sostiene Hannah Arendt nel
discorso da lei tenuto in occasione dell’assegnazione del premio Sonning: «Tuttavia, ciò che per quelli intorno a me era un paese, forse un paesaggio, un insieme di
abitudini e di tradizioni e, soprattutto, una certa mentalità, era per me la lingua. E se mai ho fatto qualcosa in maniera cosciente per la
Civiltà Europea, altro non è stato che la mia intenzione deliberata, dal momento in cui sono fuggita dalla
Germania, di non barattare la mia lingua materna per qualcuna delle lingue che
ho dovuto usare per forza o per piacere. Mi sembrava che per la maggior parte
delle persone, cioè, per tutti coloro che sono dotati particolarmente per le lingue, la lingua
materna rimanesse la sola attendibile pietra di paragone in rapporto a tutte le
lingue apprese in seguito con lo studio; e ciò per la semplice ragione che le parole del linguaggio quotidiano si caricano di
quella densità che guida il nostro uso e lo risparmia dai banali clichés, grazie alle molteplici associazioni che sgorgano spontaneamente ed
esclusivamente dal tesoro della grande poesia con cui questa particolare lingua
– e nessun’altra – è stata benedetta», “Il grande gioco del mondo”, in Humanitas 5 (1995), p. 795.
46. Helena Janeczek, Lezioni di tenebra, cit., p. 76.
47. Ivi, p. 107.
48. Ivi, p. 9.
49. Ibidem.
50. Jean Baudrillard, The Evil Demon of Image, Sydney, Power Institute of Fine Arts, University of Sydney, 1987, espone una
tesi provocatoria circa la fiction Holocaust rispetto al potere di «riscaldare un evento storico freddo» come l’Olocausto, il primo di una lunga serie di eventi freddi nel senso di una generale apatia degli spettatori rispetto alle immagini
mediatiche (pp. 24-25; il corsivo è dell’autore).
51. Helena Janeczek, Lezioni di tenebra, cit., p. 13.
52. Si pensi, d’altronde, a un altro testo di Janeczek, significativamente intitolato Cibo, Milano, Mondadori, 2002, dove si snoda una continua e assillante ricerca
identitaria attraverso, appunto, le abitudini alimentari dei diversi personaggi
sino ad arrivare all’episodio della “mucca pazza”.
53. Helena Janeczek, Lezioni di tenebra, cit., pp.10-11. Il corsivo è nostro.
54. Ivi, p. 11.
55. Ivi, p. 29.
56. Ivi, p. 11.
57. Ivi, p. 12.
58. Ibidem.
59. «Si può capire che per lei le questioni di estetica diventino questioni pressoché morali, visto che si deve al suo buono gusto quasi tutta la fortuna familiare
costruita a poco a poco dopo la guerra. Nel dopoguerra, quando mio padre non
poteva lavorare come medico, perché lui stesso malato, prima di tbc e poi di cuore, è stata mia mamma che ha dovuto farlo per tutti e due», ivi, p. 22.
60. Primo Levi, I sommersi e i salvati, in id., Opere, vol. 1, cit., pp. 785-86.
61. Helena Janeczek, Lezioni di tenebra, cit., p. 23.
62. Scrive Levi: «Ma consideri ognuno, quanto valore, quanto significato è racchiuso anche nelle più piccole nostre abitudini quotidiane, nei cento oggetti nostri che il più umile mendicante possiede: un fazzoletto, una vecchia lettera, la fotografia di
una persona cara. Queste cose sono parte di noi, quasi come membra del nostro
corpo; [...] Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate,
vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine,
letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso». Cfr. Primo Levi, Se questo è un uomo, in id., Opere, vol.1, cit., pp. 20-21.
63. Come ricorda Remo Bodei, il significato della parola «“cosa” è più vasto di quello di “oggetto” giacché comprende anche persone o ideali e ingenera tutto ciò che interessa e sta a cuore. […] Investiti di affetti, concetti e simboli che individui, società e storia vi proiettano, gli oggetti diventano cose, distinguendosi dalle merci
in quanto semplici valori d’uso e di scambio o espressione di status symbol […]». Cfr. Remo Bodei, La vita delle cose, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 22.
