Capitolo 3
Tornare per scrivere, o le “scrittrici per necessità”: Edith Bruck, A 11152, e Liana Millu, A 5384
E mi chiedevo se parlavo o scrivevo per i morti o se parlavo e scrivevo perché temevo per i vivi e i vivi. Avevo più bisogno io di dire che loro di ascoltare?1

La congerie di motivi su cui si è riflettuto nel capitolo precedente rivela la complessità insita nel tentativo di un inserimento della testimonianza scomoda e complessa delle ebree italiane nella pur immensa bibliografia sulla Shoah. Recando testimonianza, queste donne hanno posto fine a una nociva (sia pure comprensibile) forma di omertà imposta in parte dalla loro stessa specificità. Se utilizzo il termine “scomodo” lo faccio con ironia, perché fermamente convinta in realtà dell’importanza di uno studio approfondito sulle loro voci sinora così trascurate, e su alcune espressioni di scrittura le quali, sublimandosi e diventando nel tempo anche materia letteraria e non più soltanto testimoniale, si dilatano nella loro importanza. Acquistano maggiore interesse se poste contro la filigrana dei memoriali pubblicati più di recente, che costituiscono il terzo periodo intercettato nella produzione italiana sulla Shoah, oppure se avvicinate alle scritture letterarie firmate da autrici appartenenti a generazioni contemporanee.
L’esperienza vissuta dalle sopravvissute che hanno scelto di raccontare può produrre, dopo un processo di sedimentazione degli eventi ricordati (di quella memoria che erige monumenti ai fatti più eclatanti della propria esistenza, che infatti sono quelli che restano vivi in colei o colui che redige il testo), non soltanto un genere di scrittura più direttamente mnemonica e aneddotica, ma una sua vera e propria rielaborazione. Si fa carico di raccontare una storia, cioè, e non più soltanto una cronaca degli eventi. Può, come si è notato per alcuni racconti di Liana Millu, consentire un innalzamento del fatto vissuto a valori che superano la soglia del dettagliato ricordo e trasformarsi in testo letterario.
In virtù dell’esperienza vissuta nel campo, la reduce può scegliere di porre la Shoah quale imprescindibile sfondo di una finzione che può considerarsi letteraria e durare comunque in quanto documento storico. In questo capitolo analizziamo allora il passaggio intermedio fra gli scritti più propriamente testimoniali e quelli che percorrono la strada della letteratura. Questi ultimi sono testi in cui lo sfondo determina un approfondimento dello studio psicologico dei personaggi: costituiscono dei veri e propri collegamenti di generi – spesso scritture di frontiera – che influenzano e legittimano una letteratura futura impostata sulle stesse tematiche. Per alcune fra le reduci, la decisione di parlare fa sì che la testimonianza divenga occasione letteraria di tutta una vita. Questo il caso emblematico di Liana Millu e di Edith Bruck.
L’impegno di una scrittura tesa verso il riconoscimento di un’armonia fra tema del racconto e impegno estetico, non più limitata quindi a una, quantunque molto importante, mera trasmissione di fatti, quando, cioè, il ricordo è volontariamente trasfigurato nella visione narrativa romanzesca, necessita di un esercizio particolare della memoria. Quella “memoria fallace” dal cui impiego pareva diffidarci Primo Levi, se volto ai fini di una veridica ed esatta testimonianza da un punto di vista storico, diventa, invece, anche un potentissimo e convincente strumento per una scrittura letteraria che sorregga in ogni modo la necessità del ricordo per motivi civili, etici e morali. Uno strumento utile, la memoria, non soltanto e non sempre per un senso d’esattezza storica quindi, elemento che raramente si giustappone e collima con i dati mnemonici2, ma perché è insito nel processo comunicativo il desiderio di coinvolgere le coscienze di altri con il ricordo tramandato dalla parola, con la seduzione dell’eloquenza. Tale processo non può aver luogo soltanto mediante la narrazione di fatti inalienabili che pretendono un’oggettività, sempre relativa e perciò comunque pericolosa3, persino nel discorso storiografico. La relatività della rappresentazione è una funzione della lingua usata per descrivere e quindi ricostituire – nella ricezione testuale – l’essenza di frammenti strappati a eventi passati come possibili oggetti di spiegazione e comprensione. Tale funzione risulta manifesta quando si usa un linguaggio tecnicamente letterario, mentre non lo è altrettanto in narrazioni di fenomeni storici convenzionalmente intese come tali.
La prospettiva teorizzata da Giorgio Agamben nelle sue letture leviane sconfina dai limiti fisici di Auschwitz e porta l’argomento verso riflessioni morali in cui appare la nuova categoria etica, quella del testimone. Nella prospettiva del discorso pronunciato da Martin Heidegger a Brema, «[...] il campo sarebbe [...] il luogo in cui è impossibile far esperienza della propria morte come possibilità più propria e insuperabile, come possibilità dell’impossibile [...] l’essere della morte è precluso e gli uomini non muoiono ma vengono prodotti come cadaveri»4. Ed è nel Lager che si fa strada l’impossibilità heideggeriana di una distinzione fra ciò che risulta possibile e impossibile non soltanto esperire ma anche credere, o cercare – come vedremo – di scrivere a perenne testimonianza5:

L’intimità che tradisce la nostra non-coincidenza con noi stessi, è il luogo della testimonianza. La testimonianza ha luogo nel non-luogo dell’articolazione. Nel non-luogo della Voce non sta la scrittura, ma il testimone. E proprio perché la relazione (o, piuttosto, la non relazione) fra il vivente e il parlante ha la forma della vergogna, dell’essere reciprocamente consegnati a un inassumibile, l’ethos di questo scarto non può che essere una testimonianza – cioè qualcosa d’inassegnabile a un soggetto, che costituisce, tuttavia, l’unica dimora, l’unica possibile consistenza dell’oggetto.6

Fondamentale in proposito è l’esempio proposto da Annette Wieviorka circa la differenza tra la stesura del primo e del secondo libro di Elie Wiesel. Nel secondo viene eliminata una parte assai importante in cui il protagonista rompe le specchio: «l’ebreo sopravvissuto rompe lo specchio, rompe l’immagine della morte [...]»7. È una rottura che per Wieviorka equivale a una sua rinascita. La ridefinizione positiva della testimonianza come scelta di vita e unica identità impossibile da perdere, come mondo di valori a cui si informa la propria esistenza, diventano effettivamente delle categorie di pensiero e di comportamento a cui si informa la nostra “era”. Nell’analisi dell’attività testimoniale si è spesso tentati di parlare di individualismo metodologico. Quella contemporanea è una storiografia che spesso articola, e con ragione, un suo eventuale sviluppo e profilo mediante il contributo di testimonianze che, a volte, percorrono i sentieri della letteratura.
L’era del testimone di Annette Wieviorka compie una puntuale disamina del ruolo del testimone nella storiografia contemporanea. Partendo dai suoi studi precedenti riguardanti i libri del ricordo, quei Memorbucken delle kehilà polacche, Wieviorka traccia un profilo di alcuni momenti fondamentali della testimonianza per la dritter hurbn – la terza distruzione –, l’eccidio ebraico del ventesimo secolo. I primi scritti dei ghetti e dei campi di sterminio sono le scritture dei sommersi. La necessità della scrittura dei sopravvissuti per coloro che non sono più, su cui insisteva fra gli altri Levi, sembra perdere forza nel suo significato, anzi potrebbe sovvertirsi alla luce di tali ritrovamenti. Per Wieviorka, l’yiddish – strumento linguistico con cui vennero scritti i libri del ricordo – rappresenta la lingua della testimonianza: una lingua che parla di una duplice morte, è la «sola lingua che condivide la sorte dei suoi locutori»8. Difficilmente si poteva fruire infatti di queste testimonianze, poiché quella stessa società che ne tramandava l’uso e la necessità era stata travolta dalla dritter hurbn. Si riconosce allora la necessità del mezzo linguistico-letterario per diffondere la voce di chi è stato sommerso come e quanto di chi si è salvato:

Le testimonianze, a volte, prendono la strada della letteratura. Si pensa che la sostanza, la materia stessa di cui è fatto un libro possa assicurare meglio la trasmissione. Ma soprattutto, in un paesaggio in cui la morte è onnipresente, si diffonde l’idea che l’opera, per lo meno, sia immortale, che essa sola possa assicurare il ricordo, ossia l’eternità.9

Wieviorka cita l’esempio di Calel Perchodnik, che parla delle proprie memorie in termini creaturali. Dedica il libro alla moglie deportata a Treblinka insieme alla loro bimba di due anni. Perchodnik genera per loro e a loro eterno ricordo un altro figlio, una creatura cartacea, appunto il suo libro di memorie:

Adesso che ormai sono completamente solo, non potendo lasciare dopo di me una creatura viva, ho dovuto generare un figlio morto, nel quale ho infuso la vita. Il figlio in questione sono queste memorie che, come credo, verranno un giorno stampate, affinché tutto il mondo conosca i Tuoi patimenti. Le ho scritte a Tua gloria, per renderTi immortale, perché siano un monumento a Te dedicato.10

Come nota Wieviorka, il passo tratto dal libro di memorie del poliziotto polacco denota l’impellenza dell’atto scrittorio quale «protesta contro la morte, il bisogno di lasciare una traccia, di assicurarsi una filiazione»11. L’assolutizzazione con pretese universalistiche dei testimoni e di artisti che hanno composto sulla Shoah, quella per cui soltanto nomi maschili appaiono nelle pagine della storia, quell’assolutizzazione per cui gli esempi sono tutti al maschile, per cui Wieviorka costruisce una linea teorica che procede da e fra Elie Wiesel a Primo Levi (Wiesel vuole essere «contemporaneamente testimone e scrittore, e in ciò è paragonabile soltanto a Primo Levi»)12 merita ulteriori approfondimenti, pena il ritornare allo stereotipo critico utilizzato da Mengaldo13 rispetto all’ininfluenza di un ulteriore discorso critico sulla sofferenza delle donne nei Lager14. La linea Levi-Wiesel – per quanto certamente opportuna nello studio di Wierviorka – non fa che riaffermare come la valutazione di fonti letterarie per affermare categorie storiografiche rimanga, tutto sommato, una struttura impermeabile a un’integrazione di genere, invece sicuramente possibile. La scelta degli autori proposti da Wieviorka per il suo percorso, persino quella dei passi scelti dal diario di Perchodnik rispetto a una filiazione scrittoria, ripropone quesiti rispetto all’affermazione di una netta marginalità dello studio dello specifico femminile del discorso storiografico non soltanto prima ma anche dopo gli studi di genere femministi. Pare infatti alquanto strano, oggigiorno, che affermare l’esistenza di testimoni e scrittrici della Shoah per una storica resti un tracciato di studio in fieri. L’eventualità di citare donne degne di costituire modelli complementari – senza sollevare questioni di rilevanza e valore estetici – a quelli leviani non viene contemplata. Se è vero che «[s]crivere è contemporaneamente un atto di vendetta e uno strumento di lotta contro ciò che, a quel tempo, non si chiama ancora negazionismo»15, permane ancora oggi diffuso il senso di una chiusura verso alcune reduci e autrici che hanno intrapreso la stessa strada dei grandi esempi di Levi e di Wiesel da prospettive di genere diverse.
Lo stesso problema di cui tratta Anna Bravo a proposito del mancato interesse verso le donne vittime della Shoah nel discorso storiografico si ripropone e si estende, insomma, a quello letterario. Se Alberto Cavaglion si riferisce in generale al problema dell’assenza d’interesse della critica letteraria italiana, quando si tratta poi di testi composti in italiano da reduci donne ecco che vanno ancora colmate lacune ben più gravi. L’obbligo di parlare non conduce di necessità all’unicità delle voci, poiché le voci provengono da situazioni e momenti geo-temporalmente distinti e appartengono a individui tra i più diversi. La specificità del racconto della Shoah deve essere declinata anche al femminile, nella testimonianza come nell’opera artistica. Si deve raccontare, è un imperativo, sia pure semplificando per facilitare “l’ipotesi di lavoro” a cui accenna Levi. Come scrive Lévinas, l’obbligo a parlare diventa impellente16. Ma non si possono appiattire le peculiarità delle diverse scritture.


Fatto e finzione: la specificità di genere nel racconto letterario

La coscienza può esistere esercitando un’incessante ricognizione dell’inconscio mediante l’immaginazione, in virtù di quel senso junghiano secondo cui tutto quel che vive deve passare attraverso molte morti. Si parla sempre di morte, infatti, quando si parla di vita. Si ricordi il dialogo fra il protagonista e il padre in Il giardino dei Finzi-Contini: «Nella vita, se uno vuol capire, capire sul serio come stanno le cose di questo mondo, deve morire almeno una volta. E allora, dato che la legge è questa, meglio morire da giovani, quando uno ha ancora tempo davanti a sé per tirarsi su e risuscitare [...] Capire da vecchi è brutto, molto più brutto»17. L’impegno costituito dalla diffusione di una realtà a molti ignota può trovare la propria articolazione mediante le testimonianze precedentemente analizzate, perché ogni racconto dei campi di sterminio tenta un’assimilazione del fatto attraverso l’esercizio della memoria.
Altri parametri concorrono tuttavia a limitare tale esercizio quando si scrive un testo con aspirazioni letterarie. Tali limiti sono determinati dai territori stessi marcati dalla Shoah in quanto fatto storico e dalla Shoah nella sua riconsegna letteraria. Come sostiene Lawrence Langer, il primo, il fatto storico, resiste allo spiazzamento che crea il secondo, vale a dire la sua interpretazione letteraria, limitandone la creatività autoriale. Se la letteratura universalizza l’esperienza umana, continua il critico, gli eventi storici legati alla Shoah limitano fortemente le possibilità d’uso sia degli strumenti linguistici sia degli elementi retorici che aiutano a formulare proposizioni espressive dotati di carattere estetico. Il dato fattuale ingenera e al tempo stesso circoscrive il dato finzionale18. Consapevole di operare all’interno di un contesto in cui, come sostiene Cavaglion, «[...]il semplice uso della parola fiction suona giustamente offensivo penso comunque che «la questione spinosa [...] della Shoah “dans la fiction romanesque”» sia da considerarsi come un problema anche di politica culturale che, se ancora non del tutto risolto, rivela esiti felici grazie ai vari esempi letterari in cui gli artisti hanno mostrato di mantenere un equilibrio etico fra i due elementi che formano un testo d’invenzione in cui la storia, intesa come evento storico, reca un peso assai rilevante sulla storia intesa come racconto. Il racconto veridico dei fatti, racconto che avviene, quindi, nel rispetto della realtà lungo tutto il processo per cui tali fatti diventano memoria e rappresentazione verosimigliante della realtà, non inficia la tesi di un’elaborazione letteraria in una fabula dell’argomento da parte – soprattutto – di chi tali eventi pure ha vissuto.
Approfittando di quella fessura sempre leggermente dischiusa fra il fatto e la memoria che di esso si conserva nel presente della scrittura, l’autrice sente di affermare e fare testimonianza oltre il fatto storico. Fonda l’organizzazione e la riuscita della sua fabula e dei temi narrati anche (inevitabilmente) sulla sua specificità di genere, che la conduce alla costruzione di immagini la cui fonte è reperibile soltanto nell’esperienza di deportata. L’elaborazione letteraria promette e dischiude nuovi orizzonti interpretativi. L’interpretazione dei fatti – grazie alla loro resa mediante una memoria fallace – può quindi essere utile al ricordo e alla sua perpetuazione non tanto per il raggiungimento di una precisione documentaria dell’evento, quanto per portarne a eterno monito la sua gravità. L’interpretazione in chiave finzionale, e non più soltanto storiografica, non sminuisce la precisione dei dettagli, bensì assicura alla sua trasmissione un peso etico che fa leva sulle coscienze umane.
Lo iato fra i due elementi, il fattuale e il finzionale, può produrre una comprensione dell’evento espressa e realizzata utilizzando tecniche e strategie che vanno oltre il testimoniale. Questo equivale a dire che, partendo dalla traiettoria temporale che inizia col fatto, quella logica temporale legata alla linearità data per salda del processo storico per cui l’elaborazione finzionale deve seguire quella testimoniale – veridica e incontestabile resa dei fatti – non è inoppugnabile. Esempio eclatante di uno scarto ricettivo rispetto alla norma sia per tutti quello propostoci dalla testimone e scrittrice Liana Millu. Decisioni intime dell’autrice hanno permesso che Tagebuch ci fosse offerto in lettura soltanto dopo la sua scomparsa, sessant’anni dopo i racconti de Il fumo di Birkenau e dopo il romanzo I ponti di Schwerin; al termine quindi, e non all’inizio, di tutta un’intera carriera e, soprattutto, di un’esistenza trascorsa recando testimonianza. In questa circostanza i tempi di ricezione della testimonianza si disgiungono dall’ordine dato per ovvio: divengono quindi sfalsati – a causa di precise scelte autoriali – rispetto a quelli scanditi dall’effettivo tempo di completamento del testo. Queste interruzioni e alternanze hanno determinato un percorso tra i più diversi a dimostrazione del fatto che la comprensione delle proprie vicende come dei traumi subiti non liquidano il ricordo nella sua semplificazione, ma costringono l’autrice a un continuo ripensamento. Il represso ritorna costantemente, dilatandosi nel tempo sino a invadere uno spazio creativo che non sembra concedere alternative tematiche e costruisce invece un luogo privilegiato per l’autrice, la quale fa affidamento sulle sue proprietà epistemologiche per affermare la specificità di genere.
Come può una donna descrivere qualcosa che, non importa quanto precisa appaia la testimonianza, non viene mai considerata abbastanza precisa da altri che hanno vissuto lo stesso fatto? Come si può parlare di qualcosa che, come dichiarano le stesse testimoni, non soddisfa nei dettagli ormai sfuggenti, dettagli che non rendono giustizia al desiderio di una corretta rappresentazione verbale dei fatti da parte di chi formula gli scritti, che non rendono mai, insomma, quello che veramente si prova? In altre parole, come si può colmare questo lapsus verborum esistente sempre e comunque tra il vissuto e il raccontato, dopo quel periodo che Levi definisce un “processo di decantazione”, per utilizzare esperienze proprie nella definizione e creazione di un possibile luogo estetico? Il ritratto stilizzato di un momento trascorso può risultare più fruttuoso dell’originale per una testimonianza di lunga durata, questo anche per ricordare e parlare di chi non può più farlo.
I problemi legati a questo passaggio dell’espressione dal fattuale al finzionale sono molti, come ricorda Efraim Sicher in un’eco significativa dello studio di Sue Vice sulla fiction della Shoah. Lo sviluppo del genere romanzesco (e cinematografico) intorno all’evento non ha avuto un percorso semplice, e costituisce infatti esso stesso, come la ricezione della Shoah più in generale, «una storia di impatto in ritardo e appropriazione o mediazione nella cultura popolare occidentale»19. La tarda appropriazione rivela comunque il particolare statuto del romanzo sulla Shoah, in quanto tale genere tratta allo stesso tempo di una doppia morte, quella fisica dell’uomo e quella etica dell’idea dell’umanità20. Nell’abbandonare una forma tradizionale di analisi – senza per questo tradire né, tanto meno negare, il passato – la parola può fornire nuove categorie per oltrepassare quei limiti su cui riflette Berel Lang21. Questa parola dice di coloro che non sono più ed evidenzia come la lingua funzioni quale base indispensabile e inesauribile per un nuovo discorso storiografico. La parola è lì a dimostrare che, contro ogni forma di discutibile revisionismo, quale quello emerso con veemenza nella metà degli anni Ottanta in Germania con l’Historikerstreit, e ancor prima (sia pure di carattere e tono sostanzialmente diversi) in Francia, o come correttivo alle insufficienti forme tradizionali di giudizio, la tragedia rimane con tutte le sue implicazioni.
Il discorso intercettato da tutte le testimonianze scritte e orali esercita il proprio significato a tutti i livelli in una pluralità di contesti. Ne emerge un senso impreciso, certamente molto più vulnerabile di quanto potrebbero mai essere le deposizioni ufficiali e la ricerca considerata ancora in termini di oggettività, consegnando al romanzo delle sorprendenti autorità di verifica dei fatti e dilatazione dei significati22. Per questo tipo di ragioni, la parola letteraria si conferma quale strumento che, se non può dire tutto, può dire perlomeno quello che non può dire:

Bisogna concedere all’arte e alla scrittura di non poter sfuggire a questa richiesta di essere nuove, di “apportare” del nuovo, perché è sotto la copertura di questo equivoco, dirottando il senso di “nuovo”, rovesciando il nuovo come “a venire-presente”, ripetuto sul mercato della cultura, verso la novità impossibile del più antico, sempre nuovo perché ha sempre dimenticato, che l’arte e la scrittura possono ancora avere ascolto presso orecchie assordate dall’affaccendamento [...] Far sì che il rumore stesso, la moltiplicazione e la neutralizzazione delle parole, essendo già un silenzio, attestino l’altro silenzio, inaudibile.23

Il pluralismo inerente al corpo testimoniale suggerisce un antagonismo fra sé e il concetto di limite se, come scrive Berel Lang, la funzione più comune di limite consiste nella restrizione di alternative al discorso. Quando si analizzano dei testi romanzeschi, nella fiction basata sul fatto storico e vissuto dalle autrici e composta quindi in virtù dell’esperienza e della memoria (sia pur “fallace”) degli eventi, risultano ancora più importanti i memoriali composti dalle italiane deportate e sopravvissute alla Shoah di cui si è discusso nel capitolo precedente. “Categorie sfumate” e “zone grigie” rappresentano un’altra difficoltà quando si parla di qualcosa che è stato dichiarato “indicibile”24 e che pure, come abbiamo visto, deve essere praticato come anestesia, intesa come assenza del bello, contro l’amnesia25. Il problema non è quello di determinare se l’evento costituisce il soggetto vero e proprio del testo narrativo ma, piuttosto, quello di discernere se la sua rappresentazione come soggetto scavalca i suoi limiti rappresentativi; se questo supera la ricerca del bello per giungere alla «formazione di rappresentazioni»26. In particolare, nella rappresentazione letteraria della Shoah interviene la costrizione creata da un senso affatto partecipe di fedeltà alla rappresentazione storica che si trova a coincidere con la tensione verso il raggiungimento di mete emotive che sfidino quel fenomeno che Lyotard definisce opportunamente “amnesia”27.
In questo scarto, dallo scritto autenticamente testimoniale sprovvisto di un evidente scopo letterario a quello che invece possiede e rivendica per sé – come afferma Lyotard – uno statuto letterario an-estetico, risulta importante misurare le possibili violazioni della cosiddetta verità fattuale dovute alle trasformazioni della testimonianza in testi aventi statuto specificamente letterario28. Scritti nati in origine forse senza «il progetto di scrivere un libro [...] e per la pulsione di liberarsi di alcuni elementi della propria esperienza e di ritrovare, grazie a queste considerazioni, la propria identità»29, attraverso la sedimentazione occorsa nel tempo e la rilettura da parte degli autori trasformano il loro statuto di genere. D’altra parte, come sostiene Philippe Lejeune, «[u]n racconto non è mai la semplice trascrizione di un frammento di vita»30. La ricerca epistemologica di Millu e di Bruck, la ricerca, cioè, di come l’analisi della sofferenza morale possa costruire categorie conoscitive, comporta anche la paradossale (ma non per questo infrequente) capacità di vedere la Shoah in modo costruttivo. E ciò tenendo conto persino del concetto di separatezza di genere se il dolore e la specificità di genere vengono percepiti come essenziali ai fini di una conoscenza autoidentitaria. La reduce, appartenente alla modernità dei diversi approcci sociali che la fanno entrare in una pluralità di ambiti comunitari e di contesti collettivi tra i più diversi, dispone di molteplici e plurime identità rela­zio­nali che rendono quasi anacronistico trovare per la sua produzione testuale il senso comunemente affidato al genere dell’(auto)biografia. Questo particolare tipo di scrittura risulta essere una “scrittura di sopravvivenza” perché, per dirla con Lyotard, «essa stessa [risulta] stretta dalla vergogna di non essere perita, di poter testimoniare ancora e dalla tristezza di osare. Scrittura che è ciò che sopravvive del pensiero suo malgrado, quando la vita filosofica è diventata impossibile, quando non c’è più da sperare nella bella morte e l’eroismo è passato al nemico»31.


