Introduzione
Il volto del prossimo mi ossessiona attraverso questa miseria1

È perfettamente concepibile che l’età moderna –
cominciata con un cosi eccezionale e promettente rigoglio
di attività umana – termini nella più mortale e sterile passività
che la storia abbia mai conosciuto2

Canto di Maria
L’agnello domenicale sfrìgola nel suo grasso.
Il grasso
Immola la sua opacità...

Una finestra, oro santo.
Il fuoco la fa preziosa,
Lo stesso fuoco

Che strugge sugna d’eretici
E stermina gli ebrei.
Planano i loro spessi mantelli

Sulla cicatrice della Polonia, bruciata
Germania.
Loro non muoiono.

Incalzano grigi uccellacci il mio cuore,
Bocca-cenere, cenere di occhio.
Si posano. Sull’alto

Precipizio
Che un solo uomo svuotò in spazio
I forni ardevano come cieli, incandescenti.
È un cuore
L’olocausto a cui vado,
O figlio aureo che il mondo ucciderà e mangerà.3

Nel complesso panorama di studi critici e teorici sulla letteratura della Shoah molte sono le categorie che vengono periodicamente analizzate a partire dall’immediato dopoguerra. La difficoltà tuttora esistente di trarre conclusioni rispetto all’entità di tale evento da un punto di vista etico si rispecchia nell’immutata e non meno intensa problematicità di una sua rappresentazione estetica e letteraria. Theodor Adorno teorizzava l’impossibilità di una metafisica intesa in senso tradizionale dopo l’evento metaforizzato da alcuni con la parola “Auschwitz”, chiedendosi se non fosse, piuttosto, la realtà nelle sue disastrose manifestazioni l’elemento d’analisi più congruo ai fini di un futuro più consapevole di quello che la natura umana riesce a concepire e attuare nei confronti dell’altro. Il filosofo poneva quindi quesiti pratici al problema di come tornare a pensare e a scrivere dopo una simile tragedia4. Oltre alla difficoltà del come dire Auschwitz, ormai divenuto un tópos vero e proprio, altro problema fondamentale degli studi concentrazionari in campo letterario rimane la responsabilità dell’arte, vale a dire la sua zona etica nei confronti di tale evento5.
Quella difficile identità. Ebraismo e rappresentazioni letterarie della Shoah si porge quale testimonianza critica dell’impegno assunto da alcune scrittrici italiane (o che hanno scelto l’italiano quale strumento linguistico) a trasmettere la prospettiva femminile su eventi che hanno determinato la storia d’Italia e d’Europa nello scorso secolo, principalmente le leggi razziali e la Shoah, sullo sfondo di una sofferta parentesi mussoliniana e della sua pesante eredità. Fa pensare una riflessione di Alberto Moravia nella prefazione a 16 ottobre 1943 di Giacomo Debenedetti: «Il razzismo è un’ideologia di massa; e le sue vittime non hanno né debbono avere un volto individuale e riconoscibile, sono anch’esse massa. Il dolore, così, non riguarda soltanto l’ingiustizia ma anche il crollo dei valori umanistici, la fine della parentesi individuale tra la barbarie primitiva e quella avvenire»6. L’intervento di queste donne recupera il volto, levisianamente perso nella tempesta del razzismo, di tante altre vittime le quali non sopravvissero al razzismo. La loro scrittura concede e ridona fisionomia al volto dell’Altra, al volto della donna offesa dalla Shoah entro il recinto terribile dei campi come anche nella sua casa violata in patria. Ritrova per lei una sua fisionomia non nel silenzio di alcune, pure giustificabile, ma, piuttosto, nella composizione di sofferti memoriali; il ricordo e la memoria del suo volto prende forma mediante le scelte stilistiche di ciascuna di queste autrici impegnate nella scrittura di romanzi e saggi che ripercorrono il tragitto compiuto nei memoriali.
Soprattutto, con questi volti che vogliamo ritrovare nella parola, si arricchisce il dibattito sulla Shoah confermando come – questa la tesi del presente studio – la scrittura di finzione intervenga nel recupero ed esercizio della memoria. L’utilizzazione del genere saggistico e di quello romanzesco diventano strumenti estetici di grande efficacia per investigare la natura di alcuni quesiti morali. I testi qui analizzati sono complementari e indispensabili alla costruzione di un discorso più ampio sull’evento della Shoah poiché fondamentale si è rivelato l’apporto di alcune scrittrici per sollevare ulteriori quesiti sulla discriminazione e sull’intolleranza da prospettive diverse. Il loro indiscutibile apporto rende problematico confermare ai nostri giorni quanto ebbe a sostenere già nel 1976 Saul Friedländer7 circa l’indebolimento del discorso critico intorno all’evento se si fossero ammesse separazioni di genere. Se questa fu ai suoi tempi una linea critica seguita al punto da ritenere quasi sempre la testimonianza e la scrittura maschili quali modelli e “norma” (nell’uso virgolettato del termine) di un discorso universalizzante sulla tragedia, non si può continuare a ritenerla valida nel suo intero.
