Capitolo 1
Rappresentare/analizzare la Shoah oggi:
un difficile percorso di genere
All’inizio del ventunesimo secolo, la Shoah, o l’Olocausto secondo il termine più generalmente accettato1, si configura ormai come un’immensa costruzione culturale, spesso strumentalizzata, coercizzata,
mediatizzata, e per la quale, quasi a testimoniare la difficoltà della sua eventuale elaborazione, si ripropongono con periodici intervalli
nuovi trattamenti teorici e critici. In tempi recenti si parla spesso ormai di “sovrabbondanza” della memoria ebraica della Shoah, di eventuali “reazioni di rigetto”2, di “assuefazione”3 a commemorazioni quali persino la Giornata della Memoria4, celebrazione istituita dalla Repubblica italiana con la legge n. 211 del 20
luglio 2000. Si commenta sulla vastità del corpus bibliografico sulla Shoah, un corpus che «tende ad avere, anche in Italia, caratteri ripetitivi, oltre che scolastici, in
rapporto a quella sgradevole banalizzazione sociale, spettacolarizzazione e
appiattimento didattico del tema della Shoah su cui hanno puntato fra gli altri
il dito, e il secondo in malo modo, Broszat (in Höss) e Finkelstein»5.
Si trovano a convivere paradossalmente due elementi: da un lato la paura della “ritualizzazione” – rappresentata dalle critiche mosse agli eventi sterili e ormai troppo reiterati
che vengono organizzati in occasione della Giornata della Memoria – insieme a quella della musealizzazione della Shoah, mentre dall’altro sussiste la mancanza di un’effettiva conoscenza dei fatti da parte della collettività. Ancor prima di aver acquisito tale conoscenza, i singoli individui avanzano,
allora, ragioni di stanchezza morale nei confronti di cose che si pensa di
sapere, che si pensa di conoscere sin troppo. Costoro manifestano in fondo, il
timore che questa memoria afflittiva distolga l’interesse, anche per un attimo, dai quotidiani problemi legati al consumismo e
alla corsa al pursuit of happiness, quella ricerca della felicità a cui tutti hanno diritto come decreta, per esempio, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo statunitense, e che il sociologo Zygmunt Bauman ci ammonisce, invece, a non
ricercare6.
Il problema, forse, non risiede soltanto nella necessità di una migliore conoscenza dei fatti, ma anche nel palesamento del processo di
dis-umanizzazione degli esseri (e per di più italiani), della differenza politicizzata. Lo smascheramento di una finzione pronominale che contrappone il noi a voi. Il diverso di cui è emblematica, in Italia, la figura dei vicini di pianerottolo delle narratrici
dei romanzi di Rosetta Loy. Questi diversi, ricordati comediversi proprio da quel pronome noi indicante la maggioranza silenziosa degli italiani cattolici in La parola ebreo e in altri romanzi di Loy in cui l’Italia delle leggi razziali e delle deportazioni si mantiene inalterata quale
sfondo principale per le vicende dei personaggi, esigono l’atto del fare memoria. Come sostiene David Bidussa,
Perché un evento acquisti il carattere di significato nazionale per una comunità occorre che si costruisca la consapevolezza di un lutto e dunque di un vuoto,
ovvero di una cosa che segni pubblicamente un prima e un dopo. In quel vuoto si
costruisce una memoria pubblica.7
Nonostante, come scrive Michele Sarfatti, il termine Shoah adesso designi una «intera vicenda storica»8 alla stregua dei vari termini che hanno contraddistinto momenti di rilievo per
la storia del paese, come quelli di Rinascimento e Risorgimento, la memoria
pubblica stenta a configurarne la costruzione su un piano collettivo, in parte
per via dell’effettiva mancanza di conoscenza da parte di molti italiani di questo lutto, di
questo vuoto che, in cambio, produce indifferenza, come anche per via delle
narrazioni estremamente selettive che vengono rese disponibili. Come per il
vuoto creato dalla mancanza di un’effettiva storia di un’altra Italia, rappresentata dalla storia dell’emigrazione di tanti connazionali verso altri continenti in cerca di fortuna
dopo l’unificazione del paese, anche in questo caso il sapere comune di molti fra
coloro i quali hanno frequentato la scuola dell’obbligo prima dell’istituzione della Giornata della Memoria mostra gravi lacune, lacune di cui sono
emblematiche quelle rivelate dalla Giovanna protagonista del film del 2003 La finestra di fronte. L’itinerario tematico costruito per gli spettatori dalla memoria lunga e dolorosa
di Davide, il pasticciere ebreo che ha perso il proprio amato Simone ad
Auschwitz e continua a cercare il viso e il sorriso del proprio amore nei
luoghi dei loro incontri, va interpretato e rivisto mediante un elemento
fondante: la sua storia verrà finalmente ascoltata da Giovanna, una donna semplice che non conosce la storia
delle persecuzioni accadute anche vicino a dove lei vive oggi con la sua
famiglia. Come in Una giornata particolare di Ettore Scola un omosessuale, Davide, trasmette la sofferenza della propria
discriminazione a Giovanna, esponente di un altro gruppo discriminato, le donne
di umili condizioni. La non-conoscenza da parte di Giovanna di una storia collettiva e pure a noi assai
prossima, come quella della deportazione degli ebrei romani del 16 ottobre
1943, ci porta a riflettere proprio su due livelli di storia, quella tramandata
e quella studiata. Se la giovane donna conosce il motivo del tremendo tatuaggio
che scorge sul braccio di Davide mentre lo cambia in bagno in una coinvolgente
scena di istintivo accudimento materno, lo conosce soltanto perché, lei come tanti, ha pur sentito qualche volta parlare in modo astratto e
traslato dell’evento in generale, di un mondo che pensa non appartenerle. Tutti gli italiani hanno pur visto
qualche sceneggiato televisivo ambientato sullo sfondo della Shoah, oppure
apprezzato La lista di Schindler di Steven Spielberg in prima serata9. Quel che Giovanna non possiede invece è proprio la conoscenza e il sapere anche scolastico della storia vicina a lei,
quel che accadde sessanta anni prima (il film è del 2003) proprio nel ghetto dove oggi la giovane prende una birra in piazzetta
Mattei con il suo vicino di casa Lorenzo e con l’anziano Davide. Quest’ultimo, affetto da forti amnesie per quanto riguarda la memoria breve, appare
perso a volte nei suoi ricordi, ma non al punto di non saper aiutare Giovanna
nelle sue scelte presenti. Il punto fondamentale della storia riguarda appunto
i due diversi piani su cui si forma il sapere comune: la giovane ignora il
passato di Davide perché ignora il recente passato della sua stessa città. Discriminata per estrazione sociale e per genere, Giovanna non sa nulla della deportazione degli ebrei dal ghetto di Roma10, evento di cui l’impronta di una mano su uno dei muri del ghetto viene scelta come efficace
sintesi visiva a ricordo di un sangue di cui trasudano i muri della città eterna. La finestra di fronte costituisce un caso emblematico di un prodotto non engagé che si pone comunque un obiettivo “alto”, quello di colmare l’abisso fra la generazione che ha vissuto la Shoah e i giovani. Senza uno sforzo
comune, appunto collettivo, come quello che può provenire da un pubblico di spettatori cinematografici, non si può colmare questo vuoto rispetto alla conoscenza dei fatti che ci riguardano da
vicino. Senza consapevolezza, si mette in dubbio il valore intrinseco della
storia. Se sprovvisti della conoscenza storica e letteraria dell’evento11, diventa un compito quasi irrealizzabile costruire una memoria stabile e
collettiva – finalmente pubblica nel vero senso del termine – che possa reggere alle spallate del negazionismo, che non si fissi su
celebrazioni svuotate di significato per le generazioni future. Questo senza
sottovalutare il pericolo di sovraesposizione o il senso latente della vacuità di “atti dovuti” quali quelli a cui accenna Alberto Cavaglion:
Spiace dirlo: l’imperativo ebraico della memoria (Zachòr), a insaputa dell’ignaro Yerushalmi, è diventato in Italia, negli ultimi tempi, un contenitore vuoto, la citazione di
quel saggio si è trasformata in un atto dovuto, quando non in una formula liturgica, non di rado
fastidiosa. Si prova la sensazione che sia giunta l’ora di ricominciare da zero, partire dai gesti che compiamo tutti i giorni
recandoci in un pubblico giardino per l’infanzia, riesaminare i nostri comportamenti quotidiani sotto una diversa luce.12
Evitare la cristallizzazione del ricordo e limitare tale pericolo con la forza
della memoria collettiva, allargando quindi il discorso della tematizzazione e
del funzionamento della memoria privata e collettiva ai vari testi di autori
ebrei e non-ebrei italiani, significa, per dirla con Cavaglion, «riesaminare i nostri comportamenti quotidiani sotto una diversa luce», un compito che diventa secondo lo storico un imperativo categorico. Tramite l’analisi di questi testi letterari, saggistici, museali, scultorei o filmici, di
come “funzionino” e di come provvedano alla socializzazione della memoria, vogliamo credere che
la memoria non si sia calcificata in pagine di dolore ma che possa contribuire
ancora a costruire dinamicamente e autorevolmente il modello etico del
cittadino italiano. Soprattutto, per una corretta etica, occorre imparare a
considerare l’inquietudine quale metodo costruttivo di riflessione sull’effettiva e immediata presenza del pericolo dell’assuefazione al dolore. Come afferma Eraldo Affinati in un’eco del monito di Primo Levi, lavorare a fondo su questo tema significa «scoprire notizie sulla specie a cui apparten[iamo]»13.
Il nostro periodo storico, nella ricerca spasmodica della felicità quantificabile in termini economici e di proprietà del bene materiale perennemente acquisibile, si profila come un’età caratterizzata dalla diffusa mancanza di empatia nei confronti delle vittime di
qualunque violenza. Una mancanza d’empatia che rinnova il senso di ambiguità legata alle particolarità della nostra “specie”. In particolar modo, come sottolinea la storica Carolyn J. Dean nelle sue
riflessioni riguardo al tema della fragilità dell’empatia, tale vuoto empatico si evidenzia maggiormente per quanto riguarda le
vittime della Shoah. In The Fragility of Empathy after the Holocaust, la storica valuta il potere del linguaggio dei media rispetto all’appiattimento della comprensione della Shoah. In particolare, Dean analizza come
proprio attraverso tale linguaggio si articoli quella forma di strisciante
neo-revisionismo storico professato in Francia14. In una ricognizione storica che abbraccia gli anni Novanta, Dean mostra il
problema di una “sovrabbondanza” di memoria ebraica dell’Olocausto in Francia emerso nel contesto di un paragone fra Nazismo e
Stalinismo. Com’è possibile che la memoria dei crimini contro gli ebrei e le vittime di Stalin
siano state costruite retoricamente come una “zero-sum-game”15, una situazione, cioè, che bene definisce nella teoria delle decisioni in cui uno o più partecipanti guadagna/perde la stessa cifra degli altri partecipanti per cui,
la vincita/perdita per un partecipante risulta in una simile perdita/vincita
per gli altri. Si otterrebbe una somma zero grazie alla quale gli ebrei vengono a torto imputati di reclamare per la loro
gente una maggiore sofferenza rispetto al resto dell’umanità. La storica esamina le diverse rappresentazioni della sofferenza che compongono
i discorsi mediatici, storiografici, nella critica culturale e nel giornalismo.
Questi discorsi affrontano l’argomento del genocidio ebraico partendo dal discutibile – ma esistente – presupposto di una presunta desensibilizzazione degli americani e degli europei
occidentali allorché si richiede loro di fornire appropriate risposte “umane” al problema. Le conclusioni di Dean evidenziano il pericolo delle operazioni
mediatiche su tale argomento, una paura condivisa peraltro anche da Procaccia
in quanto considerate «ad altissimo rischio di travisamento»16. La presenza di un consenso allargato a giornalisti, storici e studiosi di vari
orientamenti politici riguardo a come la memoria del genocidio ebraico sia
oscurata dal riconoscimento di altri crimini contro l’umanità, in particolare dei crimini staliniani, non fa che dimostrare la presenza del
rischio che fa presente Procaccia17.
Il paragone fra crimini nazisti e staliniani, come sostiene Dan Diner, non è d’altronde ovvio. Nazismo e stalinismo posseggono in comune una Weltanschauung, male differenze fra iregimi sussistono tuttora persino dopo varie riletture. Per Diner l’impulso a proporre paragoni simili si rivela essere, piuttosto, «il prodotto di memorie specifiche e culturalmente determinate che sentono il
bisogno di paragonare le atrocità. I modi di effettuare il raffronto non hanno dunque validità universale, ma nascono da memorie collettive motivate da ragioni
particolaristiche che convertono avvenimenti come i crimini del regime nel
canone dell’ethnos e nella sua tradizione narrativa»18.
La “cultura della vittima”, il problema di un desensibilizzante “eccesso” di memoria, il tentativo di normalizzazione della Shoah tramite la sua
sovraesposizione, sono questi gli elementi che rendono fragile, appunto, la possibilità di simpatizzare/empatizzare con gli ebrei oggi riguardo a una storia che, pure, ci coinvolge in
senso collettivo. Tale assenza di coinvolgimento, eredità del resto di un certo stato delle cose caratterizzante il dopoguerra italiano19, permea in modo preoccupante i più recenti studi storici, politici e sociologici, non soltanto quelli italiani e
francesi, che procedono parallelamente, e non incidentalmente, con la ripresa
di un certo antisemitismo20. Della validità di tali osservazioni, come della giustificabile confusione che coglie gli
intellettuali, combattuti fra il desiderio di non ignorare altri genocidi e quello di non dimenticare la Shoah, della possibilità di una sua perlomeno corretta rappresentazione, anche mediante le voci dei
testimoni, sia prova La vendetta è il racconto: Testimonianze e riflessioni sulla Shoah di Pier Vincenzo Mengaldo, testo emblematico di una più generale perplessità rispetto all’essere e al divenire della critica storiografica e letteraria della Shoah. Fermo
restando i nostri dubbi, già precedentemente esposti, per la sua problematica e sistematica ignoranza dello
specifico femminile salvo i casi in cui il suo stesso discorso rende opportuni
alcuni riferimenti alle loro testimonianze, Mengaldo si cimenta comunque in un
difficile quanto assai meritevole esperimento analitico costituito dalla
lettura degli scritti testimoniali sulla Shoah. Nelle sue riflessioni Mengaldo
si affida a quel concetto di historia rerum gestarum a cui si rifà tra gli altri anche la storica Annette Wieviorka, e alla quale alcuni critici letterari
ascrivono parte della struttura storiografica su cui poggiano i loro scritti.
Una storiografia e un guardare alla Shoah che nel suo processo di redazione
tiene conto dell’inalienabile diritto di costruire la memoria di un evento da parte del
testimone, pur nella consapevolezza dei limiti come della presenza del margine
d’errore della memoria lunga.
Il margine-delta fra il tempo vissuto e quello raccontato fa sì che Pierre Nora neghi – a esempio – l’esistenza di compatibilità fra memoria e storia21, in quanto tale presunta incompatibilità neutralizzerebbe l’impatto del trauma nell’individuo, salvo riconoscerne (paradossalmente) l’evidente validità, soprattutto quando la voce testimoniale assume una duplice importanza. Il parlare di sé e della propria esperienza fa sì che chi scrive si assuma la responsabilità di parlare anche dell’esperienza di altri che non sono riusciti a risalire dal fondo dell’enorme voragine dei crematori, da quei Vernichtungslager in cui un preciso ordine li disponeva secondo dei piani di produzione
incredibilmente efficienti. Il capitale, inestimabile, era la distruzione della
razza ebraica e la cancellazione fisica dell’opposizione al potere totalitario hitleriano. Evangelici come il Martin
Niemoeller immortalato da Primo Levi in Se questo è un uomo, testimoni di Geova, dissidenti politici, si trovano riuniti nella produzione meglio riuscita tra le varie che avevano reso possibile l’ascesa e la permanenza al potere di Hitler. Mengaldo utilizza una serie assai
vasta di memoriali per trarre considerazioni e categorie di pensiero sull’importanza della voce di chi ha, appunto, vissuto tali momenti e trova solo ora,
oppure trovò – come nel caso di Levi – il coraggio di parlare per sé e per gli altri/altre non appena rientrato dal Lager. Se questo è un uomo, come già ebbe a scrivere Giorgio Agamben in Quel che resta di Auschwitz, costituisce un «commento perpetuo alla testimonianza»22. Sentite e partecipi appaiono soprattutto le parole su Levi di Mengaldo, il
quale intrattiene un dialogo con numerosi testimoni della Shoah attraverso
letture puntuali degli scritti che così generosamente questi ci hanno lasciato. Il critico si giustifica ripetutamente
per la carenza delle proprie letture, una carenza dovuta alla mancanza di
traduzioni italiane di testi utili alla trattazione dell’argomento Shoah, oppure perché troppo ingente si rivela la mole del materiale critico: «[l]e pagine che seguono sono per definizione provvisorie e manchevoli [...chi] le ha scritte ha potuto vedere solo in minima parte la sterminata
bibliografia sull’argomento – e ciò vale ancor più per la letteratura dei e sui gulag»23.