I campi e il rientro: la linea Bruck-Millu

Per la traiettoria da me individuata nella produzione femminile, diventa assai importante analizzare questa delicata fase di transizione nel percorso della scrittura della Shoah: il passaggio dalla scrittura testimoniale a quella a cui l’autrice richiede e conferisce statuto letterario. Autrici che vivono entrambi i momenti, quali Liana Millu ed Edith Bruck, meritano uno studio che valga tra l’altro a riconoscere per i loro testi il merito di aver fatto da tramite fra la testimonianza scritta di coloro le quali si sono fermate alla pure sofferta restituzione scritta dei fatti e la parola letteraria di coloro le quali hanno in seguito elaborato il tema per immaginazione, senza fondarlo cioè su un effettivo vissuto esperienziale. Bruck e Millu richiedono, offrendolo, statuto letterario per i loro scritti. L’iniziale e allargato desiderio di dire dei campi, dell’incredibilità di cui loro stesse erano inizialmente cadute vittime, del loro “voler lasciare traccia”, rimane per le reduci Millu e Bruck il fondamento e la ragione stessa del loro esistere dopo Auschwitz.
Liana Millu ed Edith Bruck costituiscono forse le presenze più emblematiche del processo di perpetua elaborazione del ricordo nella letteratura italiana. Due testimoni impegnate costantemente nella parola della scrittura contro il pericolo dell’amnesia su cui ci mette in guardia Lyotard. La rifles­sione di Primo Levi secondo cui «[l]’uscir di pena è stato un diletto solo per pochi fortunati, o solo per pochi istanti, o per animi molto semplici; quasi sempre ha coinciso con una fase d’angoscia»32 definisce in parte la condizione esistenziale delle autrici, consapevoli che raccontare Auschwitz sarebbe diventato un compito per tutta la vita, che quella “fase d’angoscia” sarebbe stata interminabile e questo contro ogni possibile riduzione a schema:

Siamo stati capaci, noi reduci, di comprendere e di far comprendere la nostra esperienza? Ciò che comunemente intendiamo per “comprendere” coincide con “semplificare”: senza una profonda semplificazione, il mondo intorno a noi sarebbe un groviglio infinito e indefinito, che sfiderebbe la nostra capacità di orientarci e di decidere le nostre azioni. Siamo insomma costretti a ridurre il conoscibile a schema: a questo scopo tendono i mirabili strumenti che ci siamo costruiti nel corso dell’evoluzione e che sono specifici del genere umano, il linguaggio e il pensiero concettuale.33

Cosa significa il rientro per queste donne? La vicenda del Lager non si conclude con il rientro, poiché il ritrovare quel punto geografico in cui vivevano prima della Shoah (soltanto per Millu, tra l’altro) non placa il dolore, non aiuta comunque la comprensione di cosa sia avvenuto alle loro esistenze. Anzi, partendo dall’esperienza del Lager, tutta la propria vita precedente alla Shoah, composta dei luoghi come delle persone e delle speranze che esistevano prima di essa, viene scandagliata e rivisitata per quello che non potrà mai più essere. Millu e Bruck costituiscono il modello classico della testimone divenuta “reduce di mestiere” per necessità e per amore della scrittura.
Esistono, quindi, fondamentali distinzioni da fare tra i sia pure importantissimi scritti memoriali prodotti al rientro dal campo, fra il 1946 e il 1955, e la scrittura concentrazionaria di Millu e Bruck. La loro scrittura non avrà termine con un testo: proseguirà – come si è accennato in precedenza – durante tutto il tragitto esistenziale delle due autrici, componendo il raccordo ideale fra le scritture del campo e la meditazione letteraria del vissuto. A differenza delle sopravvissute che scrivono fondamentalmente per trasmettere memoria alla loro prole, di cui è paradigmatico l’esempio del memoriale di Giuliana Tedeschi in cui il desiderio di raccontare e liberarsi del peso del ricordo si intreccia all’impellenza di far sapere alle figlie – sia pure in modo obliquo – degli esperimenti medici a cui era stata sottoposta34, la testimonianza delle reduci Bruck e Millu assume, mediante la parola letteraria, la volontà di un lascito universale perché in parte svincolato dalla singolarità delle loro vicende. La loro scrittura s’investe e si fa carico, soprattutto per gli studenti nel caso dell’insegnante Millu ma anche per Bruck, di farsi guida in un viaggio negli inferi chiamato Shoah. Lo strumento linguistico non semplifica nelle spiegazioni ma articola ulteriori riflessioni sulla condizione delle donne soggette a mortificazioni incalcolabili. Un progetto di vita basato sulla parola.
L’efficacia della scrittura di Millu e di Bruck scaturisce da una capacità di resa espressiva che consente al linguaggio di elaborare il vissuto mediato dal loro pensiero concettuale, confutando l’altro silenzio, quello “inaudibile” a cui fa riferimento Lyotard. Millu e Bruck parlano tanto per se stesse quanto nel nome di coloro a cui la Shoah non ha concesso di ritrovare gli spazi dove avevano vissuto coi loro cari. Adottano il duplice ruolo di testimoni del fatto storico secondo la propria esperienza e di testimoni per i sommersi, inteso nel privato nel caso di Millu per lo struggente personaggio del cugino Marcolino, per la madre nel caso di Bruck35. Parlano non solo per chi non c’è più ma anche nella forse vana speranza che le nuove generazioni ascoltino l’inaudibile rumore bianco dell’orrore. La scrittura assicura la dignità in origine negata a chi è diventato fumo; costituisce uno strumento di autoaffermazione per Bruck e per Millu. Uno stato di grazia senza rinunce per se stesse come per gli altri verso i quali si sentono debitrici e che non mancano di ricordare nei loro testi.


Reduci di mestiere

“Reduci di mestiere” e “testimoni di professione”, Liana Millu e Edith Bruck oltrepassano con modalità diverse – ma egualmente complesse – la soglia del ricordo testimoniale per arrivare alla costruzione di alcuni tra i più drammatici scritti italiani ambientati sullo sfondo della Shoah. Al contrario di altre testimoni, le quali, dopo aver lasciato ai posteri dei memoriali, si sono orientate verso altre professioni, Millu e Bruck, rispettivamente tatuate col numero A5384 e A11152, hanno preferito la scrittura, il “dono della parola”. Sia pure offuscato dai dubbi di una sua effettiva terapeuticità36, il dono rimane comunque indispensabile alla loro stessa sopravvivenza.
Molte sono le similitudini fra le due autrici: entrambe reduci dai campi (sebbene Millu fosse stata deportata per motivi politici), entrambe soggette alla marcia del ritorno verso un cammino ignoto (soprattutto forse per la giovanissima Bruck), entrambe lavorano quasi esclusivamente intorno alla rielaborazione della loro esperienza, della Shoah, e per fornire un monito continuo ai giovani. Infine, entrambe assimilabili a dei rami secchi – usando un’espressione adottata per la propria condizione di donna senza prole da Giacoma Limentani – perché ultime rappresentanti delle loro rispettive famiglie. Le loro genealogie rimangono interrotte, lo strappo della Shoah non trova quindi nella loro fertilità offesa un punto di raccordo fisico da offrire alle generazioni future se non attraverso la scrittura. Tutto nelle loro attività di scrittrici ruota intorno al racconto e all’analisi dell’esperienza del campo, alla sopravvivenza – soprattutto psicologica – a questo, al rientro, o approdo, in un’Italia per cui provano sentimenti segnati da profonda ambivalenza. Non a caso, la sofferta “saggezza di Birkenau” è l’espressione con cui Millu succintamente definisce l’esperienza patita nei campi nel suo Tagebuch. Non meno fiduciosa di Liliana Millu nella capacità della propria testimonianza, sia pure pervasa da dubbi e psicosi che si traducono in veri e propri stati di malessere fisico, e pure, intimamente costretta a portarla sempre e comunque, risuona la voce di Edith Bruck, scrittrice i cui lavori, al contrario di quelli di Millu, godono di maggiore popolarità sia in Italia che all’estero37. Colpisce specialmente la diversità dell’approccio al ricordo e alla sua permanenza nel presente nell’opera di queste donne, per le quali il campo – dove arrivano in età diverse, dodicenne Bruck, giovane donna Millu – disegna un vero e proprio spazio mentale. Entro tale spazio si continua a elaborare, come su un tappeto infinito, la trama indelebile del loro tragitto esistenziale: la filiazione di Millu e di Bruck acquista fisicità e significato mediante la scrittura.
È proprio Bruck a concepire un’esatta similitudine fra la scrittura e la procreazione: la testimonianza viene assimilata a una «gravidanza infinita»38. Viene percepita come un indispensabile processo, grazie al quale, nel dolore, si poteva pensare di partorire «un mostro». Affermare la presenza di un mostro per eliminarlo, attuare la sua espulsione definitiva dal proprio corpo, diventa un esercizio infinito poiché è vietata la possibilità di liberarsi di quel mostro:

Tra me e me concludevo ogni volta che, nonostante la sofferenza, i crampi di pancia e di stomaco, era un bene insostituibile la mia testimonianza, il mio parlare di Auschwitz. Pensiero che invece di restare in un angolo e lasciarmi vivere la mia vita, mi occupava anche il corpo come una gravidanza infinita di un mostro che non potevo esorcizzare né con mille libri né con mille testimonianze, luogo del male per eccellenza che captava e assorbiva ogni altro male dell’universo, da padrone insaziabile di mali. Il contenitore, il parente più prossimo, padre e madre di ogni nefandezza umana.
E chi ha Auschwitz come inquilino devastatore dentro di sé, scrivendone e parlandone non lo partorirà mai, anzi lo alimenta. Ma come scacciare, liberare il proprio corpo da quel macigno?
Credevo, mi illudevo, che con ogni mio libro sarebbe uscito un pezzo del figlio-mostro concepito ad Auschwitz. Forse per questo non li ho mai amati, mai aperti dopo che avevano visto la luce, pur sperando che non restassero orfani, e trovassero dei genitori adottivi.39

La filiazione resta un processo in continuo definirsi, la sua fisicità espressa nella descrizione in un progetto di vita nel dolore, una “espulsione” voluta e pure impossibile, come sostiene Bruck. Afferma Giacoma Limentani che soltanto una donna può comprendere la verità che «certe offese ai visceri uccidono l’anima»40. Forse è per questa specificità biologica legata alla sessualità femminile che l’idea dell’offesa di Auschwitz si esemplifica in entrambe le autrici nell’immagine molto concreta (non l’atto procreativo dell’artista, ma un parto vero e proprio) di una gravidanza infinita che non accenna a interrompersi così come non accenna a smettere la memoria dell’offesa. Sia pure con valenze e suggestioni disuguali, questi rami secchi s’impegnano in una gestazione/elaborazione/labor senza fine. Un travaglio di proporzioni, appunto, infinite. Il discorso si metaforizza in un parto orale che potrebbe assicurare alle donne un relativo stato di serenità. Ma se questo parto linguistico non produce liberazione, questa deve allora giungere dalla cessazione di tali aborti terapeutici che a nulla servono, perché il “il figlio-mostro”, “il feto devastatore”, si riproduce in continuazione. Non si fa in tempo a dire di aver detto che si riprende a tentare di dire.
Quale può essere, allora, la soluzione che, se non salvifica – perché, Millu lo afferma varie volte, non è concesso credere nell’esercizio della speranza – possa restituirci una serenità utile a trascorrere i giorni che restano dopo Auschwitz? «Un’altra via d’uscita dalla cattiva eterna gravidanza, tenuta a bada con me­dicinali antinausea e antispastici, era la mia promessa mai mantenuta di abbandonare la testimonianza»41, scrive la protagonista di Signora Auschwitz. Apostrofata distrattamente “Signora Auschwitz” da una studentessa che in tali termini le si era rivolta durante uno dei tanti incontri scolastici a scopo commemorativo, la scrittrice non riuscirà mai a liberarsi «con ogni [suo] libro» di «un pezzo del figlio-mostro concepito ad Auschwitz»42. L’aspirazione a una testimonianza conclusiva, il raggiungimento dell’agognata elaborazione del lutto – giusta e plausibile – non si concretizza.
Le pubblicazioni di Millu e di Bruck procedono in direzione opposta. Il postumo Tagebuch: Diario del ritorno dal Lager viene consegnato alle stampe soltanto nel 2006, mentre Il fumo di Birkenau,il primo degli scritti di Millu a essere pubblicato dopo gli articoli sul Corriere del Popolo, comprende sei racconti per alcuni aspetti non fedeli alla realtà vissuta durante i mesi di prigionia. La loro è una connotazione principalmente letteraria in cui date e luoghi vengono sovvertiti se non addirittura taciuti. Il fumo di Birkenau fa risaltare l’immediatezza scabrosa della testimonianza intrisa del senso di disillusione e sconfitta provato durante il campo e il rientro in patria, un senso che acquisterà tinte più nette nella ricezione di Tagebuch.
Chi ti ama così, scritto in italiano fra il 1958 e il 1959, costituisce il testo meno letterario e più vicino all’interpretazione convenzionale della memorialistica sulla Shoah fra quelli pubblicati da Bruck. Forse per ragioni d’età (Bruck ha diciott’anni meno di Millu), forse per la conoscenza allora certamente diversa dell’italiano, l’urgenza di scrivere rende in questo diversi i loro percorsi. Per ragioni biografiche si invertono i procedimenti scrittori legati ai percorsi della memoria nell’opera delle due scrittrici.


Edith Bruck

Nascere per caso
nascere donna
nascere povera
nascere ebrea
è troppo
in una sola vita.43

Fra i topoi più frequenti dei lavori di Bruck – a partire da Chi ti ama così – figurano il campo, la detenzione, la sofferenza, il ricordo traumatico del periodo trascorso nel campo. Su tutti domina il senso dell’irrimediabilità della perdita: della madre, della propria innocenza e della propria patria. Emerge impellente il desiderio di un’attenzione partecipe dei suoi lettori nella continua interrogazione dei fatti, nella continua esegesi dell’orrore perché da questi risulta impossibile allontanarsi. Il tragitto verso il ritorno a una vita civile non si compie mai pienamente.
Un panorama del tutto diverso da quelli italiani fa da cornice alle prime pagine di Chi ti ama così. La cornice poveramente bucolica del mondo della piccola Ditke fa risaltare lo scarto fra le rappresentazioni della pura semplicità della vita in famiglia, del padre buono e giusto, amico degli zingari, della madre attenta ai propri compiti, e quelle della realtà terribile del campo condivisa con la sorella e dell’esistenza grama dopo la liberazione dai campi per una giovanissima donna irrimediabilmente segnata – già a tredici anni – dall’esperienza tragica del Lager. Il passaggio dal mondo bucolico della campagna ungherese all’universo del Lager esemplifica brutalmente le emozioni di una bimba costretta all’ingresso nel campo e, non meno difficile, l’esperienza della vita che l’attende dopo il Lager. Nel 1944 Bruck aveva appena dodici anni, e i ricordi del mondo come le appariva prima del campo alimentano le descrizioni di un’intensa e semplice feli­cità, quasi primitiva, con cui ha inizio il suo memoriale narrato in prima persona. Quelle che Bruck ci regala nel primo capitolo di Chi ti ama così sono immagini di una poverissima infanzia contadina, una vita regolata nel suo ritmo dalla ciclicità dei raccolti, rallegrata dall’arrivo del circo e dalla fiera del paese, dal profumo del pane della madre – alla quale è dedicato il memoriale – dagli ammonimenti e consigli elargiti dal padre della bimba, dalla presenza degli zingari considerati altri come loro dal regime militarista dell’ammiraglio Horty che, alleato di Hitler, contribuirà al processo di eliminazione dei diversi dal paese. Un paese così povero che persino i gendarmi, soldati umili, erano chiamati “eccellenza”. Pure, è la nostalgia a legarla per sempre al mondo ungherese di Tiszakarad. Sono brevi momenti descrittivi quelli che precedono i particolari dell’arresto e del viaggio verso il Lager nel 1944.