Non può stupire d’altronde la presenza di un pronunciato dissenso rispetto alla testimonianza e scrittura femminili per quanto riguarda la letteratura8 e storiografia italiane. Si tratta di una traiettoria critica che non fa che raccogliere punti fermi ereditati dalla critica precedente, quella cioè che abbraccia l’ebraismo italiano più in generale, ma sempre rigorosamente rivolta a concetti universali spesso coincidenti con il genere maschile9, e che ribadisce, d’altronde, una più generale ambiguità (per non dire omissione) della critica letteraria accademica italiana rispetto all’importanza delle scrittrici nell’ambito della nostra tradizione. L’affermazione, teorizzata da molti critici fra cui il più citato è Lawrence Langer, secondo il quale una lacerazione dovuta alla specificità del genere non “regge” alla pressione della figura della donna nelle sue molteplicità e differenze merita dunque di essere contestata10, questo anche per via di una precisa identità politica di cui si materia la scrittura sessuata di queste autrici.
Un altro stereotipo critico assai diffuso con cui si liquidano eventuali approfondimenti sul femminile della Shoah, quello di una pretesa “notorietà” del fenomeno delle umiliazioni sofferte dalle donne nel campo, cela ugualmente un disinteresse per l’analisi dei loro scritti di vario genere che tramanda l’indifferenza della critica per il lavoro delle donne11. Il non parlarne perché troppo se n’è già parlato incute preoccupazione perché troppo da vicino echeggia amnesie e indifferenze storiografiche da cui è affetto il nostro paese più in generale. A questo si aggiunge il problema di una «mancanza quasi assoluta di interessi e di lavori venuti fuori dal settore dell’italianistica e della critica letteraria»12.
Quella difficile identità unisce quindi due miei interessi di ricerca, l’investigazione sulle trasformazioni di genere apportate da autrici al romanzo contemporaneo mediante tematiche e strategie espressive e l’analisi della letteratura nata dalla Shoah. A tal fine ho scelto di illustrare in particolare i nessi tra i testi più convenzionali che rappresentano l’evento, cioè i memoriali della Shoah, e alcuni esiti incentrati sullo stesso tema, costruendo così una traiettoria cronologica che rivela – sia pure scandito in modo rapsodico – grande interesse per tale argomento nella letteratura italiana. Esiste un corpus di testi che, se non molto noto al vasto pubblico, rappresenta un esempio tangibile d’indubbio valore e interesse per una corretta lettura della partecipazione delle donne alla Shoah sia nel momento del vissuto autentico che nell’elaborazione e discussione a posteriori dell’evento. Partendo dalla scrittura più propriamente detta “concentrazionaria” esemplificata nei testi di alcune fra queste scrittrici, il mio studio guarda a vari interrogativi di carattere estetico rispetto alla rappresentabilità romanzesca di eventi storici, alle riflessioni e trasformazioni in testi saggistici di ricezione critica e filosofica dell’argomento della Shoah e dell’intolleranza razziale, trasformazioni che rispecchiano scelte e mutazioni generazionali, che seguono la traccia anche delle diverse correnti storicistiche e critiche rispetto a tale evento. Trasformazioni che, infine, affermano pienamente la ricerca di un’identità ebraica proponibile guardando anche a quel che avviene nel nostro contemporaneo, al senso politico della scrittura in quanto scrittura di donna e di individuo e destinata quindi non soltanto ad altre donne ma alla collettività, e infine valutare il contributo estetico e ideologico che si può dare ai fini di una sensibilizzazione sociale.
Il mio vuole essere un modesto intervento sulle espressioni scritte maggiormente rappresentative della trasmissione della memoria della Shoah come anche della cultura e dell’appartenenza alla razza ebraica di cui queste donne erano ritenute “colpevoli”. Questo esame assume ancora più valore se, oltre a esempi tratti dalla produzione concentrazionaria (memoriali, diari sommersi, testimonianze di sopravvissute) si analizzano anche testi letterari successivi. In questi ultimi, la discriminante femminile sulla Shoahcostruisce realtà possibili, luoghi d’investigazione del passato sotto forma di vere e proprie indagini su ciò che è accaduto. Indagini in cui l’elaborazione del lutto, infine, pone in discussione la sua stessa necessità, come nel caso della travagliata vicenda della protagonista di Lettera da Francoforte di Edith Bruck13, un testo interamente basato sulla grottesca necessità di produrre per la burocrazia kafkiana prove della sofferenza subìta nel campo di sterminio ai fini dell’ottenimento di una misera pensione d’indennità.
Con il termine dianzi utilizzato di contemporaneo, indico due tipi di opere forse diversi per natura ma non per le cause che li ingenerano. Sottolineo l’importanza delle opere di Rosetta Loy, Lia Levi e Giacoma Limentani. Queste autrici, le quali si trovavano bimbe nel momento della promulgazione delle leggi razziali, delle deportazioni e dei campi di concentramento, hanno trovato soltanto nell’età adulta – quindi nel nostro presente – gli strumenti della scrittura e di una raggiunta esaustiva conoscenza generale dell’argomento per poterne scrivere.