64. Helena Janeczek, Lezioni di tenebra, cit., p. 15.
65. Ivi, p. 14.
66. Hayden White, “Historical Emplotment”, in Saul Friedländer (a cura di), Probing the Limits of Representation, cit., p. 41.
67. Levi spiega come il senso di colpa e vergogna per la propria sopravvivenza
colga i sopravvissuti (I sommersi e i salvati, in id., Opere, vol. 2, cit., pp. 704-19). Nel caso di Nina-Franziska, si tratta del senso di
colpa per esser sopravvissuta a tutta la propria famiglia, ma soprattutto per
aver lasciato la madre nel ghetto e aver tentato di sfuggire al destino della
propria gente.
68. Cfr. Helena Janeczek, Lezioni di tenebra, cit., p. 70.
69. Ivi, p. 55. L’autrice continua con altre riflessioni sull’educazione ricevuta: «Del resto sul capitolo addestramento non ho più le idee così chiare. Forse non esiste differenza, e vai a sapere dove sta il confine, e poi
lo so fin troppo bene che molti altri figli hanno genitori anche più violenti o più intolleranti o più esigenti o più malati, e come mia mamma, anche loro agiscono sempre per il bene dei ragazzi,
per preservarli da ogni sciagura, genitori che non possono nemmeno immaginare
la sciagura da cui mia madre è uscita viva» (ivi, p. 57).
70. Ivi, p. 163. Il corsivo è dell’autore.
71. Ivi, p. 106.
72. Susanna Tamaro, Per voce sola, Milano, Baldini e Castoldi, 1991, p. 181.
73. Helen Epstein, Figli dell’Olocausto, cit., p. 14.
74. Ibidem.
75. Ibidem.
76. Ivi, p. 15.
77. Oltre ad Art Spiegelman, si ricordi almeno un altro famoso artista figlio
della Shoah, Melvin Jules Buckiet, curatore fra l’altro della raccolta di racconti Neurotica: Jewish Writers on Sex, New York, Norton, 1999, esempi narrativi di amore e nevrosi nell’opera di alcuni autori ebrei americani, fra i quali Woody Allen, Saul Bellow, e
in particolare il racconto di Bernard Malamud ambientato a Roma, “Still life”, pp. 135-52.
78. Maurice Halbwachs, La memoria collettiva, cit., p. 112.
79. Helen Epstein, Figli dell’Olocausto, cit., pp. 232-36.
80. Paolo Jedlowski, “Introduzione alla prima edizione”, in Maurice Halbwachs, La memoria collettiva, cit., p. 22.
81. Ivi, p. 23.
82. Ivi, p. 24.
83. Esther Dischereit, “Mamma, posso cantare l’inno tedesco?” in Rita Calabrese (a cura di), Dopo la Shoah, cit., pp. 74-75. Il corsivo è nostro.
84. Antonio Cavicchia Scalamonti, “Prefazione”, in Maurice Halbwachs, I quadri sociali della memoria, Napoli, Ipermedium, 1987, pp. i-xviii.
85. Ivi, p. xviii. Il corsivo è nostro.
86. Ibidem.
87. Zygmunt Bauman, Modernità e Olocausto, trad. di Massimo Baldini, Bologna, Il Mulino, 1992.
88. Dan Diner, Ricordare il Novecento, cit., p. 179.
89. Ibidem.
90. Si veda il Quaderno di lavoro per il “Giorno della memoria” ad uso delle scuole edito dal CDEC-Onlus, 27 gennaio 2001 in cui sono riportate la “Legge 20 luglio 2000 del Parlamento Italiano” oltre ad altri testi di pertinenza del CDEC.
91. Anna Rossi-Doria, “Il difficile uso della memoria ebraica: la Shoah”, in L’uso pubblico della storia, a cura di Nicola Gallerano, Milano, Franco Angeli, 1995, pp. 118-35.