Sono nata in un piccolo villaggio ungherese tra la Ucraina e la Slovacchia, di giovedì notte, 3 maggio del 1932. Quel giorno pioveva, mi raccontò mia madre e disse che la pioggia porta male, ma a me piace ed è sempre piaciuta. Che piovesse di quella stagione era un caso, e anche la mia nascita perché mia madre non desiderava altri figli: erano già in troppi in quella casetta che stava crollando sotto il peso degli anni. Ma la gente più povera era più figli aveva, perché soltanto a letto ci si riparava dal freddo nei lunghi mesi invernali.44

In quel paese il padre faceva “il macellaio e commerciante”45 e il memoriale si sofferma sui ricordi della difficile situazione economica familiare. All’interno dello spazio sociale in cui vivono però il senso dell’onestà prescinde dal proprio status. Un senso di dignità personale spinge la bambina protagonista della storia a selezionare i vicini per i suoi furti dettati da pura fame, e non altro: «Mentre io crescevo la vita continuava con le solite liti, le solite preoccupazioni e quando vedevo che il mangiare mancava andavo a rubare uova e galline ai vicini. Ma solo ai ricchi perché ero troppo onesta per rubare ai vicini»46. Nella povertà del paese esistevano comunque distinzioni di classe che non mancano di essere sottolineate. Zingari ed ebrei nel mondo ungherese condividono lo status sociale:

I più poveri fra i poveri erano gli zingari, accampati vicino al bosco, con tanti figli nudi e affamati; vivevano di elemosine, alcuni andavano a costruire le case o le stalle, ma pochi davano loro lavoro o aiuto, e non li lasciavano neppure avvicinare alle proprie case. Erano odiati e vivevano in modo inumano. Mio padre portava spesso a casa uno zingaro che noi chiamavamo zio e a cui regalavamo qualche straccio, o qualche cosa da mangiare. Lui scherzava con noi, e diceva la verità quando affermava che gli zingari e gli ebrei sono tutti uguali, odiati da tutti e sempre vanno, vanno e non si fermano mai, non hanno un posto che gli appartenga.47

L’infanzia di ebrei poveri in Ungheria48, il diffuso e feroce antisemitismo di cui venivano fatti oggetto i membri della comunità ebraica non manca di essere delineato nel ricordo dell’autrice:

Quando andavamo al fiume a fare il bagno, molti uscivano dall’acqua dicendo che noi la sporcavamo. Il sabato i ragazzi correvano dietro ai vecchi che tornavano dalla sinagoga e tiravano loro la barba e sputavano loro addosso. I fascisti aumentavano. La nostra famiglia soffriva meno perché era la meno osservante. Solo la sera del venerdì mia madre accendeva la candele e, col fazzoletto bianco sulla testa, nascondeva il viso nella palma della mano come richiedeva la religione e pregava piangendo. Poi alzava la testa e chiedeva a Dio la nostra salvezza.49

Il secondo capitolo ospita le pagine più convenzionalmente testimoniali sulla deportazione avvenuta durante il Péssach del 1944. Vicina geograficamente al paese di Elie Wiesel, la bambina di Bruck è vicina a lui anche per età, solo due anni li dividono: Bruck ha dodici anni quando l’intera famiglia viene deportata. Costumi e usanze simili afferiscono anche a immagini contenute nel ricordo di entrambi gli autori. Come la Madame Schächter ricordata da Wiesel ne La notte, anche la madre di Bruck «sogna di aver visto bruciare gente, e diceva che sarebbe arrivato un periodo molto triste»50. La sera di quella particolare Pasqua trascorre come «una veglia funebre»51. La premonizione materna si rivela esatta. All’alba i gendarmi di Horty arrivano per portare via gli ebrei del paese. Il commiato dagli altri avviene senza parole, poiché vigeva la proibizione di toccare gli ebrei. Il raduno nella sinagoga, le preghiere, la nudità dei loro corpi esposti agli abusi dei gendarmi che «ficcarono i loro diti in tutti i buchi che una bestia può avere»52. La disumanizzazione ha inizio ancora prima del campo. La bimba non si sente più tale:
Rimanemmo tutta la notte nella Sinagoga. Mi guardai attorno e mi accorsi del mondo dove vivevo, e osservai quello che accadeva non più come una bambina. La mattina dopo, di buon’ora, ci portarono alla stazione. Facendoci attraversare tutto il paese ci davano calci e ci sputavano in faccia. Si divertivano, i nuovi signori. Era impressionante per me vedere come la gente cambia la pelle al pari dei serpenti e vomita veleno. La popolazione stava sulla porta di casa, molti piangevano. I poveri erano i più numerosi perché i ricchi non hanno molte lacrime. Osservavo quelle tristezze e ridevo nervosa. Alla stazione ci buttarono nei carri bestiame.53

Rimangono cinque settimane nel ghetto di Satoraljaujhely. Poi, il viaggio sino a un luogo sconosciuto:

Vidi strappare dalle braccia di mia cugina la sua piccola bambina e mi chiesi se questa era la fine. Non credevo che in questo e in quell’altro mondo potesse esistere un inferno simile. Dovemmo gettar via tutto quello che avevamo, e mentre camminavo vedevo giacere come fossero morti, giocattoli, bambole, fotografie. Le madri urlavano e non volevano lasciare i loro figli e i tedeschi bestemmiavano orrendamente.54

Giunge il momento della prima selezione, la madre a sinistra, la bimba buttata a destra da un soldato magnanimo il quale la salva spingendo la madre con un calcio del fucile lontano dalla figlia55. La consapevolezza della propria salvezza del tutto fortuita si trasforma nella colpa di aver abbandonato la madre che non rivedrà più56. La fatidica tappa della tosatura del capo decreta il battesimo del campo:

Ero come ubriaca, non riuscivo ad aggrapparmi col pensiero a nulla, e mi afferrarono e mi spogliarono. In un attimo mi trovai nuda, e calva sotto il rasoio di una donna in uniforme nera. Sentivo donne urlare in lingue per me incomprensibili ordini su ordini. Erano deportate polacche e slovacche, tutte ebree: i nostri capi. Dovevamo ubbidirle, non fare scenate, perché a loro volta erano sorvegliate dai tedeschi e sarebbero state punite se noi non eseguivamo quanto ci comandavano. Ci avvisarono di non dire che eravamo sorelle o parenti o minori di sedici anni o maggiori di quarantacinque perché ci avrebbero senz’altro divise. Intanto una donna robusta ci tagliava gli altri peli. E tutto con violenza: ci disinfettarono e ci diedero un vestito di stoffa ruvida grigia. Degli zoccoli, un numero. Da quel momento quel numero fu il nostro nome. Poi in fila, per cinque come al solito, e via. Il nome del luogo era Auschwitz.57

Dopo Auschwitz, campi di lavoro di Kaufering, di Landsberg e di Dachau dove vede i deportati uomini venir trattati peggio delle donne58. A Dachau osserva la morte di padre e figlia nell’abbraccio letale tra i fili dove correva l’alta tensione. Immagini, duole dirlo, drammaticamente consuete nei memoriali di queste donne, ma qui raccontate da una bimba che soltanto ora capisce l’entità di quel che ha visto. Dopo lunghi mesi a Dachau, ancora un altro campo, Christianstadt. Il baratto sessuale in questo campo diventa qualcosa di normale, persino accettato dalla protagonista. Il furto diventa normale, tutto diventa normale per la piccola. Importante è sopravvivere, come per la piccola Edith di Kapò, il film del 1960 di Gillo Pontecorvo59. Ultimo campo: Bergen-Belsen dove il suo lavoro «consisteva nel legare uno straccio intorno ai piedi dei morti e nel trascinarli fino al camion che li portava via»60. Per la bimba ora divenuta A11152, arrivare a tredici anni in quelle condizioni sembra una conquista insperata. Dal momento della liberazione con l’arrivo degli americani a Bergen-Belsen, avvenuta il 15 aprile 1945, dopo aver evitato la selezione di Mengele «approfittando di un attimo di distrazione»61, la sofferenza e il trauma per la perdita della madre di cui il pane, profumato e buono, diventa l’eterna metafora, non cesseranno mai.
Il percorso esistenziale di questa giovane, animata dalla giusta e umana volontà di dimenticare “l’odore del crematorio”62, si articola lungo la parte restante del libro. Una giovane che viene fraintesa nei suoi intenti persino da altri ebrei le cui parole non mancheranno di ferirla nel treno verso l’Ungheria. In compagnia di militari cattolici, la apostroferanno in malo modo additandola come una di quelle che «avevano dimenticato troppo in fretta»63. Ancora una volta la grottesca ironia della realtà scava il testo: fa pensare all’assenza di empatia che queste giovani subiscono dopo il campo, alla durezza del ritorno, alle parole di Beccaria Rolfi o di Paganini Mori. Il memoriale, al contrario di quanto asserisce Labbé rispetto all’elenco quasi canonico di tappe del racconto, non si ferma a quel momento. La deportazione non sembra costituire soltanto una drammatica parentesi nella vita della sopravvissuta: essa si definisce quale strumento interpretativo del difficile percorso intrapreso dalla bambina al termine della prigionia. A tredici anni, la piccola Ditke non ha più casa, non ha più genitori, tutti le chiedono se ha visto i loro cari. Non c’è risposta, «la vita era tanto difficile»64. La sofferenza morale non cesserà di affliggerla.
Del resto, deve lottare contro l’amnesia da cui sono afflitti i suoi compatrioti. Come nel caso dei fascisti italiani, anche gli ungheresi «[n]egavano di aver commesso le atrocità contro di noi, oppure dicevano che erano stati obbligati a farlo e che ora potevamo essere amici come prima»65. Il copione del diniego si riconferma inalterato anche per i fascisti ungheresi. Ancora più angoscioso il disconoscimento della sorella Leila, che dice alle sorelline Ditke e Eliz, «– Tu e tua sorella, tornando dalla Germania, mi avete tolto dieci anni di vita»66. Restare diventa impossibile. Dopo molteplici peregrinazioni che sembrano ricalcare i penosi soggiorni nei vari Lager, dopo l’umiliazione di un aborto a Praga grazie a un medico compiacente, dopo essere stata ferita dal cugino-fidanzato Tibi, Ditke approderà infine alla Terra Promessa. Considerata ormai la pecora nera della famiglia, non ha più nulla da perdere perché più nulla le rimane. La vita in Israele si ripropone come una babele di lingue nel campo di Pardes-Chana, e lei sente di non farne parte. La giovane ripensa all’ardore con cui sua madre le parlava della Terra Promessa:

Avevo tutto il tempo di pensare: qualunque cosa possa accadere, mi dicevo, oggi noi siamo qui a casa. È questa la terra di cui parlava mia madre, che un giorno avremmo visto e che io immaginavo come il Paradiso Terrestre. Certo non scorrevano più i fiumi di latte e di miele come nel racconto che mia madre ci faceva nelle lunghe sere d’inverno, ogni sabato, prima che si accendessero i lumi a petrolio e spuntasse la prima stella. Sperava che almeno i suoi figli potessero vivere là dove lei desiderava soltanto morire. Chi ci torna una volta, continuava mia madre, non può più lasciare Israele perché il suo cuore e la terra sono una cosa sola. Ora ricordavo quelle parole e mi chiedevo se veramente questa era la terra che non avrei lasciato mai più.67

Ma il kibbutz è per poco. Ditke non possiede la forza dei sabres, coloro che sono nati in Israele. Lei, come altri erano «[...] arrivati dai campi di concentramento sperando in una vita riparatrice dove ci fosse meno da lottare»68. Il campo è sempre. In seguito l’Italia diventa la sua patria d’adozione, come avverrà anche per Helga Schneider e per Helena Janeczek.
Oscillanti fra «il ritorno alla propria infanzia spezzata e la biografia di un presente d’impotenza e di sradicamento»69 si snodano i percorsi onto-epistemologici: parlare della Shoah fa male. La psicosomatizzazione della sofferenza morale le fa paragonare Auschwitz a una brutta e incompiuta gravidanza, e il suo ricordo si reincarna ogni volta nell’esistenza delle protagoniste di tutti i suoi testi. Se, rispetto a un effettivo autobiografismo, la scrittura di Edith Bruck ha subito variazioni periodiche da momenti di evidente coincidenza fra l’autrice e il personaggio narrante di Chi ti ama così, di Signora Auschwitz. Il dono della parola, di Lettera da Francoforte, di Lettera alla madre a quelli in cui la scrittura si trasforma grazie a un’utilizzazione più consueta delle strategie e tecniche romanzesche come Il silenzio degli amanti70, ciò nondimeno la propria condizione patologica si rispecchia in quella dei suoi personaggi fittizi: resta intatta nei romanzi di matrice non esclusivamente autobiografica, quali L’attrice e Nuda proprietà71.
Per Bruck la Shoah non equivale a un ricordo, bensì a una visione mostruosa che si è andata nel tempo metamorfosando in un tumore-prassi di vita e di scrittura. Parlare dell’evento, discuterne, farne risalire la complessità del proprio esistere, costituisce l’impellenza suprema, il tema imprescindibile del proprio scrivere, un’afflizione estrema e pure inevitabile. L’apparente senso d’inutilità di quella sofferenza – origine dei mali dell’autrice – si traduce nella grottesca situazione rappresentata in Lettera da Francoforte, testo in cui l’assurdità delle richieste fatte alla protagonista rivela come ai sopravvissuti si cerchi di sottrarre la dignità che la donna sente di meritare. Di quel dolore sordo e continuo si devono fornire – paradossalmente – prove incontestabili per poter ricevere dei (minimi) risarcimenti finanziari attraverso complicate burocrazie che richiedono all’anziana signora ungherese che vive a Roma ormai da anni un’assurda testimonianza e altrettanto assurde prove della sua sofferenza di ex-internata. L’epigrafe kafkiana, «La vera via passa su una corda, che non è tesa in alto, ma rasoterra. Sembra più fatta per far inciampare che per essere percorsa»72, diventa un’appropriata chiave di lettura per Lettera da Francoforte in quanto si riferisce all’assurdità burocratica che l’autrice deve sopportare a distanza di anni, una fatica sisifea, quasi vana, a cui la donna continua comunque a sottoporsi pur di mantenere la propria dignità di sopravvissuta. Contro i continui tentativi burocratici di sottrarle uno statuto ufficiale di sopravvissuta, la pensione – un dato tangibile perché nella società contemporanea qualunque emozione, quindi anche il dolore, è traducibile in danaro – equivale a una prova inconfutabile di quello che le è accaduto: la sottrazione di questa prova equivarrebbe a privarla del valore di un’intera esistenza determinata dalla sofferenza per la barbarie vissuta. Inciampi o impotenza, quindi, nel far valere i propri diritti di ex-internata, per ottenere una risposta definitiva alla propria “richiesta di risarcimento”73 per il Lager, per la perdita dei familiari equivarrebbero, ancora una volta, alla vittoria della burocrazia tedesca. La “corda” kafkiana non è tesa in alto ma rasenta la terra. È una corda che fa inciampare, diventa ossessiva, e il tentativo di saltarla a nulla può, perché, comunque, non si viene risarciti mai di nulla.
Nel caso della Lettera da Francoforte, i tentativi di ottenere il risarcimento/prova del proprio dolore articolano la patetica vicenda di una donna la quale, sessant’anni dopo il Lager, e perché la sua richiesta possa essere considerata valida, deve comprovare una “Documentary proof of the persecution suffered. Testimonies are not sufficient”74 (“Prova documentata della persecuzione subita. Le testimonianze non sono sufficienti”). Come può l’anziana signora “Vera Stein sposata Castelli”75 alias Edith Bruck trovare una “prova documentata” della propria sofferenza se non attraverso il proprio corpo e la propria scrittura, entrambi divenuti emblemi di essa? Come si può definire “insufficiente” la testimonianza di una sopravvissuta? Forse che la parola non basta ad accertare il fatto? La lettera sembra un altro tragico scherzo – di natura burocratica per cui il riferimento kafkiano si fa d’obbligo – organizzatole da un destino che continua a sentire avverso. Cosa spiegare e, soprattutto, cosa portare come prova inconfutabile della propria sofferenza? «“Il loro rifiuto – secondo l’opinione del fratello che ormai da tempo vive negli Stati Uniti – è come la negazione di quel vissuto. È per questo che hai ricominciato la lotta?”»76. La risposta, inutile dirlo, arriva affermativa dalla donna che ha ormai assorbito il dolore di un’intera gente. Come Sisifo però, lei deve continuare a ripetere le proprie spiegazioni, rielaborare l’esistenza delle “prove” della propria sofferenza. Non basta mai. E come Sisifo, lei continua.
Nel negarle il risarcimento quindi, in quella ovvia reticenza a sollevare «ogni dubbio sulla [sua] esperienza», il funzionario preposto al disbrigo della sua richiesta agisce come se le stesse sottraendo qualcosa dal suo «stato di sopravvissuta». Il funzionario ha il potere di renderla quello che la donna definisce «un’orfana anonima»77. La sofferenza allora è stata sopportata invano, rivelandosi un doppio scacco. E più secco giunge il rifiuto di cedere da parte della donna, la signora Vera Stein sposata Castelli, poiché di quello statuto è composta, inappellabile, la sua stessa identità. Il suo essere ebrea non risiede nei rituali, che «aprono in [lei] una voragine di dolore»78 e le giungono svuotati di quel conforto che, ad esempio, trova in loro Limentani (sia pure slegati dall’ortodossia ebraica), ma in quell’esperienza per cui ora le si richiedono “prove”. Una considerazione di carattere generale nasce da questa “lotta” fra la donna e la burocrazia kafkiana che, persino alle soglie del nuovo millennio, esige “prove” della sofferenza patita. Non richiede soltanto parole – “le testimonianze non sono sufficienti” – poiché la loro contraffazione non le rende facilmente verificabili: occorrono cose tangibili come ferite oppure cicatrici: il dolore si deve vedere sul corpo, deve essere inscritto nelle membra di chi ha sofferto. A questa assurda necessità di comprovare il dolore, Vera Stein si oppone:

La giustizia non dovrebbe mai costare ma semplicemente essere in certi casi un valore assoluto. La verità anche. I documenti autentici non possono passare per falsi e magari quelli falsi per veri. Non si può permettere che tutto sia possibile senza diventare complici di Tarshawsky e dei suoi simili.79

Nella lettera di risposta al kafkiano funzionario Tarshawsky la donna denuncia la propria condizione di testimone per coloro che «ci hanno affidato il loro messaggio al mondo; raccontate se sopravviverete, poi un nome, un luogo d’origine, uno Shema Israel»80. Bruck rivendica la propria identità nella testimonianza: sono quelle parole che lasciano sempre aperta quella ferita, che non può lasciare cicatrici perché questo vorrebbe dire che nell’individuo – sulla sua pelle – è intervenuto un processo di guarigione per cui il tessuto cutaneo ha penosamente colmato lo strappo. Eccetto per il numero di matricola, quel “A11152”, la ferita di Auschwitz non porta cicatrici, i lembi della voragine non si colmano. La ferita rimane eternamente visibile sul corpo sin dal giorno della scomparsa dei suoi genitori, sin dal giorno in cui Ditke ha lasciato il suo villaggio: non si richiuderà mai. Ultima, orribile ironia, alla fine si scoprirà che il famoso impiegato che le richiedeva tutte queste prove fosse in realtà un ebreo, tatuato esattamente come lei. Senza misericordia, Vera lo accomuna a uno dei kapò vendutosi ai nazisti, un «Caino sopravvissuto [... che] ha caineggiato sui deportati e caineggia sui sopravvissuti perché ha perso i suoi, perché è rimasto quel subumano a cui è stato ridotto, schiavo che non diventerà mai più un uomo ma un fantasma che danneggia i vivi»81. La zona grigia che i nazisti erano riusciti a perfezionare nel Lager approfittando di caratteristiche insite in alcuni individui, sconfina e va oltre il perimetro fisico e temporale in cui l’aveva tracciata Levi. La zona grigia continua nell’intervento di devastazione morale: si estende sino a questo Tarshawsky il quale, ancora a distanza di anni, si comporta in modo ignobile e strisciante. Un “Caino”, non esita a definirlo Vera Stein.
L’identità di sopravvissuta di Vera può essere pesante come il proprio cognome, Stein, una pietra in tedesco, ma resta comunque un’identità che si è conquistata lottando. Non si abbandona, così come, per quanto non riesca a darne un’esatta definizione, la reduce non rigetta la propria identità di ebrea su cui l’altra, inizialmente impostale, è venuta a sovrapporsi. Chi ha subito uno strappo a quella “corda”, chi ne ha perso il capo, non riesce a capire il perché se ne senta comunque ancora attirata:

L’essere ebrea, che comportava in sé un destino avverso, era un sentimento che sopportava perfino Auschwitz, non legato alla fede o ai precetti ma a qualcosa d’altro, di indefinibile. E se nelle scuole mi avessero chiesto in che cosa consisteva questo mio sentirmi ebrea – per fortuna non mi era mai capitato – probabilmente avrei balbettato di nuovo qualcosa di insoddisfacente, magari accennando alla cultura, al legame con un popolo o chissà...
Forse definirsi possono solo coloro che hanno i propri vivi e i propri morti sullo stesso luogo. Io quale tomba e dove avrei potuto pregare o portare i fiori? Sulla bocca del crematorio che aveva inghiottito mia madre e mio fratello? O in qualche campo coltivato e concimato con ciò che era rimasto di mio padre? Chi aveva perso anche la traccia dei propri morti era privato anche della terra che potesse dire sua.82

Delle molteplici vite, delle molteplici identità di cui è formato il soggetto, in Bruck risulta evidente l’assenza di un autentico senso di appartenenza e di condivisione sia al modello di vita conosciuto nei dodici anni precedenti ad Auschwitz, alla sua vita in Ungheria cioè, sia, del resto, rispetto a quella attuale a Roma. Tutti i segni culturali precedenti alla sua esperienza del campo sono stati cancellati, la rimozione della collettività di cui faceva parte prima è stata totale, l’integrazione e l’assimilazione in quella italiana assai complessa. Anche per lei, come per molti ashkenaziti costretti alla diaspora, si rende opportuna la domanda di Marienstras, di come cioè si possa provare «il piacere di vivere, la possibilità di identificarsi al progetto della comunità di accoglienza, se non in modo esteriore?»83 Se la specificità si stabilisce attraverso il gruppo a cui appartiene l’individuo, come sostiene Annette Wieviorka, come la si può allora stabilire nel caso di coloro che del gruppo non fanno più parte per motivi storici di eliminazione dello stesso contesto linguistico originario?84
L’elemento di forte distinzione fra Millu e Bruck consiste nell’appartenenza a una nazione, nel riconoscere di Millu (suo malgrado) l’appartenenza all’Italia e dover fare i conti anche con questo aspetto della propria identità. Bruck è ungherese, e nonostante il proprio dichiarato amore per l’Italia mai dirà di sentirsi italiana. La sua esistenza ormai consolidata in un ambiente di intellettuali di estrazione fondamentalmente borghese, Vera Stein alias Edith Bruck si sente comunque sempre poco autentica e poco assimilata dalla, e nella, città eterna:
In un tale stato d’animo, nella città eterna, vestita di luci e di colori natalizi, uno può anche saltellare per le strade affollate e ricche di offerte, cantare. E lo star bene non riguarda più le cose quotidiane reali ma qualcosa d’altro, di misterioso, che non si fa dare un nome, e anche se passa, lascia dietro di sé una sorta d’impronta, di unione della propria esistenza con il tutto.85

Come ogni profuga (non migrante), Bruck reca con sé la nozione di displaced. Quello di Bruck si rivela essere uno spiazzamento culturale e psicologico. In Millu affiora invece, e soprattutto negli ultimi testi congedati, il desiderio di esprimere la propria identità fondata su dei valori che superano sia la concezione di razza che quella di identità culturale. Millu, va detto, considera paradossalmente una fortuna quella di essere stata deportata, echeggiando le affermazioni di Elie Wiesel rispetto alla sua fierezza di essere stato coinvolto nella tragedia dell’Olocausto86, dramma in base al quale vengono misurate tutte le altre esperienze di vita. Al contrario della scrittrice italiana Millu, la quale aveva volontariamente e per vari motivi lasciato dietro di sé la propria famiglia87 e il proprio ebraismo molto prima della deportazione, Bruck manterrà perenne il lutto per la propria cultura e per la propria famiglia di cui la seguente poesia raccoglie l’insanabile dolore per la perdita:

Eravamo in otto
Due morirono piccoli
Uno l’hanno ucciso
Uno vende pantaloni a San Paolo
Uno gonne a Buenos Aires
Uno pane a Brooklyn
Uno combatte con i malati mentali
in un ospedale israeliano
una, dicono che non fa niente, scrive.88


Ritornare per scrivere, o la “scrittrice per necessità”:
Liana Millu, A 5384

Notre vie est un voyage dans l’hiver et dans
la nuit, nous cherchons notre passage – sous
le ciel où rien ne lui.89

Se Primo Levi rappresenta per Agamben il «cartografo di questa nuova terra ethica»90 che si è venuta concettualizzando dal momento del suo arresto, Millu ha contribuito in modo ingente a tracciare su quella stessa terra ethica il percorso di un suo possibile viaggio di ritorno verso “la normalità” dell’esistenza umana. Una tregua al femminile – si direbbe – forma il panorama intellettuale dei lavori di Millu, un panorama permeato dalla propria consapevolezza che le distinzioni recettive dell’evento sono attribuibili non soltanto a una diversa identità rispetto a quella, per esempio, del reduce Primo Levi, ma anche, e in parte, alla propria identità di donna, ebrea e italiana.
Oltre alla sua attività giornalistica, Millu ha sempre svolto l’attività di insegnante. Usa perciò al dialogo con gli studenti, non poteva concepire i professori come possibili persecutori – anche soltanto verbali – che attentano alla veridicità del suo racconto, un pericolo questo che Bruck teme e annota regolarmente nei suoi scritti. Se in tutti i suoi lavori autobiografici Bruck accusa dolori psicosomatici, Millu afferma sempre di godere di ottima salute, ironizza anzi sulla propria tbc. Il comune sentirsi al mondo per raccontare zakhòr sempre e comunque si divarica in due direzioni: al contrario di Bruck, Millu non si sente minacciata da un eventuale dubbio rispetto al suo essere vittima all’infinito della grottesca macchina burocratica che permise gli orrori del Nazismo. I toni di Liana Millu, sino alla pubblicazione postuma di Tagebuch. Il diario del ritorno dal Lager, non sconfinano mai nel visionario. L’elemento onirico lo si ritrova, di sogni l’autrice parla spesso ma non si può certo attribuire loro un carattere di visionarietà come nel caso dell’Ida della Storia morantiana. In un suo intervento, a una domanda di uno studente che le chiedeva cosa avrebbe potuto fare tornando indietro, pur di evitare di tornare nel Lager, Liana Millu spiega di non aver trovato altra risposta se non quella che non avrebbe fatto nulla per evitare tale esperienza che, non a caso, unisce alla sua attività di resistente:
Una, datata 1944, era il dovere civile di combattere la barbarie. L’altra risaliva ad Auschwitz: a costo di riprovarne le agonie, mai avrei voluto privarmi di esperienze supreme fatte laggiù. Tra queste, massima era stata il comportamento umano di fronte alla morte, tanto più che riguardo a questa, oltre all’esperienza diciamo così, collettiva, ne avevo una tutta mia, particolarissima.91

Perno centrale dell’investigazione di Millu negli scritti sul periodo vissuto nel campo sono i meccanismi legati al processo di disumanizzazione del deportato. In un universo, quello concentrazionario, che rovescia in modo macabro e perverso tutti i valori a cui si ispira la natura umana, sconvolgendone appositamente la capacità di discernere la differenza fra il bene e il male, il personaggio narrante osserva la scomposizione del sé dall’Altro da sé nelle donne che la circondano, ma prima ancora in se stessa. Interviene un processo di straniamento necessario alla sopravvivenza fisica oltre che spirituale. All’interno del campo l’altro da sé costituisce tutto quello che all’interno di sé non esiste più, rimosso per autodifesa e per volontà dei carnefici i quali, per una legge di sopravvivenza, non possono pensare agli internati come a degli individui bensì a dei numeri a cui ci si riferisce come a delle cose, appunto, dei pezzi. A questi l’umanità dev’essere negata perché questo è il modo per arrivare al grande obiettivo, sollecitando invece in loro le reazioni più basse e indegne della parola “uomo”. Oppure “donna”. Con grande lucidità e poca follia tutto ciò è stato possibile. È con grande lucidità che anche Millu utilizza il linguaggio e gli schemi concettuali appropriati per rilavorare la memoria del campo. In un’intervista concessa a Pier Vittorio Zannoni, Liana Millu, alla domanda «Ma non è importante la speranza?», risponde: «Sì e no. Nel lager io non avevo speranza, per niente. E questo mi ha aiutato. Non avevo, come altri, quel rovello quotidiano di immaginare la liberazione e il ritorno a casa, alla normalità. Ero sicura che non sarei mai uscita da quella fabbrica di morte. Ero rassegnata, dunque tranquilla»92.
Della produzione di Millu si è già accennato nel capitolo precedente. Occorre adesso distinguere il corpus milliano in opere di statuto diverso, dagli articoli sul Corriere del Popolo al Tagebuch pre-testimoniale e fortemente impressionistico che viene ricordato fugacemente anche ne I ponti di Schwerin93, dai sei racconti di Il fumo di Birkenau a quelli forse più propriamente testimoniali di La camicia di Josepha, infine Campo di betulle sino alle molte interviste e testimonianze. Dei primi articoli si è già analizzato il taglio asciutto che non consente divagazioni né pause ai lettori. Del Tagebuch si sono sottolineate alcune caratteristiche, una certa amarezza di cui poi i racconti del Fumo sono stati epurati. Dell’amarezza di Tagebuch è intriso anche un altro suo lavoro, forse l’esempio più autorevole della scrittura di Millu, il romanzo di matrice autobiografica I ponti di Schwerin.
La letteratura cosiddetta “del ritorno” corrisponde a un altro dei generi formatisi intorno alla Shoah. Essa trova nei testi di Liana Millu notevoli spunti atti a comprendere quanto difficile fosse in realtà il procedimento di sedimentazione del ricordo. In particolare, I ponti di Schwerin si propone quale esempio emblematico dell’incontro fra verità vissuta e decantazione estetica, delle scelte morali legate alla rappresentazione dell’evento vissuto che si collega invariabilmente, in ogni parte dell’opera di Millu e andando oltre essa, all’esperienza del campo. Come Primo Levi, che articolò in La tregua gli undici mesi del rientro alla vita in Italia visti come una pausa, un’interruzione temporanea fra quello che era stato Auschwitz e un mondo, quello della propria città, della propria esistenza, che ormai gli apparivano irrimediabilmente trasformati dagli eventi appena trascorsi, Millu affidò alla scrittura del romanzo I ponti di Schwerin (edito da Lalli nel 1978 e finalista al Campiello di quell’anno) i ricordi della sua tregua. Esso rimane a tutt’oggi uno degli esempi più illuminanti di una scrittura che sa mediare il dato autobiografico con quello romanzesco. Da entrambi gli elementi emerge fortissima la sensazione leviana di una degradazione post-lager da cui risulta arduo liberarsi perché, nel sistema infero di cui parlano Levi e Millu, le vittime non vengono mai santificate. A questa si aggiunge la componente, più squisitamente milliana, di una solitudine devastante, di una donna fuori da cardini di ogni sorta per quel tempo, per quell’Italia. Lo sfasamento acutissimo della protagonista di I ponti di Schwerin si deve attribuire a un coacervo di una e mille solitudini che, una volta per tutte, come chiaramente ci fa capire l’Elmina protagonista, bisogna accettare. L’agognata tregua non riguarda soltanto la pausa dal dolore del campo, ma anche una pausa esistenziale dal dolore della propria solitudine in tanta devastazione. Il campo è una parentesi ancora più desolante fra le solitudini ritratte negli altri capitoli che compongono la vita di Elmina.


Problemi di appartenenza di genere: I ponti di Schwerin

Nella sua introduzione a I ponti di Schwerin, Francesco De Nicola precisa che
il romanzo di Liana Millu non appartiene – come viene indicato erroneamente nella Bibliografia della deportazione nei campi nazisti, a cura di Teo Ducci [...] – alla memorialistica e solo a una frettolosa lettura può apparire una sorta di autobiografia romanzata, documento di una sconvolgente esperienza storica arricchito dai ricordi della protagonista Elmina, come potrebbe far supporre l’accenno al ritrovamento da parte sua di un diario dalle pagine ancora tutte bianche e di una primitiva matita (una scheggia di specchio) con la quale la reduce da Birkenau aveva cominciato a registrare le tappe del suo cammino verso la libertà.94

In effetti, la sommaria categorizzazione con la quale sono stati accorpati gli scritti dei sopravvissuti, risultato di una “frettolosa lettura” di alcuni testi, costituisce un impedimento a una loro più accurata catalogazione. L’inserimento dei diversi testi relativi alla Shoah in un corpus di genere, un esercizio tassonomico in cui situare i tipi di scrittura generati dalla memoria scritta dell’evento, costituisce un problema appunto per quel continuo oscillare della materia tra auto e fictio, dove l’inganno risiede nella frequente coincidenza fra le due. L’ambiguità deriva in massima parte da discrimini critici che, a posteriori, e proprio per via della complessità creata dalla fusione dell’elemento memoriale con quello più propriamente letterario che spesso denota questi testi, decretano la loro appartenenza in modo indiscriminato a un impreciso e vago genere testimoniale. Tale assimilazione si compie senza valutare appieno né il giustificato prevalere di momenti più nettamente documentari ed effettivamente autobiografici delle memorie, né la necessità estetica di una trasfigurazione narrativa che colmi alcuni vuoti, un’operazione che nel tempo diventa sempre più complessa.
L’accumulazione di leerstellen non si giustifica soltanto per via dei gap mnemonici da parte dei singoli individui e autori dei testi, quanto, a volte, per un’incerta volontà d’interrogazione e un comprensibile desiderio di rimozione. Esiste allora un altro tipo di trasfigurazione su un piano narrativo che ha intenti etici ed estetici su cui le autrici spostano la loro esperienza di vita: essa sceglie per sé uno statuto nettamente finzionale e creativo nel romanzo, nel racconto, oppure nella poesia. L’impianto creativo non presume infedeltà al vero: semmai lo commenta. L’elemento autobiografico95 sempre dichiarato, e mai rifiutato, dei memoriali composti al rientro dai campi permette al disegno, alla trama della storia personale, o “storia di vita” (utilizzando l’espressione degli storici orali), di riemergere nella sua unicità in un testo il cui impianto non si presenta più soltanto in quanto memoriale. Questo ha già subito tali trasformazioni che la sua inserzione deve avvenire in un altro genere di scrittura meno limitativa nel suo codice. Inoltre, mentre le testimonianze e le storie di vita vengono spesso sollecitate da domande poste da altri, e in genere si collocano in un momento cronologico che fissiamo a metà fra la produzione memorialistica trattata nel capitolo precedente e quella più vicina ai giorni nostri, il testo finzionale risponde alle necessità autoriali di una volontaria indagine del proprio vissuto, quindi spontanea e non richiesta. Questa scelta di genere di scrittura, una produzione ibrida che talvolta fatica a rientrare persino nella definizione di romanzo o di racconto, fa fede adesso di una maggiore consapevolezza e comprensione dell’io autoriale, coinvolto di nuovo nel suo stesso passato, pubblico e privato, foss’anche solo per evitare il rischio di manipolazione per il soggetto ricordante-scrivente, per evitare le scosse offensive di quelle correnti negazioniste e riduttive del cosiddetto revisionismo storico. La lettura della propria esistenza à rebours trova quindi spazio per rimemorazioni anche precedenti al campo e non soltanto a esso coincidenti.
I «mirabili strumenti [...] specifici del genere umano, il linguaggio e il pensiero concettuale» che secondo Levi servono a semplificare le cose, «a ridurre il conoscibile a schema»96, svelano la loro utilità nella prassi analitica legata all’entità dell’evento a cui si è partecipato contro la nostra stessa volontà. Se la novella nasconde sempre nel fondo il proprio intento geneticamente stabilito, quello di una certa didattica, dell’exemplum da fornire a chi la sta leggendo insieme a un insegnamento morale, il romanzo si fa partecipe per sua stessa genesi delle emozioni dei personaggi, empatizza con loro ed evidenzia per i lettori l’inimmaginabilità della situazione dell’orrore quotidiano senza dare lezioni né proporre soluzioni. La scrittura, qualunque sia il suo esito generico, manifesta comunque quello che la voce cessa di voler dire, manifesta quello che si cela dietro l’afasia. Da ciò deriva l’impianto etico che l’artista vuole consegnare al testo per i suoi lettori e per le sue lettrici. Al tempo stesso, per poter partecipare del racconto dell’autore, il testo letterario deve poter beneficiare della conoscenza dei fatti da parte dell’autore, il quale si fa storico di se stesso come del proprio viaggio di conoscenza. Il racconto si fonda quindi inevitabilmente sulla prospettiva storica di chi va raccontando questi fatti. Anzi, quel linguaggio e quel pensiero concettuale diventano ancora più necessari per «orientarci e decidere le nostre azioni»97 nell’iter obbligato della scrittura, cioè negli intenti consapevoli o meno di chi autorizza il testo, e grazie alla quale si pongono in prospettiva gli eventi più importanti del passato della nostra stessa esistenza precedente alla Shoah. Dalla memoria immediata dell’evento emerge, infatti – per taluni – anche il desiderio di compiere un proprio viaggio personale in termini etici ed estetici dell’evento. L’impatto di quest’ultimo non va misurato soltanto rispetto all’immediatezza delle conseguenze, ma anche rispetto a cosa costituiva l’esistenza dell’autore prima e dopo tale evento.
Barbara Foley teorizza l’esistenza di tre tipi di romanzo dell’Olocausto98: il romanzo realista, che tipicizza l’esperienza del privato; quello in cui forme espressive moderniste e mitologiche esprimono il senso d’irrealtà che accompagna il genocidio, e infine il romanzo “pseudofattuale” che utilizza la Storia quale strumento per raccontare una storia. Il romanzo storico, nel senso convenzionale dato a questo termine, rivela chiaramente la propria insufficienza99. Ma lo scrivere finzionale dell’Olocausto comporta una trasgressione anche rispetto al ruolo canonico dell’autore, al quale generalmente sono concesse creazioni del tutto personali rispetto ai fatti. Per Lawrence Langer, quindi, quando si parla della Holocaust fiction «si tende a chiudere e limitare la finzione, rinchiudendo il lettore entro un’area ancora più limitata di associazione dove la storia e l’arte stanno a guardia dei rispettivi territori, consapevoli degli abusi che possono compiere reciprocamente»100.
Il tragitto compiuto dai testi delle superstiti non segue un percorso lineare, quasi a testimoniare la consapevolezza delle difficoltà espressive di testi generati da un evento traumatico realmente accaduto agli autori, i cui toni non sono a volte lontani dal surreale come dall’onirico. Mentre la letteratura tende a universalizzare l’esperienza umana, la letteratura che loro possono offrire e comporre sulla Shoah insiste invece proprio sulla singolarità degli eventi che si cerca di raccontare. L’autrice è una testimone, e la duplicità del suo ruolo, in quanto artista e in quanto testimone, assolve di necessità sia all’atto creativo che a quello di restituzione di un evento realmente accaduto. La finzione dev’essere fattuale, a tutti i costi.
Una forte distanza temporale consentiva invece il processo di decantazione di quei ricordi, di quella testimonianza di cui Millu era stata così generosa sin dal suo rientro nel 1945.Come spesso accade in presenza di un evento storico a cui ha partecipato il protagonista e io narrante, il romanzo scandisce il proprio tempo fra l’anamnesi e la cronaca dettagliata del presente. Del resto, non potrebbe essere altrimenti. In mezzo esiste la profonda ruga, la spaccatura creata dal fatto, in cui si inseriscono frammenti di vita offerti ai lettori con grande amarezza e impassibilità. Nel racconto finzionale del rientro dei reduci nella vita civile ritorna puntuale il paragone con il tempo precedente alla partenza, e in cui il presente non riesce a ricucirsi al passato per via di quello “strappo” culturale ed esistenziale che ormai si è creato. L’isolamento è totale anche dopo il campo: «Ero sola e andavo al ponte di Schwerin perché italianka. Che venissi da un lager, mi sembrava chiaro»101.
Il senso del romanzo più potente di Millu può riassumersi in questa frase. Chi era questa donna che stava rientrando nel proprio paese? Cos’era rimasto della giovane insegnante elementare dalle ambizioni letterarie mentre compiva il passo faticoso del ritorno alla vita civile dopo Auschwitz? Quella settimana realmente impiegata a compiere la strada del rientro viene dilatata a dismisura nel tempo del racconto come metafora di un tempo interiore che, per ognuno di noi, segna le ore in modo diverso da quello che altri intendono. Quella settimana nel romanzo si espande sino a diventare quasi eterna. Eterna perché serve alla protagonista, Elmina, per esaminare a fronte alta l’ultimo ponte, quel metaforico collegamento da attraversare fra la vita di Auschwitz e quella a venire. La vita a venire: un’esistenza senza sogni, senza famiglia, senza alcuna speranza, abbandonata già nel Lager. E la donna, questo, lo sa bene. È in questo senso allora che Millu costruisce, secondo i criteri di Philippe Lejeune, un romanzo di matrice autobiografica e affida alla protagonista Elmina il compito di ripercorrere un passato che credeva ormai sepolto e che, invece, rivisita le esperienze più traumatiche registrate dall’autrice. La ricerca della giustizia e della libertà accompagnano la narratrice lungo tutto il percorso. L’io narrante del presente studia con attenzione il proprio passato sdoppiandosi nell’Elmina che era stata. Si nomina a un tempo sua «spettatrice, il giudice e l’erede»102.
Il viaggio in cui seguiamo Elmina dal suo spostamento da Malchow, ultimo campo di prigionia, sino a Schwerin, zona in cui la donna poteva finalmente consegnarsi agli alleati i quali avrebbero provveduto allo smistamento dei displaced, occupa nel racconto uno spazio testuale lunghissimo. Schwerin è un luogo che non dispone neppure di uno di quei ponti del titolo, giusto una passerella:

E, finalmente, lo vidi.
Non era quello bellissimo, di cui avevo sognato. Anzi, non si poteva nemmeno dire un ponte. Era una specie di passerella, la prosecuzione della strada al di sopra di un avvallamento di pochi metri, tutto sassoso e dove non scorreva nemmeno un filo d’acqua.
«È il ponte di Schwerin?» Chiesi, incredula, a un uomo che sedeva vicino.
E quello accennò di sì, con la testa.103