Il contemporaneo trova significato anche nei testi elaborati da autrici appartenenti per età alla generazione dei “figli della Shoah”, per il destino subìto dai genitori. Il caso di Helena Janeczek rivela il mancato superamento del trauma vissuto nei termini in cui anche il silenzio dei propri genitori dice di un passato terribile. Ragionando della loro identità, del loro sentirsi ebree (oppure cattoliche che avvertono il peso etico della responsabilità, come nel caso conclamato di Loy) e dell’intensa ibridazione culturale che costituisce il dato caratteristico della scrittura delle ebree dell’Europa occidentale prima, durante e dopo la Shoah, nodo cruciale del loro lavoro, queste autrici rendono manifesto l’ingente contributo del loro lavoro. La scrittura si è fatta testimone e portatrice di riflessioni e idee maturate da queste donne, personaggi liminali rispetto a un’esperienza diretta del Lager ma certo partecipi della storia pubblica, di una Shoah collettiva attraverso la loro testimonianza di autrici.
Quella difficile identità guarda alla scrittura in italiano di donne non soltanto italiane – autrici che hanno scelto di utilizzare l’italiano per ragioni diverse – in un vettore critico che parte cronologicamente dai testi delle deportate, donne quindi la cui esperienza biografica giustifica e compone il testo stesso anche secondo i canoni più conservatori della critica sulla Shoah, affrontando il problema di una specificità di genere dell’immaginazione artistica. Tale specificità nella resa estetica di problematiche sociali, politiche e civili scaturite dalla costruzione di una memoria della Shoah, dalla difficile costituzione di un’identità che diventi eredità morale per generazioni a venire a causa di un accaduto che ha spezzato la linea familiare, non possono essere trascurate. Quella difficile identità scava sul come quindi una donna produca e trasmetta la memoria di un evento storico epocale com’è stato la Shoah. Un evento da cui, a giudizio di molti, non si può prescindere in qualunque dibattito sull’espressione artistica nel mondo occidentale. Soprattutto, come sostiene un mio caro collega e interlocutore preferito, Carlo Tenuta, non ci si occupa qui di ­studiare la “Shoah al femminile”14 ma “il femminile della Shoah”15. Contro chi avanza il concetto della spendibilità del drammatico-patetico, aggiunge l’amico, contro chi vuole imporre il concetto di vittima “ancora più vittima” nel caso delle donne, si vuole aggiungere, invece, un tassello ulteriore alle possibilità rappresentative di eventi legati alla collettività che riguarda il genere sessuato e sempre esistente della scrittura.
In ultima analisi il significato dei testi composti da donne sulla Shoah risiede non nella differenza quanto nella compartecipazione alla sua rappresentazione. Lo specifico femminile arricchisce il già presente lascito memoriale maschile mentre la memoria si universalizza maggiormente con la parola lasciataci da queste donne. Comprendere i tratti che marcano la loro unicità non significa essenzializzarne il contenuto come, d’altronde, il significato. Tutt’altro. Specificare il “femminile della Shoah” piuttosto che parlare della “Shoah al femminile” dichiara infatti l’importanza di una parola sessuata, di una costruzione del rapporto che si salda fra il corpo della rimemorante e il luogo che vive di particolarità. Questa importanza si evince dal racconto testimoniale delle deportate come nella successiva resa letteraria in un difficile percorso intrapreso da tutte le autrici impegnate nello scrutinio di tali tematiche. Scrivendone, non hanno certo eletto il sistema di semplificazione delle cose quale strumento più appropriato né, tanto meno, hanno cercato di liberarsi dello/si sono liberate dallo spettro morale della Shoah. Scegliendo la strada della letteratura come strada del ritorno a una vita civile, ne mostrano altri aspetti e altre prospettive. Se il «desiderio di semplificazione è giustificato, la semplificazione non sempre lo è» sostiene Levi parlando della zona grigia16. I testi in questione rivelano la profondità della riflessione leviana. Mi sembra questo un caso in cui semplificare il discorso eliminando il problema del genere sia non soltanto riduttivo ma persino nocivo. Il percorso critico rischia la precarietà quando si omette lo studio di tracciati e sfaccettature diverse dell’evento trasfigurato in un mito negativo di nome Shoah.
La strada più indicata per porre in luce le problematiche legate alla rappresentazione finzionale della Shoah parte da una rilettura dei testi memoriali femminili e dalle modalità di un approccio teorico a tale scrittura da parte delle generazioni successive, questo seguendo il taglio critico di Efraim Sicher, soprattutto nel volume da lui curato Breaking Crystal: Writing Memory after Auschwitz17. Gli studi di Norma Rosen, Alan Berger, Efraim Sicher e Rita Calabrese mi sono serviti da guida rispetto alla tematizzazione/rivisitazione di alcuni topoi ricorrenti nella letteratura della seconda e terza generazione mentre gli scritti di Maurice Halbwachs18 mi hanno fornito utili spunti di riflessione per comprendere la trasformazione della costruzione identitaria delle generazioni successive alla Shoah all’interno dei quadri sociali collettivi, sempre passibili di permutazioni in meccanismi non dissimili da quelli che regolano la memoria individuale. Quello che però guida la mia lettura circa la materia della Shoah data in forma di testi letterari di queste autrici resta il pensiero di Jean-François Lyotard.