In tutti i modi, rimane arduo capire se la disamina delle testimonianze si regge
sulla ricerca storica e archivistica oppure se si tratta di una lettura stile case study, vale a dire una lettura che si misuri con la singola valenza estetica ed
espressiva di ciascun testo. Questo libro è un ibrido in cui si sovrappongono il discorso storico e quello
critico-letterario, il genere testimoniale e quello funzionale. Il saggio di
Mengaldo sembra inverare l’ipotesi secondo cui i generi letterari vivano una natura fluida. Si ritorna all’origine del discorso scritto. Quello che preme è raccontare. La vendetta è il racconto secondo Mengaldo, che fa quindi delle parole di un romanzo di Maxine Hong
Kingston il titolo del proprio libro24. L’obiettivo è quello di spiegare, se non i perché della Shoah, perlomeno i “come” («Io non potrò stare in linea di massima che sul “come”: quel “come” cui si limita volontariamente Hilberg»)25. Credo che a tutti possa essere concesso al massimo di capire il “come” in vari campi, la storia, la letteratura, ma certo non il “perché” in un modo che vada oltre la spiegazione ovvia dell’antisemitismo. Il problema diventa allora dividere il “come” narrato attraverso una coralità di voci, quelle di coloro che effettivamente hanno vissuto la Shoah, questo «oltre il limite invalicabile»26 di chi non ha vissuto l’esperienza di Auschwitz. «Come che sia – Mengaldo avverte – la centralità del “come” comporta per me una precisa conseguenza, che lascerò parlare il più possibile le “fonti”, specie testimoniali, interpolandovi il minimo di commento e discussione: e
quanto quelle voci sono chiare, forti, inconfutabili»27. Affievolendo la propria voce comunque autorevole, il critico compone delle
categorie d’analisi per una corretta suddivisione del discorso dei testimoni in dodici capitoli con cui, ascoltando la loro parola, scava all’interno dell’enorme bibliografia sulla Shoah.
Memorialistica, frammenti di testimonianze, testi storici e documenti d’ogni foggia materiano i dodici densi capitoletti intitolati “Fonti, generi, luoghi”, “Coordinate storiografiche”, “Testimonianze e «letteratura»”, “Parole”, “Temi comuni”, “Nazionalità e gruppi”, “Non ascoltati/non creduti”, “Altri temi comuni”, “Il ruolo della cultura”, “Stile spezzato, temporalità”, “Banalità del male” e “La riduzione a corpo”. Ciascuno di questi, composto di circa dieci pagine, porta alla fine uno o più allegati in cui si approfondiscono gli argomenti successivamente trattati.
Alcuni capitoletti sono permeati da un carattere più storico, come quello sulle “coordinate storiografiche” in cui Mengaldo analizza opposizioni binarie partendo (anzi, evitandola) dalla
dialettica hegeliana schiavo/padrone28per arrivare a quella creata dalla soggettività di genere uomo/donna. Altri riservano, invece, maggior spazio all’individualità umana, all’essere anche fisico, al corpo di cui parlano i racconti dei sopravvissuti con modalità profondamente diverse rispetto a qualunque altra considerazione filosofica
precedente alla Shoah. Ancor più che nella morte, il processo di eliminazione del concetto di umanità culmina con la cremazione e l’uso fatto della cenere dei corpi quale fertilizzante per i campi polacchi, humus per i campi senza degna sepoltura; nei sin troppo famosi esperimenti medici nei
Lager dove «sono le stesse parti del corpo a essere trattate – in tutti i sensi della parola – come se non fossero neppure parti di un tutto organico e vivente, ma come “oggetti a sé stanti”»29.
Il trauma esperienziale viene avvertito particolarmente in quello che Mengaldo
definisce lo “stile spezzato”, sulla temporalità presente nei frammenti memoriali e nelle testimonianze, ma anche quelle che il
critico stabilisce sapientemente nelle concordanze che suggerisce fra questi e
l’alta letteratura in “Il ruolo della cultura”30. Se da un lato tale impegno chiarisce come per il critico il concetto di
letteratura canonica non cessi di esistere, si nota, ciò nondimeno, come legittimi quelle tematiche legate all’individuo di “cultura minore” posto di fronte ad altre culture nel Lager. Tra l’altro la “trasversalità”, utilizzata quale sistema metodologico da Mengaldo, illustra efficacemente la
vitalità delle voci dei prigionieri dei campi nazisti come quelle dei prigionieri dei
gulag staliniani. Se per certi versi assai utile, il processo di trasversalità che Mengaldo applica alle varie voci non fa che confermare parzialmente il
pericolo di confusione nella pratica critico-giornalistica nei termini esposti
da Carolyn J. Dean. Questa serie di concordanze (come le “discordanze”) sono disegnate ai fini della costruzione di una voce testimoniale collettiva31. La relativizzazione, espressa nei termini di quella “trasversalità” mediante cui si svolgono le letture e i raffronti fra gli scritti dei
prigionieri dei campi nazisti e quelli dei gulag staliniani, in un insieme di
concordanze utili alla costruzione di una voce testimoniale collettiva,costituisce di fatto l’ambiguo legante di queste innumerevoli voci con le quali Mengaldo intrattiene il proprio
dialogo. Il critico, che pure sceglie come metodo di ricerca e prassi d’analisi questa trasversalità che lega, esattamente nel modo tanto criticato da Dean nel suo studio, le
vittime del Nazismo a quelle dello Stalinismo, si oppone, paradossalmente, alla
relativizzazione incombente della Shoah:
Un fatto è certo, che la Shoah (e solo la Shoah) ha abbassato così bruscamente e radicalmente, se non proprio azzerato, il livello di
comprensibilità dei fatti storici, moltiplicando sulla scala neppure misurabile dei milioni la
verità delle vecchie parole di Macbeth: una «storia raccontata da un idiota, piena di frastuono e di furore, che non
significa nulla».32
Qual è, allora, il senso di quell’avverbio “solo” che Mengaldo mette in corsivo se prima si citano vittime dei gulag insieme con
Levi e Millu? Non può, anche questa, diventare una pratica pericolosa? Mengaldo riporta poi un’altra certezza, una frase tratta da Réflections sur le génocide di Vidal-Naquet: «[l]a differenza, fortemente marcata, tra sistema concentrazionario e dispositivo
del genocidio è una delle conquiste della storiografia contemporanea»33. Quindi, si potrebbe desumere che si può sempre operare un distinguo fra genocidi in senso lato, tra cui forse rientrano
anche i gulag staliniani, e la perfetta macchina concentrazionaria di cui
Auschwitz si fa metafora ed essenza. Se l’unicum “Auschwitz” viene allineato con i gulag staliniani prima, esiste pure una motivazione da
parte del critico che lo esorta a donare completezza al suo affresco senza
rendersi conto di corroborare inconsapevolmente le preoccupazioni della storica
Dean.
Restano però molti dubbi circa il metodo utilizzato per questo tipo d’analisi. Nel suo tentativo, che non costituisce certo un caso desueto, Mengaldo
si elegge egli stesso testimone dell’impossibilità pratica di districarsi tra i vari momenti legati allo sviluppo della
bibliografia sull’argomento. Quello che non è una “conquista” della storia, come scrive Liliana Picciotto, rimane la fondamentale mancanza di
armonia fra il sapere dello storico (o del critico) e la comprensione dei
fatti:
Non c’è principio di causa ed effetto che tenga. Le scuole, le università, i centri culturali e le altre entità che si occupano dell’acquisizione delle conoscenze, della formazione dei comportamenti e della
trasmissione degli schemi culturali devono preoccuparsi anche delle modalità attraverso le quali le generazioni successive s’approprieranno delle esperienze delle generazioni precedenti. Disponiamo oggi di
una notevole mole documentaria di memoria, che ci lascia però perplessi per il futuro e incapaci di definire tali modalità.34
Non a caso, fra le varie voci dei testimoni Mengaldo sceglie ancora Primo Levi
come, ancora una volta, la più equa e serena, per giustificare l’impossibilità di una spiegazione, e riprende una sua famosa affermazione: «[f]orse, quanto è avvenuto non si può comprendere, anzi, non si deve comprendere, perché comprendere è quasi giustificare»35. Levi ricorda l’accezione latina del verbo comprendere e da questa spiega come non si possa cum-prendere la Shoah, pena la sua giustificazione. Comprendere l’evento in senso leviano costituisce una perenne sfida rivolta alla critica. La
difficoltà di parlare della Shoah, ancora oggi, dei generi e delle categorie critiche con
cui parlare e scrivere della Shoah, la consapevolezza della sua prossimità, lascia interdetti. Sembra quasi che, qualunque siano le categorie elaborate,
qualunque sia il trattamento critico, anche ricchissimo quale quello così generosamente offerto dallo studio di Mengaldo, quel che non si desidera fare è proprio comprenderla nell’etimo originario del verbo, perché operare in tal senso significherebbe presupporre l’elaborazione del lutto, la voragine sepolta per sempre. Pretendere che la Shoah
non faccia parte della nostra stessa identità non risolve il problema: continuare a elaborarne la tragica verità diventa un obbligo morale per tutti.
Che la Shoah rappresenti una sorta di sfida anche in senso metodologico si
evince dalla difficoltà dei critici a chiarire/rsi entro quale paradigma teorico e critico far
rientrare le voci di cui si popola e nutre la nostra memoria collettiva nel
nuovo secolo. Al tempo stesso, citando le parole di David Bidussa da lui
adoperate in altro contesto, le riflessioni di Mengaldo, come quelle di tutti
gli studiosi che decidono di affrontare l’analisi di tale evento da un punto di vita storico, letterario e artistico, sono
comunque sempre importanti perché testimoniano con la loro presenza che «la storia della Shoah entra nel sapere condiviso e come questo sapere si colloca
in un nuovo ciclo culturale»36.
La memoria del ventesimo secolo recherà per sempre con sé, come afferma infatti Julia Kristeva, le stigmate della guerra e della follia. Nel decretare il “superfluo” di alcuni esseri umani come nel cercare di distruggere il pensiero dal “banalizzante male”, questo secolo di “stravagante progresso tecnico” rimarrà iscritto nella memoria collettiva come quello definito dal vertice negativo
della Shoah, un evento che ha reso possibile una concettualizzazione della vita
e della morte viste entrambe in termini acutamente anti-umanistici. Hannah
Arendt, impegnandosi in inattese e quanto mai profonde considerazioni politiche
provenienti dalla tradizione filosofica più classica, denunciò, assai prima dei critici contemporanei, sia il Nazismo che lo Stalinismo in
quanto condividevano aspetti di un totalitarismo che aveva reso inutile la vita umana, che aveva polverizzato l’amore individuale e quelle relazioni sociali basate sul gusto, sul perdono, e sulla promessa37. Kristeva, studiosa di Arendt, ricorda opportunamente il pensiero della
filosofa tedesca perché fu Arendt a commentare come «le circostanze di una corsa agli armamenti, in cui viviamo e siamo costretti a
vivere, inducono quanto meno a pensare che anche la massima kantiana che
durante la guerra non deve accadere nulla che renda impossibile una pace futura
si sia rovesciata, e che noi viviamo in una pace in cui non si deve trascurare
nulla affinché una guerra sia comunque possibile»38.
Rappresentare il non-rappresentabile
Come rappresentare artisticamente, allora, questo schema mutato nei suoi stessi elementi? Agli inizi degli anni Novanta apparvero molti
studi sulla rappresentazione della Shoah. Probing the Limits of Representation, titolo di un libro curato da Saul Friedländer, costituisce a tutt’oggi uno tra i più validi contributi alla bibliografia in merito, per via dei saggi in esso
contenuti e per gli spunti critici che questi offrono, tanto da poter pensare a
questo volume come a una sorta di guida filologica e stilistica per qualunque
studio futuro sul problema della rappresentazione della Shoah. Allora, come
scriveva Friedländer, infatti «Il problema dei limiti della rappresentazione del Nazismo e dei suoi crimini
[era] diventato un tema ricorrente riguardo a vari soggetti concreti»39. Un limite “umano” difficile da stabilire, in particolar modo perché la ricerca di quest’identità, il limite fra il vero e il finzionale raccontati nei memoriali, nei diari, nei
romanzi a proposito dell’esperienza della discriminazione, delle leggi razziali, della violenza fatta al
proprio corpo come alla propria intelligenza, infine alla dignità di esseri umani, l’esperienza dei Lager e del ritorno si basa su eventi storici a noi ancora
vicini, e, pure, già paradossalmente rimossi, nonostante la vicinanza temporale, dalle generazioni
più giovani. Un aspetto riguardante i possibili limiti interpretativi consiste nel
capire il corretto uso della memoria, in quanto una memoria che ricostruisce in
modo quasi proditorio detti eventi non è sufficiente a infrangere un muro di disinteresse e nocivo relativismo rispetto
al problema.
Per Friedländer, lo sterminio degli ebrei d’Europa può essere oggetto di dibattiti teorici in quanto gli argomenti in astratto si
pongono in rapporto al modo in cui la cultura contemporanea dà una nuova forma all’immagine del passato. Quello che più importa, però, è di stabilire, all’interno di una corrente storiografica improntata a intenso revisionismo, quello
che Friedländer definisce un claim to truth, un incontestabile diritto alla verità dell’Olocausto. Ciò suggerisce che esistono quindi dei limiti. Limiti nella revisione del discorso storico come anche dei limiti effettivi di rappresentazione dell’Olocausto in tutte le espressioni artistiche. Soprattutto, bisogna cogliere l’invito che ci rivolgono Friedländer e Dominick LaCapra a spogliare il nazismo di quella subdola estetica del
sublime che ha rivestito il tragico fenomeno di un’aura di mistero, d’incomprensibilità, eliminare l’aspetto demoniaco insomma del nazismo per conferirgli un “volto umano” e arendtianamente banale. Questo è dato dal fatto che, secondo Friedländer, e contro la tesi di Daniel Goldhagen40, il comportamento sterminazionista, o più in generale, la prassi della violenza, vede individui più genericamente comuni, coloro i quali non posseggono un fine ideologicamente motivato, ma, secondo la
tesi funzionalista di Christopher Browning, soltanto un lavoro da compiere. La
violenza non risulta determinata da un moto, anche bieco, dell’anima; viene, appunto, svuotata d’odio, banalmente tesa al perfetto funzionamento di stampo bismarckiano della macchina nazista.
Quella banalità descritta, appunto, da Hannah Arendt nei suoi noti scritti sul processo
Eichmann41.
Quali sono i limiti di cui parla Friedländer? Si tratta, in linea di massima, dei limiti relativi alla rappresentazione
estetica oltre alla possibilità di identificare delle realtà o verità certe al di là della costante polisemia e autoreferenzialità dei costrutti linguistici. Sono questi i limiti reali della discussione che, di
conseguenza, creano la necessità di stabilire le realtà e le verità dell’Olocausto e consentono alla scrittura letteraria di seguire un tragitto coerente
con la verità del fatto storico. Dominick LaCapra scioglie nodi critici derivati dal
binarismo dogmatico dello strutturalismo e dimostra efficacemente come il
pensiero postmoderno, senza nuocere alla realtà storica, possa smantellare obsolete rigidità analitiche. L’urgenza maggiore consiste nell’assimilare alla pluridiscorsività postmoderna alcune irradicabili opposizioni binarie, perlomeno quella
vittima/carnefice. Questo sebbene nel testo di Goldhagen, come aggiunge
LaCapra, possano a volte sembrare eccessive certe generalizzazioni di
comportamento dei persecutori nei confronti degli ebrei42. D’altra parte, l’apertura del discorso teorico postmoderno si pone in relazione con chiunque
pensi che persino le rese letterarie più precise della Shoah contengono un’opacità di base che si confronta con la tradizione storica improntata alla ricerca di
una resa “oggettiva” degli eventi. Proprio la “Soluzione finale”, con la sua incredibilità, consente al pensiero postmoderno di mettere in discussione qualsiasi discorso
storico totalizzante. «L’incredulità, infatti, più che una inadeguatezza, fu una componente essenziale del processo distruttivo:
in breve lo scenario di non senso che legittimava l’accelerazione del processo, con ciò rendendo plausibile lo scenario precedente, ma testimoniando della propria
inadeguatezza a contrapporvisi e, dunque, l’invito ad alzare ogni volta la posta»43. Sia pure a costo di ingenerare problemi di sistematicità del lavoro critico, si deve sempre considerare l’effetto Rashomon teorizzato da Christopher Browning44, poiché tale prospettiva multipla rispetto a un evento ci consente di problematizzare
la ricezione di un testo generato – in questo caso – dall’esperienza nei campi.
Storia e memoria: l’importanza del ricordo
Dominick LaCapra si chiede come dovrebbero essere ricordati allora eventi di
tale magnitudine e dolore. Coloro non direttamente coinvolti hanno particolari
responsabilità per il passato e il modo in cui viene ricordato nel presente? È possibile che la storiografia definisca se stessa ancora in un ambito puramente
accademico e professionale prendendo le distanze dalle implicazioni etiche per
il pubblico e la sua memoria? Esiste una più complessa e sfaccettata interazione tra la storia e la memoria? Infine, e
questo costituisce il punto più rilevante ai fini del mio studio, LaCapra avanza dei precisi interrogativi
rispetto al compito dell’arte e al suo impegno etico. Se l’arte possa farsi carico cioè di una «responsabilità particolare nei confronti di eventi traumatici che rimangono investiti di
valore ed emozione»45. Dopo Auschwitz, non soltanto la Shoah, ma anche altre esperienze legate alle
attività umane, non possono più essere considerate secondo parametri di analisi convenzionali:
L’Olocausto ha avuto effetti retrospettivi e ha fatto scaturire ricognizioni tarde
che in cambio hanno sollevato domande a vari aspetti della storia che prima
godevano di diversa connotazione. Erano Auschwitz e tutto quello che esso
significava unici dunque? Si potrebbe dire che Auschwitz sia stato un caso
unico (questo tipo di genocidio non era mai accaduto prima) e paragonabile
(come si paragonano i campi di Hitler ai gulag di Stalin)? Al tempo stesso, non
era né unico né paragonabile perché c’è un senso in cui paragoni (soprattutto nel senso di ampiezza) sono irrilevanti e
persino superlativi [...] Sono criticabili eccetto per le espressioni
iperboliche della propria inadeguatezza nel cercare di analizzare i problemi.46
L’Olocausto non è stato un caso unico in senso “numerico”, afferma LaCapra, quanto, piuttosto, perché in esso è stato superato il limite sino ad allora immaginato della trasgressione.