Dopo la fisicità estrema esperita nel Lager, a Schwerin non esiste nulla di realmente fisico da scavalcare per tornare al mondo di prima del Lager: il confine fra l’esistenza concentrazionaria e la vita civile è soltanto mentale. In fin dei conti, si tratta semplicemente «della prosecuzione della strada». Due sono gli spazi intercettati dal percorso esistenziale di Elmina nel duplice viaggio: quello reale verso il ponte di Schwerin, il primo ponte-che-non-c’è, e un altro ben più doloroso, per il cui approdo si rende necessaria una successione di momenti analettici che si alternano alle fasi del rientro dal Lager. Si scava a fondo e a ritroso nel tempo dell’esistenza. Elmina cerca un ponte, un punto d’arrivo che marchi fisicamente lo spazio fra il Lager e la vita a venire. Il ponte è per sua stessa natura un elemento di collegamento, di sostegno, di controllo di elementi, di perizia e intelligenza umana che devono bilanciare le forze della natura. Il ponte è un punto d’arrivo a cui però non si può giungere salvo la riabilitazione da noi stesse e dal nostro passato. Soltanto in questo modo Elmina, dotata come dice il nome stesso di un elmo da guerriera, giovane Atena indomita e pronta alla lotta per se stessa, può guardare al secondo ponte, lanciato verso il proprio destino al rientro in Italia. Un ponte che sarà, infatti, psicologico. Dopo aver vissuto nel campo, dove la lotta per la sopravvivenza fisica era necessaria, bisogna riabituarsi alla lotta quotidiana della vita civile.
Il romanzo si struttura in due narrazioni principali, contrapposte in un ritmo rapsodico. Come in un cross-cutting cinematografico, la loro alternanza costruisce la complessa storia di Elmina: quello che rappresenta per lei il momento del ritorno dal campo – nei capitoli convenzionalmente legati alla testimonianza – fa da contrappunto ai momenti traumatici anteriori al campo. Per capire l’insolubile mistero del proprio io si deve imparare a costruire su quei mattoni esistenziali, pesanti come il piombo. Bisogna sviluppare quello che Millu definisce “il complesso della carriola”: quella «reazione orgogliosa, cioè, alla violenza maligna che voleva vederci implorare grazie piangendo»104. Con orgoglio e con la saggezza conquistata nel campo s’intesse l’intreccio consentito dagli strumenti della letteratura fra i sofferti momenti del passato e quell’esperienza recentissima: questo romanzo esige pari impegno anche da noi lettrici e lettori perché tale filiazione acquisti un valore etico. Elmina è consapevole che, «per camminare regolarmente nella vita è necessaria la zavorra di un certo buon senso. Ma quando manca sembra di poter volare, anzi, si vola addirittura»105. La mancanza di buon senso consente a Elmina di riconoscere oggi il peso della propria impavida giovinezza senza per questo farsene una colpa. Tutt’altro. Un sentiero di conoscenza collega i due momenti per chi scrive e per i suoi lettori. Anche per Millu, come già per Bruck, l’esperienza di Auschwitz diventa una “infinita gravidanza”, ma a essa non si accompagnano le forme caratteristiche del dolore psicosomatizzato. Accenti di puro stoicismo scandiscono la rete di racconti, di concordanze esperienziali di cui parla Elmina in prima persona oppure la sua narratrice onnisciente in un originale sdoppiamento prospettico che valuta l’esistenza ereditata da questa donna a volte vittima di eventi. Lo sdoppiamento ha quindi luogo su vari livelli, non ultimo quello della voce narrante che ci consente di apprezzare il tentativo autoriale di porre un margine, una filiera di motivi fra sé e la propria protagonista. Con tale strategia, del resto già utilizzata per i racconti del Fumo, in cui l’autrice Millu non coincide con la protagonista delle narrazioni, si evita la presenza ingombrante di una narratrice troppo autoreferenziale spesso notata, invece, in altri scritti memoriali. Per un senso di logica sin troppo palese, un io troppo partecipe non potrebbe porsi quale giudice della protagonista, intento chiaro e rivelato in inizio di narrazione. Dopo un mondo disumanizzato dal Lager che stabilisce quell’aporia etica per cui Auschwitz diviene «[...]il luogo in cui non è decente restare decenti, in cui coloro che hanno creduto di conservare dignità e rispetto di sé provano vergogna rispetto a coloro che li hanno subito perduti»106, nasce in Elmina la speranza di un’empatia che si manifesti dopo il Lager, se non come vittima, almeno riguardo al proprio essere donna-individuo in questo mondo. È alla “mancanza del buon senso”, da intendersi come senso comune e passiva obbedienza a schemi e precetti di vita, che Elmina deve la sua emancipazione prima del Lager. Gli è debitrice per quel cammino irregolare che caratterizza la sua esistenza, prima e dopo il Lager. La speranza, uscendo dal Lager, è che qualcosa sia cambiato.
Lo spazio individuato dall’incipit è una fattoria nel Meclenburgo situata a poca strada da Malchow in direzione di Schwerin, in cui hanno trovato riparo la protagonista, Elmina, e la sua compagna di Lager più volte ricordata nei suoi racconti, la francese Jeannette. Nascoste nell’edificio in rovina attendono l’arrivo della Croce rossa annunciata loro da un altro francese, Gilbert. Quest’ultimo sceglie di ritornare in patria da solo, senza attendere in un campo con gli altri. Dopo la compagnia forzata nel Lager, unico desiderio per lui diventa quello di poter godere liberamente della propria solitudine. Non appena Elmina chiede degli italiani, di cosa accadrà loro, Gilbert attacca a parlare in un patois strettissimo con Jeannette. «Perché vi siete messi a parlare in patois? Che segreti c’erano? Ho sentito dire “macaroni”. Si può sapere perché ce l’ha tanto?»107 chiede Elmina all’amica Jeannette, che le risponde rovesciandole addosso i soliti luoghi comuni rispetto agli italiani traditori e voltafaccia: «Ce l’ha con voi perché ci siete saltati addosso prendendoci alle spalle. Lui perse la casa e dei parenti in un vostro bombardamento. E poi, te l’ho già raccontato, c’erano le colonne dei profughi per la strada e i vostri aerei si abbassavano e li mitragliavano. Proprio come al tiro al piccione!»108. Quel voi non necessita di commenti. Improvvisamente, penosamente, Elmina si rende conto che qualcosa si stava incrinando fra lei e la sorella del campo, quella con cui aveva condiviso tante esperienze e della quale si era già letto in Il fumo di Birkenau e in altri scritti. Dopo tanti mesi di sorellanza109, ecco il germe della discordia insediarsi fra loro due. Come si può a distanza di giorni, se non di ore, da una esperienza così dolorosamente accomunante com’è stata quella del Lager, accettare l’asprezza delle parole di Jeannette che, sostenendo la tesi del compatriota Gilbert, ferisce Elmina? Come ci si può definire umani se, appena liberati dalla tragedia, si rientra immediatamente all’interno del proprio particolare rivendicando torti subiti, quando quei lugubri camini stanno metaforicamente ancora fumando? Elmina è diventata sineddoche vivente per quel tutto che lei sente di rappresentare agli occhi di Jeannette e Gilbert: l’Italia vigliacca, l’Italia di Mussolini, l’Italia alleata di Hitler. Quell’Italia di cui, dopotutto, come ci rivela la lettura di Tagebuch, non va certo fiera neppure lei. Eppure, Elmina, la quale aveva sino allora vissuto in uno stato di torpore mentale giustificato dallo sconcertante momento della liberazione, reagisce alle accuse dei francesi tentando un’apologia del proprio paese. Racconta a Jeannette e a Gilbert episodi registrati in Italia prima della deportazione a Birkenau. In tale operazione, Elmina rinnova il proprio ruolo di testimone contro ciò che di ingiusto esiste nel mondo, in questo caso a proposito di quel che era avvenuto in Italia prima del Lager. Una questione di giustizia, si potrebbe dire, la porta a difendere i propri connazionali, a mostrare il lato buono degli italiani “macaroni” ai due francesi. Per difenderli, Elmina reitera l’opinione prevalente in quel periodo nel paese. Il razzismo non faceva parte della costruzione identitaria italiana. Responsabile di tutto è il fascismo che aveva plagiato l’opinione degli italiani con un’attenta «campagna di stampa»110 e la propaganda che aveva contribuito a «esortare, erudire la gente a odiare il nemico»111. Dona loro, in breve, la vulgata secondo la quale l’Italia è composta da brave persone strumentalizzate dagli organi di stampa fascista, lasciate all’oscuro delle macchinazioni politiche e coinvolte loro malgrado in una guerra xenofoba e contro il nemico francese, inglese, americano, sovietico. Al tempo stesso, e più legato alla costruzione del personaggio Elmina, se la giovane costituisce agli occhi dei due francesi la sineddoche dell’Italia contemporanea, tentando di scagionare l’Italia lei vuole in qualche misura liberare se stessa dalle accuse patite nel campo in quanto lei stessa – deportata ebrea – una macaroni. L’apologia contro gli stereotipi e il senso comune dei francesi riguarda anche lei e il suo passato: «Ad ogni modo fu sotto il ciliegio e in seguito alla scortesia di quel Gilbert che cominciai a vedere l’Elmina che ero stata, che il tempo aveva dissolta e di cui ero contemporaneamente la spettatrice, il giudice e l’erede»112.
Al contrario della Liana dichiaratamente autobiografica del Tagebuch, lavoro postumo in cui l’autrice avanza accuse specifiche contro il proprio paese, contro l’indecisione italiana che aveva fatto precipitare le cose tollerando le leggi razziali e l’intervento in guerra, il personaggio romanzesco di Elmina de I ponti di Schwerin difende ancora, sebbene lei stessa afflitta da forte scetticismo, il proprio paese. Elmina sente agire nei propri confronti l’esercizio di una giustizia non assoluta ma contingente e faziosa da parte di Gilbert, la mancanza di quella “giustizia assoluta” di cui parla Bruck113. Le brucia sentirsi “giudicata colpevole” da chi nulla sapeva della situazione italiana all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre, allo scoppio della guerra civile. Un atto ingiusto la riporta indietro nel tempo, al momento del suo arresto. Un atto ingiusto, le accuse di Gilbert, la riportano a un altro atto ingiusto da lei sopportato, secondo un ritmo determinato dalla memoria involontaria che sa comunque collegare con scientificità un trauma all’altro, un’ingiustizia all’altra. In questa particolare circostanza non si tratta per Elmina di quella Entwürding di cui parla Levi114, di quella dignità offesa diventata degradazione nel campo. Gilbert non ha comunque il diritto, la jus, di parlarle così. Non sa nulla di quello che era l’Italia, della realtà degli ebrei, della realtà di Elmina prima del campo.
Le sequenze alternate rivelano la propria efficienza strutturale chiarendo i tempi su cui poggia il meccanismo anamnestico innescato dall’autrice. Non è un accavallarsi confuso di traumi e ingiustizie. Tutt’altro. I suoi intenti diventano trasparenti. Auschwitz è sempre. Anamnesi, racconto del presente, tutto è Auschwitz. Da quell’ingiustizia verbale subita da Gilbert, inaspettata e quindi forse ancora più dolorosa degli abusi verbali e fisici del campo; da quella segregazione subita come appartenente a un paese come l’Italia che, in quella specifica congiuntura storica, non poteva vantare alcun atto morale in positivo se non mediante i racconti di generosità singola e della Resistenza. Da questo coacervo di motivi nasce in Elmina il ricordo più importante, il suo peccato originale, quello di essere “giudea”: «Mi avevano dato la caccia e ingabbiata in lager affermando che non ero italiana. Inquinavo l’Italia con la mia presenza: questa era una colpa da punire con Birkenau e le sue agonie. E ora?»115
È a fronte delle accuse di Gilbert che interviene, ora, il ripensamento della giovane, che si sente doppiamente discriminata e ingiustamente punita. Italiana, le avevano sottratto la cittadinanza italiana in quanto ebrea, italiana, mandata al campo perché ebrea, e adesso, al rientro dal Lager, accusata dal francese perché italiana e quindi sostenitrice del Nazismo insieme a tutti gli altri italiani. Colpevole perché ebrea, colpevole perché italiana. Colpevole sempre. Reati che le vengono indifferentemente attribuiti da un sapere comune, da una “campagna di stampa” in Italia che esorta all’odio, infine per quell’essere ebrei che già di per sé, come scrive Bruck, «comporta un destino avverso». Interviene, ora, in quella fattoria isolata, il pregiudizio: gli italiani hanno comunque favorito quella campagna che lei attribuisce allo straniero, al tedesco che le ha imposto Birkenau. Impegnata in un contraddittorio con se stessa, dura e inflessibile, Elmina passa in rassegna pregiudizi e luoghi comuni legati alla società italiana di cui avverte il peso nella propria solitudine morale:

Birkenau era a distanza di una settimana e, a quanto sembrava, cominciavano a farmi pesare le colpe commesse dagli stessi che mi avevano condannata. C’era giustizia, in questo? C’era logica? Per tutta la vita avrei dovuto essere oppressa da cose in cui non mi riconoscevo? E di cui, spietatamente, mi facevano responsabile? “Tu italiano kapitalist! Guerra finita, tutti kaput!” Minacciavano i russi di Birkenau facendo con la mano il gesto di un coltello che taglia la gola. In Italia, dicevano che tutti gli ebrei erano ricconi. Se i soldi non facevano scena era perché – furbi matricolati! – preferivano tenerseli nascosti. Questa era la voce popolare; la propaganda di regime, poi, aveva coniato “demoplutogiudaico” e lo adoperava di continuo. Sporchi capitalisti sfruttatori: ecco quello che erano gli ebrei!116

Non a caso Elmina parla di una voce popolare, di un sentire comune gonfio di risentimento verso gli ebrei, verso coloro che da secoli praticavano l’usura e delle cui nascoste ricchezze sempre si favoleggiava. Ma per Elmina la ricchezza costituiva un concetto astratto che di certo non si attagliava alla sua esistenza di piccolo-borghese, cronicamente povera in quanto aveva scelto di fare la maestrina e affrancarsi economicamente oltre che socialmente dalla propria famiglia. Se applicato alla sua esistenza, il concetto di ricchezza equivale all’ingiustizia di un’etichetta razziale da lei percepita come un peso e non altro, e che lei, d’altronde, aveva da tempo abiurato per essere libera d’intraprendere quel suo eccentrico cammino esistenziale. Stereotipi da sconfessare, pregiudizi rivelatisi pericolosi, credenze bieche diventano gli obiettivi della lotta contro l’ipocrisia tutta piccolo-borghesee che Elmina vuole sconfessare sin da ragazza. Elmina è un’italiana che vuole sentirsi libera da qualunque costrizione e limitazione alla propria personalità:

A immaginarmi capitalista mi veniva da ridere e non ero nemmeno convinta di essere giudea. Ero per la libertà, appassionatamente, perciò mi pareva che non bastasse nascere in famiglia ebrea per essere ebrei. Bisognava, prima di tutto, sentirsi circoncisi nell’anima. Non amavo i supervisori divini; di conseguenza, sia il Cristo, sia il Dio d’Israele erano fuori della mia orbita. Le chiese, tutte le chiese, solo quelle mi piacevano. Una moschea, per esempio; che intimo, fresco senso di raccoglimento doveva poter donare! Atea, ero ecumenica senza saperlo.
Il lungo suono rauco, dello “shofar”, quel suono che il giorno del kippur giunge agli orecchi traversando migliaia di anni, era affascinante come il tremolio delle candele accese davanti a un altare, le litanie del mese di maggio. Ma essere ebrei sembrava significasse essere diversi ed essere diversi fa soffrire. Quando mi ero imposta questa sofferenza?117

Essere “circoncisi nell’anima” equivale a rientrare nelle limitazioni stesse imposte dagli ebrei e dalla società agli ebrei. Di fronte all’ingiustizia di Gilbert verso di lei, scatta subito dopo la liberazione dal Lager il ricordo del proprio coraggio a non “circoncidersi” mentalmente, a tentare la propria strada, prima della disumanizzazione del campo. Più di tutto Elmina non ama il senso della propria diversità se a essa si attribuiscono qualità negative quali l’imperfezione.
Elmina procede verso la liberazione avanzando alla volta di quel fantomatico ponte di Schwerin dove spera di rinascere a una vita migliore: deve trovare energie per questa seconda nascita. Ancora e sempre alla ricerca della propria indipendenza, dell’emancipazione del proprio essere dai recinti del senso comune, e per non restare oppressa «da cose in cui non [si] riconoscev[a]», Elmina ripercorre un sentiero esperienziale composto da una serie di infinita di ingiustizie risoltesi in traumi, vale a dire in offese, nel senso dell’etimo greco. Ingiustizie subite durante l’infanzia, prima fra tutte l’esonero dalla preghiera, esonero per lei incomprensibile, che la distingueva dalle altre bambine di quella scuola che lei tanto amava, un ricordo questo assai comune nelle memorie di molti ebrei italiani118. Elmina si domanda infatti se risale a quel giorno, a quel momento, la ragione del proprio agnosticismo, freudianamente collegato a quel trauma vissuto sui banchi di scuola. Essere judim non era omologante, tutt’altro. Non poter recitare la preghiera insieme con le sue compagne di classe significava la diversità, poiché l’esenzione dall’ora di religione nulla faceva se non ratificarla ufficialmente quale diversa, altra dalle sue compagne. Persino adesso Elmina avverte l’assenza di un’identità precisa che intervenga a rassicurarla. Essere ebrei poveri in un paese che credeva gli ebrei tutti ricchi e tutti usurai non ha senso. Appartenente a un milieu assai distante dalla facoltosa borghesia ebraica triestina, ferrarese, oppure a quella torinese, folta di professionisti affermati, Millu si ribella al pregiudizio riguardante lo stato sociale degli ebrei italiani che, più o meno indirettamente, aveva, infatti, attirato non poco risentimento da parte dei gentili disinformati, e più soggetti a pressioni di tipo religioso in un paese largamente cattolico, sulla reale situazione degli ebrei italiani. Non tutti gli ebrei erano ricchi e nascondevano le loro ricchezze. Non tutti gli ebrei erano capitalisti. Certamente non l’Elmina di Millu.
Nella lenta acquisizione della propria identità macchiata dal pregiudizio accusatorio, la morte appare così vicina da reificarsi nel romanzo nell’immagine del corpo del morto prima percepito dai sensi, e poi effettivamente trovato, nella cantina della fattoria abbandonata. Il cadavere emana un odore fetido, di carne in decomposizione, diverso dall’odore che esalava dai camini dei forni del campo della morte; è più forte perché incongruente con la situazione di presunta libertà in cui Elmina stenta ora a ritrovarsi. Il cadavere, lungi dal farci pensare a una provvidenza munifica che ripaga del dolore vissuto, è una vittima arbitraria dell’orrore. Nel romanzo la sua presenza si giustifica perché quel corpo in decomposizione catalizza le memorie di ingiustizia. Nella cantina della fattoria dove si sono rifugiate Elmina e Jeannette, sulla via per l’agognato ponte di Schwerin, si trova infatti il cadavere di un uomo, morto ormai da giorni. Elmina lo identifica con quell’uomo fuggevolmente intravvisto alla finestra. È il potere della morte che si fissa inespugnabile sulle abilità stesse di raccontare espresse da chi, in questo stesso momento, vuole parlare.
Nella composizione di un discorso autobiografico e insieme storico, la morte sarà sempre presente e avrà la fisionomia di quel cadavere. Nel caso di Elmina, geograficamente trafitta nella propria immobilità psicologica, incapace di spostarsi da quella fattoria isolata, in rovina, con dentro una carcassa umana, i morti vivranno per sempre con lei. Tracciare il proprio passato, costruire la propria storia dopo il Lager diventa una sorta di mediazione fra il mondo dei morti e se stessa:

Tutte le storie di apparizioni e di fantasmi che nella mia infanzia mi aveva raccontato la ragazza Leontina mi tornavano alla mente; specialmente quella che, secondo lei, aveva segnato la mia nascita e stava all’origine delle mie disgrazie. Per tutti gli anni che Leontina rimase a servizio in casa (e anche dopo) me la raccontò nei più minuti particolari, finché mi parve di avervi preso parte come adulta e non come neonata. [...] «Cominciasti male», doveva ripetermi Leontina per tutti gli anni della sua lunga vita. «Cominciasti male perché quella notte mi apparve il povero Giacomo. Senza contare che tuo padre, tuo nonno e specialmente tua zia Nella volevano il maschio e perciò ci rimasero male e non ti fecero festa».119

La doppia struttura legata alla morte, di cui parla Blanchot in L’instant de ma mort, fa spicco nel ricordo di Elmina. Personale e impersonale nello stesso tempo, la morte è inesorabile nella sua presenza, è immanente a qualunque vita. Si comincia a morire dalla nostra nascita. Nasce sotto una cattiva stella Elma Michela Misdrachim: il sogno di Leontina sul fratello morto in guerra, pieno di sangue che invoca ad alta voce il suo nome. Il perturbante, quell’aspetto della realtà che si stenta a comprendere, prende forma in quella sagoma nascosta in cantina di cui si discerne soltanto l’insopportabile fetore. Lo strano, lo sconosciuto, l’imprevisto di quello che comporrà la sua esistenza prendono forma nel romanzo in quella sagoma nascosta sotto una coperta. Il perturbante di quel corpo, commisto allo straniante senso del trovarsi in quella fattoria-isola nella campagna tedesca, indica l’importanza di questo spazio che non intercetta ancora l’Italia di Elmina ma non è più nemmeno il campo. L’edificio diroccato assume i rilievi topici di un’isola-terra franca, lontana dal resto del mondo, che, nel romanzo, equivale al limbo in cui vive per breve tempo la protagonista prima di riprendere l’esistenza civile interrotta da Auschwitz. Straniarsi vuol dire accettare la presenza del perturbante che si manifesta in quella fattoria. L’atmosfera legata all’ansia per lo sconosciuto fa risaltare il repentino sconfinamento della soglia del reale, che adesso si rivela come uno spazio privo di una chiara definizione: esso ha acquistato toni vagamente surreali, ha sconfinato nel riconoscimento da parte di Elmina di quelle che sono le particolarità legate alla propria esistenza di donna, definita in quanto tale: in quanto non nata uomo, altra già dalla nascita. Una diversità che la marca e definisce prima dell’ebraismo.
Il realismo da cui il romanzo risulta indubbiamente segnato non contravviene alle regole del perturbante ma le interpreta secondo una soggettività mutata, quella di una donna120 la quale si trova di fronte un oggetto reale, fisico quale può essere un cadavere, un corpo estraneo che preclude qualunque possibilità di salvezza futura dall’incubo che lei ha vissuto. Il perturbante riemerso dal sogno di Leontina, affollato dei sentimenti suscitati dall’apparizione del fratello morto in guerra e commisti al disappunto familiare per la nascita di una femmina, ingenera il perturbante dell’esistenza stessa di Elmina in quanto donna, ebrea, indipendente e agnostica. Mentre – in generale – le donne ebree si occupavano dei vari precetti riguardanti il mantenimento della casa e dei figli, adattandosi quasi completamente al prevalente modello borghese che divideva chiaramente le responsabilità familiari assegnando il fabbisogno economico all’uomo e il benessere e la formazione psicologica e spirituale alla donna, non si dà per Elmina tale confortante chiarezza sul sistema di vita. Né lei sembra volerlo. La sua alterità precede il campo, e l’ha costretta al campo. Trovarsi nella fattoria in compagnia di Gilbert e Jeannette, i cui commenti ingenerosi turbano profondamente il senso personale e inappellabile di giustizia di Elmina, turba la giovane come e quanto percepire e poi vedere il corpo di un uomo in decomposizione.