La letteratura [...] non ha mai avuto altro oggetto autentico che il rivelare, rappresentare con parole, ciò che manca a ogni rappresentazione, ciò che vi si dimentica: “presenza”, qualunque nome essa assuma nell’uno o nell’altro, che persiste, non tanto ai confini, quanto al cuore delle rappresentazioni – innominabile nel segreto dei nomi –, dimenticato che non risulta dall’oblio di una realtà, poiché nulla è mai stato memorizzato, e che non è possibile ricordare che come dimenticato, “prima” della memoria e dell’oblio, e nella ripetizione.19

Forse, come taluni suggeriscono, il lutto non si può e non si deve elaborare, pena l’oblio della colpa. Oppure, ed è questa la tesi a cui è giunta dopo un periodo di sofferte riflessioni Helena Janeczek, il genocidio degli ebrei europei va inserito in una storia e memoria del popolo ebraico che ritrova coraggiosamente nessi e legami con il mondo che ha preceduto la Shoah. Questo ai fini di un futuro che non viva il ricordo quale inerte baratro ma, piuttosto, per imparare a capire e soccorrere il diverso da noi, il non-noi che materia ancora adesso l’intolleranza in manifestazioni a volte simili a quelle di oltre sessant’anni fa20. Faccio mia questa speranza di una corretta pedagogia della Shoah che si allontani dal “totem mortuario”, elemento che Janeczek rifiuta in quanto rappresentativo di un’eredità in negativo, cioè circoscrivibile al simulacro della Shoah.
Il primo capitolo, “Rappresentare/analizzare la Shoah oggi: un difficile percorso di genere”, rintraccia i nodi tematici più ricorrenti e importanti nei memoriali delle sopravvissute, quelli dettati da una pressante necessità di dire l’incredibile. La discriminazione prima della deportazione, l’arresto e la deportazione, la prigionia, la mortificazione corporale, la libertà tanto attesa, il rientro nella società civile – costituiscono i temi più ricorrenti nei memoriali pubblicati subito dopo il rientro dai campi. A distanza di molti anni, gli stessi temi si presentano in quei memoriali richiesti alle ex-deportate da parenti e figli affinché anche la loro parte dell’indescrivibile venisse, invece e finalmente, descritta, e restasse perciò nella memoria pubblica come in quella privata familiare. Tali nodi tematici costruiscono delle categorie per un romanzo a venire della Shoah, per quelle opere in prosa con una narrazione distesa di fatti assimilabili a una realtà esperita dal soggetto in cui si osserva una finzione-trasfigurazione a un tempo storica e psicologica degli eventi. A mio avviso esiste infatti una traiettoria narrativa che si evolve dalla fine della guerra e trova nel nostro contemporaneo l’assimilazione ro­manzesca della Shoah quale sfondo temporale e spaziale.
Risulta comprensibile la difficoltà espressa da Edith Bruck a «dividere l’umanità fra voci maschili e femminili»21. Questa difficoltà echeggia quella affermata da Julia Kristeva a proposito della donna in quanto soggetto parlante in senso generale che utilizza una lingua non esclusiva al proprio genere, e non soltanto in quanto soggetto sessuato. D’altro canto, però, parrebbe nocivo non rileggere nel nuovo secolo gli scritti memoriali alla luce di quanto la critica e teoria di genere hanno prodotto dagli anni Ottanta in poi. Mi sono pertanto avvalsa dell’ausilio teorico di storiche e femministe quali Anna Bravo22 e Anna Rossi-Doria23, oltre a una serie di studi sulla teoria della rappresentazione letteraria della Shoah che, tenendo conto dei primi scritti teorici sull’argomento quali quelli già citati e ormai classici elaborati da Theodor Adorno24, ha seguito l’evoluzione del discorso teorico soprattutto nella critica statunitense25.
Il secondo capitolo, “Non soltanto memoria: raccontare il campo fra verità e realtà del ricordo. Memoriali e testimonianze”, presenta alcune modalità scrittorie con cui le deportate italiane ci hanno affidato la rappresentazione della Shoah. Il capitolo rende merito al contributo scritto di coloro che hanno fatto conoscere sia la vita nei Lager che il percorso esistenziale occorso dopo il Lager, quel “ritrovare se stessi”26 di cui scrive Guri Schwarz in una prospettiva femminile oltre che italiana. Vengono discussi temi svolti negli scritti memoriali di Luciana Nissim, di Giuliana Tedeschi, Liana Millu e Lidia Beccaria Rolfi che hanno costituito fondamento e ragione d’indagine morale per i testi successivi. Facendo leva sul concetto linguistico di vite romanzesche inteso nel senso di esistenze in cui si avvicendano situazioni comunque legate a un preciso evento storico, quei testi prodotti a distanza di tempo dall’evento in questione dialogano con esso da una prospettiva temporale che lo decreterebbe come risolto. A essere studiato quindi, è il funzionamento della costruzione prodotta dai genotesti memoriali, da quei testi faticosamente e dolorosamente pubblicati al ritorno dal Lager che segnano una precisa traiettoria etico-estetica che conduce la scrittura della Shoah per diverse tappe verso i fenotesti finzionali (fra i quali emblematici i casi di I ponti di Schwerin della deportata Liana Millu e quelli di Edith Bruck, una donna divenuta scrittrice per via di una precisa impellenza morale in seguito al Lager e allo sterminio dei propri familiari)27.