Ogniqualvolta la soglia del limite viene superata, succede qualcosa di
estremamente singolare che sottrae qualunque validità o base ai convenzionali termini di paragone. Concorda parzialmente Geoffrey
Hartman:
Potrebbe essere, allora, una svolta psicologica quella che fa di Auschwitz un
dato di assoluta importanza. La sua paragonabilità, infatti va di pari passo col sollevare un velo: un segmento per metà soppresso di storia umana entra di fatto nella consapevolezza collettiva come
mai prima d’oggi. Se assorbiamo quel che è accaduto e seguiamo religiosamente il monito a “Non dimenticare mai” allora, come nota Maurice Blanchot47, “quello che ricomincia da questa fine (Israele) viene definito da tale fine, da
cui non riusciamo a svegliarci”. L’umanità, una parte devota di essa, un tipo di clero, dovrebbe smettere di dormire e
impegnarsi a una “veglia senza fine” [...] Che si consideri o meno l’Olocausto come fatto unico, ci conduce comunque a una rilettura di un passato
che è lungi dall’essere inerte, nel senso che lo riscopriamo, avendolo dimenticato o sin troppo
represso.48
In Italia
Nonostante la lodevole eccezione di alcuni studiosi che sempre più frequentemente prendono parte al dibattito riguardante la Shoah, il discorso
critico letterario in Italia stenta ancora a svilupparsi. Il “represso” freudiano di cui parla Hartman sembra essersi esteso come un’enorme macchia su tutto il territorio nazionale. In parte per via del mito
fuorviante del “bravo italiano” così attentamente studiato da David Bidussa49, in parte perché, effettivamente, i “giusti” italiani non sono stati pochi come ricorda tra gli altri la storica Liliana
Picciotto50, l’opinione pubblica italiana – la nostra collettività in versione mediatica – si è espressa in modo contraddittorio circa l’atteggiamento degli italiani rispetto all’evento e, prima ancora, alle tragiche conseguenze con cui furono passivamente
accettate le leggi razziali che invece giunsero come vertice di una lunga
politica discriminatoria51. Non bisogna neppure trascurare, d’altronde, il peso dell’interpretazione a volte troppo decostruttiva di affermazioni di famosi studiosi
quali Hannah Arendt sullo spirito tollerante degli italiani, affermazioni che
hanno contribuito a creare un presupposto teorico per cui gli italiani hanno
sempre goduto di una certa aura di benevolenza per via di una vantata
assimilazione ebraica e grazie al loro comportamento dopo la resa agli
Americani del 194352.
Sono molti, come vediamo, i fattori per cui l’appropriazione “ingiustificata” del concetto stesso di genocidio degli ebrei di cui parla Dean giunge quando
sono ancora insufficienti la ricerca e lo studio dell’identità ebraica italiana rispetto alla Shoah, nella sua caratterizzazione di genere, di
come le donne italiane abbiano vissuto l’evento. Considerazioni di carattere generale rispetto al peso del ricordo – peraltro assai rilevanti – vengono espresse quindi senza aver però esaurito l’importanza di alcuni argomenti per ciò che riguarda la prassi letteraria della memoria. La memoria che, come sostiene
LaCapra, si rende assai importante per la storia pur con le sue complicate
relazioni, spiazzamenti e dinieghi53, lo è altrettanto per il testo letterario che si nutre del processo a ritroso nella
memoria per costruire le proprie immagini. L’assuefazione a cui si è già accennato, involontariamente causata dalle celebrazioni per la Giornata della
Memoria, non deve, allora, caricare di un peso negativo quel che il ricordo
porta con sé, l’idea leviana ripresa dall’ode di Samuel T. Coleridge. È una memoria che appartiene alla collettività, e come tale va studiata e analizzata. È l’unica narrazione forte che tutti condividono in questa particolare congiuntura
storica. Sintetizza molto bene la mia posizione rispetto alla questione una
riflessione di Michele Battini:
Se sto insistendo troppo sulle simmetrie tra le memorie degli italiani non ebrei
e quelle degli italiani ebrei, lo faccio per reagire, come non ebreo, all’estrema solitudine della memoria ebraica della Shoah. Sono infatti consapevole
che le simmetrie strutturali tra la memoria degli italiani ebrei e quella degli
italiani cristiani non escludono il dato dell’attuale isolamento, culturale e politico della memoria ebraica, specchio di un
giudizio purtroppo assai diffuso tra i non ebrei, secondo il quale l’imperativo ebraico del ricordo sarebbe un eccesso, o un’esagerazione.54
Più ottimisticamente di Cavaglion, mi piace pensare che l’imperativo dello zachòr possa non essere un’esagerazione e che Battini chiarisca il senso del bisogno del riscatto, minimo e
insufficiente, provato da chi ebreo non è, per la vergogna di quella passività e tolleranza al potere – quasi un esercizio in nicodemismo – tutta italiana. Ricordare serve a tutti. Battini riconosce ad alcuni non ebrei
la comprensione di come il vivere quieto italiano, un vivere che rifugge da
quel rigore protestante e puritano che costringe alle regole, alle leggi, alla
norma, se da un lato concede una vita piacevole alla maggior parte della società, affossa però i diritti di chi, invece, non sente presso di sé la protezione di una collettività che obbedisce a regole dotate di un senso riconoscibile e comprensibile per
tutti. Risanare la memoria da quella intensa “solitudine” citata da Battini giunge quale nostro imperativo collettivo.
Essere artisti, ebrei e italiani: una difficile identità
È in questo contesto fluido e instabile della critica e ricezione letteraria dei
lavori sul genocidio degli ebrei europei che si situa questo studio sulla
scrittura di donne della Shoah, di come l’ebraismo italiano al femminile costituisca un motivo di studio e di ricerca che
presenta ancora molti punti da chiarire e da porre in luce rispetto al rapporto
con la tanto dichiarata assimilazione degli ebrei italiani. Un tema di studio
doppiamente utile, soprattutto perché, in generale, la critica letteraria della Shoah raramente si articola intorno
alla produzione italiana. È un problema, questo, ricordato anche da Alberto Cavaglion nell’edizione italiana del già citato Dizionario dell’Olocausto curata da William Laqueur. Nonostante la cospicua bibliografia internazionale
di studi storici sulla Shoah, Cavaglion lamenta infatti la scarsità dei «lavori [in italiano] connessi alla rappresentazione simbolica dello sterminio
(letteraria, innanzitutto, ma anche figurativa, artistica, e cinematografica)», una scarsità che «rende talora impietoso il confronto» con pubblicazioni in altre lingue, solitamente in lingua inglese55. E tale fenomeno si ha a dispetto, o forse a causa, come sostengo anch’io in questa sede, dell’enorme risonanza dell’opera di Primo Levi, personaggio che più d’ogni altro autore italiano ha contribuito alla conoscenza del mondo
concentrazionario. Fondamentale appare quindi una mappatura degli scrittori
ebrei italiani di area non limitata alla rappresentazione letteraria della
Shoah e agli spazi temporali che seguirono a tale evento.
L’assenza di uno studio più specifico sulla letteratura italiana della Shoah d’altronde non deve stupire perché «costituisce la continuazione di un filo che lega l’assenza di una ricerca letteraria specifica sull’hebraitude, anche a causa – come scrive Alberto Cavaglion – di vistosi condizionamenti»56 consistenti – prima della Shoah – principalmente dalla «specificità dell’antisemitismo che nel passato si limitava a essere una sotto-questione della
questione borghese»57. Nella generazione di Primo Levi, successiva a quella di Italo Svevo, l’ebraitudine diventa un elemento di studio e ricerca per coloro che si erano
sentiti assimilati alla cultura italiana. Per alcuni scrittori italiani,
scrivere “ebreo” dopo la Shoah equivale a un ritorno alle origini, e non a caso furono definiti – e si sentirono – ebrei di ritorno. Ma il ritorno dal Lager corrisponde a una solitudine ancora più estrema di quella suscitata dal senso di appartenenza a una minoranza. “Una lapide in Via Mazzini”58, uno dei racconti che compongono le Cinque storie ferraresi di Giorgio Bassani, illustra la difficoltà del ritorno dal campo di Geo Josz sullo sfondo di una condizione
discriminatoria precedente al Lager in cui vivevano gli ebrei italiani e di cui
è pervaso tutto il cosiddetto Romanzo di Ferrara. Levi, com’è risaputo, manifesta il proprio disinteresse all’ebraismo prima dell’esperienza del campo nel Sistema periodico, ma contro la cancellazione della propria razza scatta – in rapida successione – una reazione inversa, quella di parlare invece della propria particolarità di ebreo italiano. Come scrive Luca De Angelis, «[p]roprio perché in Italia da parte ebraica non venne vissuta la diversità, dato l’alto grado raggiunto dal processo di assimilazione, gli effetti della
persecuzione razziale furono doppiamente traumatici e nell’anima degli ebrei scattò un potenziale propellente supplementare»59. Il tragico propellente delle leggi razziali e dei decreti sulla deportazione
ha paradossalmente innescato il meccanismo di un nuovo ciclo culturale e
letterario riguardante gli ebrei italiani. La tragedia vissuta su un piano
personale, trasferita poi, in alcuni casi con successo, in testi letterari o
cinematografici di valore (o di successo di pubblico), o su un piano dove
prevalesse l’impegno etico, ne costituiscono gli esiti più evidenti.
Generi, categorie, schemi della scrittura:
dal memoriale al letterario.
L’identità ebraica italiana femminile
E cos’è stata la Storia sin qui egregio amico?
Una scrittura continua di privilegiati
(Vincenzo Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio)
L’arte offre da sempre un ampio spazio per il ragionamento e l’ascolto di altre voci, questo pur incorporando l’immaginario nella dimensione creata da fatti storici. Ma bisogna pure ascoltare
queste voci distintamente, partendo dalla volontà di ascoltarle. Non sorprenda allora, alla luce di quanto esposto in precedenza,
se marginalità e scarso interesse hanno spesso connotato la figura della deportata e
sopravvissuta ebrea italiana. Se le donne, come ricorda Anna Rossi-Doria nell’importante capitolo riassuntivo dei suoi lavori storici che hanno come oggetto
le donne in Storia della Shoah60, costituivano un ingentissimo numero di vittime della Shoah, e per questo
ancora più importanti nel contesto della collettività oppressa, le loro voci, le loro esperienze udibili attraverso i loro scritti
sono rimaste invece a lungo inascoltate da un punto di vista concettuale e
critico. In un recente numero di PMLA è apparso un toccante articolo di James Young in cui il critico riconosce
finalmente l’importanza di uno sguardo privilegiato per “il dolore delle donne”61. Trovando ispirazione in un saggio di Susan Sontag, “Regarding the Pain of Others”, Young, tuttavia, rileva come, quando i soggetti sono femminili, persino le
fotografie di guerra che le ritraggono possano facilmente diventare oggetto di
voyeurismo, spettacolo. Contro tale pericolo, lo sguardo delle nostre scrittrici si offre invece in
modo compassionevole e insieme risoluto, nel guardare alla propria identità e, in alcuni casi, al proprio stesso tracciato di vita e a cosa ha prodotto
partecipare, loro malgrado, all’evento della Shoah. Tale atteggiamento storico-critico si allinea al vettore
appena intercettato di una più generale carenza, quella di uno specifico tutto italiano, se non del discorso storiografico, certamente di quello letterario sulla
Shoah. Si osserva dunque una duplice lacuna. A queste donne, rifiutate dalla loro stessa Patria e segregate nei Lager, si
rifiuta spesso la possibilità di uno studio dei loro scritti, considerati contributi di scarso interesse
dalla critica internazionale. In tal modo, le loro storie come le loro
elaborazioni creative rimarranno per molto tempo sconosciute. Esigui nel
numero, oltre che sovente limitati all’area di studi italiana e francese, sono infatti i saggi che si occupano delle
ebree italiane e scrittrici62. Una duplice lacuna che parte dalla produzione testimoniale dei campi e si
propaga a tutti i generi di scrittura. Gli esiti critici diventano fragili – quasi impercettibili – non appena si intercetta un percorso di genere e di nazionalità diverse quale quello tracciato dall’esperienza e dalla scrittura di donne ebree italiane.
Ancora oggi esiste, infatti, una documentazione relativamente esigua sia sull’esperienza precipua della deportazione vissuta dalle italiane che su coloro che,
tra le deportate, hanno deciso di intraprendere la prassi della scrittura per
confrontarsi con la loro esperienza, parlandone sia con modalità autobiografiche sia attraverso quelle più creative aventi ambizioni letterarie. Occorre dire che, sino all’inizio degli anni Ottanta, la lacuna riguardo a scritti di donne esisteva,
infatti, non soltanto negli studi di italianistica e Shoah italiani, ma anche
in campo internazionale. Come riportano Marlene Heinemann in Gender and Destiny: Women Writers and the Holocaust e S. Lillian Kremer in Women’s Holocaust Writing63, uno degli ostacoli a uno studio determinato anche dal genere dei testimoni
derivava dalla diffusa opinione che separando la voce femminile da quella più universale – declinata al maschile – si rischiasse di affievolire la potenza di un unico coro di testimonianze. Che
si rischiasse insomma di diminuire l’importanza della “unicità dell’evento” come sostiene Lawrence Langer64 oltre a stabilire una “gerarchia delle sofferenze”65. Il peso della conclamata unicità della Shoah viene conferito, invece, da quella micidiale sinergia fra la
burocratizzazione di stampo bismarckiano, l’avanzare della tecnologia e il fanatismo ideologico e religioso che l’ha resa possibile nel secolo del progresso, nulla che un’ostentata compattezza tematica e critica possa, in fondo, sottrarle.
Alcuni studi sull’esperienza femminile dei campi di concentramento aventi perlopiù carattere storico e psicologico, sono stati pubblicati in seguito, e in parte
il vuoto è stato colmato (come sempre nella maggior parte sono studi svolti e pubblicati
negli Stati Uniti) ma davvero a tutt’oggi scarsa documentazione esiste sia sull’esperienza precipua delle italiane che su coloro che, tra queste, hanno deciso
di scrivere per parlare della loro esperienza sia mediante la testimonianza – sempre meno mediata di altri generi – sia attraverso la scrittura finzionale.
La mia prospettiva sulla rappresentazione della Shoah guarda al testo memoriale
di alcune italiane come punto di partenza e marca necessaria per la successiva
trasfigurazione dell’evento storico in un contesto che si trasforma gradualmente dal momento della confessione a quello che stempera il ricordo (o lo intensifica) in
cadenze più letterarie e saggistiche. Come precisa Anna Bravo, il contributo delle
deportate e scrittrici italiane risulta infatti assai prezioso in quanto la
comprensione e lo studio della trasmissione della Shoah si configurano e si
arricchiscono tramite la loro diretta testimonianza, dimostrando come
scrittrici tuttora viventi rivedano questo tema nella scrittura letteraria e in
quella saggistica. I testi oggetto di studio nel presente libro costituiscono
esempi rilevanti di quel limite fra il fittizio e il dato realistico dei fatti
narrati, questo sempre tenendo al centro del loro contenuto l’esperienza di un’identità tutta da stabilire, sempre in gioco sul farsi e rifarsi del rapporto fra gli
italiani ebrei e gli italiani gentili. Tutti i testi riflettono però il comune desiderio di rinarrare, di procedere a una ricostruzione della
memoria dei fatti quanto più vicina al dato prettamente storico della Shoah, alle deportazioni, al rientro a
una vita civile, e al proprio essere ebrei oggi. Un complesso rapporto fra la
comprensione della propria identità e specificità di genere all’interno della propria storia s’instaura, con diverse intensità, in ciascuno di loro.
Com’è noto, nella sua prefazione alla traduzione italiana di Uomini ad Auschwitz di Hermann Langbein, Primo Levi divide in tre categorie la scrittura «sui campi di concentramento nazionalsocialisti: i diari o i memoriali, le loro
elaborazioni letterarie, le opere sociologiche e storiche»66. Sebbene accompagnato dall’avverbio di modo “grossolanamente”, il distinguo di Levi rende evidente i diversi esiti scrittori che vedono la
Shoah quale elemento sostanziale e imprescindibile del loro testo. Fondamentale
appare la differenziazione fra il diario e l’elaborazione letteraria del diario. I generi più consueti nel loro impiego di materiale derivato da eventi storici e insieme
personali, quali quelli ivi descritti, trovano una collocazione ancora diversa.
Sempre in questa prefazione, Primo Levi ricorda inoltre come nell’originale del titolo del libro il lemma Uomini fosse Menschen: persone, quindi, non uomini secondo la formula grammaticale per cui in
italiano il maschile dovrebbe rendere il concetto di una pluralità. Nella versione francese il titolo mantiene invece quella specificità di genere, un’umanità divisa in modo comunque non essenzialistico fra uomini e donne, Hommes et femmes à Auschwitz67. Nel titolo italiano, Uomini, forse per sottolineare il concetto di Mensch che lega vittime e aguzzini, come suggerisce la prefazione leviana, si è perso quel fondamentale riferimento a entrambi i generi. Il termine Uomini, se universalizzante, si riferisce almeno – nell’immediato – a un universo pensato al maschile. Molte sono le testimoni le cui voci emergono
dal testo di Langbein, testo al quale quello di Mengaldo deve in parte lo
schema d’utilizzazione delle voci dei testimoni e dei sopravvissuti che s’intrecciano nell’ordito del discorso. Citando vari esempi, Mengaldo mostra di non apprezzare «gli eccessi di “distinguo” tra le varie fonti e la tendenza a sminuire il valore delle testimonianze
dirette e vissute»68. Pure, l’accorpamento forzato delle esperienze femminili e maschili come dispositivo di
rafforzamento del discorso critico a difesa, e come voce, della collettività, non può rendere giustizia alla sofferenza e alla voce di queste donne, la cui eco
giunge sino ai nostri giorni in opere di vario genere. La scrittura della Shoah
viene completata, non ridotta, dal lavoro di queste donne, le cui opere
risultano prospetticamente diverse da quella dei loro compagni in molti casi.