La madre

Trasgressiva ed eccentrica appare la prospettiva di Elmina rispetto alla figura materna la quale risulta, in effetti, assente dal sistema – sia pure lacunoso – dei personaggi che intervengono nella struttura del romanzo secondo le costrizioni prodotte dal sistema sincopato dell’alternanza dei vari episodi rimemorati. L’assenza – che non è una mancanza – della madre dal romanzo distingue l’opera di Millu dai lavori di Edith Bruck. In questi ultimi la nostalgia per la madre costruisce tematicamente i testi a tal punto da inquadrare il problema di un’adolescenza mai vissuta per via dell’esperienza del Lager ma anche per via di quella mancanza, per quel vuoto, per quello strappo lacerante fra la giovane e la madre, la cui perenne metafora diventa quel pane dal sapore così buono che Bruck non dimenticherà mai. È come se nelle opere di Bruck esistesse un’aureola, un contorno di luce soprannaturale che circonda il vuoto innaturale creatosi nel momento in cui la madre è caduta vittima dei nazisti. Per lei esiste uno spazio fisico ben definito testualmente oppure paratestualmente tramite dediche, come in Chi ti ama così, con cui Bruck ricorda sempre la madre.
La giovane Elmina di Millu è eccentrica anche nel rapporto che intrattiene con la madre: meglio, nel rapporto che sembra non avere mai avuto, poiché nei suoi racconti non percepiamo uno spiccato attaccamento materno né, del resto, un rapporto antagonistico nei suoi confronti. Nel romanzo la figura materna non compare né morta né presente seppur in modo problematico. Assenza significa non-presenza della madre, mentre la mancanza espressa da Bruck indica la passata presenza e relazione con lei. Dei vari possibili rapporti fra madre e figlia, Elmina non descrive nulla. Semplicemente, dal momento, necessario ai fini del racconto, della nascita della bambina sotto una cattiva stella – momento in cui la donna soddisfa le esigenze riproduttive imposte dalla società, dalla costruzione di genere che vuole tutte le donne mogli e madri, dalla cultura ebraica che vuole la donna quale roccaforte della fede e delle regole di vita – non la si incontra più. Dal momento sacro del taglio del cordone ombelicale, la madre di Elmina scompare dall’esistenza della figlia per non ricomparirvi più. È così, in parte, che Millu stabilisce tali coordinate di lettura per la protagonista. Libera in tutto, anche di sbagliare se è il caso. Senza modelli di riferimento, senza trasferimento di Dna che le assicuri la tradizione e tramandi matrilinearmente gli usi della casa judim. Elmina sosteneva che non era indispensabile «nascere in famiglia ebrea per essere ebrei»121. O forse bisogna capire che «rimanere ebrei, in fondo, sarà una questione vitale, di sangue, e non di mere ibridazioni di identità»122.
L’immagine del morto sconosciuto diventa per Elmina occasione e stimolo a continuare un proprio percorso di analisi e ricerca sul proprio passato. Le sue esperienze formative, anche in negativo, compongono l’episteme a cui si ascrive l’intero progetto di scrittura, esperienza come unico modo per conquistare consapevolezza di sé, per costruire la propria storia e conoscersi. L’eroina di un romanzo come questo, modulato sul registro del perturbante, concepisce finalmente la pienezza dei propri poteri, diventa capace di vivere il proprio destino e i propri desideri123. Per Elmina, anzi, il perturbante diventa chiave di lettura essenziale per il futuro, poiché senza consapevolezza del sé non potrebbe proseguire nella completa solitudine che è la propria esistenza dopo il Lager, una solitudine da interpretarsi quale monito-chiave di lettura anche per gli eventi passati.
I mostri del Lager erano sin troppo evidenti, ma la pulsione a vivere lo era altrettanto, non dandole tempo né energia per scrutare a fondo le cose in quei momenti. Ma l’incubo, come lo definisce Primo Levi in un’intervista124, va raccontato. La summa dell’orrore e dello sconosciuto si ripone di necessità allora in quella sagoma nella cantina che si è fatta allegoria dell’incubo leviano. Di cui, forse, è relativamente meno complesso raccontare. Come in vari romanzi sulla Shoah, quindi non stupisca l’assenza di quell’ordine cronologico che si trova nelle testimonianze, emblematica ne sia quella di Luciana Nissim. L’ordine di Elmina segue un percorso anamnestico, quello dettato dalla reminiscenza di traumi prima e dopo la Shoah. Gli accadimenti del Lager non si archiviano in quanto fatti storici, ma continuano a essere vissuti insieme ad altri avvenuti in cosiddetti tempi civili. «[...] L’addestramento dei lager rendeva indifferenti alla morte. Talvolta alla propria, sempre a quella altrui. Cos’era un morto? Una cosa. Una cosa dura: un pezzo di legno, una pietra»125. Pure, le due giovani sono incapaci di lasciare la fattoria per ancora un poco di tempo, quel tanto sufficiente a far sì che la loro amicizia si dissolva come la neve al sole, forse perché «ognuna personificava nell’altra il ricordo di tutte le umiliazioni e le pene passate», e quindi «impossibile era sentirci libere finché si continuava a vederci»126. La morte le lega ancora, e per sempre, al campo, così come la loro reciproca presenza fisica significa ancora, e per sempre, il campo. L’odore del morto, nonostante la crudezza delle parole di Elmina, induce alla paura, la separazione da Jeanette indica disorientamento: «Non sapevo dov’ero»127.


Una maestrina

La discriminazione più ridicola e offensiva, il groviglio di odi in virtù dell’appartenenza a un popolo e non a un altro, l’essere donna in tanta miseria morale non fanno altro che acuire il disorientamento psicologico della protagonista, spettatrice, giudice, ed erede di se stessa in tanta devastazione. Il discrimine, operare il discrimine in tutte le vicende legate alla propria esistenza, diventa il nodo focale dell’intero romanzo. Una vita dura e piena di faticose conquiste quella condotta da Elmina. Eppure, non ha ceduto né alle paure né al senso di colpa del sopravvissuto. Elmina era divenuta maestra elementare in parte per emanciparsi dalla soffocante famiglia judim. Lascia la famiglia chiusissima, dove persino la zia Nella, ragioniera, non le dà appoggio, e va a vivere per conto proprio accettando un posto di maestra in un paesino, Montolivo, vicino a Volterra. La discriminazione nei suoi confronti, considerata una giovane troppo libera, continua e la si legge nello sguardo del giovane Vito di Montolivo, un soldato che Elmina incontra sulla strada del ritorno in Italia. Elmina era ancora, e forse persino dopo Auschwitz,

La ragazza più chiacchierata della cittadina: una insegnante che andasse a ballare senza ... compagnia non l’avevano mai vista. E poi ... così giovane e abitare da sola, in quella scuola isolata tra gli olivi. E le partenze? Ogni quindici giorni, tutti potevano vederla avviarsi regolarmente alla stazione. Si erano informati: con la famiglia era in rotta. E allora...128

Discriminazione: le leggi razziali avevano provveduto a eliminare questa incongrua figura femminile, “la maestrina di Montolivo”, la “maestra giudea” era stata allontanata dal paese129. Dopo le leggi razziali si poneva l’interrogativo di dove andare. Discriminazione sempre, anche questo per Elmina diventa una legge di vita. Prima del ritorno dal Lager, esisteva il problema di dove andare all’indomani dell’emanazione delle leggi razziali, dopo il primo censimento degli ebrei, poi continuamente aggiornato, che apriva un reale e inconfondibile solco fra italiani e italiani senza tentativi ipocriti di nascondere un profondo antisemitismo di stampo cattolico130:

Tornare a casa? Che proposta insensata! Consegnarsi, mani e piedi legati, per una morte lenta? Oltraggiare il cadavere delle sue speranze? Non poteva rinunciare all’orgoglio di provvedere a se stessa, alla dignità-dovere che conferisce essere coerenti [sic] sopportare le conseguenze dei propri atti. Non poteva farlo. Non lo avrebbe fatto mai.131

Non poteva accettare la passività con cui le zie accettavano a loro volta l’ennesimo sopruso nei confronti del popolo ebraico:

Era forse la prima volta che il Signore sottoponeva il suo popolo alle prove?
Per quasi duemila anni erano stati inquisiti e segregati, scacciati da una terra all’altra e sottoposti a periodiche uccisioni di massa. Ma esistevano ancora. Perciò, a ogni notizia malvagia, le signorine Toaf rileggevano i Salmi di Davide:
«Il mio occhio è arrossato dal pianto
languisce a causa di tutti i miei nemici.
Ha udito Jahve il grido del mio dolore
ha udito Jahve la mia preghiera
Jahve ha raccolto la mia supplica.
Arrossiscano e tremino tutti i miei nemici...».132

Con accorata ironia Elmina ricorda l’ingenuità delle zie: «Dunque, bisognava anche ringraziare. Mi sembrava molto in debito, questo Dio»133. Se è vero che lo strappo della Shoah per Elmina (soprattutto per le zie) è solo uno fra i traumi subiti dal popolo ebraico, rispecchiando in questo le posizioni più moderne rispetto alla cesura fra generazioni creatasi con la Shoah, per lei, come per il Bruno del Giardino dei Finzi-Contini, la posizione della generazione che lo precede è inconciliabile con il desidero di rivalsa che la muove, “senza buon senso” a emanciparsi anche dal fatalismo familiare.
Un rientro in famiglia quindi, che già, ancora prima del rientro ufficiale da Auschwitz, era divenuto impossibile per chi, come lei, rifiutava i codici di vita tradizionalmente concepiti per una donna, e judim per giunta. Rifiutando la madre aveva rifiutato tutti i codici che dovevano guidarla nella vita. Elmina accetta la solitudine del proprio camminare verso quel tanto agognato ponte che le avrebbe consentito di raggiungere una nuova vita. Lo fa quasi con la stessa inebriante felicità egoista del francese Gilbert, di colui che l’aveva inizialmente spinta al processo di rimemorazione del proprio passato. «“Finalmente! Finalmente!”» – Elmina si sentiva libera «dalla inquinante presenza umana»134. Era quella stessa parola – annota Elmina – da lei usata nel lasciare la casa dei suoi e trovare un suo percorso non deciso dalla famiglia. Un cammino duro e lungo. Infatti, era stato quell’avverbio – finalmente – la parola che aveva caratterizzato il suo commiato dalla famiglia ebrea di cui non si sentiva parte. Emancipazione attraverso il lavoro, liberazione dal Lager. Finalmente giunge anche per lei, dopo tanta sofferenza, il «[p]ensiero esaltante di essere responsabile e sola [...] Credeva che mai più nella vita avrebbe goduto di una tale ebbrezza di gioiosa liberazione»135. Elmina si dice che mai avrebbe immaginato di ritrovare quel senso di strana euforia. Invece «l’avrebbe fuggevolmente ritrovata in Germania, su quella strada che doveva portarla (almeno così si sperava) al ponte di Schwerin»136.
In due diversi momenti della propria esistenza Elmina fugge a due diversi tipi di prigionia, quella dalla propria origine e quella dal Lager. Il testo del romanzo – che puntualmente fa seguire al tempo presente un racconto del passato – stabilisce fra loro un’equivalenza morale ed etica che denota l’uguale peso per l’autrice degli eventi raccontati. Una vita di conquiste faticosamente ottenute quella di Elmina, una narratrice che non cede né di fronte alla paura della solitudine presente né al senso di colpa del sopravvissuto, timori pur sentiti ed espressi che ritrovano nel sistema narrativo combinatorio scelto dall’autrice il contenuto stesso di una vita. Un sistema fatto di due parti, speculare come i gemelli che Elmina aveva abortito da giovane. I gemelli che erano stati concepiti subito dopo il suo tentativo di suicidio. Come nei miti, come negli archetipi più diffusi, è dall’esplorazione del territorio della morte, dalla soglia preposta dal rito della piccola morte (come il tentato suicidio) che tocca passare per rinascere e capire, una volta per tutte, la materia di cui è composta la nostra vita.


Sessualità

Agli abusi Elmina era abituata e non inganni quel tono volutamente distaccato, secco, che la narratrice adotta nel romanzo. Nei romanzi di donne il discorso verte sovente intorno alla disamina delle violenze subite dal soggetto scrivente e all’affermazione di quest’ultimo nonostante i traumi sostenuti in varie età. Discriminazione, assenza di una vera voce, anzi l’afasia delle donne trova spazio nella scrittura, luogo deputato per riflessioni sulla soggettività mancata, su un assoggettamento forzato alle leggi della società. Nell’intessere la fitta rete di rapporti fra il proprio passato prima del campo, e il campo, Elmina compone lucide narrazioni in cui esperienze laceranti quali la violenza sessuale e il protratto abuso fisico e psicologico non si offrono in termini di metafore cognitive come si è usi leggere in testi tradizionali e canonici.
Il ratto delle Sabine, il mito di Leda e il cigno, le metamorfosi ovidiane sono legate a un’interpretazione della violenza contro la donna come momento importante e fondativo della società. La tradizione occidentale ha naturalizzato – per così dire – la nozione di violenza sessuale con leggende fondative. Miti bellissimi che celano dietro di sé una storia dell’umanità socialmente strutturata dalla differenza sessuale e dal potere che rende le donne fondativamente vulnerabili e mute. Sin dagli inizi della tradizione occidentale allora esiste quello che Higgins e Silver definiscono un «paradigma di violenza sessuale (rape) e silenzio che vanno di pari passo»137.
Dissociare la poetica dalla politica di genere diventa problematico per una scrittrice inconsapevolmente femminista come Millu la quale, scevra da sentimentalismi superflui, offre nel romanzo una rappresentazione dell’articolazione della politica sessuale concreta, e per questo ancora più sofferta. Millu demistifica la ricerca della bellezza come del luogo estetico tradizionalmente tributato all’atto sessuale in quanto esempio di perfetto equilibrio fra piacere e motivazione pragmatica e lo collega a uno stato di subalternità femminile che denuncia con risentimento. Uno schema, quello proposto dall’autrice, che non esclude certo neppure la famiglia della protagonista. Sebbene la violenza sessuale non sia una violenza limitata alle donne, resta pur vero che nella grande maggioranza dei casi viene esercitata sulle donne, in guerra come in pace, da amici di famiglia come da perfetti sconosciuti. È un amico di famiglia, Armando, infatti, a togliere la verginità a Elmina. Armando abusa prima di tutto (e di questo, Elmina, come molte vittime della violenza domestica, lo riterrà per sempre colpevole) dell’evidente sete di affetto della ragazza, il cinquantenne «padre di famiglia uso ad afferrare a volo ogni avventura che non mettesse in difficoltà l’equilibrio della sua vita»138 l’aveva violata. La deflorazione – un atto sgraziato fra la giovane e l’anziano amico di famiglia – insiste nel ricordo che non è certo reminiscente dei versi catulliani del fiore visitato dall’ape. Dopo, in un attimo, tutto «[e]ra finito. Tristemente cercò di spostarsi e pensò che ormai era una donna»139. Questo accadeva prima della guerra. Nel romanzo della vita di Elmina il ricordo compare insieme con la silente violenza subita dallo sconosciuto sulla brandina nella fattoria-isola. La strategia retorica con cui Millu presenta la seconda deflorazione come la violenza subita da un soldato sconosciuto nella fattoria – «[...] due mani robuste la trovarono. La presero tenendola ferma; la distesero percorrendola tutta. In silenzio, un greve corpo massiccio la coprì, quasi soffocandola, e un fiato pesante le alitò sul collo»140 – ribalta qualunque idea di giustezza legata ai miti di nascita e fondazione. Rende problematico persino attribuire un senso al momento della violenza. La sua poca convenzionalità retorica consente di vedere l’atto per quello in cui consiste effettivamente la violenza. Anzi, si avverte la specificità dello sguardo femminile per la sua assenza di retorica e per come la violenza perda qualunque connotazione di metafora cognitiva di cui viene solitamente caricato l’atto sessuale. Nei passi sopra citati la miseria di una violenza imposta nella fattoria su una donna ridotta a nulla come Elmina risuona più fragorosa di qualunque possibile descrizione.
È il soggetto donna che propone un atto di resistenza nei confronti della guerra, della Shoah raccontata dagli, e per gli uomini, e prima ancora di una resistenza verso un potere che Elmina non sente “naturale” né “istituzionale”: il potere degli uomini. La presa di coscienza di Elmina, il proprio desiderio di emancipazione, già manifestato prima del Lager, si denota con pochi passi in cui, messa di fronte alla medesima possibilità della perdita della verginità, Jeannette si rivela capace di tutto pur di restare vergine. La sua resistenza non si interpreta come una difesa dal sistema, ma come il desiderio della ragazza francese di restare comunque all’interno del discorso patriarcale che vede nel controllo della sessualità femminile un sistema di controllo più generale dell’individuo donna. Elmina cede alle voglie dell’amico di famiglia, ci è dato di capire, perché non attribuisce rilevanza alla verginità, bensì alla propria persona. Per conquistare l’indipendenza deve accettare la violenza, eliminare anche l’ultimo brandello di conformismo e acquiescenza verso il sistema impostole dalla famiglia e andare avanti.
La doppia deflorazione riconferma il senso di potenziale e pure problematica rinascita che il percorso di rientro verso l’Italia, una patria doppiamente deflorata prima dal fascismo e poi dai nazisti e dagli alleati, significa per Elmina, perlomeno su un piano liminale. Lo stare in compagnia di uomini, il rinascere del corpo segnalato da pulsioni erotiche, o da una loro totale assenza, che le ricorda la perdita del mestruo al Lager, violenta desessualizzazione imposta su di lei come le ricerche genetiche su Giuliana Tedeschi, pone Elmina di fronte alla realtà di quello che appunto è diventato il proprio corpo, echeggiando in questo i memoriali in cui Tedeschi, Millu stessa e altre rivelavano il proprio intenso dolore nel vedersi private di quel corpo che, definendole, sembrava intonare un canto di maledizione alla loro stessa soggettività. Quando Genovefa dice al ragazzo italiano di prendersi Elmina come amante, suscita l’ilarità generale. Questo passaggio rivela come il corpo di Elmina, a questo punto, abbia perso ogni seduzione e equivalga a «un mucchio di ossa ricoperte di pelle smorta. I capelli erano ricresciuti radi, senza forza e arricciandosi sembravano ancora più corti. Inoltre [le] erano caduti dei denti e quando sorridev[a] senza controllar[si] si vedeva e non doveva essere un bello spettacolo»141.
La violenza si scolpisce psicologicamente e fisicamente sul soggetto femminile. Elmina constata con fermezza e logica quello che s’era già d’altronde intuito: «Purtroppo avevano ragione di ridere. Anche lo sconosciuto che la prima notte della fattoria mi aveva adoperata come donna se ne era andato in silenzio, subito dopo avermi visto alla luce di un fiammifero»142. Quell’oggetto così povero, un fiammifero, elemento classico della fiaba della piccola fiammiferaia di Hans Christian Andersen, fa sì che in noi questa giovane, il cui corpo viene “adoperato” ma non goduto dal secondo violentatore, susciti pietà e rispetto per l’evidente presa di coscienza del soggetto che sa di non essere più donna nel senso convenzionale del termine. Gli elementi classici della violenza sessuale sulle donne vengono trasmutati di significato, come d’altronde tutti i luoghi comuni che ci presenta Elmina.


Violenza è sempre

Violenza è sempre, prima e dopo il Lager. Interessante notare come in italiano non esista un termine simile a quello inglese di rape. Un rape indica una violenza di tipo esclusivamente sessuale. Nell’atto esiste una nozione di dinamismo che non corrisponde invece all’oppressione del e sul corpo della donna. Quello che è simile è il termine victim, vittima, che deriva da vinta. La parola vinta sottolinea la mancanza di controllo da parte di una donna, pronuncia la sua innocenza rispetto alla situazione, e le consente di parlare dell’evento traumatico. Allo stesso tempo, perpetua il mito secondo cui le donne sono impotenti e hanno bisogno di protezione, affermando così l’autorità della cultura del maschio dominante sulle donne. Il termine superstite sembra dare a chi lo usa potere e controllo sulla propria vita, ma può limitare la sua capacità di discutere il caso, se e quando lo ritiene necessario. Tutti questi paradossi evidenziano la necessità di esaminare se e in che modo le donne arrivano ad affermare alcune etichette più di altre143.
Millu sembra invece resistere all’uso di un linguaggio legato alla costruzione patriarcale sia della violenza sessuale sia del concetto di vittima e di sopravvissuta. Al rientro la vita si fa sempre più pesante:

Di là, inevitabilmente, ognuno finiva per raccontare le sue avventure personali e il passato prevaleva sul futuro; quello è il guaio di essere reduci.
La cosa sgradevole era che quando si andava sul presente e sul concreto mi si rivolgevano come se avessi degli obblighi particolari. Sembrava che facessi vita borghese e Oal la guardava con ironia: gli altri con rimprovero, meraviglia sincera. Perché non mi dedicavo? Ero sola, dunque... A me, invece, sembrava che i borghesi fossero proprio loro.
Convinti da sempre che una donna solo perché non ha un marito da accudire e bambini da allevare, non abbia altra possibilità di realizzarsi che la dedizione a qualcuno o a qualcosa. Per la sua disponibilità di energia e d’amore, per secoli, c’erano state soltanto la famiglia e la chiesa. Ora, ci avevano aggiunto le riunioni di partito.144

Millu sembra dirci che lei è riuscita a sopravvivere a tutto, prima e dopo, e che la guerra è sempre, prima e dopo, per una donna che non vuole vivere secondo schemi preconcetti. Non le interessa la pratica dell’accudimento, né le interessa votarsi a qualunque causa che non risulti legata al proprio inappellabile senso di libertà e giustizia. Mentre per Morante la guerra si identifica con un percorso legato alla storia e all’ineludibile disastro dell’intersezione fra natura e cultura, per Millu, molto più consapevole della sua specificità di genere e molto meno idealistica nel suo approccio ai problemi che comporta l’essere donna, non vi è spazio per tale sviluppo teorico rispetto a esso. La vita non ha concesso a Millu, scrittrice il cui lavoro non prescinde mai dalla matrice autobiografica, né il tempo né la possibilità di farla sentire una vittima. Il vittimismo d’altronde non rientra nei suoi criteri. Mai.
D’altronde, per Elmina, i problemi legati alla parola felicità erano molti e non tutti dipendenti da lei in quanto soggetto donna, ma da lei in quanto, si è detto, “diversa”, giudea, maestrina che non può nemmeno pensare di sposare chi vuole per via delle leggi razziali. Oal, il suo vero amore, di cui nel romanzo si fa un racconto meraviglioso di prodezza e coraggio, sposa poi qualcun altro ed Elmina rinuncia, dolorosamente, a ritentare una strada insieme al rientro da Auschwitz. Ha bisogno, quindi, di immaginare il proprio viaggio di ritorno come «qualcosa di trionfale, qualcosa che cancellasse l’immagine di quello di andata»145. Ma dopo il furto del cavallo nella fattoria, dopo la cruenta reazione della polacca Genovefa, il cui timbro vocale non fa che echeggiare quello barbaro della Kapò a Birkenau, le memorie del campo finiscono col sommergere Elmina, la quale decide di arrivare anche da sola al ponte di Schwerin pur di liberarsi di quella pesante atmosfera. Un ponte che, ironia massima, non era neppure un ponte:

Ci trovammo a Schwerin senza nessun urlo di tripudio perché la strada sboccò all’improvviso in un piazzale grandissimo, polveroso. Il paese si raggruppava tutto su un lato, fatto di case basse, anche quelle color della polvere. Vicino a un alto pennone dove sventolava la bandiera sovietica era allineata una banda militare e suonava un inno solenne e marziale: si vedevano gli ottoni luccicare: anche gli stivali dei suonatori erano lucidi.
[...]
Io mi guardavo intorno: inquietamente. Dicevano che eravamo a Schwerin, ma non vedevo il ponte.
Dov’era? Senza il ponte, non poteva essere Schwerin.146

Il ponte che aveva tanto sognato, quel «ponte che sembrava non avere mai fine, fatto di tante arcate altissime sopra un gran fiume» dove lei arrivava «con l’abito lungo di velluto che era stato il mio primo e unico abito da sera per il mio primo e unico veglione, ma il braccio sinistro aveva una fasciatura enorme che mi impediva di infilare la manica. [...] Sapevo che il ponte era vicino ma non riuscivo a ve­derlo»147. La dignità va salvata, nonostante l’ultima ironica scoperta che un ponte tanto sognato non è, dopotutto, neppure un ponte sospeso nella nebbiolina. Ma cos’era la dignità per Elmina? Che tipo di dignità le era stato insegnato?