Il terzo capitolo, “Ritornare per scrivere, o ‘le scrittrici per necessità’: Edith Bruck A 11152, e Liana Millu, A 5538” si rivela complementare e conseguente all’argomento trattato nel secondo. L’opera di Millu, più di quella di altre italiane, è parsa infatti degna di un attento studio per due motivi. Il primo è legato al fatto che la sua scrittura costituisce per alcuni versi l’equivalente al femminile di quella di Primo Levi, soprattutto rispetto al tema del campo e del ritorno alla “vita civile”. Il secondo motivo consiste in un desiderio personale di porre rimedio a una lacuna critica nei confronti di Millu. I ponti di Schwerin, opera narrativa del 1978, a nostro avviso romanzo-summa della scrittrice pisana (ma genovese d’adozione), porta a riflessioni quasi obbligate rispetto alla rielaborazione del dato mnemonico, al come l’esperienza agisca da motore inarrestabile per rielaborare i traumi del Lager sovrapposti a quelli precedenti di una donna violata ma, nonostante tutto, tenacemente indipendente.
Le leggi razziali, le discriminazioni contro la popolazione ebraica italiana, i traumi delle giovani donne e bambine italiane costituiscono l’argomento del quarto capitolo, “Dentro la D e fuori dal ghetto con le bambine di Roma: Lia Levi, Rosetta Loy, e Giacoma Limentani”.Ciascuna di queste tre scrittrici, posta di fronte alla necessità di scrivere di come i destini di più persone coincidano e si intreccino con il contesto determinante di una crisi storica, decide per sé quale sia il rapporto da intrattenere con la propria effettiva (o filo) ebraicità, come anche con la società italiana.
Allo scrittore deve stare a cuore il mondo: La ControStoria di Elsa Morante e una tesi scomoda”, quinto capitolo del presente studio, analizza/ricostruisce le origini e le motivazioni che portarono Morante alla scrittura del suo romanzo La Storia. Capire l’evento e il senso delle leggi razziali, dare un senso alla (ri)scoperta della propria identità ebraica, raccontare al mondo – ma soprattutto ai giovani – la deportazione dei romani dal Ghetto nella trasfigurazione narrativa della Storia, compongono la matrice degli intenti autoriali di Elsa Morante. Essi costituiscono il nucleo creativo del famoso romanzo, che Charlotte Wardi giustamente cita nel suo lavoro Le génocide dans la fiction romanesque come uno tra i testi più emblematici per la rappresentazione letteraria della Shoah28. Nell’era in cui il discorso storiografico si profila redatto (denunciato) dalle vittime e non soltanto dai vincitori, Morante scrive un romanzo il cui luogo critico più comune diventa, appunto, la sua definizione in termini di “romanzo delle vittime”. I suoi personaggi sono vittime della storia, della guerra, persino dei loro stessi alberi genealogici che ne decretano, per un sedicesimo, l’appartenenza o meno alla “razza eletta”.
L’ultimo capitolo, “Figlie dell’Olocausto: Helena Janeczek, Lezioni di tenebra e una difficile identità”, traccia un percorso di scrittura e riflessioni che dal privato dell’autrice e della propria madre narrato nel testo del 1997 Lezioni di tenebra29, si sviluppa sino a un discorso tenuto presso l’università di Palermo nel 2002, in cui Janeczek sistematizza le proprie riflessioni in un contesto sociale che vuole tener conto della storia del popolo ebraico anche prima della Shoah. Una memoria pubblica che parte dal tracciato familiare di Janeczek, simile a quello di tanti altri Figli dell’Olocausto, secondo l’espressione usata dall’americana Helen Epstein30, ma che desidera trovare spazio per sé come per le nuove generazioni in un mondo che sappia guardare al male passato e presente con uno sguardo sereno che ritrova nella storia e nella memoria ebraica forza e rinnovato vigore.
Dall’itinerario qui abbozzato si evince quindi la presenza di un’identità che risulta doppiamente difficile poiché formata da una duplice prospettiva di donne e di scrittrici le quali guardano a un evento storico illustrando una soggettività volutamente trascurata e da alcune addirittura (come vedremo) spesso repressa. La difficoltà di parlare della Shoah, in parte motivata dalla consapevolezza della sua prossimità, lascia interdetti perché ci si rende conto che a dispetto del moltiplicarsi delle categorie analitiche come del trattamento, anche ricchissimo e assai meritevole, di tanti studi sull’argomento, quel che non si può fare è proprio ricadere nell’errore comune di non voler capire che l’intolleranza è tendenza insita nell’individuo, e che, in quanto tale, va controllata, monitorata, temuta. Più si conosce del passato e più mistificazioni di esso possono avere luogo. Al tempo stesso, citando le parole di David Bidussa usate in altro contesto, le riflessioni di tutti coloro che studiano e scrivono della Shoah sono comunque importanti, perché “testimoniano”. Sono importanti perché il loro essere è