Se mischio parzialmente e volontariamente le fonti nel citarle, lo faccio quale
consapevole conferma di quanto si denuncia nella seconda di copertina in Vero e falso. L’uso politico della storia69. L’accusa mossa da Marina Caffiero contro una bieca «produzione di tipo generale o divulgativo»70 è quella di uno «strangolamento della produzione scientifica in senso proprio» sull’argomento, di sovrapporre, cioè, la “storia” intesa come “scienza” alla recente produzione mediatica basata sul fatto storico. Non si può non tener conto di come il discorso letterario abbia vissuto e si sia modellato
sulle stesse vicissitudini e problemi di quello storiografico, etico, politico
e morale di cui scrive con ragione Caffiero. I fili dei vari discorsi procedono
separatamente ma per strade intercomunicanti. Le immagini del passato, sostiene
tra gli altri storici la voce autorevole di Hayden White, vengono create e
trasmesse, per l’appunto, non soltanto dagli storici ma anche dai romanzieri71, ciascun gruppo possessore delle tecniche di due scritture che, ab origine, non venivano distinte. La scrittura letteraria non è così facilmente separabile dalla memorialistica, emblematico sia il caso leviano,
senza tener conto addirittura del contenzioso circa il romanzo della Shoah
documentaristico (o storico) rispetto a quelle opere postmoderne di finzioni
apocalittiche, come Time’s Arrow di Martin Amis e White Noise di Don DeLillo72. Da un flusso e da uno scambio di affinità e interessi si può arrivare alla composizione quindi di un discorso più chiaro rispetto all’ebraismo italiano e alla Shoah, allargando poi il problema a quello dell’assimilazione della collettività ebraica italiana nel tessuto sociale del paese. I vasi comunicanti della storiografia e della critica letteraria contribuiscono
a porre luce su fatti e problemi che scaturiscono da un campo per riversarsi – perlomeno in certe situazioni – nell’altro. I loro limiti sono labili perché, se la dimensione stessa dei lavori letterari si delinea e arricchisce mediante
la lettura e conoscenza di fatti e testi storici, nello stesso modo per gli
storici organizzare un emplotment in senso ricoeuriano del loro discorso risulta vitale ai fini di far capire
quella storia che viene descritta, interpretata, giudicata nei romanzi storici.
Nati dall’impellenza di spiegare una storia che si fa soggetto – non soltanto sfondo – di molti romanzi, rimangono comunque un componimento letterario. I critici,
quindi, non lavorano soltanto per criticare la veridicità, la fedeltà o lo scacco del verosimile, ma per capire, piuttosto, quali siano gli elementi
che l’artista seleziona dell’evento definito storico e con quali tecniche lo elabora per assorbirlo nel suo testo finzionale.
Indispensabile allora appare la realizzazione di parametri cronologici e di
genere scavando nel nostro patrimonio letterario, dove vari testi attendono
ancora una corretta lettura.
Essenziale diventa quindi capire quale filo tematico – non certo “esile”73 – leghi le donne della generazione della Shoah sia alle loro figlie sia alle loro
stesse madri, simboliche o reali. Diventa imprescindibile riflettere sul
rapporto esistente fra gli scritti delle deportate italiane e la produzione
letteraria in Italia che a questi è seguita dal 1945. Oltre a legittimarle come esponenti di una storia “dal basso”, i miei “distinguo” operano in funzione di una più proficua analisi delle varie tipologie testuali ingenerate dalle categorie
tematiche della Shoah che Mengaldo evidenzia nel suo studio. Vedere, insomma,
verso quali percorsi di scrittura conducano questi scritti la cui peculiarità di genere è stata così spesso sottovalutata. Varie le categorie, generi usati, frammenti memoriali
raccolti da storici, memorie scritte subito dopo il rientro e pubblicate molto
più tardi, oppure stese dopo un lungo periodo di decantazione, lontane quindi dall’immediatezza linguistica ed emotiva della scrittura che si fa materia subito
dopo il momento del rientro. A tutt’oggi, che io sappia, esistono pochi studi organici di critica letteraria su
questo particolare punto di raccordo fra storia, memoria e finzione al
femminile nella letteratura italiana. Soprattutto del prevalere del problema
razziale che oscura, invece, quell’importante prospettiva data dal genere sessuale. Pochissimi e isolati, non
collegati da uno schema critico che consenta di vedere quegli scarti rispetto a
precedenti modelli di scrittura, innovazioni e sensibilità estetica che sono invece gli esiti dell’analisi della presenza femminile italiana nella scrittura della Shoah.
In Le donne e la Shoah Giovanna De Angelis traccia una traiettoria assai interessante sulla presenza
delle donne nel discorso storico-critico della Shoah74. Il merito del libro risiede sicuramente nell’aver intrapreso uno studio sulla scrittura femminile della Shoah nato e
concepito in italiano e di aver iniziato in tal modo a colmare una palese
omissione della critica. “Il contesto. L’età del totalitarismo”, primo capitolo di questo studio, si compone di sessantasette pagine e, nella
giustificata ambizione di chiarire l’articolazione di un discorso sulla presenza/scrittura femminile dell’evento, finisce per limitarne paradossalmente la portata. L’ambito conoscitivo poco esplorato dello sguardo femminile rispetto all’evento storico pare meritare tutte le pagine utilizzate ai fini di una
trattazione del totalitarismo che, al contrario del vero tema del libro, vanta
ormai una sterminata bibliografia. Nello stesso capitolo si legge poi che gli
ebrei romani furono «immediatamente inviati ad Auschwitz, dove già il 23 ottobre, poche ore dopo il loro arrivo, circa l’89% (una percentuale insolitamente alta) fu destinata alle camere a gas»75. Fa pensare molto l’uso di quest’avverbio, “immediatamente”. Una settimana divide, infatti, il 16 – data del rastrellamento – e il 23 ottobre 1943, data in cui molti dei ghettaroli romani furono uccisi ad
Auschwitz. Fra il 16 e il 23 questi trascorsero, ormai è fatto risaputo, due giorni ammassati nel Collegio Militare di Palazzo Salviati
a Trastevere, a duecento metri da San Pietro. Il convoglio partì il 18 ottobre. Dunque molto si poteva fare per loro in quei due giorni su cui
non si sofferma neppure Renzo De Felice nella sua Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo76. Sandro Portelli – fra i vari storici – ha chiarito e ribadito in varie circostanze, invece, la situazione assai
vulnerabile dei mille e più ebrei romani in quei giorni successivi al rastrellamento77. È questo uno dei punti su cui molti storici dibattono infatti per determinare la
mancanza di un risoluto atto salvifico da parte di Pio XII. Stupisce quindi
quest’avverbio che elide anni di doverosa ricerca su un argomento storico così problematico e che contribuisce a rafforzare l’interrogativo circa la vera utilità di questo stesso capitolo.
Il secondo capitolo, “Il tempo della persecuzione”, guarda a come la «politica discriminatoria inaugurata dal regime hitleriano non conobbe né considerò mai l’ipotesi di una differenziazione – in termini positivi o negativi – che potesse qualificarsi come “di genere”. Per De Angelis sono invece fondamentali i «dati relativi alla condizione femminile all’interno della società ebraica prima dell’avvento del nazismo»78. Anche qui sorge il dubbio se davvero la politica discriminatoria legata alla
ricerca genetica, ai numerosi esperimenti fatti sulle prigioniere nei vari
campi di concentramento, non contenesse già implicitamente una politica discriminatoria verso le donne. I “due distinti territori d’indagine” rappresentano quella che viene considerata una cesura classica di analisi fra
la situazione pre- e post-Shoah fra le ebree dell’Europa orientale e quelle dell’Europa occidentale. Gli esempi forniti riguardano l’ambiente ebraico polacco in cui le donne, dall’istruzione alla scelta di un compagno, non godettero di libertà individuali sino a guerra avanzata. La tradizione orientale appare legata a un
discorso patriarcale in cui le donne si muovono faticosamente, costrette nel
loro ruolo di «tutrici dei valori della tradizione»79 da cui si evince come queste vedessero in una cultura laica «una fuga dalle costrizioni pratiche della loro religione»80 per cui persino la scelta di un compagno doveva avvenire «necessariamente nell’ambito della comunità»81. De Angelis riconosce grandi meriti alle ebree tedesche per l’agevolazione dell’emigrazione degli individui di sesso maschile nonostante e a causa di un diverso
«status di assimilazione [...] di pertinenza strettamente maschile»82. La minore emigrazione femminile dipende – in questo caso – dall’ostruzionismo esercitato a fin di bene dalle stesse famiglie di provenienza,
dalla riluttanza delle donne a abbandonare luoghi noti, a lasciare un lavoro
che aveva, in pratica, sostituito quello dei loro mariti e fratelli, infine dalla speranza che sarebbero state comunque chiamate a loro volta nel
paese in cui questi ultimi avevano trovato asilo. Inoltre, va sottolineato come
le ebree tedesche avessero per lungo tempo coltivato «l’illusione [...] che le autorità tedesche avrebbero rispettato una qualche distinzione di genere, che non
avrebbero osato esercitare su di loro quella stessa violenza già esercitata, in più occasioni, sugli uomini»83. Per molte donne la partenza per un paese ignoto costituiva un pericolo
maggiore dell’internamento in un campo, aspetto da non sottovalutare nella discussione sulle
differenze attribuibili al genere. Nel capitolo si esamina l’elaborazione del concetto di rassegnazione nei termini formulati da Gertrud
Kolmar. La rassegnazione, l’accettazione
È comprensione al di là della fondamentale non comprensibilità degli eventi, riformulazione dell’identità al di là delle violentissime spinte distruttrici imposte dal contesto, individuazione di
una libertà nuova e finora mai esperita al di là delle imposizioni di un vissuto depauperato fino alle soglie estreme dell’impraticabilità.84
La «libertà dentro alla non-libertà» diventa per Kolmar un percorso conoscitivo totalmente nuovo da far scrivere a
De Angelis che, fra la storia dei vincitori e quella delle vittime, esiste una
terza storia, quella di coloro che acquistano «attraverso la sofferenza» conoscenze relative a se stessi in quanto «interiormente liberi»85. La sensibilità di Etty Hillesum si avvicina in questo a quella di Kolmar. Hillesum riflette
sul rapporto tra i generi sessuali e il senso di dipendenza che da tempo
immemore porta la donna a pensare a un solo compagno quale unico momento di
vera affettività. Dare un senso alle cose legate al nostro essere nel mondo diventa un’urgenza ontologica per Hillesum. In questo scrutare filosofico di cui si fanno
strumenti il campo, il dolore, la persecuzione, la scrittura diventa allora
indispensabile mezzo da considerarsi nella sua duplice importanza: elemento
concreto che consente la restituzione degli eventi vissuti alla cronaca e
struttura veicolante dell’interpretazione della realtà di questi stessi eventi. Per la cronaca “delle vicissitudini” viene indicato un ritorno alla lingua che ha trascritto la memoria della storia
ebraica. Una lingua fatta di speranza, che, nel lasciare dietro di sé il contingente e tornando all’antico mondo della cultura ebraica, spera in un futuro in cui «la vita tornerà a zampillare»86.
Il terzo capitolo, “La deportazione. Il campo”, indaga il «valore propedeutico della violenza»87, vale a dire il processo di disumanizzazione vissuto dalla deportata. In un universo che rovesciava tutti i valori a
cui si ispira la natura umana, che sconvolgeva la capacità dell’individuo di discernere la differenza fra il bene e il male, l’individuo osserva la scomposizione del sé e dell’altro da sé in un processo di straniamento pure necessario alla propria sopravvivenza,
spirituale ancor prima che fisica. All’interno del campo, l’altro da sé costituisce tutto quello che all’interno non esiste più, rimosso per autodifesa e per volontà dei carnefici che pensano alle internate come a delle cose, ribattezzandole con
dei numeri, per cui a loro ci si riferisce come a quegli Stücke ricordati da Levi. Dei pezzi, a cui l’umanità viene negata e di cui si sollecitano invece le reazioni più basse e indegne della parola “uomo”. Circa la condizione specifica della donna all’interno del campo, De Angelis definisce “riduttiva” l’ipotesi di una loro maggiore sofferenza – quale quella esposta da Primo Levi nello scritto “Nel Lager femminile” – perché più vulnerabili nel corpo (gli esperimenti scientifici e le gravidanze interrotte
sono gli esempi più eclatanti di tale sofferenza). Quello che accade risulta essere un processo di
comprensione della labilità del loro sistema di sicurezze psicologiche a cui – già parzialmente preparate ancor prima dell’arrivo al campo da distacchi, separazioni, emarginazioni e discriminazioni nel
paese di provenienza – le donne portano riparo, ricostruendosi un mondo all’interno del campo fatto di solidarietà e di sostegno in taluni casi, mentre in altri condurrà a un crescente stato d’alienazione88. La necessità di raccontare la loro esperienza in date di molto successive al tempo storico
degli eventi sorge dal «rimuovere gli stereotipi generati dalla diffusione di una pregressa, assai circoscritta vulgata testimoniale e letteraria»89 e fornire la loro versione dei fatti.
Lo studio si chiude con un’analisi della scrittura di Edith Bruck. La Shoah non equivale a un ricordo ma a
una prassi di vita e di scrittura, per cui Bruck fa risalire all’evento l’intera summa del proprio esistere: ne costituisce l’impellenza suprema, il tema imprescindibile dell’atto scrittorio. A partire da Chi ti ama così90 il campo, la detenzione, la sofferenza, il ricordo traumatico della perdita
della madre, della propria innocenza e della propria patria – da cui si evince il bisogno dell’italiano come lingua non-materna e quindi imprescindibile mezzo espressivo per
chi ha perso tutto – costituiscono i temi per cui la scrittrice esige un’attenzione totale nella propria continua interrogazione dei fatti, nella
continua esegesi dell’orrore da cui non riesce peraltro a separarsi. Oscillare fra «il ritorno alla propria infanzia spezzata e la biografia di un presente d’impotenza e di sradicamento»91 diventa il nodo onto-epistemologico fondamentale. Quel dolore sordo e continuo
di cui le chiedono testimonianza, prove del suo vissuto di internata in un
campo, prove sulla sorellanza nel campo, unico elemento di cui Bruck non
conserva memoria.
Se si eccettua la felice parentesi dello studio di De Angelis, che in realtà lavora su autrici ormai di interesse internazionale come Kolmar, Hillesum, e
Bruck, si stenta ancora a comporre un itinerario ragionato sulla scrittura
letteraria di genere della Shoah e post-Shoah in Italia. Il mio percorso
procede da alcuni fra i primi scritti, quelli la cui datazione e pubblicazione
segue di poco la liberazione delle deportate italiane, per seguire la
successiva produzione romanzesca. Dalle testimonianze e dalle memorie l’attenzione si sposta di necessità al genere romanzesco nelle sue varianti concepite dalle scrittrici italiane. Il
discorso sull’immaginazione artistica per quanto riguarda la rappresentazione letteraria di
fatti storicamente accertati deve tener conto di un passaggio intermedio fra la
realtà rappresentata dalla, e nella, letteratura e gli scritti che non furono
concepiti a scopo letterario, ma quale memoria e testimonianza del fatto
storico. Esiste una letteratura assai ampia che raccoglie direttamente le
memorie dei campi di sterminio. Possiamo dire, con Alberto Bertoni, che «[i]n linea di massima essa oscilla tra i due “generi” del diario (o della raccolta epistolare) che annota secondo un ordine
cronologico la sequenza dei fatti; e del romanzo (quasi sempre a sfondo
autobiografico) che rielabora secondo una specifica poetica narrativa la
vicenda della “prima persona” protagonista»92. Risulta sin troppo semplice confutare tale definizione atta a semplificare
qualcosa che semplice non è. Nelle dichiarazioni di quasi tutti gli autori, come dei loro critici, la
scrittura di tali memorie viene contraddistinta da grandi difficoltà compositive. «Scrivere della Shoah – afferma Laura Quercioli Mincer – è lotta contro la forma tradizionale della letteratura che si svela nella sua
totale grottesca inadeguatezza a esprimere l’inesprimibile, lotta contro le parole inadatte a piegarsi alla testimonianza»93.
Gli esiti della scrittura romanzesca non dipendono certo soltanto dagli scritti
memoriali, i percorsi testimoniali che possono per taluni apparire troppo “omogenei” (questo il parere sostenuto da Dominique Labbé)94 e far quindi scaturire poco interesse da parte di chi volesse reperire in loro
un fondamento estetico. È pur vero che se questi scritti presentano una sequenza identica di scene sulla
vita nel Lager, solitamente costituita dal momento della deportazione, del
viaggio sul treno nei vagoni per il bestiame, della selezione e della
registrazione, della fame, bisogna pur discutere e riflettere su tali tratti
similari per capire come si è giunti a quel tipo di memoria, a cosa ha condotto il ricordo. È come se i temi avessero acquisito una duplice valenza, tema e struttura stessa
del testo. Entro la cornice del motivo della deportazione, del viaggio, del
campo, il testo si arricchisce di una congerie di elementi che non rendono, al
contrario di quel che si è scritto, i racconti delle deportate simili a «un quaderno dalle pagine tutte uguali»95, creano bensì uno smisurato deposito di influenze e citazioni per testi romanzeschi a venire,
ricco repertorio di immagini che variano in toni e intensità.
In tutti i modi, la necessità più pressante di commentare eventuali ricorrenze tematiche va contrapposta a ciò che l’immaginario comune e la spinta sociale hanno sempre decretato, concepito e
imposto per la costruzione del genere femminile. Vanno posti in luce e messi in
rilievo gli elementi tematici che, rivelati nei memoriali, le scrittrici
decidono poi di non raccontare, o di non immaginare, nella costruzione del testo romanzesco che farà seguito ai primi scritti, come nel caso conclamato di Edith Bruck o quello meno
noto di Liana Millu. Solo in seguito potrà emergere uno studio più articolato rispetto alla ricca produzione letteraria che scaturisce dallaShoah. Si potrà operare cioè una verifica di quanto il genere romanzesco effettivamente vari da quello
memorialistico per via di fattori noti, quali – due fra tutti – la relativa libertà immaginativa che il genere del romanzo fornisce per definizione all’autrice, consentendole di ricostruire la propria genealogia, e l’ellissi temporale che fa maturare esiti molteplici alla forma di emplotment basato sull’intreccio di eventi che si riferiscono allo stesso argomento (adesso) storico
trattato nei memoriali. Quello che considero il passaggio “intermedio” della scrittura finzionale di deportate quali le scrittrici per necessità – direbbe Primo Levi – Edith Bruck e Liana Millu conduce verso opere più recenti. In tutte risulta evidente come la finzione letteraria divenga
strumento di una (tormentata) autoaffermazione.