Dignità era attraversare periodi difficili e non lasciarne intravvedere le pene. Dignità era rifiutare cortesemente di mangiare conigli, molluschi, prosciutti; tutti i cibi proibiti dalla antica Legge del Signore. Dignità era «saper tenere il proprio posto, sia coi superiori che con gli inferiori». Per dignità, il nonno garibaldino non aveva mai voluto, malgrado le pressioni del Fascistone, prendere la tessera. Sembrava che infiniti fossero i modi d’intaccare o di conservare la dignità.148

In famiglia avevano, per quanto possibile, insegnato a rispettare tutte le esteriorità degli usi religiosi, del comportamento piccolo-borghese, e altri ancora perché “infiniti” erano «i modi d’intaccare o di conservare la dignità». Eppure, i suoi familiari avevano accettato di abbonarsi al giornaletto locale del Partito e di farle prendere la tessera di Giovane Italiana. Quello stesso commendator Ascoli, capo della comunità Israelitica, aveva una certa fede nel fascismo se, come ancora ricorda Elmina, andava dicendo frasi non certo insolite nell’Italia mussoliniana quali «Bisogna riconoscere che qualcosa di buono c’è!» Persino Ascoli, uomo di autorità e nota saggezza, chinava quindi il capo al potere in nome di un effimero senso di sicurezza. Pure, anche il suo «corpo pingue [...] un giorno avrebbe fornito grasso per lo scuro sapone di Auschwitz»149. La storia colpisce tutti i membri della comunità. L’episodio dell’incomprensione per il povero Cammeo, un omino che aiutava le zie di Elmina a sbrigare faccende, si intreccia nella memoria della donna a quella della frase che sente proferire dal commendator Ascoli. Quando l’anziano Cammeo viene pubblicamente offeso dai membri della stessa Comunità Israelitica allorché gli chiedono di togliere la falce e il martello dalla lapide del figlio ucciso nel 1922 perché socialista («A spese della Comunità, s’intende»)150 la cecità del gruppo appare immensa.
In questo particolare del racconto di Cammeo, Millu attua un’interessante operazione in cui il privato e il pubblico si sovrappongono in modo eloquentemente antiretorico. Cammeo desidera che quella scritta sulla tomba del figlio rimanga perché è fermamente intenzionato a conservare il simbolo della falce e del martello caro al figlio, mentre l’ipocrita comunità ebraica vi si oppone tenacemente nel tentativo di guadagnarsi le simpatie dei fascisti. La dignità pubblica, privata, dell’estinto come del padre che vive per mantenere vivo il suo ricordo, tutto viene calpestato in nome di un inutile opportunismo. Nell’ultimo, commovente incontro col “Fascistone”, il silenzio di Elmina rivela come i meccanismi di responsabilità ed empatia nei confronti di coloro per cui si continua a testimoniare permettano di rimettere soltanto alla pagina scritta, alla letteratura, il modo tremendo in cui il cugino Marcolino ha trovato la morte nel Lager. La sua terribile morte viene testimoniata attraverso la letteratura e il suo racconto testimoniato ai lettori, agenti di ricezione e per questo empaticamente distanti rispetto al padre di Marcolino. A lui, ormai ridotto a un «triste residuo del cugino che ricordava»151 non si può dire nulla. Elmina tace. Elmina non dirà mai di aver incontrato Marcolino, il bellissimo figlio della cugina Dodi, nel Lager, offeso due volte dalla Shoah. La prima volta, massimo esempio di Entwirdüng – degradazione bieca – perché, come altri prima e dopo di lui, aveva accettato di diventare il bambino di un kapò, di essere fatto oggetto delle sue attenzioni non disinteressate. Era stato quindi piegato alla logica iniqua del campo, che vuole tutti assoggettati all’istinto di sopravvivenza e null’altro. La seconda, perché, in quella triste riconferma del tema ricorrente nella letteratura ebraica, di quella «paura ancestrale dei cani satanici»152 Marcolino viene sbranato da un cane lupo davanti agli occhi della stessa cugina, giustificando per sempre in Elmina l’esistenza di quella paura tutta ebraica. Delirio da morte in cui la morte, le morti, si sovrappongono in una composizione devastante:

Mamma che sete, bisogna fare il lutto perché Willem è morto. Scemà Israel Adonai elohenu, Adonai ehad. Vigliacca, prendo il bastone e ti ammazzo. Oal, Oal! Chi mi morde in testa? Dov’è il cane? Marcolino, non correre, è peggio. Non correre, non correre! Mamma, c’è il cane che mi morde. C’è il cane, Scemagn Israel, il cane!”153

«Orridi libidinosi che le SS hanno addestrati allo stupro delle testimoni renitenti, oppure fiere o anche solo belle. [...S]iamo stati tutti offesi da quei cani neri154 – scrive Giacoma Limentani – perché quei cani hanno stuprato tutti, perfino gli indifferenti che dallo stupro della propria indifferenza hanno generato disumanità»155. Elmina, questo, può scriverlo soltanto, ma non riferirlo al padre dolente di Marcolino che si trova di fronte al rientro in Italia. Proprio al “Fascistone”, a quell’essere ambiguo che era ricorso a tutti i possibili stratagemmi pur di salvare Dodi, la bella moglie, e i figli, non può riservare quest’atto di crudeltà perché vorrebbe dire avallare tutte le accuse rivolte al suo popolo. Non può farlo. Nella sua omissione, la reduce Elmina dimostra come anche nel desiderio di testimonianza esista comunque quel senso del pudore che ci rende ancora e sempre umani, un pudore che la aiuta a recuperare quel senso di dignità creduto ormai perso davanti a tutto quello che il campo le ha dato occasione di vedere. La vera dignità.
Sebbene il cocente ricordo del campo sia pervasivo, il Lager fallisce almeno in questo scopo deliberatamente programmato dai nazisti: la disumanizzazione dei prigionieri non scatta meccanicamente. Esistono dei congegni di controffensiva e rivalsa su chi ci vorrebbe inebetiti di fronte al dolore altrui, contro i meccanismi di disumanizzazione che ci vorrebbero pronti a tutto, anche a raccontare con crudeltà a un padre che il figlio, dopo essersi prostituito per un tozzo di pane, è stato dilaniato da un cane. Elmina sconfigge l’eredità im-morale dei propri persecutori rivelando come certi limiti – se sono possibili da valicare nel testo scrittorio – non possono esserlo altrettanto nella vita. La dignità non si strappa a chi non può essere qui a difendersi né a chi cerca di farlo in sua vece, per interposta persona, in contumacia, direbbe Limentani. «L’empito guerrigliero con cui aveva passato il Brennero si era andato smorzando, ma le sembrava impossibile che fosse già tutto chiuso, finito. Le cose non erano come se le era immaginate»156. Elmina sente venirle meno il coraggio: non può dire quella verità che pure tanto ama perché sente accanto a sé «la presenza del ragazzo»157, di quel Marcolino che chiede pietà da lei che è tornata in patria, da lei che racconta: «La pregava, glielo proibiva: stesse bene attenta a non cominciare! Basta una parola e il discorso diventa una collana rotta: tutte le altre si sgranano dietro ed è impossibile riprenderle»158.
La testimonianza è giusta, ma soltanto quando non arreca nuovo dolore a chi ascolta, sembra dire Elmina, e Millu con lei. Da questo momento, come dal primo Natale di pace dopo il Lager, trascorso in una sala della stazione mentre attende il treno per Genova, Elmina capisce che è giunto il momento di prepararsi al secondo e definitivo “ponte di Schwerin”. Un passaggio obbligato a una vita dopo il Lager. Con grande dignità, Elmina oltrepassa quel ponte che il male degli uomini e la cecità a volte tragica della natura rendono inaccessibile come quello di un mito spaventoso. Se durante il tempo trascorso nel Lager l’individuo si vede ridotto a “nuda vita”159, unica norma di un’etica soppressa rimane appunto la sopravvivenza, nel tempo – ed è questo il messaggio di speranza di tutti gli scritti di Millu – l’individuo riconquista per sé la dignità che il Lager gli/le aveva ­sottratto. Se durante il tempo del Lager la decenza non era possibile, nel Lager le è stato possibile comprendere come «[l’]umanitarismo degli oppressi non è un dono del cielo, ma una conquista tanto significativa quanto faticosa»160. Ha capito che «[q]uando si smette di aiutare gli amici, non si è più normali»161, si perde la dignità, non si è più persone. Il processo di disumanizzazione passa per questo punto. L’amicizia significa la vita civile e pubblica, ora come ai tempi di Aristotele. Paradossalmente, va detto, in quel non dire di Elmina convive la possibilità di riconquistare dignità per amore, per amore e rispetto appunto di coloro che non sono sopravvissuti. Riconquistare dignità per se stessi vuol dire riconsegnarla alla memoria di Marcolino.
La brutta fiaba di Elmina disconosce qualunque senso al concetto di capro espiatorio, glielo strappa senza concessioni. La Shoah non è un’immolazione, è una distruzione. Di conseguenza, Marcolino non rappresenta una vittima sacrificale, non è morto per purificare nulla. Così come Elmina rifiuta il concetto di vittima per se stessa non può fare altrimenti per quel povero e bellissimo cugino se non lasciarlo nella sua pace, non divulgare a nessun parente il racconto di come il bambino sia stato offeso due volte, di come sia stato sbranato due volte da un animale, un uomo prima, un cane poi, come nei giochi degli antichi romani. Non vuole costruire un mito dall’orrore. Si potrebbe d’altro canto, accettare il sacrificio di Marcolino come un sacrificio atto a capovolgere la logica sacrificale. Ma quella del campo non fa parte neppure di questa logica. Quello di Marcolino non può quindi essere considerato neppure un antisacrificio, poiché esso corrisponde soltanto all’esemplificazione del male umano. Elmina ridona dignità al cugino negando per la sua morte – vera e non simulata – una funzione che vada al di là della perdita dell’innocenza e della vita stessa. Un sacrificio certo, in quanto tangibilmente Marcolino non esiste più per i suoi genitori. Ma lui non era cosciente di cosa potesse provocare la propria morte. Non era, la sua, una morte atta a sgretolare il sistema di menzogne. Si trattava di una morte “per caso”.
«La guerra aveva purgato il mondo da quel veleno»162, dice ancora il personaggio narrante. Ma da quale veleno, ci viene fatto di chiedere. Nel romanzo il male appare non avere un inizio e una fine certi. Alle frasi secche con cui la protagonista commenta fatti accaduti e vissuti da lei oppure da altri a lei vicini, si oppone il significato inespugnabile della struttura del romanzo. Non esistono zone di quiete, a una battaglia se ne oppone un’altra di uguale intensità. Il futuro esiste comunque, «ormai c’erano solo cose da ricostruire: erano tante»163. La valenza etica delle narrazioni di Millu risiede in tutto ciò, non disconoscere mai il valore della dignità, non cedere mai alla tentazione di cedere. «Finalmente. Prese la borsa, il giornale. Tranquilla, col suo lungo passo deciso, si avviò verso il nuovo ponte di Schwerin della sua vita»164. Fedele suo malgrado alla tradizione rabbinica, che insegna che tutti gli ebrei sono garanti uno dell’altro, Elmina si fa carico della responsabilità di un altro ebreo, del cugino Marcolino. Procede diritta per il proprio cammino che, come quello della sua autrice, sappiamo essere stato solitario.
Nel caso di Liana Millu e di Edith Bruck, la testimonianza indica un preciso momento storico: quello segnato dalla Shoah, momento da cui ha inizio per entrambe la loro identità come testimoni e come scrittrici in un esercizio che, con periodiche verifiche, si rinnova attraverso gli anni. Nel racconto del superstite l’evento della Shoah diventa il punto di ascissa zero al centro dell’immaginario asse cartesiano ortogonale che disegna la vita di queste sopravvissute. È dal punto zero “Shoah” che si diramano i vettori che indicano le direzioni prese dall’esistenza. La capacità di sopportare il peso dell’esistenza risiede in quella di una sopravvivenza nonostante e oltre la Shoah. Raccontare e sopravvivere per esistere, nonostante la colpa della propria esistenza:

L’infanzia, Auschwitz mi proiettavano indietro ogni volta nel tempo, in una realtà fuori dal mondo. Un altrove che pur facendo parte di me mi separava dal qui e ora, mi toglieva la salute gettandomi in balia dei ricordi. Delle rabbie impotenti di una tristezza così globale da abbracciare l’umanità.
Mi chiedevo spesso se il mio invivibile masochistico dovere di testimoniare non fosse un’autopunizione perché esistevo: una sorta di trottola semiguasta che girava per distribuire dolore e memoria come fossero prodotti smerciabili. Fiori del male che sapevano di carne bruciata.165

Il dovere di testimoniare percepito da Millu come ultimo “invivibile masochistico dovere” rende evidente il paradosso eterno del testimone: dire, continuare a dire, per far sì che tutti sappiano. Zachòr – raccontare – rappresenta un dovere. Come tale, raccontare non può e non deve essere un’azione dettata da altro se non da un senso etico della parola; da quel «temere per i vivi» che la Signora Auschwitz sente quale reale urgenza del suo raccontare166.
Anche lo strumento della letteratura storicizza la Shoah e consente la sua permanenza nella memoria collettiva quale fatto storico e inalienabile per arginare il pericolo del relativismo negazionista, per eliminare l’ingombrante aura di indicibilità o di male assoluto che intralcia improduttivamente il lavoro delle generazioni successive. Rimane allora opinabile che questa tragedia – così com’è vero per altri eventi storici – costituisca uno spazio fruibile dall’espressione artistica a cui è importante restituire, beninteso, quella libertà espressiva che da sempre le compete. È importante che sia così, pena il trattamento dello sterminio nazista solo da un punto di vista strettamente storiografico e documentaristico, strumenti entrambi preziosi ma non per questo completi, né esenti da ulteriori interpretazioni.
Il percorso delle testimoni-scrittrici di mestiere – Bruck e Millu – si rivela quale tramite chiarificatore fra la testimonianza intesa in senso convenzionale e la scrittura letteraria (la fiction). La loro intensa attività si rivela utile sia ai fini di un approfondimento del discorso della testimonianza come per il trattamento in letteratura dei temi della testimonianza e del rientro dal campo. Quello compiuto dalle reduci e scrittrici della Shoah non costituisce un esercizio di scrittura volto a espressioni universalizzanti dell’evento, ma restituisce alla pagina scritta il vigore delle immagini legate a una peculiarità femminile che diversifica e contribuisce alla campionatura di esperienze ed espressioni che derivano direttamente dall’evento storico. D’altronde, se Millu e Bruck non si fossero liberate dalle regole, dalla pratica del senso comune, possiamo avanzare l’opinione che le convenzioni sociali per donne della loro generazione avrebbero forse impedito il loro comune e pure diverso percorso verso la libertà, anche quella che ha regalato loro il dono della scrittura.