Il risultato di un doppio processo in cui si analizzano e si smontano le versioni ricevute e accumulate nel tempo e lì trovano e si privilegiano gli attori, più che i fatti. Per questa via, tuttavia, non si costruisce solo una nuova versione della memoria, ma si definisce anche una nuova sensibilità verso la storia.31

La tensione artistica spinge a studiare quello che della natura umana non riusciamo a capire. Gli artisti si confermano quali proto-storici del periodo in cui vivono in virtù delle forme espressive da loro frequentate. Per l’azione artistica, servono pur sempre i segni e il linguaggio che appartiene e nasce dalla collettività. Non a caso Maurice Halbwachs cita il caso eclatante di Beethoven come prova inconfutabile del rapporto interagente fra artista e comunità:

Beethoven, sordo, produsse le sue opere più belle. È sufficiente dire che, vivendo ormai sui suoi ricordi musicali, era chiuso in un universo interiore? Isolato, però, non lo era che in apparenza. I simboli della musica conservavano per lui nella loro purezza i suoni e i loro insiemi possibili. Ma lui non li aveva inventati. Era il linguaggio del gruppo. Egli era in realtà più inserito che mai, e più di chiunque altro, nella società dei musicisti. Non era mai solo. Ed è questo mondo pieno di oggetti, più reale per lui del mondo reale, che egli aveva esplorato, è qui che ha scoperto per quelli che lo abitavano delle regioni che facevano tuttavia sempre parte del loro regno, e in cui essi si sono stabiliti subito con pieno diritto.32

Ecco, il linguaggio dell’artista prende forma e contenuto da quello che è il linguaggio del gruppo. Pratiche discorsive collettive permettono e veicolano l’atto estetico del singolo. L’artista non è mai solo quindi nel suo difficile compito dell’elaborazione creativa. Dalla collettività e per la collettività si muove la sua stessa energia compositiva, quella particolare energia che produce la risonanza emotiva. Raccontare da singolo la storia di un gruppo come dei quesiti che maggiormente hanno caratterizzato un’epoca continua a essere il compito fondamentale per un artista. Concludo con le parole di una scrittrice, Lia Levi:

Io credo fermamente alla validità di questo modo di trasmettere la Storia attraverso il “racconto” delle storie. Perché “la pietà sfugge alla logica” e una singola Anna Frank desta più commozione delle miriadi di persone che sono rimaste in ombra. Del resto non potremo mai riuscire a soffrire le sofferenze di tutti. Mi sembra che il tema di oggi sia più o meno questo: se “la storia degli storici” non può ovviamente prescindere dalla verità fattuale e dalla ricerca della verità fattuale, fino a che punto la trasfigurazione artistica può discostarsi dall’oggettività di cose così tragicamente concrete? Ci si può permettere di trascendere i dati esterni ai fini della propria espressività? La mia risposta è “sì”, ma so che ci saranno anche dei “no”. Qui non si tratta solo di raccontare, ma di far fluire quello che c’è dietro ai fatti, fare emergere il fiume sotterraneo di una emozione profonda e impervia. [...]Si tratta di forme espressive [rispetto alla musica o alla pittura] che hanno più bisogno di dati reali per costruire le proprie storie, che perciò non possono essere trascesi più di tanto. Però il “messaggio”, se funziona in sé, come abbiamo visto per la musica e la pittura, deve prevalere anche quando si tratta di narrazione. È questo che conta. Va da sé che bisogna trovarsi di fronte a una autenticità, almeno d’intenzione. In caso contrario il nostro giudizio cambia. Quando si tratta di ciarpame, di ricerca a tutti i costi di un tema che possa funzionare con un occhio alle mode, il discorso non c’interessa. Possiamo provare orrore e rifiuto per certe profanazioni mercificatrici, ma non credo che per loro valga la pena di iniziare qui un discorso specifico. Dobbiamo batterci contro tutto quello che svilisce e mortifica la nostra società e certo dobbiamo farlo con tutte le nostre forze. L’eventuale strumentalizzazione blasfema della Shoà fa parte di questa lotta “contro”.33

«Far fluire quello che c’è dietro ai fatti», in definitiva, far emergere quello che la collettività sente ma non sa come dire, questo è anche il compito dell’artista. Forse si vuole attribuire loro un onere troppo pesante, ma è pur vero che, spesso, i testi letterari sono quelli che ci spingono ad andare oltre la vita quotidiana, a volere di più per il futuro nostro come quello dei nostri figli. Forse si può trarre un semplice monito dalla saggezza di Lia Levi, che si ritrova nelle parole proferite dal pasticciere Davide a Giovanna nel film di Ferzan Özpetek, La finestra di fronte: «Non si accontenti di sopravvivere, lei deve pretendere di vivere in un mondo migliore!» La speranza è che un futuro migliore, un mondo migliore, possa e debba ancora esistere. Dobbiamo tutti pretendere di vivere in un mondo migliore, consapevoli dello «attuale isolamento, culturale e politico, del ricordo ebraico, riflesso di un pregiudizio assai diffuso tra i non ebrei»34. Un isolamento che si intensifica quando, a parlare della Shoah, sono proprio le donne, di sovente inascoltate partecipi di questa storia e di questa tragedia.