Distinzioni temporali, generi, ritorni alla testimonianza
Indispensabile punto di partenza per un corretto approccio alla scrittura della
Shoah è dunque l’analisi dei memoriali che le donne italiane, deportate per motivi razziali e, in
alcuni casi, coincidenti con cause politiche per via del loro impegno nella
Resistenza, hanno composto dal 1944 in poi. Volendo costruire una tassonomia
quanto mai duttile, si può sostenere che la scrittura italiana femminile sulla Shoah si divide in tre
periodi individuabili il primo, nella produzione dell’immediato dopoguerra, in cui gli scritti di Liana Millu, Giuliana Tedeschi,
Luciana Nissim, Edith Bruck e altre deportate evidenziano la necessità della memoria di trovare spazio nella scrittura del ricordo. (Va detto che
molte fra loro consegnarono la materia del ricordo a un testo scritto assai
prima dell’effettiva pubblicazione dei memoriali)96. Prima delle conferenze sulla vita nei Lager, che facilita la pubblicazione
delle testimonianze alla metà degli anni Ottanta, secondo periodo di fioritura di testi di deportati, negli
anni Settanta compaiono ancora pochi esempi di memoriali, fra cui uno,
importante, quello di Fausta Finzi, ex-deportata che regalò il proprio diario al Centro di documentazione ebraica di Milano (CDEC) nel 197297. Tuttavia la mole più cospicua delle pubblicazione appare a cavallo fra la fine del ventesimo e l’inizio del ventunesimo secolo, il terzo e più complesso dei tre periodi. Esso ospita sia gli ultimi memoriali sia la
produzione dei sopravvissuti per immaginazione o per discendenza biologica dai
deportati della Shoah.
Nel terzo periodo, in corrispondenza o nell’approssimarsi dell’ineluttabile evento della loro scomparsa, molte sopravvissute – alcune incoraggiate da figlie e nipoti, come non si manca di menzionare nei
loro testi – affidano proprio a queste ultime la loro testimonianza, facendo così scattare un processo autonomo di testimonianza slegato dall’occorrenza di un convegno o di un’intervista. Le reduci si appellano alla possibilità ancora esistente di ricordare quei fatti rimossi per poter vivere, rimossi per
poter non morire ogni volta che riaffioravano alla mente, spesso adombrati – ma mai dimenticati – dall’assenza di prossimità con il fatto storico. Importante comunque il loro gesto, il loro sforzo contro
un’omertà tacitamente imposta dal desiderio stesso di ricominciare. Innumerevoli sono i
testi appartenenti a questo periodo, fra cui ci si limita a ricordare Il silenzio dei vivi98 di una reduce austriaca vivente da lungo tempo in Italia, Elisa Springer,
oppure gli struggenti quattro memoriali anonimi raccolti in L’erba non cresceva ad Auschwitz di Mimma Paulesu Quercioli99. Ma molti sono, appunto, gli scritti pubblicati in quest’ultimo decennio. L’affiorare delle seconde pratiche memoriali e di testimonianza continua con
grande impeto sino ai nostri giorni, come nel caso di Come una rana d’inverno. Conversazioni con tre donne sopravvissute ad Auschwitz, in cui Daniela Padoan ha raccolto le testimonianze di Liliana Segre, Goti Bauer
e Giuliana Tedeschi100. Altri testi sono Una ragazzina e l’armistizio dell’8 settembre 1943 di Fiorenza Di Franco101. Nata Francovich nel 1932, di padre italiano di Fiume, padre il quale non aveva
esitato a rifiutare di aderire alla Repubblica di Salò finendo prima a Mauthausen, poi a Lumezzane in Lombardia102, e di madre ungherese, Di Franco conobbe personalmente Giorgio Perlasca, il
diplomatico che tanti salvò spacciandosi per il console spagnolo a Budapest. Il suo scritto rappresenta il
classico ritratto dell’ebrea italiana benestante con padre diplomatico, poi docente di Lingue e
Letterature Romanze e Storia del Teatro. Ancora, Liliana Treves Alcalay
pubblica Con occhi di bambina (1941-45)103. Treves Alcalay racconta del silenzio e della latitanza a cui fu costretta la
sua famiglia con la madre e quattro figli, da Milano alla campagna, dalla
campagna alla Svizzera, internata poi in una villetta con tre signorine
svizzere cattoliche che la terrorizzavano negandole cibo e mettendole in camera
un crocifisso per ricordarle del deicidio compiuto dagli ebrei. Ancora il libro
di Mariella Vivaldi, La porta della salvezza. Una donna e sua figlia in fuga dai nazisti104.
In altri casi, sono le nipoti a dare alle stampe il diario della nonna, come è avvenuto per Lydia Terracina Di Segni. Le nipoti, Sandra e Claudia Terracina,
scrivono infatti che «Questo è il diario di mia nonna Lydia, che racconta delle famiglie Terracina, Cohen e
Bonfiglioli, che trovarono riparo e aiuto a Villa Santa Maria e dintorni»105. Ancora, Questo è stato. Una famiglia italiana nel lager106 di Piera Sonnino, costituisce un altro interessante esempio di memoriale
composto nel 1960 e mai consegnato alle stampe per una forma di pudore e
impegno politico a ricominciare. Fu licenziato dalle figlie soltanto alla morte
di Sonnino avvenuta nel 2004.
Da questo nutrito elenco possiamo notare che, se la periodizzazione di questi
scritti fa scaturire l’ipotesi di un parallellismo temporale della produzione testimoniale alla
bibliografia degli studi sulla Shoah, l’apporto maggiore – e sono le date a confermarcelo – per quanto riguarda la scrittura e la testimonianza di donne si è avuto in realtà soltanto negli ultimi anni. Nei due periodi precedenti si attesta un minore
interesse e stimolo esterno a far parlare le reduci dell’evento. Si è tentato di stabilire una tassonomia per chiarire questo percorso di genere e di
generi nelle seguenti produzioni: a) esempi di scrittura di testimonianza nel
primo periodo (1945-55); b) testimonianze e romanzi nel secondo (1974-85); c)
nell’ultimo (1990-presente) la scrittura si apre a una gamma multiforme di testi di
saggistica, romanzi e memorie senza trascurare interessanti ibridazioni
generiche, le cosiddette scritture di frontiera, e ancora altre testimonianze107. La mia scelta di periodizzazione non è arbitraria e trova guida nell’intensità con cui si moltiplicano le pubblicazioni a carattere memoriale nell’immediato dopoguerra, solo in parte, e per ragioni diverse, raggiunta dalle
testimonianze orali raccolte in vari volumi. Gli scritti memoriali raggiungono
un’intensità che si giustifica parzialmente per via della vicinanza temporale col fatto
storico e con l’inadeguatezza sentita nel “lavorare” stilisticamente sugli eventi, producendo due effetti molto diversi. Nel caso di molte e molti
reduci – com’è noto – il desiderio fu quello immediato di scrivere, quasi nella speranza di alleviare
la loro coscienza di sopravvissuti dal peso di quel che avevano visto alla luce
del numero impressionante di vittime108 che aveva prodotto lo stesso evento da loro condiviso. Soprattutto li spinse
quel sapere, nelle parole di Primo Levi, di «non essere loro i testimoni veri»109. Per altri e altre, invece, fu la reazione opposta a prendere il sopravvento:
prevalse il pudore, il desiderio contrario al processo di Durcharbeiten invocato da Dominick LaCapra: non parlarne significava liberarsi dal peso dell’evento. Bisognava vivere nel, e per il, quotidiano, per sfuggire al ricordo
drammatico dei volti di coloro che non c’erano più.
Comprendere la linea letteraria stabilita fra gli scritti di deportate al
ritorno dal Lager e gli scritti finzionali vuole spesso dire (ma non sempre)
rileggere i secondi contro la filigrana dei primi per notare le incidenze
successive delle tematiche presenti nei primi. Inestimabile è l’opera di testimoni che coraggiosamente hanno composto un resoconto immediato
della loro esperienza come, d’altronde quella di coloro che soltanto dopo molto tempo sono riuscite a
trascrivere le loro sofferenze nel Lager. Si riafferma l’importanza della rappresentazione testimoniale della Shoah nelle sue categorie
tematiche e luoghi principali quali l’arresto, la prigionia nel campo, la descrizione della situazione di vita, il
ritorno alla propria città – oppure l’esilio volontario dal proprio paese – e in ultimo, ma non sempre, il difficile reinserimento nel tessuto sociale di
un’Italia che aveva sino ad allora mostrato, se non simpatia, almeno tolleranza
verso i suoi cittadini di religione ebraica110.
Ancora sul genere: un romanzo della Shoah?
È questo un momento storico di trapasso decisivo fra la testimonianza
autobiografica dei protagonisti diretti della Shoah e le riflessioni delle
generazioni successive. I figli sono chiamati a raccogliere il lascito
testimoniale dei padri, senza tralasciare nulla, per evitare che, fra qualche
secolo, Auschwitz possa diventare, agli occhi della collettività, quello che oggi sono per noi le gigantesche statue dei Moais, nell’isola di Pasqua, sulla cui origine gli studiosi ancora si affannano a discutere.
Mentre i vecchi deportati rievocavano la tragedia che avevano vissuto con
incontestabile autorevolezza, senza doversi giustificare, i cosiddetti “venuti dopo” dovranno conquistarsi una nuova legittimità. Dichiara lo scrittore Eraldo Affinati:
Avverto in modo chiaro questa responsabilità come scrittore, forse perché ho dovuto spingere mia madre a raccontare la sua esperienza scegliendo le
parole che lei non riusciva a dire. Come insegnante ogni giorno in aula
affronto alunni che, al pari di un’erba nuova, devono ricominciare da capo nell’apprendimento. Sono consapevole della necessità di superare i rischi dell’enfasi retorica insiti nelle celebrazioni pubbliche in memoria dello sterminio
novecentesco: credo che occorra elaborare una forma comunicativa ancora più densa, rispettosa della verità storica ma pronta a misurarsi nel fuoco della dialettica. Del resto, l’influenza della Shoah nella migliore letteratura contemporanea (da Winfried George Sebald a Bernhard
Schlink, da Patrick Modiano ad Art Spiegelman) sembra già proficua e potrebbe compendiarsi così: tanto più forte è l’esperienza concreta delle cose, tanto più intensa può rivelarsi la scrittura creativa, a costo di rompere le barriere dei generi
tradizionali, rinnovando la tradizione romanzesca111.
Le rappresentazioni letterarie della Shoahsi confermano attraverso esempi di scrittura che, salvo alcune eccezioni, ancora
faticano a confluire all’interno di un genere convenzionalmente inteso come il romanzo, il saggio, la
memoria. «Lo statuto dei racconti italiani del dopo-Lager – scrive Domenico Scarpa – tendono a sconfinare nella ghost-story: scendendo in un mondo spento nello sterminio, il loro statuto pencola tra un’autobiografia e un’invenzione egualmente fantasmatiche»112. La difficoltà dell’espressione fa sì che si allineino casi di scrittura sull’argomento che si affidano all’ibridazione della scrittura, funzionale, sia pure in modo pencolante, ad affrontare varie difficoltà. Da quella, massima, di narrare tutto e sempre secondo le categorie e le
strategie tipiche del romanzo, scaturiscono varie ibridazioni. Implicitamente,
prendo posizione nel dibattito iniziato (e successivamente abbandonato per
abbondanza di confutazioni) dal reduce Elie Wiesel circa la possibilità di raccontare finzionalmente l’Hurbn113, poiché convinta delle possibilità dell’espressione letteraria. Rifiuto quindi le limitazioni in base alle quali la
Shoah debba essere raccontata solo da testimoni reali. È necessario il contributo letterario quale supporto sia per un pubblico futuro
sia per l’elaborazione creativa dei racconti legati alla memoria dell’evento. La letteratura svolge un ruolo primario in questo dibattito in quanto
essa costituisce uno spazio atto al ricordo e insieme alla continua discussione
intorno alla natura e al comportamento umano in situazioni estreme. Il ruolo di
questo tipo di artisti e intellettuali mette in guardia i lettori dal pericolo
di dimenticare e sollecita da noi lettori una risposta morale.
La fiducia pressoché illimitata che si conferisce all’atto estetico fa sì che si possa credere che il gesto letterario può giungere dove talvolta non arriva la storiografia: fornire ai lettori mezzi
alternativi cioè per sollecitare in loro una risposta morale. L’arte, come nota Wolfgang Iser, è un utile mezzo di spiegazione, a volte di “auto-spiegazione”114. Lo studioso esamina modi di ricezione e d’interpretazione per il ruolo del finzionale e dell’immaginario nella produzione della letteratura. Il binarismo teorico finzione/realtà diventa obsoleto perché il finzionale dovrebbe essere concepito come una «modalità operativa di consapevolezza che compie irruzioni nelle esistenti versioni del
mondo»115. In questo modo il finzionale è sempre conscio di quello su cui è passato sopra (overstepped) e il suo ruolo è di problematizzare e duplicare il mondo referenziale. Secondo Iser, mettere in
scena la condizione umana in letteratura rende plausibile la straordinaria
plasticità delle cose umane sconfiggendo l’essenzialismo, poiché le cose umane non sembrano «possedere una natura determinabile, e possono espandersi in una quasi illimitata
serie di schemi culturamente fissati»116. In particolare, si dovrebbe guardare alla distinzione che Iser ripropone fra
il letterario e il fittizio, dato che, negli anni, tali distinzioni sono andate
affievolendosi in quelle narrazioni di varia natura e struttura che si sogliono
definire “romanzo”, e che rendono di conseguenza difficile persino ricondurre il romanzo a una
possibile definizione e a un significato su cui dovrebbe esistere una
concordanza di opinioni. La letteratura – sostiene Iser
Possiede un substrato [...] di plasticità senza caratteristiche che si manifesta in una continua rischematizzazione delle
forme culturalmente condizionate che hanno assunto gli esseri umani. Come mezzo
di scrittura, la letteratura dà forma/presenza a quello che altrimenti non sarebbe disponibile. Ha acquistato preminenza come lo specchio della plasticità umana nel momento in cui molte delle sue funzioni precedenti sono state
assorbite da altri media.117
Nel momento in cui ci si allontana dallo spazio metaforico e fisico del campo,
ci si allontana anche dalla fattualità dell’evento dello sterminio. Si propongono altri eventi, non meno reali, fattuali ed
effettivi, in cui il problema della morale rimane comunque immutato. Nel loro
riferirsi ad altro dal “campo” questi testi, non legati al genocidio in modo diretto, impongono che chi scrive
allinei il narrato su livelli generici diversi rispetto agli scritti memoriali.
Di conseguenza anche chi legge deve organizzare un orizzonte percettivo di
necessità diverso, ma non meno complesso, rispetto a quello disegnato dalla lettura di un
testo memoriale di una sopravvissuta. Alcune delle autrici il cui lavoro si fa
oggetto della mia analisi non hanno vissuto infatti l’esperienza dei campi. Le loro esperienze e la motivazione alla scrittura – questo per Elsa Morante come per Rosetta Loy – derivano comunque dallo stesso evento storico che vede altre donne protagoniste
di simili esperienze, della loro trascrizione e quindi della loro
testimonianza. I fatti raccontati da Morante si compongono della stessa materia
morale dei racconti di Giuliana Tedeschi e di Edith Bruck.
Il formato letterario dell’opera consente a Morante di esporre le proprie riflessioni all’interno di un involucro che è volutamente convenzionale nell’approccio al genere romanzesco, pure nel proprio anti-illusionismo, e rivela una
sorta di fedeltà al genere misto di verità e finzione di cui sono testimonianza i molti paralleli proposti dalla critica
tra La Storia e I promessi sposi manzoniani. È nel suo anti-illusionismo – quel farci capire a tutti i costi che la favola della vita non è mai bella – che La Storia rivela, invece, quei tratti d’ibridazione che, si è detto, caratterizzeranno la scrittura di molti testi sulla Shoah. Sono queste scritture di frontiera a rivelare la difficoltà di trovare moduli nuovi per fare poesia e letteratura dopo la Shoah. Come Tolstoj e Stendhal trovarono la parola quale mezzo
insostituibile per descrivere con vivezza pittorica le guerre napoleoniche nel
romanzo ottocentesco realista, così è naturale e non banale che la testimonianza artistica di un fatto storico
sublimi l’evento ricordato, quel vero inteso in senso manzoniano, mediante la finzione letteraria che, con i suoi
infiniti mezzi retorici e figurativi, amplia e dilata – senza per questo relativizzare – la possibilità di ricezione del dato storico118. A questi problemi di natura strutturale e di pertinenza del genere scelto per
la rappresentazione, si aggiungano poi le implicazioni che la costruzione
sociale del genere – questa volta inteso come genere sessuale – comporta in situazioni estreme, con l’effetto di produrre reazioni inaspettate, oppure considerate discutibili, come
la ricerca – nelle donne – della propria bellezza quale indizio di una dignità ancora non persa. Il coacervo di tali sentimenti, il desiderio di parlare e la
sensazione che troppe parole fossero pesanti se proferite al di fuori del locus
che le aveva provocate, fuori dai confini della torre di babele del campo,
continuò ad agire in molti fra i testimoni contribuendo in parte al ritardo nella
stesura e, soprattutto, nella pubblicazione, di molte opere sia memoriali che
propriamente letterarie119.