92. Helen Epstein, Figli dell’Olocausto, cit., p. 11.
93. Maurice Halbwachs, La memoria collettiva, cit., p. 90.
94. Helena Janeczek, Lezioni di tenebra, cit., p. 9.
95. Giorgio Todeschini, “Gli ebrei erano cattivi o buoni?”, in L’indice dei libri del mese 5 (2007), p. 35.
96. Carolyn J. Dean, “Recent French Discourses”, cit., p.73.
97. Si veda il testo di Michel Wieviorka, La tentation antisémite: Haine des juifs dans la France d’aujourd’hui, Paris, Laffont, 2005.
98. Helena Janeczek, Lezioni di tenebra, cit., p. 16.
99. Maurice Halbwachs, La memoria collettiva, cit., p. 131.
100. Czech, Danuta, Kalendarium wydarzen w obozie Koncentracyjnynm Auschwitz-Birkenau 1939-1945, Probabilmente letto dall’autrice in tedesco (Kalendarium der Ereignisse im Konzentrationslager Auschwitz-Birkenau 1939-1945)
mit einem Vorwort von Walter Laqueur; Deutsch von Jochen August, Reinbek bei
Hamburg, Rowohlt, 1989; (ed. italiana Sguardi intorno a Kalendarium: cronaca degli avvenimenti del campo di
concentramento di Auschwitz-Birkenau 1939-1945, trad. di Gianluca Piccinini, Milano, Mimesis, 2007.
101. Helena Janeczek, “Figli della Shoah?”, in Rita Calabrese (a cura di), Dopo la Shoah, cit., p. 37.
102. Ibidem.
103. Ivi, p. 39.
104. Rita Calabrese, “Mosaici. Nuove configurazioni dell’identità ebraica in Germania”, in id. (a cura di), Dopo la Shoah, cit., p. 27.
105. Maurice Halbwachs, La memoria collettiva, cit., p. 121.
106. Helena Janeczek, “Figli della Shoah?”, in Rita Calabrese (a cura di), Dopo la Shoah, cit., p. 39.
107. Ivi, p. 40.
108. Ivi, pp. 40-41.
109. Dan Diner, “La memoria, la rabbia”, L’Espresso (18-1-07), pp. 100-04.
110. Masao Maruyama, Politics and Man in the Contemporary World in Andrew Barshay, “Introduction”, Occasional Papers of the Doreen B. Towsend Center for the Humanities: Two
Lectures on Literature and Politics by Kenzaburô Ôe, Paper 18, Berkeley, University of California, Berkeley, 1999, p. 2.
http://repositories.cdlib.org/towsend/occpapers/18.
111. Davide Bregola, “Riuscire a trasmettere il gelo”, cit., p. 132.
112. Ibidem.
113. Helena Janeczek, “Figli della Shoah?”, in Rita Calabrese (a cura di), Dopo la Shoah, cit., p. 44. Il corsivo è dell’autore.
114. Maurice Halbwachs, La memoria collettiva, cit., p. 131 n8.
115. Helena Janeczek, “Figli della Shoah?”, in Rita Calabrese (a cura di), Dopo la Shoah, cit, p. 45. Il corsivo è nostro. «Per-sonare “risuonare attraverso” è il verbo di cui persona, la maschera, è il sostantivo. Persona in contrasto con homo», in Hannah Arendt, “Il grande gioco del mondo”, cit., p. 803.
116. Helena Janeczek, “Figli della Shoah? ”, cit., p. 45.
117. Liliana Picciotto, “Come ricordare la Shoah?”, in Rita Calabrese (a cura di), Dopo la Shoah, cit., p. 12.
118. Helena Janeczek, “Figli della Shoah? ” cit., p. 38.
119. Daniel Vogelmann, “Un itinerario ebraico”, in Rita Calabrese (a cura di), Dopo la Shoah, cit., p. 57.
120. Helena Janeczek, “Figli della Shoah?”, cit, p. 39.
121. I problemi interpretativi legati alla memoria sociale che trapelano dallo
scritto di Janeczek sono discussi da Anna Rossi-Doria nel suo già citato saggio “Il difficile uso della memoria ebraica: la Shoah”, in Memoria della Shoah, a cura di Saul Meghnagi, cit., pp. 118-35.