Note

1. Le traduzioni in questo testo sono dell’autrice se non altrimenti precisato.
Emanuel Lévinas, Altrimenti che l’essere o al di là dell’essenza, introduzione di Silvano Petrosino, trad. di Silvano Petrosino e Maria Teresa Aiello, Milano, Jaca Book, 1983, p. 116.
2. Hannah Arendt, Vita activa. La condizione umana, introduzione di Alessandro Dal Lago, trad. di Sergio Finzi, 3.ed., Milano, Bompiani, 1997, p. 240.
3. Sylvia Plath, “Canto di Maria”, in Lady Lazarus e altre poesie, a cura di Giovanni Giudici, Milano, Mondadori, 1976, p. 67.
4. Per una elaborazione del problema e una discussione dei principali teorici di tale argomento, da Adorno in poi, si legga Peter Haidu, “The Dialectics of Unspeakability: Language, Silence, and the Narratives of Desubjectification”, in Probing the Limits of Representation: Nazism and the Final Solution, a cura di S. Friedländer, Cambridge, MA., Harvard University Press, 1992, pp. 279-84.  Si noti che in questa pubblicazione, così come in altre precedenti, lo studioso abbandona per il proprio cognome l’uso dell’umlaut. Nell’indice dei nomi appare soltanto con l’umlaut.
5. Dominick LaCapra, History and Memory after Auschwitz, Ithaca, Cornell University Press, 1998, p. 1.
6. Alberto Moravia, “Prefazione”, in Giacomo Debenedetti, 16 ottobre 1943/Otto ebrei, introduzione di Ottavio Cecchi, Roma, Editori Riuniti (su licenza di Il Saggiatore, Milano), 1978, p. 27.
7. Saul Friedländer, “The Historical Significance of the Holocaust”, Jerusalem Quarterly, 1 (1976), p. 33. Anna Rossi-Doria trae conclusioni diverse dagli scritti dello storico, citando le distinzioni da lui elencate nella sua “Introduzione” a La Germania nazista e gli ebrei. Cfr. Anna Rossi-Doria, “Memorie di donne”, in Storia della Shoah. La crisi dell’Europa, lo sterminio degli ebrei e la memoria del XX secolo, Vol. IV, Eredità, rappresentazioni, identità, a cura di Marina Cattaruzza, Marcello Flores, Simon Levis Sullam, Enzo Traverso, Torino, UTET, 2006, nota 3, p. 61.
8. Cito lo studio di Federica K. Clementi, “‘Shoah delle donne’: famiglia e esperienza personale nella letteratura femminile della Shoah” in Tra storia e immaginazione: gli scrittori ebrei di lingua italiana si raccontano, Studi italiani, collana dell’IIC Varsavia, a cura di Hanna Serkowska, Varsavia, Rabid, 2008, pp. 281-91 quale uno degli esempi utili a comprendere come si cerchi di evitare, ancora una volta, l’esclusione di uno studio specifico di genere in ambito letterario.
9. Un esempio di quest’esclusione (data quasi per scontata), è costituito dalla peraltro stimolante raccolta di saggi curata da Marisa Carlà e Luca De Angelis, L’ebraismo nella letteratura italiana del Novecento, Palermo, Palumbo, 1995. Su un totale di nove saggi, il rammarico è che non uno sia dedicato ai testi di una scrittrice.
10. Così come ricorda Anna Bravo nella sua “Presentazione” a Donne nell’Olocausto, a cura di Dalia Ofer e Lenore J. Weitzman, Firenze, Le Lettere, 2001, p. xi. Ancora una volta, Rossi-Doria opera una lettura diversa delle riflessioni del critico rispetto a quelle di chi scrive come di Bravo, cfr. Anna Rossi-Doria, “Memorie di donne”, cit., p. 42. Accettando il discorso di Langer nei termini in cui lo fa Rossi-Doria, però, avvertiamo il pericolo di un’altra generalizzazione forzata delle vittime che altererebbe per esempio gli studi sugli zingari, sugli omosessuali, sugli agnostici senza aggiungere molto all’analisi del tema della deportazione e delle problematiche relative a una specificità del dolore.
11. «L’umiliazione e peggio della femminilità è un fenomeno talmente noto dell’universo concentrazionario che non occorre soffermarsi, se non per ricordare che essa fu dovuta per una parte all’azione diretta e rituale dei carcerieri (taglio dei capelli e del pelo pubico, esposizione della nudità..., fino alla sterilizzazione), per un’altra alle stesse condizioni materiali e psicologiche dei campi, che promossero anzitutto l’interruzione del ciclo, generalizzata, a causa di choc, sottoalimentazione ecc. Nelle testimonianze, l’immagine desessualizzata delle internate è ricorrente». Cfr. Pier Vincenzo Mengaldo, La vendetta è il racconto. Testimonianze e riflessioni sulla Shoah, Torino, Bollati Boringhieri, 2007, p. 46, il corsivo è nostro.
12. Alberto Cavaglion, “Ebraismo e memoria: La memoria del volto e la memoria della scrittura”, in Parolechiave 9 (dicembre 1995), p. 179.
13. Edith Bruck, Lettera da Francoforte, Milano, Oscar Mondadori, 2004.
14. Mi riferisco qui all’intervento di Alberto Cavaglion citato da Hanna Serkowska nel suo “Edith Bruck tra commemorazione e liquidazione” in Tra storia e immaginazione: gli scrittori ebrei di lingua italiana si raccontano, Studi italiani, collana dell’IIC Varsavia, a cura di Hanna Serkowska, Varsavia, Rabid, 2008, pp. 165-81.
15. Comunicazione privata.