Il romanzo della Shoah fa coincidere il subgenere del romanzo storico e di
quello psicologico facendo fede al concetto di una storia sempre contemporanea,
“eternamente” contemporanea se intesa nel modo crociano. Lo Zeitroman femminile sulla Shoah significa analizzare cioè come i genotesti memoriali, così faticosamente e dolorosamente pubblicati al ritorno dal Lager, abbiano aperto
la strada ai fenotesti – finzionali o meno – per alcune delle deportate e per altre scrittrici. In questa mappatura
letteraria meritano attenzione 1e cause dell’interesse che scrittrici italiane (o che scrivono in italiano) rivolgono a tale
tema. In termini critici, tale interesse corrisponde a una trasformazione della
pratica scrittoria che difficilmente può considerare soddisfacenti le categorie generiche del romanzo per testi che si
nutrono, trasfigurandoli, dei topoi legati alla letteratura cosiddetta “concentrazionaria”, divenuta da tempo un filone letterario120.
Come si è detto in precedenza, esistono però anche romanzi composti già a metà degli anni Cinquanta. Alcuni sono completamente sconosciuti. Un esempio
dimenticato è quello della scrittrice e attrice Neda Naldi, nome d’arte di Italia Volpiana, e moglie di Salvo Randone. Già nel 1955 Neda Naldi aveva, infatti, pubblicato presso la Cappelli di Bologna L’ebrea, un romanzo incentrato soprattutto sul tema dei tentativi di fuga degli ebrei,
non trascurando anche l’indecisione circa la meta da raggiungere fra i sionisti che andavano verso
Gerusalemme e coloro che decidevano di rifugiarsi in Argentina. Possiamo
addirittura pensare che il personaggio sia basato su elementi biografici dell’autrice, dato che il cognome di Susanna Landi, la protagonista, è l’anagramma di Naldi121.
Il romanzo sulla Shoah, sulla fuga dall’Italia dopo le leggi razziali del settembre del 1938, e più in generale, sulle ripercussioni emotive subite dai sopravvissuti al rientro,
vede la luce, quindi, già ai tempi dei primi memoriali. Esiste un filo esile, ma assai importante, che
lega la memoria diretta a quella indiretta, che costruisce il raccordo fra ciò che alcune hanno vissuto e trascritto e quello che queste stesse donne, come
anche altre, hanno poi voluto riprendere ed elaborare mediante il genere
romanzesco. Come sostiene Enzo Traverso in Il passato: istruzioni per l’uso, «La storia e la memoria hanno loro proprie temporalità che tendono costantemente a intrecciarsi, senza tuttavia coincidere. La memoria
possiede una temporalità qualitativa che mette in discussione il continuum della storia»122. E la finzione che si accompagna al fatto vede anch’essa tempi diversi in cui la forma muta nella sua tensione a ospitare un
contenuto così complesso. Esiste comunque, in tutti i lavori appartenenti al genere
romanzesco, quell’obbligo di verosimiglianza, il bisogno di aderenza alla realtà che tutti conosciamo. Questo non significa certo assimilare la scrittura di un
romanzo a un testo documentario, cosa inverosimile e non facente comunque parte
delle caratteristiche generiche del romanzo, per cui mi separo dalla linea
critica instaurata da Charlotte Wardi. La funzionalità dei fatti reali deve però operare nel rispetto della verosimiglianza – l’obbligo di offrire credibilità a chi legge – secondo la tradizione legata al realismo romanzesco. Quel che si racconta ai
lettori, impliciti o meno, deve conservare le caratteristiche del realismo, dev’essere sempre plausibile nella cornice dei fatti narrati, pena la distanza
psicologica tra chi legge e chi scrive, oltre al mancato completarsi del
significato, anche morale, del testo narrativo stesso. Nel caso della Shoah, ci
si può chiedere, analogamente, di quale terribile realtà la trama della soggettività umana porti, in effetti, la testimonianza da cui la finzione stessa deriva.
A mio avviso, tutte queste scritture, sia quelle memoriali del primo dopoguerra
che quelle successive più propriamente letterarie, testimoniano – completandosi a vicenda – la problematicità rappresentativa della Shoah, per l’Hurbinek leviano che, “figlio della morte” non conosceva il meraviglioso dono della parola. Non la conchiudono, tuttavia,
in un universo finito e determinato dal discorso storiografico. Esiste,
infatti, un’esperienza di secondo e di terzo grado, quale quella vissuta, a esempio, dai
figli dei sopravvissuti, che ricalca spesso un silenzio gravido del dolore
vissuto in famiglia, oppure atteggiamenti parentali che male occultano il
desiderio di dimenticare. Desiderio traducibile nello sforzo di ricomporre
letterariamente – senza, peraltro, incorrere nel pericolo di futili ucronie – quello che si immagina sia accaduto alla generazione precedente. Esiste anche l’esperienza di chi ha ascoltato e letto dell’orrore e sente il peso della responsabilità di studiare, scrivere e analizzare un simile accadimento per timore che le
generazioni più recenti non ricordino chi ha sofferto per problemi che esistono molto
spiccatamente anche oggi, quali l’intolleranza, l’antisemitismo, l’odio razziale. E questo non perché l’amico ebreo costituisca «un salvacondotto di attendibilità» per i gentili; non perché sia «retoricamente corretto» coltivare l’amicizia con un ebreo (o ebrea)123 quanto, piuttosto, per un senso di giustizia e di etica che non conoscono
facili mode, oltre all’interesse più egoistico di conoscere meglio anche la propria cultura, un métissage nostrano, se è vero che la cultura italiana annovera tanti dialetti, sostrati, usanze,
influenze culturali che rendono assai difficile parlare, persino oggi, di un’omogeneità culturale nel nostro paese.
L’analisi dei diversi testi non può prescindere dalla comprensione del genere letterario di appartenenza, che però non deve prendere il sopravvento su altre considerazioni legate, si è detto, all’instabilità del genere di cui parla Jacques Derrida. Che si tratti dei romanzi d’ambiente concentrazionario, che siano degli Zeitromane, testimonianze nel convenzionale senso del termine, oppure racconti di reduci,
tutti i singoli testi vanno valutati secondo uno schema di pensiero più grande che li inquadri nell’ottica di una memoria collettiva, la cui composizione avviene anche mediante la
scrittura. Le scelte e le soluzioni proposte dalle autrici italiane post-Shoah
differiscono di necessità da quelle degli scritti delle deportate. Sono spesso anche diverse nell’impianto strutturale dalla letteratura straniera più conosciuta sull’argomento, come il controverso e discusso La scelta di Sofia, provocatorio testo fictional di William Styron. La definizione di romanzo storico, di Zeitroman124, romanzo “storico contemporaneo” per la precisione, per molte di queste opere risulta quasi necessaria, sia per
i testi della prima generazione, di coloro che sono andate ai campi, come per
quelli delle autrici che hanno vissuto la Shoah stando in Italia, come pure,
infine, per coloro che hanno vissuto la Shoah attraverso le loro madri.
La situazione precedente ai Lager e interna al territorio italiano, spesso a
Roma nello specifico, le leggi razziali, le deportazioni, il ritorno, la
responsabilità degli altri, dei cattolici di fronte alla deportazione, il pregiudizio – evidentemente attivo nonostante l’assimilazione – contro gli ebrei, le conseguenze della Shoah per quelli che Helen Epstein chiamò i “Figli dell’Olocausto”, o le “candele” secondo la famosa definizione di Dina Wardi125, diventano topoi assai frequentati dal romanzo di ambientazione Shoah nella letteratura
italiana. Mentre negli scritti memoriali i temi si snodano, si è detto, secondo un ordine quasi canonico ormai nel suo genere, nella produzione
romanzesca le varie componenti tematiche vengono accuratamente selezionate per
storie dall’esito più differente. E del campo si percepisce l’orrore, ma le occorrenze della sua rappresentazione risultano limitate. Le poche
scene, gli eventi organizzati narrativamente all’interno di un campo, si ritrovano nella scrittura di donne che, in effetti,
avevano conosciuto quella realtà in prima persona, come nel caso di Liana Millu ed Edith Bruck126. Dall’altra parte della traiettoria, Helena Janeczek, in Lezioni di tenebra, ritrova il campo attraverso il racconto disperato della madre. Quasi oltre il limite temporale della sua esistenza di sopravvissuta, Janeczek ritrova per
interposta persona l’atmosfera ferale del Lager nel trauma che ha costituito anche la propria
esistenza, quella di figlia di sopravvissuti.
Il passaggio dalla descrizione non finzionale dell’evento alla resa romanzesca conforta l’ipotesi che la trasmissione, e successiva rielaborazione e riflessione
attraverso il dato letterario della tragicità dell’evento, dello stato d’eccezione, possa continuare trovando spazi maggiori e più complessi per l’analisi del comportamento umano di fronte a situazioni estreme. Ampliando la
serie già nutrita di possibili definizioni della metafora “Auschwitz” come categoria rappresentativa del “disastro”127, dallo Zivilizationsbruch, lo strappo teorizzato da Dan Diner128, della Shoah si è scritto partendo da prospettive diverse: se ne è scritto come argomento, si è scritto per capire come scriverne, e in ultimo, credo di poter aggiungere, se
ne scrive ancora oggi per meglio identificare (non certo capire) la Shoah quale
punto fermo della nostra civiltà anche in letteratura129, uno zenit in negativo della civiltà occidentale. Quello che diventa arduo persino pensare è che si possa raccontare per quel che è stato, rappresentare insomma mediante un discorso scritto storiografico la
storia wie eigentlich gewesen ist, usando la famosa frase di Leopold Ranke poi contestata da Walter Benjamin130. Gli scrittori analizzano la stessa struttura temporale degli storici ma
propongono letture complementari e alternative a quelle esposte dagli storici
confermando la difficoltà di concepire che «[l]’aporia di Auschwitz è, infatti, la stessa aporia della conoscenza storica: la non-coincidenza fra
fatti e verità, fra costatazione e comprensione»131.
Uno spazio finzionale immenso quale quello dei romanzi sulla Shoah produce
riflessioni sulla natura umana, sui valori etici, sul comportamento degli
italiani e delle italiane, mentre si pone la necessità “tecnica” di lavorare sulla possibilità di rimembrare della parola scritta, dando al verbo il significato attivo del ricomporre
eventi. Eventi questi di cui non si conosceva la remota possibilità di esistenza, come appunto la deportazione femminile non relativa alla guerra
ufficiale ma addirittura preesistente a questa, l’annientamento gratuito, e non il sacrificio, di donne che mai sino ad allora
avevano preso parte attiva a eventi bellici. A ben pensarci, e questo concetto
viene condiviso da non pochi studiosi, l’atto di non scrivere sulla Shoah da parte di romanzieri rappresenterebbe d’altro canto una vittoria incontestabile per il potere oppressivo della
cosiddetta “guerra nascosta” condotta dal potere totalitario del regime hitleriano e le sue connivenze. È importante poi notare anche come molte autrici italiane abbiano scelto di
scrivere di un’assenza etica piuttosto che della presenza fisica del campo. Di come abbiano scelto di
parlare cioè della responsabilità piuttosto che delle torture, dell’assenza del concetto di perdono anziché di morte, sovrapponendo e innestando questi temi etici su quelli sviluppati in
precedenza negli scritti memoriali. Il velo di pudore sulle atrocità accentua l’effettivo problema etico del rapporto fra cultura egemonica (quella cattolica
italiana, non solo quella nazista) e, più in generale, dell’eliminazione dell’ebraicità dalle culture europee occidentali; fa scattare le problematiche connesse a una
pretesa assimilazione/integrazione legate alla questione del pregiudizio che
ancora impera – o di cui esiste oggi una certa recrudescenza – per le nostre strade; sul problema della mancanza di empatia per gli ebrei
normalizzando il “loro” genocidio di fronte ad altri eventi tragici; infine, e sempre, sull’emarginazione della parola e dell’esperienza femminili, in cui l’antifemminismo e l’antisemitismo formano un “accostamento” fatale132.
Infine, quando si parla di testimonianze bisogna operare una distinzione
temporale che riflette urgenze diverse per le diverse autrici. Mentre le prime
pubblicazioni di memoriali femminili rivelano la necessità insopprimibile di restituire testimonianza degli eventi vissuti, scritti questi
in cui le deportate hanno deciso di ricordare anche e soprattutto per coloro
con cui hanno condiviso la detenzione e le umiliazioni ma che non sono
ritornati alle loro famiglie e alle loro case, per chi ha licenziato i
memoriali nell’ondata a metà degli anni Novanta anni è intervenuta un’ulteriore e non meno importante motivazione il cui vettore si muove nella
direzione temporale opposta, verso cioè le generazioni successive, verso i figli, i nipoti. Se le prime quindi
scrissero per le madri e i mariti uccisi, coloro che hanno scritto nel periodo
a noi più vicino lo hanno fatto anche per loro, sia ben chiaro, ma soprattutto per chi, nato dopo la tragedia, non ne
ha vissuto gli eventi ma ne porta in ogni modo la sofferenza nel proprio corpo,
nel rapporto con le madri, con i padri. La dedica quindi si rivolge alle figlie
e ai figli, alle nipoti e ai nipoti, che in alcune casi si rivelano istigatrici
e curatrici – e non soltanto ispiratrici – dell’atto di scrittura delle loro nonne, madri, zie per un desiderio di maggiore
comprensione ed empatia nei loro confronti.
È in questo iato temporale, in questo largo spazio di tempo incorniciato dalle
prime e dalle ultime testimonianze e memorie scritte, che troviamo anche un
cospicuo numero di romanzi di autrici italiane che si collegano direttamente
all’argomento della Shoahin Italia. Questi romanzi testimoniano in modi diversi l’impegno delle scrittrici italiane nell’accettare il dovere etico che implica l’atto performativo della letteratura. Se occorsero molti anni a realizzare la
vastità, l’effetto cosmico dell’apocalisse umana della Shoah, oggi la sua (quantunque da taluni contestata e
abusata) consapevolezza esige la responsabilità della parola. Come scrive Tzvetan Todorov,
La morale come la intendo io, è una delle dimensioni del mondo intersoggettivo: essa lo impregna interamente e
nel contempo ne costituisce il vertice. [...] i giudizi morali non sono
arbitrari (non dipendono dal capriccio di ogni individuo, per cui è impossibile ridurre la morale all’intensità della sua esperienza) ma si lasciano argomentare razionalmente. Gli scritti sul
campo mi hanno convinto che le azioni morali sono sempre assunte da un
individuo (in questo senso sono “soggettive”) e che sono destinate a uno o più individui (ossia sono “personali”: io considero l’altro come una persona, facendone quindi il fine della mia azione).133
Mirare al bene degli altri, sostiene Todorov, costituisce la dignità. Negli scritti di tutte le autrici la dignità si muove, appunto, di pari passo con la decisione di mirare al bene degli
altri, di chi non è rimasto così come di chi vive oggi in un’epoca complessa come la nostra, che vorrebbe l’appiattimento dei valori minimali dell’umanità, la gelida freddezza di fronte a un vissuto così vicino, anche geograficamente, alla nostra esistenza quotidiana.
Note
1. In questo testo i due termini verranno usati senza alcuna distinzione. Nell’introduzione all’edizione italiana del Dizionario dell’Olocausto Alberto Cavaglion appunta le proprie riserve rispetto al termine Shoah: «Del resto, chi scrive, così come nutre molti dubbi sul termine “Olocausto”, non può nascondere di essere altrettanto dubbioso sull’uso, ormai in Italia pervasivo, del vocabolo ebraico shoah, non perché lo ritenga improprio, ma perché lo giudica esclusivisticamente interno al mondo ebraico. Quasi che lo sterminio
perpetrato da Hitler fosse problema che riguarda la memoria degli ebrei e non
di tutti noi. L’opzione giusta rimarrebbe quella, al solito molto saggia e pertinente, di
Hilberg: “The Destruction of the European Jews”, la distruzione degli ebrei d’Europa, ma non è un titolo che s’addice a un dizionario» (“Nota all’edizione italiana”, in Dizionario dell’Olocausto, a cura di Walter Laqueur, Torino, Einaudi, 2004, p. xxii).
2. Michele Battini, “La Shoah: dentro e fuori la storia”, in Memoria della Shoah. Dopo i «testimoni», a cura di Saul Meghnagi, Roma, Donzelli, 2006, p. 3.
3. Nella stessa raccolta curata da Meghnagi, Memoria della Shoah. Dopo i «testimoni», Anna Rossi-Doria fa sue le preoccupazioni di Saul Friedländer, di Enzo Traverso e altri storici circa la validità della Giornata della Memoria nei termini in cui viene spesso commemorata la
tragedia e mediante la ripetizione delle narrazioni dei sopravvissuti. Cfr. “Il conflitto tra memoria e storia. Appunti”, cit., pp. 59-65.
4. Saul Meghnagi, “Introduzione”, in Memoria della Shoah, cit., p. xxii.
5. Pier Vincenzo Mengaldo, La vendetta è il racconto. Testimonianze e riflessioni sulla Shoah, Torino, Bollati Boringhieri, 2007, p. 13.
6. È questa una delle tante insidie infatti della società moderna. Cfr. Zygmunt Bauman, L’arte della vita, trad. di Marco Cupellaro, Laterza, Bari-Roma, 2009.
7. Ringrazio Micaela Procaccia per il suggerimento di questo passo di Bidussa [“Che cosa intendiamo con memoria”, 27.1.2004, http://www.nostreradici.it/].
8. Michele Sarfatti, La Shoah in Italia. La persecuzione degli ebrei sotto il fascismo, Torino, Einaudi, 2005, p. 6.
9. Per una corretta interpretazione delle politiche e dibattiti legati alla
ricezione di film e produzioni televisive in Italia, si veda di Emiliano Perra,
Conflicts of Memory: The Reception of Holocaust Films and TV Programmes in
Italy, 1945 to the Present, Berna, Peter Lang, 2010.
10. Si vedano in proposito gli scritti di Virginia Picchietti, “A Semiotics of Judaism: Representations of Judaism and the Jewish Experience in
Italian Cinema, 1992-2004”, in Italica 83 3/4 (2006), soprattutto alle pp. 573-78 e, Italian Film in the Shadow of Auschwitz di Millicent Marcus, Toronto, University of Toronto Press, 2007, pp. 142-44. In
entrambe le analisi del film viene trattato il problema della mancanza d’informazione di molti fra i trentenni italiani rispetto a quello che della
storia ci interessa più da vicino, come a esempio quel che avvenne a Roma nel 1943.