122. Michele Cometa, “Istantanee sulla dimenticanza”, in Rita Calabrese (a cura di), Dopo la Shoah, cit., pp. 203-204.
123. Maurice Halbwachs, La memoria collettiva, cit., p. 139.
124 Helena Janeczek, “Figli della Shoah?”, cit., p. 42.
125 «Il partire da sé non è un basarsi sul ruolo né sulla situazione, con quello che fanno vedere o credere, essere giusto e
valido, ma risalire a, e muovere da un’esperienza, ossia da un vissuto vissuto, con tutto quello che ha di determinato,
e da un vissuto ancora da vivere (il desiderio), mai l’uno senza l’altro. La pratica di partire da sé, [. . .] è la scommessa di poter prendere le mosse dal luogo della nascita, con tutto
quello che esso ha di dipendente, di pregiudicato ma anche di promettente, di
nuovo, luogo di una divisione, di uno squilibrio, di una partizione che è una partenza, dove c’è sbilanciamento, struggimento, risentimento, insomma tutto quello che si innesca
con quella “partenza” che crea la necessità dello scambio simbolico». Cfr. Luisa Muraro, “Partire da sé e non farsi trovare...”, in La sapienza di partire da sé, a cura di Diotima, Napoli, Liguori, 1996, p. 20.
126. Zygmunt Bauman, Vita liquida, trad. di Marco Cupellaro, Bari-Roma Laterza, 2005, p. 7.
127. Charles Maier, “Un eccesso di memoria? Riflessioni sulla storia, la malinconia e la negazione”, cit., pp. 29-43.
128. «Tutti coloro che ricavano una lezione filosofica da quello che è stata e dovrebbe soltanto essere una lezione storica – l’esorbitante particolarità e irriducibilità del Male che loro [i Nazisti] hanno commesso contro alcuni e non altri – commettono una sorta di sacrilegio nella loro meditazione del Crimine
reinstallando mimeticamente le rappresentazioni di un’irrevocabile separazione forgiata dal persecutore dividendo e formando gerarchie
con un approccio filosofico […]» in Carolyn J. Dean, “Recent French Discourses”, cit., p. 70.
129. Rino Genovese, “L’impossibile comunità. Una critica di Nancy e Agamben”, in La società degli individui 25/IX (2006), p. 28.
130. Alan L. Berger, “Ashes and Hope”, cit., p. 99.
131. Ibidem.
132. Helena Janeczek, Le rondini di Montecassino, cit., p. 146.
133. Ivi, p. 15. Il corsivo è nostro.
134. Notevoli i riferimenti al mondo descritto dalla scrittrice maori
neozelandese Patricia Grace nei suoi lavori fra cui Potiki, University of Hawaii Press, 1987, e Tu, Auckland, NZ, Penguin Books, 2004.
135. Oltre al padre e al figlio, Le rondini di Montecassino è dedicato anche a un amico di famiglia Samuel/Milek/Emilio Steinwurzel il quale,
a differenza del padre dell’autrice, non costituiva lo stereotipo dell’ebreo pauroso e inadeguato alla lotta anche fisica per la propria gente.
136. «Allora, attraverso i cervi, vedo gli uomini. Mi balugina la tratta degli
schiavi, che è il contrario di quell’importazione tanto crudele quanto gratuita. Lì uomini ridotti a merce e strumento di lavoro per il nudo interesse economico,
legittimato dalle teorie razziste. Qui una specie animale trapiantata in un
altro emisfero senza alcun tornaconto pratico. Ma è proprio questo che ha il potere di denudare tutta l’ideologia di un’epoca, mostrando l’insania disperata che sta al fondo della sua smania di dominio. I cervi sono
arrivati in Nuova Zelanda per un motivo che viene prima di ogni altro e a cui
ogni altro non funge da giustificazione e copertura: per nostalgia. Perché un giorno, andando a fare legna, fermandosi in mezzo a una radura, qualcuno
deve averci visto qualcosa che non c’era e gli mancava», Le rondini di Montecassino, cit., p. 140.
