Da adulti, di rado veniamo incoraggiati ufficialmente a essere gentili gli uni con gli altri. Una tesi chiave del pensiero politico occidentale moderno è che dovremmo essere lasciati liberi di vivere come ci pare senza fastidi, senza timore di giudizi morali e senza essere soggetti ai capricci dell'autorità. La libertà è diventata la nostra suprema virtù politica. Non è considerato compito dello Stato promuovere le linee guida del comportamento verso il prossimo, o impartirci lezioni di cortesia o buona condotta. La politica moderna, sia di destra che di sinistra, è dominata da quella che potremmo definire un'ideologia basata sul libertarismo.
Nel suo Saggio sulla libertà, del 1859, John Stuart Mill, uno dei primi e più convinti sostenitori del non interventismo, spiega: «Il solo scopo per cui si può legittimamente esercitare un potere su qualunque membro di una comunità civilizzata, contro la sua volontà, è per evitare danno agli altri. Il bene dell'individuo, sia esso fisico o morale, non è una giustificazione sufficiente». Secondo questa visione, lo Stato non dovrebbe interferire con il benessere interiore o il modo di comportarsi dei cittadini. I capricci di questi ultimi non andrebbero sottoposti a commenti o critiche per evitare di trasformare il governo nella forma di autorità più detestata e sgradevole agli occhi dei sostenitori del libertarismo: lo Statobambinaia.
D'altra parte le religioni, fornendo direttive di vario genere su come i membri di una comunità dovrebbero comportarsi gli uni con gli altri, hanno dimostrato aspirazioni ben più pragmatiche.
Prendiamo per esempio l'ebraismo. Alcuni passaggi del codice legale ebraico, la Mishnah, presentano evidenti corrispondenze con la legge moderna. Ci sono regole che suonano familiari: non rubare, non rescindere un contratto, non vendicarsi in modo cruento sul nemico durante la guerra.
Purtroppo, però, molte altre norme vanno ben al di là di quelli che un'ideologia politica libertaria considererebbe limiti adeguati. Il codice è ossessionato dai dettagli del comportamento che dovremmo assumere con la nostra famiglia, i colleghi, gli sconosciuti e perfino gli animali. Prescrive di non sedersi mai a tavola prima di aver provveduto a dare da mangiare a capre e cammelli; di chiedere ai nostri genitori il permesso di assentarci per più di una notte; di invitare a cena le vedove della nostra comunità all'arrivo della primavera; di battere gli ulivi soltanto una volta durante il raccolto, in modo da lasciare gli altri frutti agli orfani e ai poveri. Queste raccomandazioni sono coronate da ordini ben precisi sul numero di volte in cui è consentito fare sesso; agli uomini si ricorda, per esempio, che è loro dovere fare l'amore regolarmente con le mogli, secondo un programma che affianca la frequenza alla portata degli impegni professionali: «Per gli uomini con un lavoro indipendente, ogni giorno. Per gli operai, due volte alla settimana. Per gli asinai, una volta alla settimana, per i cammellieri una volta ogni trenta giorni e per i marinai una volta ogni sei mesi» (Mishnah, Ketubot, 5:6).
I teorici del libero arbitrio ammetterebbero che è senza dubbio ammirevole cercare di soddisfare i bisogni sessuali della propria consorte, essere generosi con il raccolto e tenere al corrente gli anziani dei propri spostamenti. Tuttavia, condannerebbero come bizzarro e preoccupante qualsiasi tentativo paternalistico di trasformare questi consigli in norme. Secondo una visione del mondo basata sul libertarismo, dare da mangiare al cane e invitare a cena le vedove sono questioni che riguardano la coscienza dell'individuo e non il giudizio della comunità.
Il codice legale ebraico ammonisce non solo che rubare è sbagliato, ma anche che un asinaio deve fare sesso con sua moglie una volta alla settimana. Mosè riceve le tavole della legge, da una Bibbia francese, 834 ca.
Per i fautori del libero arbitrio, nella società laica, la condotta soggetta alla legge dovrebbe essere separata da una linea ben precisa dalla condotta legata alla moralità individuale. Impedire che la vita o le proprietà del cittadino subiscano danni, dovrebbe essere compito dei parlamentari, delle forze di polizia, dei tribunali e delle prigioni, ma le azioni più ambigue andrebbero mantenute all'interno del territorio esclusivo della coscienza. Dunque, è giusto che la polizia indaghi sul furto di un bue, ma non che si immischi nei vent'anni di indifferenza tra due coniugi in camera da letto.