11. Da una decina d’anni, quindi per la generazione successiva alla trentenne Giovanna, la Shoah è diventata d’altronde, come sostiene Micaela Procaccia, « il parametro sul quale viene misurata la consistenza e la qualità della memoria storica del mondo giovanile: quasi l’unico argomento sul quale nascono e crescono iniziative didattiche più o meno innovative, che coinvolgono le istituzioni.[…] Qualunque operazione di tipo “sensazionalista” […] che investa, anche in maniera tangenziale, questa memoria sulla quale sembra
fondarsi il tentativo di costruire una coscienza civile e rispettosa fra i
giovani, è un’operazione gravida di conseguenze, anche se la revisione riguarda eventi lontani
nel tempo della guerra nazi-fascista, quando le vittime appartengono allo
stesso gruppo». “Pantera o Stella? Verità giudiziarie e verità storiche nel processo a Celeste Di Porto” in Vero e falso. L’uso politico della storia, a cura di ID. e Marina Caffiero, Roma, Donzelli, 2008, pp. 133-34.
12. Alberto Cavaglion, “Ebraismo e memoria”, cit., p. 169.
13. Eraldo Affinati, Campo del sangue, Milano, Mondadori, 1997, p. 28.
14. Carolyn J. Dean, The Fragility of Empathy after The Holocaust, Ithaca, Cornell University Press, 2004.
15. Carolyn J. Dean, “Recent French Discourses on Stalinism, Nazism and ‘Exorbitant’ Jewish Memory”, in History and Memory 18.1 (Spring/Summer 2006), p. 43. Il problema si pone in termini più complessi di quanto non sia accaduto forse alla metà degli anni Ottanta, ma rimane in ogni caso un forte interrogativo in merito.
16. Micaela Procaccia, “Pantera o Stella?”, cit., p. 134.
17. Sarfatti ribadisce quanto sia sviante la «contestazione prettamente antisemita» contro gli ebrei accusati di porre sempre se stessi «al centro dell’attenzione pubblica». Aggiunge, non senza una nota di polemica: «[c]erto è che né i neonati ebrei di Rodi, né i loro genitori e i loro nonni, hanno mai desiderato di finire nella camere a
gas di Auschwitz e contribuire a determinare l’unicità della propria catastrofe» (La Shoah in Italia, cit., p. 10).
18. Dan Diner, Raccontare il Novecento. Una storia politica, trad. di Franz Reinders, Milano, Garzanti, 2001, pp. 184-88.
19. Cfr. Guri Schwarz, Ritrovare se stessi, cit., pp. 5-19.
20. «Quest’immagine degli ebrei che propagandano la loro sofferenza passata alle spese d’altri gruppi si è intensificata nel momento in cui altre minoranze che posseggono una storia
passata di colonizzazione e schiavitù percepiscono che le loro richieste di riconoscimento (del brutale passato
coloniale francese, del razzismo francese passato e presente) non rivestono la
stessa importanza di quelle avanzate dagli ebrei. Il crescente conflitto
interetnico di cui lo Stato si occupa male (convenzionali soluzioni
repubblicane si sono rivelate inadeguate a indirizzare problemi sociali
provenienti dall’immigrazione e dalla globalizzazione) hanno portato ad affermazioni quali quella
secondo cui “è apparso un nuovo anti-semitismo in Francia”» (Dean, “Recent French Discourses”, cit., p. 45). Si può forse affrontare tale problema in due sensi diversi: pensare al tutto come a
una questione di competizione tra diversi gruppi di vittime, quindi di identity politics, oppure considerare il problema che un numero sempre maggiore di “studi storici, politici e sociologici” hanno abbandonato il tema dell’unicità della Shoah e hanno iniziato a concettualizzare la Shoah in rapporto, a
esempio, ai genocidi coloniali. Questa produzione storiografica riesce a
coniugare Shoah e altri genocidi riconcettualizzandone il rapporto reciproco e
sottraendosi alla morsa delle politiche identitarie.
21. Pierre Nora, Les lieux de la mèmoire, Paris, Gallimard, 1984, p. xviii.
22. Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, p. 9.
23. Pier Vincenzo Mengaldo, La vendetta è il racconto, cit., p. 11.
24. Maxine Hong Kingston, The Woman Warrior (citato da Alessandro Portelli, in Mengaldo, ivi, p. 30).
25. Cit., p. 15.
26. Ibidem.
27. Ibidem.
28. Ivi, p. 43.
29. Ivi, p. 147.
30. Ivi, pp. 111-16.
31. Ivi, p. 15.
32. Ivi, p. 16. Il corsivo è dell’autore.
33. Ivi, p. 33.
34. Liliana Picciotto, “Come ricordare la Shoah? Più si studia e meno si capisce come sia potuto accadere”, Shalom (gennaio 2007), pp. 12-13.
35. Ivi, p. 17.
36. David Bidussa, “La Shoah nella cultura attuale”, in Memoria della Shoah, a cura di Saul Meghnagi, cit., p. 105.
37. Julia Kristeva, Colette: vita di una donna, trad. di Monica Guerra, Roma, Donzelli, 2004, p. 7. Ilcorsivo è dell’autore.
38. Hannah Arendt, Che cos’è la politica?,a cura di Ursula Luds, prefazione di Kurt Sontheimer, Milano, Edizioni di
Comunità, 1995, pp. 104-05.
39. Saul Friedländer, “Introduction”, in ID. (a cura di), Probing the Limits of Representation: Nazism and the “Final Solution”, cit., 1992, p. 2.
40. Si vedano le tesi di Daniel Goldhagen riguardanti l’antisemitismo eliminazionista nel suo I volenterosi carnefici di Hitler, trad. Enrico Basaglia, Milano, Mondadori, 1997, in cui l’antisemitismo tedesco vede origini storiche che di gran lunga precedono il
ventesimo secolo smantellando quindi persino la tesi funzionalista di
Christopher Browning secondo il quale l’eliminazione del popolo ebraico non rientrava nei piani iniziali del regime
nazista ed ebbe invece luogo all’indomani dell’occupazione della Polonia, Le origini della soluzione finale. L’evoluzione della politica antiebraica del nazismo. Settembre 1939-marzo 1942, Milano, Il saggiatore, 2008.
41. Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, 3a ed., Milano, Feltrinelli, 1993.
42. Il pericolo di un’eccessiva spinta critica di Goldhagen rispetto a un “sublime negativo” del nazismo viene bene circostanziato da Dominick LaCapra in History and Memory after Auschwitz, cit., p. 2n, e più estesamente in Writing History, Writing Trauma, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 2001, pp. 126-27.
43. David Bidussa, ilmanifesto 5/11/98.
44. Christopher Browning, “German Memory, Judicial Interrogation, Historical Reconstruction”, in Probing the Limits of Representation, cit., p. 29.
45. Dominick LaCapra, History and Memory After Auschwitz, cit., p. 1.
46. Ivi, p. 6.
47. Citazione tratta dall’edizione inglese del testo di Maurice Blanchot L’écriture du disastre, (ed. italiana, La scrittura del disastro, a cura di Federica Sossi, Milano, SE, 1990).
48. Geoffrey Hartman, The Fateful Question of Culture, New York, Columbia University Press, 1997, pp. 100-01.
49. David Bidussa, Il mito del bravo italiano, Milano, Il saggiatore, 1994.
50. Dell’impresa di Giorgio Perlasca si è parlato solo in tempi relativamente recenti. Il primo libro sul “giusto” Perlasca è stato pubblicato da Enrico Deaglio, La banalità del bene. Storia di Giorgio Perlasca, Milano, Feltrinelli, 1991. Su questo testo si basa anche il film prodotto
dalla Rai nel 2002. Tra i molti memoriali di ebrei salvati da italiani si
ricordi uno tra tutti, quello di Marcella Levi Bianchini, madre della
scrittrice Angela Bianchini, E ora dove vado? Storia di un’ebrea italiana, a cura di Regina e Angela Levi Bianchini, Roma, Edizioni Associate, 1996.
Sfuggita alle retate tedesche del sedici ottobre 1943, Levi Bianchini
sopravvive grazie a un ferroviere italiano che la proteggerà nella sua casa di Chiusi sino al luglio del 1944. Si veda di Liliana Picciotto
Fargion l’ormai classico Il libro della memoria: gli ebrei deportati dall’Italia, 1943-1945, 2 e. riv., Milano, Mursia, 1991.
51. Per la campagna propagandistica si veda di Michele Sarfatti Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, cit., pp. 80-110. Lo storico disegna una chiarissima traiettoria della
politica razzistica messa in atto dal regime fascista avvicinandola anche a
quella coloniale, dimostrando efficacemente come detta politica precedette il
patto d’acciaio con la Germania di Hitler.
52. Oltre alle dichiarazioni fatte in Le origini del totalitarismo, Hannah Arendt solleva ancora ( inconsapevolmente) gli italiani dalle colpe e
dalle responsabilità rispetto agli ebrei deportati. «L’assimilazione, questa parola di cui tanto si abusa, era in Italia una realtà. L’Italia aveva una comunità ebraica che non contava più di cinquantamila persone e la cui storia risaliva nei secoli ai tempi dell’impero romano. L’antisemitismo non era un’ideologia, qualcosa in cui si potesse credere, come era in tutti i paesi di
lingua tedesca, o un mito e un pretesto, come era soprattutto in Francia. II
fascismo italiano, che non poteva essere definito “spietatamente duro”, aveva cercato prima della guerra di ripulire il paese dagli ebrei stranieri e
apolidi, ma non vi era mai riuscito bene, a causa della scarsa disposizione di
gran parte dei funzionari italiani dei gradi inferiori a pensare in maniera “dura”. E quando la questione divenne una questione di vita o di morte, gli italiani,
col pretesto di salvaguardare la propria sovranità, si rifiutarono di abbandonare questo settore della loro popolazione ebraica;
li internarono invece in campi, lasciandoli vivere tranquillamente finché i tedeschi non invasero il paese. Questa condotta non si può spiegare con le sole condizioni oggettive (l’assenza di una “questione ebraica”), poiché naturalmente questi stranieri costituivano in Italia un problema così come lo costituivano in tutti gli altri Stati europei, Stati nazionali fondati
sull’omogeneità etnica e culturale [...] Quello che in Danimarca fu il risultato di [...] un’innata comprensione dei doveri e delle responsabilità di una nazione che vuole essere veramente indipendente [...] in Italia fu il prodotto della generale, spontanea umanità di un popolo di antica civiltà. L’umanità italiana resiste inoltre alla prova del terrore che si abbatte sulla nazione
nell’ultimo anno e mezzo di guerra. Nel dicembre del 1943 il ministero degli esteri
tedesco chiese ufficialmente l’aiuto del capo di Eichmann, Muller: “In considerazione del poco zelo mostrato negli ultimi mesi dai funzionari
italiani nel mettere in atto i provvedimenti antiebraici raccomandati dal Duce,
noi del ministero degli esteri riteniamo urgente e necessario che l’adempimento di tali provvedimenti [...] sia controllato da funzionari tedeschi”. Dopo di che, famigerati sterminatori come Odilo Globocnik furono spediti in
Italia; [...] Ormai non si poteva più scherzare. L’ufficio di Eichmann dirama alle sue varie branche una circolare in cui si
avvertiva che si dovevano subito prendere le “necessarie misure” contro gli “ebrei di nazionalità italiana”. La prima azione doveva essere sferrata contro gli ottomila ebrei di Roma, al
cui arresto avrebbero provveduto reggimenti di polizia tedesca dato che sulla
polizia italiana non si poteva fare affidamento. Gli ebrei furono avvertiti in
tempo, spesso da vecchi fascisti, e settemila riuscirono a fuggire. I tedeschi,
come sempre facevano quando incontravano resistenza, cedettero e ora
accettarono che gli ebrei, anche se non appartenevano a categorie “esentate”, venissero non deportati, ma soltanto internati in campi italiani. Per l’Italia, questa soluzione poteva essere considerata sufficientemente “finale”. Così circa trentacinquemila ebrei furono catturati nell’Italia settentrionale e sistemati in campi di concentramento nei pressi del
confine austriaco. Nella primavera del 1944, quando ormai l’Armata Rossa aveva occupato la Romania e gli Alleati stavano per entrare in
Roma, i tedeschi violarono la promessa e cominciarono a trasportarli ad
Auschwitz: ne portarono via circa settemilacinquecento, di cui poi ne tornarono
appena seicento. Tuttavia, gli ebrei che scomparvero non furono nemmeno il
dieci per cento di tutti quelli che vivevano allora in Italia». Cfr. Hannah Arendt, La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme, cit., pp. 185-86. Il corsivo è nostro.
53. LaCapra, History and Memory, cit., p. 19.
54. Michele Battini, “La Shoah: dentro e fuori la storia”, in Memoria della Shoah, a cura di Saul Meghnagi, cit., p. 13. A proposito dell’eccesso di memoria, si veda di Charles S. Maier, il sempre attuale “Un eccesso di memoria? Riflessioni sulla storia, la malinconia e la negazione”, in Parolechiave 9 (1995), pp. 29-43.
55. Si veda Alberto Cavaglion, “Nota all’edizione italiana”, in Laqueur (a cura di), Dizionario dell’Olocausto, cit., p. xix. Cavaglion parla anche di una «generale sottovalutazione del significato e della portata dello sterminio
portato a compimento dai tedeschi nella penisola italiana spesso con la diretta
complicità degli italiani» (Ivi, p. xx).
56. Alberto Cavaglion, “Prefazione”, in Luca De Angelis, Qualcosa di più intimo. Aspetti della scrittura ebraica del Novecento italiano: da Svevo a
Bassani, Firenze, Giuntina, 2006, p. 7.
57. Ivi, p. 8.
58. Giorgio Bassani, “Una lapide in via Mazzini” in ID., Opere, a cura di Roberto Cotroneo, Milano, Mondadori, 1998, pp. 84-122.
59. Luca De Angelis, “‘Qualcosa di più intimo’. Alcune considerazioni sulla differenza ebraica in letteratura”, in L’ebraismo nella letteratura italiana del Novecento, cit., p. 19.
60. Anna Rossi-Doria, “Memorie di donne”, in Storia della Shoah, cit., pp. 29-71. La storica compie un puntualissimo excursus di quelli che
sono stati i momenti più importanti per il discorso storiografico e critico sulle donne nella Shoah.
61. James Young, “Regarding the Pain of Women: Questions of Gender and the Arts of Holocaust
Memory”, PMLA (Publications of the Modern Language Association of America) 124.5 (2009), pp. 1778-86.
62. Come si noterà durante il percorso disegnato da questo stesso studio, mentre gli studi
internazionali sulle donne nella Shoah si stanno intensificando, sono pochi i
nomi di coloro che hanno studiato l’esperienza ebraica italiana al femminile: Anna Bravo, Daniele Jalla, Anna
Rossi-Doria, Micaela Procaccia, Giovanna De Angelis, Alessandra Chiappano fra
le storiche; Marina Beer, Rita Calabrese, Laura Quercioli Mincer e altre
colleghe per quanto riguarda gli studi letterari.
63. Marlene Heinemann, Gender and Destiny: Women Writers and the Holocaust, Westport, CT, Greenwood Press, 1986 e S. Lillian Kremer, Women’s Holocaust Writing: Memory and Imagination, Lincoln, University of Nebraska Press, 1999. Si vedano anche gli importanti
studi curati da Carol Rittner e John K. Roth, Different Voices: Women and the Holocaust, New York, Paragon House, 1993, e di Catherine Bernard, “A Feminist Critique of the Holocaust?” http://remember. org/educate/ccrit.html
64. Così come ricorda Anna Bravo nella sua “Presentazione” a Donne nell’Olocausto, cit., p. xi.
65. Lawrence Langer in Bravo, ivi, p. xi.
66. Primo Levi, “Prefazione”, in Hermann Langbein, Uomini ad Auschwitz. Storia del più famigerato campo di sterminio nazista, Milano, Mursia, 1984, p. 5.
67. Hermann Langbein, Hommes et femmes à Auschwitz, trad. Denise Meunier, Paris, Fayard, 1975.
68. Pier Vincenzo Mengaldo, La vendetta è il racconto, cit., p. 15.
69. Vero e falso. L’uso politico della storia, a cura di Marina Caffiero e Micaela Procaccia,cit.
70. Marina Caffiero, “Libertà di ricerca, responsabilità dello storico e funzione dei media”, in Vero e falso, cit., p. 5.
71. Hayden White, “Historical Discourse and Literary Writing”, in Tropes for the Past: Hayden White and the History/Literature Debate, a cura di Kuisma Korhonen, Amsterdam, Rodopi, 2006, p. 25.
72. I romanzi di Martin Amis e Don DeLillo, tradotti in italiano La freccia del tempo, o la natura dell’offesa, trad. di Ettore Capriolo, Milano, Mondadori, 1993, e Rumore bianco, trad. di Mario Biondi, 5a ed. Torino, Einaudi, 2005, compaiono entrambi nel già citato dizionario curato da Efraim Sicher, Dictionary of Literary Biography, Volume 299: Holocaust Novelists, cit., p. xvi. Interessante notare l’assenza di un certo discrimine nel Dizionario, per cui vengono citati i lavori
di autori italiani quali Erri De Luca ed Eraldo Affinati (p. xviii) ma non si
menziona La Storia di Elsa Morante.
73. Riprendo l’aggettivo usato da Lidia Beccaria Rolfi nel suo memoriale curato da Bruno Maida,
L’esile filo della memoria. Ravensbrück 1945: un drammatico ritorno alla libertà, Torino, Einaudi, 1996.