137. «[…] invadono prati e pascoli, si mangiano il sottobosco e gli alberi più teneri causando un impoverimento del terreno che lo espone a erosione e
smottamenti», ivi, p. 139.
138. Ivi, p. 138.
139. Ivi, p. 141.
140. Enzo Collotti, “Una perfetta polifonia”, recensione all’edizione italiana del testo di Saul Friedländer, Gli anni dello sterminio. La Germania nazista e gli ebrei (1939-1945), in L’Indice dei libri del mese 5 (2009), p. 14.
141. Giorgio Baratta, “Umanesimo nella convivenza”, in Esercizi di potere: Gramsci, Said e il postcoloniale, a cura di Iain Chambers, Roma, Meltemi, 2006, pp. 34-35. Il corsivo è dell’autore.
142. Ivi, p. 35.
143. Michael Rothberg, Multidirectional Memory: Remembering the Holocaust in the Age of Decolonization, Stanford, Stanford University Press, 2009.
144. Spetta alla massa ritrovare il senso della propria esistenza al di là dei giochi di potere dettati dal capitalismo che mettono gravemente in gioco il
potere stesso della moltitudine e tentare di ricostruire quel senso del “bene comune” (Commonwealth) al fine di ritrovare le abilità legate all’autogoverno e produzione collettiva. Cfr. Negri, Toni e Michael Hardt, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Milano, Rizzoli, 2010, p. xiii. «[…] il grande salto effettuato nel pensiero critico occidentale da Antonio Gramsci
e poi ri-elaborato da Edward Said: capire che la lotta politica, culturale, e
storica non consiste nel rapporto tra la tradizione e la modernità, ma tra la parte subalterna e la parte egemonica del mondo. Da questo cruciale spostamento delle coordinate critiche emerge una
valutazione radicale del senso dinamico, e perciò aperto e mai conclusivo, della cultura. Nel riconoscimento della resistenza,
della devianza, della deriva, delle alternative e del rifiuto, si individuano
dei poteri che cercano di configurare e combattere con tutti i mezzi possibili
il “senso comune”, ovvero egemonico, del mondo odierno. In questo senso, per riprendere la voce
di Walter Benjamin, i morti continuano a parlare, insistendo in un dialogo con
noi in cui la storia non è mai conclusa: essa è sempre ora». Cfr. Iain Chambers, “Il sud, il subalterno e la sfida critica”, in id. (a cura di), Esercizi di potere: Gramsci, Said e il postcoloniale, cit., p. 8.
145. Grazie a un progetto molto ambizioso Janeczek traspone – sviluppandoli – in prosa romanzesca i concetti espressi a Palermo. Offre una prospettiva
innovativa e positiva, non certo revisionistica, al problema teorico dell’unicità di Auschwitz. Sul problema dell’unicità, si veda Michael Rothberg Multidirectional Memory, cit., p. 7. In sintesi, a un concetto che agli inizi della sua elaborazione
teorica e storica si era rivelato determinante, come quello dell’unicità della Shoah, lo studioso oppone una memoria non competitiva fra la Shoah e la
decolonizzazione, una memoria multidirezionale che incoraggi l’abbattimento di confini non soltanto fra gruppi e collettività varie, ma anche fra le memorie che questi hanno costruito perché spesso fondate su elementi che accomunano molte storie di oppressione. La
storia della Shoah, afferma Rothberg, ha reso possibili altre storie di
vittimizzazione, e questo contemporaneamente alla sua evidente unicità (p. 6).
146. Iain Chambers, Paesaggi migratori. Cultura e identità nell’epoca postcoloniale, Roma, Meltemi, 1994, p. 45.
147. «Negli ultimi tre-quattro decenni dell’Ottocento l’Europa conobbe l’espansione di un nuovo razzismo, nella duplice concretizzazione di “anti-nero” e “anti-ebreo”. Esso era imparentato al nazionalismo, era funzionale all’imperialismo, era interrelato al processo di classificazione scientifica esteso
a tutte le specie del regno animale. Da quest’ultimo in particolare trasse la nuova impostazione biologica, la quale tra l’altro permise di teorizzare l’esistenza (e l’immodificabilità) di una gerarchia razziale. Cfr. Michele Sarfatti, La Shoah in Italia, cit., p. 22. Il corsivo è dell’autore.