Note

1. Edith Bruck, Signora Auschwitz. Il dono della parola, Venezia, Marsilio, 1999, p. 33.
2. Rimando sempre al testo di Annette Wieviorka L’era del testimone, cit., per esempi di sviste comprensibili da parte dei testimoni che ledono comunque il discorso storiografico. Il testimone/superstite non viene nel nostro caso studiato quale titolare di verità inappellabili ma nel suo significato secondo le categorie di Agamben e nell’utilità dei suoi scritti.
3. Pericolo segnalato molto opportunamente da Hayden White nel suo saggio “Historical Emplotment and the Problem of Truth”, in Probing the Limits of Representation, a cura di Saul Friedländer, cit., pp. 37-53.
4. Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz, cit., p. 70.
5. «Ogni distinzione fra proprio e improprio, fra possibile e impossibile viene meno», ivi, p. 70.
6. Ivi, p. 121.
7. Annette Wieviorka, L’era del testimone, cit., p. 52. Si veda anche di Naomi Seidman, “Elie Wiesel and the Scandal of Jewish Rage”, in Jewish Social Studies 3/1 (1996), pp. 1-19.
8. Annette Wieviorka, ivi, p. 49. «Ogni società funziona malgrado e contro la morte [...] attraverso, con, e nella morte. La sua cultura, il patrimonio collettivo di saperi [...] ha senso solo perché le vecchie generazioni muoiono e perché essa deve essere trasmessa alle nuove generazioni. I sopravvissuti del mondo yiddish si trovarono, invece, con una cultura priva di senso», p. 43.
9. Ivi, p. 39. Il corsivo è nostro.
10. Ivi, p. 40. Il corsivo è nostro.
11. Su questo lascito memoriale, diverso appare il parere di John K. Roth a proposito dello stesso Perchodnik (Am I a Murderer? Testament of a Jewish Ghetto Policeman, trad. di Frank Fox, Boulder, CO, Westview Press, 1996. Senza nulla togliere alle circostanze che hanno reso possibile che Perchodnik diventasse poliziotto nel ghetto di Otwock, in Polonia, e di come «il processo di distruzione avesse capitalizzato sulla furberia di incoraggiare e poi richiedere la compartecipazione degli ebrei nella distruzione della propria gente», il filosofo analizza l’importanza di tale lascito da un punto di vista etico. Roth ci mette di fronte all’evidenza che altri, al posto di Perchodnik, hanno operato scelte diverse. Individui i quali, una volta presa coscienza dei fatti, non hanno esitato a morire. Si veda di John K. Roth, “Returning Home: Reflections on Post-Holocaust Ethics”, e di David Hirsch, “Critique”, in John K. Roth (a cura di), Ethics after the Holocaust: Perspectives, Critiques, and Responses, St. Paul, MN: Paragon House, 1999. Hirsch e Roth pongono l’accento su come l’essere umano goda sempre della possibilità di una scelta volta al bene, come nel caso del collega di Perchodnik, Willendorf, citato nella testimonianza dell’agente polacco. Al contrario di Perchodnik, Willendorf non esitò a togliersi la mostrina di poliziotto e seguire la propria famiglia verso la morte sicura (“Returning Home”, cit., p. 305).
12. Annette Wieviorka, L’era del testimone, cit., p. 61.
13. Ancora, Alvin H. Rosenfeld, “The Anne Frank We Remember”, in Dimensions 5/1 (1989), pp. 9-13 dove sostiene che i lettori non dovrebbero immedesimarsi in Anne Frank perché la sua vicenda non era tipica (in quanto femmina).
14. Pier Vincenzo Mengaldo, La vendetta è il racconto, cit., p. 46.
15. Ivi, p. 54.
16. «Est-ce à un juif de le dire? Mais tout survivant des massacres hitlériens – fût-il juif – est Autre par rapport aux martyrs. Par conséquent responsable et incapable de se taire. Il est obligé à l’égard d’Israël pour des raisons qui obligent tout homme et qui, ainsi, aux juifs et aux Arabes, sont communes et qui devraient leur permettre de se parler. Tant pis si on soupçonne le juif qui évoque ces raisons de “prêcher pour son saint” (ce qui ailleurs ne serait pas conforme à sa religion). Impossible de se taire. Obligation de parlar. Et si la politique, montant de partout, fausse les intentions originelles du discours, obligation de crier». Cfr. Emanuel Lévinas, Difficile liberté, Paris, Albin Michel, 1984,pp. 203-04. Il corsivo è dell’autore.
17. Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini, in ID., Opere, cit., p. 566. Il corsivo è dell’autore.
18. Lawrence Langer, “Fictional Facts and Factual Fictions: History in Holocaust Literature”, in Reflections on the Holocaust in Art and Literature, a cura di Randolph L. Braham, New York, Columbia University Press, 1990, pp. 117-19.
19. Efraim Sicher, Dictionary, cit., p. xix.
20. Si veda di Alvin Rosenfeld, A Double Dying: Reflections on Holocaust Literature, Bloomington, IN, Indiana University Press,1980.
21. «Qualunque rappresentazione […] oltre al suo manifesto contenuto, rappresenta l’esclusione di alter» secondo Berel Lang, “The Representations of Limits”, in Saul Friedländer (a cura di), Probing the Limits of Representation, cit., p. 300. «D’altro canto – riconosce Lang – per l’artista immaginare quello che non può immaginare costituirebbe già la propria opera» (ibidem).
22. «Anche un romanzo interamente inventato può essere un documento e una scrittura di testimonianza». Cfr. Marina Beer, “Memoria cronaca e storia”, in Storia generale della letteratura italiana, cit., p. 607.
23. Jean-François Lyotard, Heidegger e «gli ebrei», cit., p. 60.
24. Mentre la questione delle circostanze storiche (materiali, tecniche, burocratiche, quelle giuridiche) possono essere considerate sufficientemente risolte, Agamben sostiene che il significato politico ed etico (strettamente collegate al discorso) che compongono ciò che noi consideriamo i resti di Auschwitz è ben lungi dall’aver trovato la sua comprensione. Dopo Auschwitz, «quasi nessuno dei princìpi etici che il nostro tempo ha creduto di poter riconoscere come validi, ha retto alla prova decisiva, quella di una Ethica more Auschwitz demonstrata (Quel che resta di Auschwitz, cit., p. 9). Secondo LaCapra l’interrelazione tra la storia e la teoria per la costruzione di una nuova modalità per un nuovo discorso storiografico su Auschwitz e la Shoah potrebbe prendere in considerazione le variabili presenti nei fatti storici e potrebbe applicare la psicoanalisi nella funzione difficile di valutare il valore di verità (un compito degli storiografi) degli stessi. Ciò potrebbe aver luogo una volta che l’opposizione tradizionale vittima-persecutore sia dichiarata obsoleta (analisi del discorso), o almeno molto meno polarizzata rispetto a una prima lettura. In sintesi, una volta convinti che il sistema di potere descritto da Antelme e Levi in modo eloquente e pervasivo sia stato perversamente infiltrato dalla SS tra i prigionieri del Lager causando compromessi etici e morali ci si deve concentrare sulla “descrizione dell’indescrivibile”, sul “parlare dell’indicibilità”, caratterizzante, ancora una volta, l’aporia di Auschwitz. Cfr. la prefazione di Dominick LaCapra in ID., Writing History, Writing Trauma, cit., pp. ix-xvi. A parte la più evidente opposizione oppres­sore/nemico, ci si deve concentrare sulla “descrizione dell’indescrivibile”: ma parlare dell’indicibilità corrisponde in un certo senso a quella “non-coincidenza fra fatti e verità”, come nota Agamben in Quel che resta di Auschwitz, cit., p. 8.
25. Jean-François Lyotard, Heidegger e «gli ebrei», cit., p. 61.
26. Ibidem.
27. Ibidem.
28. Nel caso degli scritti di Millu si pone a esempio il problema opposto, di capire cioè la verità del Tagebuch giuntaci dopo i racconti del Fumo.
29. Annette Wieviorka, L’era del testimone, cit., p. 59.
30. Ibidem.
31. Jean-François Lyotard, Heidegger e «gli ebrei»,cit., p. 56.
32. Primo Levi, I sommersi e i salvati, in ID., Opere, vol.1, cit., p. 704.
33. Ivi, p. 674. Il corsivo è nostro.
34. H. Marie Orton, “Deporting Identity”, in The Most Ancient of Minorities: The Jews of Italy, a cura di Stanislao G. Pugliese, cit., pp. 303-14.
35. «La mia obbedienza a coloro che avevo guardato morire, ascoltato, dura da oltre mezzo secolo: con le testimonianze che sono contenute nella maggior parte dei miei libri e la mia presenza, soprattutto nelle scuole ovunque fossi stata invitata, citata, interrogata nella veste di sopravvissuta ad Auschwitz. Veste che portavo come fosse stata su misura e ritenevo questo normale, na­turale, giusto, quasi fossi un soldato animato di dovere, anche se, per lunghi anni, raccontando la drammatica separazione da mia madre, scoppiavo a ­piangere come se avessi dodici anni, come allora», in Edith Bruck, Signora Auschwitz, cit., p. 12.
36. Il caso dei tanti scrittori della Shoah morti suicidi, per i quali la scrittura non ha svolto tale ruolo salvifico, mette in causa la terapeuticità della scrittura. Cfr. Annette Wieviorka, L’era del testimone, cit., p. 101. Affinati tende invece a inscrivere i suicidi della Shoah entro una più generale disillusione rispetto al mondo e all’arte. Campo del sangue costituisce un interessante esperimento letterario in cui l’autore sottopone le proprie riflessioni al vaglio dell’autorità delle voci che emergono dagli scritti di artisti suicidi, offrendo quindi ai lettori una prospettiva allargata del problema.
37. C’è sempre da porsi la domanda se la popolarità, sinora senz’altro maggiore, dell’opera di Bruck non sia dovuta – come spesso in questi casi – a certe riserve rispetto al concetto stesso di testimone della Shoah se italiana. La problematica ricezione di scritti di deportati italiani nel contesto più vasto della storia della Shoah rimane sempre lì a costituire quasi un limite fra loro e gli altri, i deportati di altri paesi, coloro il cui paese non aveva cambiato idea durante la guerra. Lo stereotipo dell’italiano voltagabbana si riaffaccia persino in situazioni del genere, come già si è visto per l’iniziale accoglienza riservata alle prigioniere italiane nei campi.
38. Edith Bruck, Signora Auschwitz, cit., p. 16.
39. Ibidem. Il corsivo è nostro.
40. Giacoma Limentani, “Donna fra donne”, in Roberta Ascarelli (a cura di), Oltre la persecuzione, cit., p. 94.
41. Edith Bruck, Signora Auschwitz, cit., pp.16-17. Il corsivo è nostro.
42. Ibidem.
43. Edith Bruck, In difesa del padre, Milano, Guanda, 1980, p. 32.
44. Edith Bruck, Chi ti ama così, cit., p. 7.
45. Ibidem.
46. Ivi, p. 9. Il discorso sul cibo si presenta come lo «strumento più idoneo a prefigurare il futuro, perché il cibo di cui si parla è quello di casa, la tavola è imbandita è lo scenario del ritorno; liquidarlo, come ha fatto qualcuno, col termine di masturbazione dello stomaco, significa ignorare il legame simbolico tra pane e libertà radicato da sempre nella cultura popolare» (Anna Bravo e Daniele Jalla, “Introduzione”, in ID. (a cura di), La vita offesa, cit., p. 40). Per Bruck costruisce la base stessa del proprio rapporto interrotto con la madre. E tale ansia sul pane, sul cibo, ritornerà anche in Lezioni di tenebra di Helena Janeczek.
47. Ivi, p.10.
48. Una povertà quella delle comunità ebraiche orientali che i ragazzi italiani non collegano alla parola ebreo in quanto vittime inconsapevoli degli stereotipi che vogliono l’ebreo sempre persona abbiente. Cfr. Edith Bruck, Signora Auschwitz, cit., p. 21.
49. Ivi, p. 13.
50. Ivi, p. 17.
51. Ibidem.
52. Ivi, p. 20.
53. Ibidem.
54. Ivi, p. 24.
55. Questo episodio viene riportato da Bruck sia in Chi ti ama così, cit., p. 25, che in Signora Auschwitz, cit., p. 29.
56. «Che il senso di colpa perché si è vivi al posto di un altro sia la spiegazione corretta per la vergogna del superstite non è affatto sicuro». Cfr. Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz, cit., p. 87.
57. Edith Bruck, Chi ti ama così, cit., pp. 25-26. Assente il ricordo del tatuaggio con il numero di matricola.
58. La resistenza delle donne riappare in vari passi del memoriale di Bruck come il seguente: «In questo campo la vita era impossibile, ogni mattina accadeva che qualche uomo o qualche ragazzo venisse bastonato o impiccato e noi eravamo obbligate ad assistere al supplizio. Ogni mattina una donna andava di nascosto fra gli uomini per poter vederli meglio perché erano sempre donne, e anche capaci di scambiare un pezzo di pane con un pezzo di specchio con un rossetto o con un pettine. E ne facevano a loro volta un affare quando ci affittavano quegli oggetti tanto sospirati: per guardarci semplicemente allo specchio o per ravviare i nostri ridicoli capelli con un vero pettine cedevamo una porzione di margarina», ivi, p. 32.
59. Il film, per il cui soggetto Pontecorvo dichiarò di essersi ispirato a Se questo è un uomo di Levi, risulta straordinariamente simile al memoriale di Bruck, dalla protagonista e la sua crudele iniziazione alla vita nel e del Lager, sino al nome della sua Kapò, Alice.
60. Edith Bruck, Chi ti ama così, cit., p. 43.
61. Edith Bruck, Signora Auschwitz, cit., p. 29.
62. Edith Bruck, Chi ti ama così, cit., p. 29.
63. Ivi, p. 52.
64. Ivi, p. 55.
65. Ivi, p. 60.
66. Ibidem.
67. Ivi, pp. 88-89. Il corsivo è nostro.
68. Ivi, p.107.
69. Edith Bruck, Lettera da Francoforte, cit., p.147.
70. Edith Bruck, Il silenzio degli amanti, Venezia, Marsilio, 1997.
71. Edith Bruck, Nuda proprietà, Venezia, Marsilio, 1993 e ID., L’attrice, Venezia, Marsilio, 1995.
72. Franz Kafka, terzo quaderno in ottavo degli Aforismi e frammenti, a cura di Giulio Schiavoni, Milano, Rizzoli, 2004 in Edith Bruck, Lettera da Francoforte, cit., p. 7.
73. Edith Bruck, Lettera da Francoforte, cit., p. 9.
74. Ivi, p. 11. Inglese nel testo.
75. Ivi, p.12.
76. Ivi, p. 28.
77. Ivi, p. 93.
78. Ivi, p. 94.
79. Ivi, p. 52. «Il fatto è che, come i giuristi sanno perfettamente, il diritto non tende in ultima analisi all’accertamento della giustizia. E nemmeno a quello della verità. Esso tende unicamente al giudizio, indipendentemente dalla verità o dalla giustizia». Cfr. Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz, cit., p. 16).
80. Edith Bruck, Lettera da Francoforte, cit., p.54.
81. Ivi, p.149. Il Caino a cui si riferisce Stein alias Bruck non è forse quello le­viano dei Sommersi e i salvati? «È solo una supposizione, anzi, l’ombra di un sospetto: che ognuno di noi (ma questa volta dico “noi” in un senso molto ampio, anzi, universale) abbia soppiantato il suo prossimo e viva in vece sua. È una supposizione, ma rode; si è annidata profonda, come un tarlo; non si vede dal di fuori, ma rode e stride». Cfr. Primo Levi, I sommersi e i salvati, in ID., Opere, vol. 1, cit., p. 714.
82. Edith Bruck, Signora Auschwitz, cit., p. 64.
83. Richard Marienstras, Diasporiques 1 (primo trimestre 1997), p. 5 in Annette Wiewiorka, L’era del testimone, cit., p. 42.
84. «Ho incominciato a scrivere questo racconto autobiografico alla fine del 1945 in Ungheria, nella mia lingua. Ma durante la fuga in Cecoslovacchia persi il mio quaderno marrone che conteneva anche poesie scritte nell’infanzia e dedicate a mia madre. Ho cercato poi di riscriverlo più volte nei vari paesi dove sono stata. Solo a Roma, tra il 1958 e il 1959, sono riuscita a scriverlo in una lingua non mia» (Edith Bruck, Chi ti ama così, cit., p. 111, il corsivo è nel testo).
85. Edith Bruck, Lettera da Francoforte, cit., p. 33. Bruck, sempre nello stesso libro, afferma in modo non contraddittorio come, in realtà, senta l’Italia sua proprio quando ne è lontana: «L’Italia diventa il mio paese per davvero solo quando sono lontana. Ne ho una nostalgia struggente, di tutto, anche dei giornali, del pane che è il migliore del mondo, più buono anche di quello che faceva mia madre con le sue mani che riposavano solo a letto e sapevano fare di tutto, meno che accarezzare, non avevano tempo» (ivi, p. 20).
86. Annette Wieviorka, L’era del testimone, cit., pp. 115-16.
87. Se il parentado è spesso presente nei racconti di scrittori ebrei, in quelli di Millu esso compare sulla scena soltanto come rappresentazione in negativo della forza dei legami familiari, condizionamento nocivo per l’attaccamento a valori che il personaggio di Elmina, invece, non sente.
88. Edith Bruck, In difesa del padre, cit., p. 25.
89. Céline, in Liana Millu, Tagebuch, cit., p. 77.
90. Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz, cit., p. 63.
91. Liana Millu, “All’ombra dei crematori: la resistenza minimale delle donne”, in Lucio Monaco (a cura di), La deportazione femminile, cit., p.129.
92. Pier Vittorio Zannoni, “Liana Millu: intervista per i 90 anni”, Resine 103 (2005), p. 8. Il corsivo è nostro.
93. Liana Millu, I ponti di Schwerin, cit., p. 18.
94. Francesco De Nicola, “Introduzione”, in Liana Millu, I ponti di Schwerin, cit., p. 18. Il secondo corsivo è nostro.
95. Per meglio dire, la «sovrapposizione tra verità e finzione, o meglio lo svelamento della verità come finzione». Cfr. Franco D’Intino, L’autobiografia moderna. Storia, forme, problemi, Roma, Bulzoni, 1998, p. 148.
96. Primo Levi, I sommersi e i salvati, in ID., Opere, vol.1, cit., p. 674.
97. Ibidem.
98. Barbara Foley, “Fact, Fiction, Fascism: Testimony and Mimesis in Holocaust Narratives”, in Comparative Literature 34 (1982), pp. 330-60.
99. Nonostante Manzoni sia ricordato da Levi per altre cause, non ultimo il giudizio inoppugnabile che colpisce «i provocatori [... perché] rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano l’animo degli offesi» (I sommersi e i salvati, in ID., Opere, vol. 1, cit., p.681) il modello dei Promessi sposi comporta problemi per via di quell’accettazione autoriale della nozione di potere e della provvidenza divina, come si vedrà nel caso de La Storia di Morante nel quinto capitolo del presente studio.
100. Lawrence Langer, “Fictional Facts and Factual Fictions”, cit., pp. 118-19.
101. Liana Millu, I ponti di Schwerin, cit., p.120.
102. Ivi, p. 35.
103. Ivi, p. 206.
104. Liana Millu, “All’ombra dei crematori”, in Lucio Monaco (a cura di), La deportazione femminile, cit., p. 130.
105. Liana Millu, I ponti di Schwerin, cit., p.166.
106. Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz, cit., p. 55.
107. Liana Millu, I ponti di Schwerin, cit, p.33. Si veda a riguardo il commento di Beccaria Rolfi riportato da Pier Vincenzo Mengaldo nel suo libro: «Sugli italiani e le italiane (macaroni per i francesi e per altri) pesava almeno inizialmente, per la scarsa conoscenza della situazione politica dopo l’8 settembre 1943, la appartenenza a una nazione fascista e alleata della Germania, “mai perdonata completamente”» (La vendetta è il racconto, cit., p. 87. Il corsivo è dell’autore).
108. Ibidem.
109. Forse in memoria di ciò Millu afferma di «non amare i miti, soprattutto quelli postdatati. Il mito della sorellanza mi fa pensare a una doratura su qualcosa che oro non è». Cfr. Liana Millu, “All’ombra dei crematori”, in Lucio Monaco (a cura di), La deportazione femminile, cit., p.133.
110. Liana Millu, I ponti di Schwerin, cit., p. 33.
111. Ibidem.
112. Ivi, p. 35.
113. Il passo già citato bene interpreta il senso assoluto della giustizia secondo Millu: «la giustizia non dovrebbe mai costare ma semplicemente essere in certi casi un valore assoluto. La verità anche», in Edith Bruck, Lettera da Francoforte, cit., p. 52.
114. Primo Levi, I sommersi e i salvati, in ID., Opere, vol.1, p. 755.
115. Liana Millu, I ponti di Schwerin, cit., pp. 33-34.
116. Liana Millu, I ponti di Schwerin, cit., p. 34. Il corsivo è nostro.
117. Ivi, p. 34.
118. Si veda il capitolo successivo con i ricordi di Lia Levi e di Giacoma Limentani della preghiera in classe a cui erano a volte dispensate oppure del tutto esonerate. Interessante ricordare come di questi esoneri esistano vari esempi in letteratura italiana, non ultimo nel libro Cuore di Edmondo De Amicis, quasi a dimostrazione dell’apertura del governo Savoia verso le diverse confessioni religiose, fossero queste valdesi o ebree.
119. Liana Millu, I ponti di Schwerin, cit., p. 42.
120. Si veda, di Monica Farnetti, “Anxiety-Free: Rereadings of the Freudian ‘Uncanny’”, in The Italian Gothic and Fantastic: Encounters and Rewritings of Narrative Traditions, a cura di Francesca Billiani e Gigliola Sulis, pref. di Max Duperray, Madison-Teaneck, Fairleigh Dickinson University Press, 2007, pp. 46-56.
121. Liana Millu, I ponti di Schwerin, cit., p. 34.
122. Carlo Tenuta, Dal mio esilio non sarei mai tornato, io. Profili ebraici tra cultura e letteratura nell’Italia del Novecento, pref. di Alberto Cavaglion, postfazione di Adone Brandalise, Roma, Aracne, 2009, p. 165.
123. Monica Farnetti, “Anxiety-Free”, in Francesca Billiani e Gigliola Sulis (a cura di), The Italian Gothic and Fantastic, cit., p. 49.
124. Primo Levi in Milvia Spadi, Le parole di un uomo. Incontro con Primo Levi, Roma, Di Rienzo, 1997, p. 26.
125. Liana Millu, I ponti di Schwerin, cit., p. 41.
126. Ivi, p. 48.
127. Ivi, p. 50.
128. Ivi, p. 68.
129. Ivi, p. 69.
130. In “Pregiudizio antiebraico di ieri e di oggi”, Adriana Goldstaub del Cdec di Milano traccia alcuni punti fondamentali del pregiudizio verso gli ebrei, meccanismo che utilizza processi di semplificazione e sistematizzazione del reale attraverso un processo di generalizzazione indebita (per es. ebrei tutti intelligenti). Da ciò nasce lo stereotipo contenuto in immagini fisse, insinuando quindi il pregiudizio all’interno della società stessa che lo produce. Discorso tenuto durante il seminario di formazione “La Shoah in classe: 27 gennaio e non solo”, mercoledì 8 novembre 2006, Discoteca di Stato, Roma.
131. Liana Millu, I ponti di Schwerin, cit., p. 109.
132. Ivi, p. 120.
133. Ibidem.
134. Ivi, p. 55.
135. Ivi, p. 61.
136. Ibidem.
137. Lynn A. Higgins e Brenda R. Silver, “Introduzione”, in Rape and Representation, ID. (a cura di), New York, Columbia University Press, 1991, p. 5.
138. Liana Millu, I ponti di Schwerin, cit., p. 59.
139. Ivi, p. 81.
140. Ivi, p. 74.
141. Liana Millu, I ponti di Schwerin, cit., p. 70.
142. Ibidem.
143. Stacy L. Young e Katherine C. Maguire, “Talking about Sexual Violence”, in Women in Language 26.2 (Fall 2003), p. 50.
144. Liana Millu, I ponti di Schwerin, cit., pp. 291-92.
145. Ivi., p. 85.
146. Ivi, pp. 204-05.
147. Ivi, p. 139.
148. Ivi, p. 95.
149. Ivi, p. 96.
150. Ivi, p. 98.
151. Ivi, p. 272.
152. Claudio Magris, Lontano da dove. Joseph Roth e la tradizione ebraico-orientale, Torino, Einaudi, 1982, p. 52.
153. Liana Millu, I ponti di Schwerin, cit., p. 199. Il maiuscoletto è dell’autore.
154. Giacoma Limentani, “Tempi mode etichette e sentimento”, in ID., Scrivere prima per scrivere dopo. Riflessioni e scritti, Firenze, Giuntina, 1997, p. 14.
155. Ibidem.
156. Liana Millu, I ponti di Schwerin, cit., p. 274.
157. Ibidem.
158. Ivi, p. 275.
159. Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz, cit., p. 63.
160. Anna Bravo e Daniele Jalla, “Introduzione”, in ID. (a cura di), La vita offesa, cit., p. 41.
161. Ivi, p. 42.
162. Liana Millu, I ponti di Schwerin, cit., p. 244.
163. Ivi, pp. 244-45.
164. Ivi, p. 325.
165. Edith Bruck, Signora Auschwitz, cit., p. 55.
166. «Chi è passato nel campo, tanto se è stato sommerso quanto se è sopravvissuto, ha sopportato tutto ciò che poteva sopportare – anche ciò che non avrebbe voluto o dovuto sopportare. Questo “soffrire all’estrema potenza”, questa esaustione del possibile, non ha però, più “nulla di umano”. La potenza umana sconfina nell’inumano, l’uomo sopporta anche il non-uomo. Di qui il disagio del superstite, quel “disagio incessante... che non ha nome” in cui Levi riconosce l’angoscia atavica della Genesi, “l’angoscia iscritta in ognuno del ‘tòhu vavòhu’... da cui lo spirito è assente”». Cfr. Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz, cit., p. 71.