74. Giovanna De Angelis, Le donne e la Shoah, Cava de’ Tirreni, Avagliano, 2007. Vorrei ricordare anche il volume collettaneo curato
da Roberta Ascarelli che lo precede, Oltre la persecuzione. Donne, ebraismo e memoria, Roma, Carocci, 2004. Il volume curato da Ascarelli presenta saggi molto
interessanti sulle esperienze di donne nei campi senza distinzione di
nazionalità. Oltre alla presentazione di Roberta Ascarelli e Patrizia Gabrielli (pp. 9-13),
si vedano almeno “Le frontiere della lingua. Memorie ebraiche fra Polonia e Israele” di Laura Quercioli Mincer, pp. 119-32; “Memorie di donne: esperienza e rappresentazione dell’Olocausto in termini di genere” di S.Lillian Kremer, pp. 151-76 (ottima la resa in italiano della sua
introduzione al volume precedentemente citato, Women’s Holocaust Writing: Memory and Imagination), e infine, “Le memorie italiane e il ruolo della tradizione orale” di Micaela Procaccia, pp. 177-86.
75. Giovanna De Angelis, Le donne e la Shoah, cit., p. 46. Il corsivo è nostro.
76. Renzo De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, pref. di Delio Cantimori, 3.ed. riv., Milano, Mondadori, 1977.
77. Alessandro Portelli, “Sull’orlo del genocidio: i due giorni dei deportati ebrei romani al Collegio Militare
di Piazza della Rovere”, in ID, Storie orali. Racconto, immaginazione, dialogo, Roma, Donzelli, 2007, pp. 143-62.
78. Giovanna De Angelis, Le donne e la Shoah, cit., p. 67.
79. Ivi, p. 68.
80. Ibidem.
81. Ivi, p. 70.
82. Ivi, p. 69.
83. Ivi, p. 71.
84. Ivi, p. 74. Il corsivo è dell’autore.
85. Ivi, p. 75.
86. Hillesum in De Angelis, ivi, p. 81.
87. Ivi, p. 98.
88. Ivi, pp. 108-109.
89. Ivi, p. 114.
90. Edith Bruck, Chi ti ama così (1958), Venezia, Tascabili Marsilio, 1994.
91. Giovanna De Angelis, Le donne e la Shoah, cit., p. 147.
92. Alberto Bertoni, “L’olocausto e l’identità letteraria”, in Mappe della letteratura europea e mediterranea, a cura di G. M. Anselmi, introduzione di Antonio Prete, Milano, Bruno
Mondadori, 2001, p. 211.
93. Laura Quercioli Mincer, “Le frontiere della lingua”, cit., p. 125.
94. Dominique Labbé, “Deportazione: Le difficoltà della testimonianza”, in Lucio Monaco (a cura di), La deportazione femminile nei Lager nazisti, Milano, Franco Angeli, 1995, p. 48.
95. Ibidem.
96. «Spesso i materiali di base sono delle annotazioni prese nel campo, oppure a
partire dalla Liberazione, ma che saranno riordinate e pubblicate solo molto più tardi: dieci anni dopo da parte di Micheline Maurel, venti anni dopo da parte
di Charlotte Delbo. È come se l’urgenza avesse consistito soprattutto nel liberarsi, attraverso la scrittura, di
un peso insopportabile» (Labbé, “Deportazione”, cit., p. 48.
97. Grazie alle ricerche svolte presso il CDEC di Milano ho potuto, infatti,
trovare questa informazione circa lo scritto di Finzi, poi pubblicato col
titolo Varcare la soglia, a cura di Federico Bario e Marilinda Rocca, Lecco, Tipografia lecchese, 2002. Finzi ha inoltre partecipato con un’intervista alla raccolta curata sempre da Bario e Rocca A riveder le stelle. La lunga marcia di un gruppo di donne dal lager di Ravensbrück a Lubecca, Udine, Gaspari, 2006 (pp. 92-102). Ancora, si ricordi di Vannina Finzi
Pellegrini, Il portone di S. Francesco, Parma, La Pilotta, 1995.
98. Elisa Springer, Il silenzio dei vivi: all’ombra di Auschwitz, un racconto di morte e resurrezione, Venezia, Marsilio, 1997.
99. Mimma Paulesu Quercioli (a cura di), L’erba non cresceva ad Auschwitz, Milano, Mursia,1994.
100. Daniela Padoan (a cura di), Come una rana d’inverno. Conversazioni con tre donne sopravvissute ad Auschwitz, presentazione di Furio Colombo, Milano, Bompiani, 2004. Si veda anche di
Emanuela Zuccala (a cura di), Sopravvissuta ad Auschwitz. Liliana Segre fra le ultime testimoni della Shoah, presentazione di Carlo Maria Martini, Milano, Paoline, 2005.
101. Fiorenza Di Franco, Una ragazzina e l’armistizio dell’8 settembe 1943, Roma, Edizioni associate, 2003.
102. Ivi, cit., p. 19.
103. Liliana Treves Alcalay, Con occhi di bambina (1941-45), Firenze, Giuntina, 1994.
104. Mariella Vivaldi, La porta della salvezza. Una donna e sua figlia in fuga dai nazisti, Venezia, Marsilio, 2000.
105. Lydia Terracina Di Segni, Memorie: 1943-1944, Milano, Proedi, 2001, p. 4.
106. Piera Sonnino, Questo è stato. Una famiglia italiana nel lager, Milano, Il Saggiatore, 2004. Elisabetta Nelsen opera un’attenta ricognizione del testo ponendo particolare rilievo sul concetto di
eleganza che, utilizzando fotografie della sua bella famiglia borghese
scomparsa nell’Olocausto, Sonnino contrappone all’alienazione bieca del campo e al tentativo di piegare gli individui abbassandoli
al livello di Untermenschen. Cfr. Nelsen, “‘Vogliamo che ci vediate nel colmo della nostra eleganza’. Il senso del privato in Questo è stato di Piera Sonnino”, in Stefania Lucamante, Raniero Speelman, Monica Jansen e Silvia Gaiga (a cura
di), Memoria collettiva e memoria privata, cit., pp. 9-18.
107. A proposito di questo cospicuo lasso temporale Mengaldo riflette su come
questo non sia affatto cosa ovvia «[…] soprattutto avrà agito, nell’autunno della vita, il sentimento che non fosse giusto sottrarre una
testimonianza, la propria, su quegli eventi così gravi» (La vendetta è il racconto, cit., pp. 12-13). «E qui mi domando se sarebbe opportuna una distinzione fra memorie scritte a
ridosso dei fatti o invece a distanza [...] Ma si tratterebbe di una
distinzione non categoriale bensì puramente empirica: la tenuta della memoria e rispettivamente la sua selettività non si lasciano misurare a spanne temporali; semmai può mutar natura a seconda – per fare un esempio – che il perseguitato lo sia stato da adulto o invece da bambino [...]» (ivi, pp. 26-27).
108. Labbé sostiene che l’atto della scrittura sia sentito dalla maggior parte delle deportate come «un dovere nei confronti di quelle che non sono tornate o che hanno conservato,
nel corpo e nello spirito, le tracce indelebili del campo. In qualche modo le
superstiti si liberano di un debito morale verso le loro compagne scomparse.
Vogliono che rimanga vivo il ricordo delle ombre che hanno conosciuto nel campo e delle prove terribili che hanno
affrontato insieme» (“Deportazione”, cit., p. 48).
109. Primo Levi, I sommersi e i salvati, in ID., Opere, vol. 1, cit., p. 715.
110. Secondo Primo Levi, gli ebrei italiani erano i più assimilati del mondo. «L’ebraismo italiano era fortemente assimilato, era il più assimilato del mondo. Lo è tuttora e noi siamo gli ebrei più assimilati che esistano; lo dimostra il fatto stesso che io parlo l’italiano, il piemontese standard, che non sono distinguibile, non siamo
distinguibili in generale, cosa che è raro trovare in altri paesi del mondo. Certamente esisteva il tentativo di
negare a tutti i costi l’evidenza, di pensare che certe cose da noi non sarebbero capitate. In sostanza c’era un pericolosissimo atteggiamento di rimozione, per cui io nel ’42, nel ’43 facevo la vita che facevano tutti gli studenti: andavo in montagna, andavo a
teatro, andavo ai concerti e così via, senza rendermi conto che la Germania stava invadendo l’Europa. Cosa avrei dovuto fare? Cercare di emigrare, per esempio. Ma per
emigrare bisognava superare una barriera di potenziale: uscire da un buco, che è la famiglia, che sono gli affetti, che sono la patria, il paese in cui si è nati, le amicizie, ed era necessaria una lucidità che pochissimi hanno avuto in Italia. E poi ci volevano anche molti soldi,
molti. Non era facile. E come si può pretendere la lucidità? Forse che oggi viviamo lucidamente? Bisognerebbe... far su i fagotti e andare nelle Nuove Ebridi, non stare in Europa. Siamo lucidi oggi? Ci comportiamo
lucidamente davanti al pericolo nucleare? Il terreno di combattimento se ci sarà, sarà questo, e chi, chi di noi lo fa, anche chi ha la possibilità, di prendere su e andare in Nuova Zelanda, chi lo fa? Allora non era molto
diverso. Non stiamo rimuovendo anche noi qualche cosa?» Cfr. Primo Levi, “Intervento”, in La vita offesa, cit., p. 99.
111. Eraldo Affinati, “Intervento alla tavola rotonda”, in Memoria collettiva e memoria privata, cit., p. 219.
112. Domenico Scarpa, “Letteratura in Italia”, in Dizionario dell’Olocausto, cit., p. 441.
113. Per la definizione della parola hurbn come, in generale, per la terminologia sulla Shoah mi avvalgo principalmente
delle categorie linguistiche analizzate nel libro di Anna-Vera Calimani Sullam,
I nomi dello sterminio, Torino, Einaudi, 2001, pp. 15-18.
114. Wolfgang Iser, The Fictive and the Imaginary: Charting Literary Anthropology, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 1993, p. xii.
115. Ivi, p. xiv.
116. Ivi, p. xviii.
117. Ivi, p. xi. Il corsivo è nostro.
118. Nonostante Alessandro Manzoni avesse poi rifiutato le sue stesse importanti
scoperte riguardo al componimento misto del vero e della finzione, il problema
dell’oppressione del popolo colonizzato nei Promessi sposi rivela anche oggi una struttura di potere e usurpazione di diritti dei deboli
che poco attinge alla precisione cronachistica. Quello dell’impossibilità di una coesistenza fra vero e finzione è un annoso problema di cui si occupa da prima di me – per esempio – Alberto Cavaglion, il quale si pronuncia a favore dell’inserimento del vero nella finzione in “Parola, silenzio e memoria: esiste una forma letteraria per la testimonianza?” in Il racconto della deportazione nella letteratura e nel cinema”, Milano, I quaderni della Porta 73, 1999, pp. 25-37.
119. La “scelta” coraggiosa e “inusuale” degli ex-deportati – nota Anna Bravo riferendosi in particolare ai deportati italiani – risiede nel voler «amministrare la loro memoria». Lo è ancora di più, insiste Bravo, «se si tiene conto che era in gioco l’esperienza forse più complicata e delicata della contemporaneità, spesso oggetto di fraintendimenti consapevoli o inconsapevoli – non solo quelli derivanti da una conoscenza approssimativa dei fatti, ma anche
quelli impliciti nel posto del tutto inadeguato attribuito alla deportazione
nella ricostruzione dell’immagine nazionale a guerra finita» (“Relazione introduttiva” a La deportazione femminile nei lager nazisti, cit., p. 15).
120. Per avere un’idea della produzione letteraria sull’argomento, di come l’immaginazione degli scrittori ebrei sia stata davvero fertilissima, è sufficiente scorrere l’elenco on-line dei testi raccolti nella biblioteca dello U.S. Memorial Holocaust Museum. La posizione intransigente di Elie Wiesel nulla può di fronte al desiderio di conoscenza del fatto a lui/lei ignoto che muove l’artista a cercare di immaginare quel che non sa. Questo sia per motivi familiari
che, in senso più ampio, per motivi epistemologici. Si veda di Elie Wiesel, Un juif aujourd’hui, Paris, Ed. du Minuit, 1977, p. 190.
121. Esistono esempi più recenti di romanzi sullo sfondo delle leggi razziali, e quindi, sulla Shoah,
sulla fuga dall’Italia dopo il 1938. Tra questi si ricordi Capo d’Europa di Angela Bianchini, Milano, Camunia, 1991, rip. Capo d’Europa e altre storie, Milano, Bompiani, 1992, pp. 221-351, un romanzo ampiamente basato sull’esperienza stessa dell’autrice che si rifugiò negli Stati Uniti. Bianchini parla più distesamente di questa esperienza di displacement negli Stati Uniti nel romanzo Le nostre distanze, Milano, Mondadori, 1965, rip. Torino, Einaudi Tascabili, 2001.
122. Enzo Traverso, Il passato: istruzioni per l’uso, Verona, Ombre Corte, 2006, p. 40.
123. Elena Loewenthal, Lettera agli amici non ebrei. La colpa d’Israele, Milano, Bompiani, 2003, pp. 10-11.
124. Ruth Glynn ha indagato le teorizzazioni che hanno caratterizzato il romanzo
d’ambiente storico sino a oggi. Trattando la tipologia dello Zeitroman, Glynn discute di una differenza temporale da intendersi in senso psicologico
piuttosto che in termini strettamente temporali. Ed è probabilmente questo il punto più adatto per iniziare a individuare il romanzo della Shoah in Italia, come un
romanzo d’ambiente storico contemporaneo senza nette definizioni temporali ma che indichi
la contemporaneità fra l’autrice e le cose accadute nel romanzo. Glynn porta quale esempio quello di un
romanzo scritto subito dopo la caduta del muro di Berlino e di come nel romanzo
si commenti a proposito del regime della DDR come precipuo al periodo in esame
vicino al tempo della scrittura. Questo fa sì che «il romanzo di storia contemporanea funzion[i] tenendo conto delle somiglianze
piuttosto che delle differenze», fra i due periodi, quello narrato e quello in cui ha luogo la scrittura, Contesting the Monument: The Anti-Illusionist Historical Novel, Leeds, Northern Universities Press, 2005, p. 15.
125. Dina Wardi, Le candele della memoria: figli dei sopravvissuti dell’Olocausto: traumi, angosce, terapia, trad. Emanuele Beeri e Tania Gargiulo, Firenze, Sansoni, 1993.
126. Alcune eccezioni esistono certamente. Si ricordi il romanzo di finzione
autobiografica Deviazione di Luce D’Eramo, Milano, Rizzoli, 1990, in cui la protagonista, Lucia, va a lavorare
volontariamente nel campo di Dachau. S’inserisce così un esempio “spurio” fra testimoni loro malgrado questo di una giovane donna italiana che vuole
vedere coi propri occhi gli accadimenti di quella vita oltre la morte, la realtà del Lager. Sia pure in condizioni infinitamente meno gravi per chi vive nel Durchgangslager, il campo transit, rispetto ai Vernichtungslager con le camere a gas e i forni, la borghese Lucia assiste a uno spettacolo
drammatico. Alle sollecitazioni di un mondo ormai spoglio di assonanze con
quello civile, Lucia risponde con ironia, «Pulire le fogne è un lavoro più variato di quanto non appaia a prima vista: ci sono diverse gradazioni» (ivi, p. 9) già nella prima pagina del suo racconto. L’ironia dell’uso dei due termini, “fogna” e “variazione”, termine questo legato nell’immaginario alla musica e a un mondo lontano dal Lager, scandisce le pagine del
libro basato sostanzialmente sull’esperienza volutamente vissuta da Luce D’Eramo.
127. Per Millicent Marcus, nel caso degli ebrei italiani vale parlare di
sinonimo più che di sineddoche per via dell’ingente numero che di loro fu inviato proprio in quel campo (Italian Film in the Shadow of Auschwitz, cit., p. 5).
128. Dan Diner, “Aporie der Vernunft. Horkheimers Überlegungen zu Antisemitismus und Massenvernichtung”, in ID. (a cura di), Zivilisationsbruch. Denken nach Auschwitz, Frankfurt am Main, Fischer Verlag, 1988, pp. 30-53.
129. Circa il significato retorico del termine “Auschwitz” Paola Di Cori fa riferimento a Elaine Marks nel suo intervento su Lidia
Beccaria Rolfi, in Un’etica della testimonianza: La memoria della deportazione femminile e Lidia
Beccaria Rolfi, a cura di Bruno Maida, Milano, Franco Angeli, 1997, p. 11.
130. Nella sesta delle sue diciannove tesi sulla filosofia della storia,
Benjamin sostiene che «[a]rticolare storicamente il passato non significa conoscerlo “proprio come è stato davvero”» – secondo la famosa espressione di Leopold von Ranke – quanto, piuttosto “impossessarsi di un ricordo cosí come balena in un attimo di pericolo”», in Walter Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di Gianfranco Bonola e Michele Ranchetti, Torino, Einaudi, 1997, p. 27.
131. Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz, cit., p. 8.
132. Su questo punto si veda il saggio di Anna Rossi-Doria “Antifemminismo e antisemitismo nella cultura positivistica”, in Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870-1945, a cura diAlberto Burgio, Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 455-73. Rossi-Doria cerca di
sciogliere il nodo intorno all’accostamento sovente documentato in scritti della fine del diciannovesimo secolo
fra l’ebreo e la donna quali esseri inferiori e temibili, la cui matrice più antica si lega alla loro identificazione con la sessualità (p. 459), a cui segue una, recente, legata alla questione dei diritti
universali dell’uomo e del cittadino. Sia per l’ebreo che per la donna vige il divieto di partecipare alla sfera pubblica «perché solo il maschio cristiano ha accesso alla vita pubblica» (p. 460). Colpevoli di molte situazioni e cambiamenti indesiderati, l’ebreo e la donna vivono una condizione forzata di marginalità.
133. Tzvetan Todorov, In faccia all’estremo, Milano, Garzanti, 1992, (orig. Face à l’extrême), p. 285. Nell’originale Todorov usa il termine “récits”, di respiro più ampio del termine “scritti” scelto dal traduttore.