16. Primo Levi, I sommersi e i salvati, in Id., Opere vol.1, introduzione di Cesare Cases, Torino, Einaudi, 1987, p. 675. Nel presente studio si farà riferimento sempre a questa edizione de I sommersi e i salvati contenuta nel primo volume delle Opere (pp. 651-822).
17. Si vedano di Efraim Sicher, The Holocaust Novel: Genres in Contest, New York-London, Routledge, 2005; (a cura di), Breaking Crystal: Writing and Memoryafter Auschwitz, Urbana, University of Illinois Press, 1998; (a cura di) Holocaust Novelists. Dictionary of Literary Biography 299, Thomson Gale, 2004.
18. Nel nostro studio si farà riferimento all’edizione italiana dei due testi fondamentali di Maurice Halbwachs, I quadri sociali della memoria, introduzione di Antonio Cavicchia Scalamonti, Napoli, Ipermedium, 1987 e La memoria collettiva, prefazione di Paolo Jedlowski, 2 ed., Milano, Unicopli, 2001.
19. Jean-François Lyotard, Heidegger e “gli ebrei”, trad. di Giovanni Scibilia, Milano, Feltrinelli, 1989, p. 13.
20. Forse non corredata di quelle forti componenti economiche che marcano quello che August Bebel definisce il “socialismo degli imbecilli”, quell’anticapitalismo antiebraico sui cui esiti riflette Michele Battini nel suo stimolante studio dall’omonimo titolo. Cfr. Michele Battini, Il socialismo degli imbecilli. Propaganda, falsificazione, persecuzione degli ebrei, Torino, Bollati Boringhieri, 2010.
21. Edith Bruck, “Le mie esperienze con le donne” in La deportazione femminile nei Lager nazisti:Atti, a cura di Lucio Monaco, Milano, Franco Angeli, 1995, pp. 66-67.
22. Si vedano Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall’Italia: 1944-1993, a cura di Anna Bravo e Daniele Jalla, Torino, Istituto Gramsci, 1994; La vita offesa. Storia e memoria dei lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, a cura di ID., pref. Primo Levi, Milano, Franco Angeli, 1986; Anna Bravo, “Presentazione” in Dalia Ofer e Lenore Weitzman (a cura di), Donne, cit., pp. ix-xxi; Anna Bravo, “Relazione introduttiva”, in Lucio Monaco (a cura di), La deportazione femminile nei Lager nazisti: Atti, cit., pp. 15-27.
23. Come sottolinea Anna Rossi-Doria in “Memorie di donne”, in Storia della Shoah, cit., pp. 34-35, la storiografia non si è occupata della specificità femminile sino agli anni Ottanta, e questo soltanto in Israele e negli Stati Uniti. Il silenzio storiografico si è rotto grazie a una serie di conferenze mirate all’analisi delle differenze tra le esperienze degli uomini e delle donne, e tali iniziative furono molto osteggiate (persino da scrittrici come Cynthia Ozick, già ostile a certi scritti leviani). Per un’ottima panoramica sulla storiografia della deportazione si guardi di Bruno Maida, “Uno sguardo sulla storiografia della deportazione”, in Alessandra Chiappano (a cura di), Essere donne nei Lager, pref. Anna Bravo, Firenze, Giuntina, 2009, pp. 25-32. «Sostenere che prima degli anni Ottanta la storiografia sulla deportazione italiana nei Lager nazisti non esistesse non costituisce un’esagerazione», cfr. Bruno Maida, ivi, p. 27.
24. Si ricordi almeno la celebre prescrizione adorniana: «Auschwitz ha dimostrato il fallimento della cultura [...] tutta la cultura dopo Auschwitz, compresa la critica urgente a essa, è spazzatura«, cfr. Theodor W. Adorno, La dialettica negativa, Torino, Einaudi, 1975, p. 328. Va detto che l’apoditticità di tale prescrizione – acribia da parte del filosofo più che giustificata per certi versi – fu poi dallo stesso riconosciuta come velleitaria (cfr. M. Battini, Il socialismo degli imbecilli, cit., p. 191).
25. Mi permetto di citare un mio articolo, “The ‘Indispensable’ Legacy of Primo Levi: from Eraldo Affinati to Rosetta Loy between History and Fiction”, Quaderni d’Italianistica 24.2 (Fall 2003), pp. 87-104, in cui sono enucleati i punti chiave del mio discorso sulla rappresentabilità letteraria della Shoahavvalendomi dell’esempio di vari scrittori italiani.
26. Guri Schwarz, Ritrovare se stessi. Gli ebrei nell’Italia postfascista, Roma-Bari, Laterza, 2004.
27. Liana Millu, I ponti di Schwerin, (Poggibonsi, Lalli, 1978), Genova, Le mani, 1998.
28. Charlotte Wardi, Le génocide dans la fiction romanesque: Histoire et répresentation, Paris, Puf, 1986, p. 20; pp. 113-14.
29. Helena Janeczek, Lezioni di tenebra, Milano, Mondadori, 1997; 2 ed., Milano, Guanda, 2010.
30. Helen Epstein, Figli dell’Olocausto, Firenze, La Giuntina, 1982 (ed. americana 1979).
31. David Bidussa, “La Shoah nella cultura attuale”, in Memoria della Shoah. Dopo i “testimoni”, a cura di Saul Meghnagi, Roma, Donzelli, 2007, p. 113.
32. Maurice Halbwachs, La memoria collettiva, cit., pp. 69-70.
33. Lia Levi, “Intervento alla tavola rotonda”, in Memoria collettiva e memoria privata: il ricordo della Shoah come politica sociale, a cura di Stefania Lucamante, Monica Jansen, Raniero Speelman & Silvia Gaiga. Italianistica Ultraiectina 3, Utrecht, Igitur, Utrecht Publishing & Archiving Services, 2007, p. 224.
34. Michele Battini, Il socialismo degli imbecilli, cit., p. 204.