148. Primo Levi, “Prefazione”, in La vita offesa. Storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti di duecento
sopravvissuti, cit., p. 7.
149. Come sostiene Iain Chambers: «Resta fondamentale in questo panorama l’insistenza di Gramsci sul primato della cultura nell’elaborazione del potere, e quindi del potere della cultura nella realizzazione di un blocco storico-sociale. In questa prospettiva i
collegamenti meccanici e spesso tortuosi elaborati nel passato tra l’infrastruttura economica e la sovrastruttura politico-culturale si sciolgono,
mentre si apre la possibilità di un’appropriazione critica della “cultura nuova”, profondamente urbana, e mediaticamente di massa, in cui le tracce delle
culture popolari e del folclore precedente sopravvivono nel transito della
traduzione indotto dalla cultura stessa». Cfr. Iain Chambers, “Il sud, il subalterno e la sfida critica”, cit., p.8. Il corsivo è dell’autore.
150. Ivi, p. 9.
151. Helena Janeczek, Le rondini di Montecassino, cit., p. 362.
152. «La realtà, la verità di quel che scrivi è un azzardo fondato su un atto di fiducia e di sottomissione alle sue leggi.
Credi che esista: per nulla identica e interscambiabile fuori e dentro di te,
ma che vi sia una zona in cui la realtà esterna si interseca con quel che hai vissuto, quasi un punto archimedico da
cui estrarla e a cui tornare come a una presa a terra», ivi, p. 138.
153. Iain Chambers, Paesaggi migratori, cit., p. 44.
154. Giacoma Limentani, Dentro la D, cit., pp. 88-89.
155. «I circuiti planetari di produzione e riproduzione, sebbene decisamente
economici, sono anche profondamente culturali e politici nel loro impatto.
Questo intreccio che fornisce una formazione storica, ubicata nel tempo e nel
luogo ormai caratterizzato da una planetaria età agonistica, distrugge le premesse evocate nella distinzione pragmatica e
disciplinare tra l’economia politica e le analisi culturali. Perfino il “mercato” e l’“economia” stessa, che ormai hanno acquisito il livello di “fatti” metafisici, e dunque sono criticamente intoccabili, sono frutto di un discorso
specifico, di costruzioni culturali inizialmente articolate dai teorici dell’economia politica liberale nell’Ottocento». Cfr. Iain Chambers, “Il sud, il subalterno e la sfida critica”, cit., p. 9.
156. Derek Attridge, “Ethical Modernism: Servants as Others in J. M. Coetzee’s Early Fiction”, Poetics Today 25:4 (2004): 653-71, p. 655.
157. Helena Janeczek, Le rondini di Montecassino, cit., p. 138.
158. «Dato che la lingua gioca un ruolo molto importante nella produzione e simultaneo
occultamento dell’altro, è proprio nella lingua – una lingua consapevole dei suoi effetti ideologici, attenta alla sua stessa
capacità di imporre il silenzio mentre parla – che la forza dell’altro può essere rappresentata in modo più incisivo. L’effetto è quello che vorrei descrivere come alterità testuale, o testualterità (textualterity): un artefatto verbale che strania e attira, che pone in primo piano il
Simbolico mentre sfrutta l’Immaginario, che parla mentre dice che deve rimanere in silenzio – e così facendo mette in scena l’etico quale evento». Cfr. Derek Attridge, “Ethical Modernism”, cit., p. 669. Il corsivo è dell’autore.
159. Andrea Cortellessa, http://www.corriere.it/cultura/libri/11_luglio_11/
cotellessa-poeti-bene-comune_bd31183a-abbd-11e0-a665-5070e23b7a33.
shtml?fr=correlati (pagina consultata il 15 luglio 2011).