La riluttanza a farsi coinvolgere in questioni private è radicata più nello scetticismo che nell'indifferenza, e in modo più specifico nel dubbio costante che si possa davvero sapere cos'è la virtù, per non parlare del metodo da usare per instillarla ragionevolmente e cautamente negli altri. Consapevoli dell'innata complessità delle scelte etiche, i libertari sanno bene che pochissime questioni ricadono con sicurezza nelle categorie irrefutabili di giusto e sbagliato. Quelle che da una parte sembrano verità ovvie, dall'altra potrebbero essere considerate pregiudizi culturali. Ripercorrendo secoli e secoli di spavalderia religiosa, i libertari rimangono paralizzati di fronte ai pericoli di convinzioni troppo salde. L'avversione per il crudo moralismo ha bandito dalla sfera pubblica il dibattito sulla moralità, e l'impulso a mettere in dubbio i comportamenti altrui vacilla davanti alla domanda: «Chi sei tu per dirmi cosa dovrei fare?»
Esiste tuttavia una sfera in cui privilegiamo spontaneamente l'intervento moralistico rispetto alla neutralità, una sfera che domina la vita quotidiana di molti di noi, e ha un valore tale da rendere trascurabili tutte le altre nostre preoccupazioni: l'educazione dei figli.
Essere genitori significa inevitabilmente mediare in modo efficace nella vita dei figli, nella speranza che un giorno crescano non solo rispettosi della legge, ma anche gentili, cioè premurosi con i partner, generosi con chi è solo, consapevoli delle proprie motivazioni, poco inclini a farsi trascinare dalla pigrizia o dall'autocommiserazione. In effetti i moniti dei genitori eguagliano, per lunghezza e intensità, quelli elencati nella Mishnah ebraica. Alle due domande che tanto turbano i teorici libertari nella sfera politica – «Chi sei tu per dirmi cosa dovrei fare?» e «Come fai a sapere cosa è giusto?» – i genitori non fanno fatica a trovare risposte plausibili. Anche se spesso frustrano nell'immediato i desideri dei figli (provocando magari urla assordanti), in genere sono sicuri di guidarli ad agire nel rispetto di regole che seguirebbero anche da soli se avessero raggiunto la piena maturità intellettuale e fossero capaci di autocontrollo.
Il fatto che questi genitori ricorrano al paternalismo non significa che abbiano messo da parte tutti i loro dubbi etici. Infatti, sarebbero pronti a sostenere che è assolutamente ragionevole essere incerti sui grandi temi – per esempio, se si debba rendere possibile l'aborto dopo ventiquattro settimane - pur rimanendo sicurissimi riguardo a certe questioni minori, per esempio se sia giusto dare una sberla al fratellino o spruzzare succo di mela sul soffitto della camera da letto.
Per dare una forma concreta alle loro dichiarazioni, i genitori tendono a metterle nero su bianco, tracciando vere e proprie carte celesti, complessi accordi politici (spesso appiccicati sui lati del frigorifero o sulle ante della dispensa) nei quali elencano in dettaglio i comportamenti che si aspettano dai figli e che verranno premiati.
Notando che queste tabelle tendono a generare un notevole miglioramento comportamentale (e che, paradossalmente, i bambini traggono soddisfazione dal fatto che i loro impulsi più incontrollabili siano monitorati e frenati), forse perfino gli adulti libertari insinueranno, accompagnando con una risatina un'idea così smaccatamente assurda, che anche a loro tornerebbe utile una tabella appiccicata al muro, per monitorare i comportamenti più stravaganti.
Se l'idea di una tabella-decalogo sembra strana ma non del tutto priva di vantaggi, è perché siamo consapevoli, nei nostri momenti di maggiore maturità, della gravità delle nostre imperfezioni e del nostro infantilismo. Ci sono troppe cose che vorremmo fare ma non riusciamo mai a portare a termine, troppi comportamenti che approviamo in cuor nostro ma ignoriamo nella vita quotidiana; tuttavia, in un mondo ossessionato dalla libertà, sono rimaste pochissime le voci che ci esortano a comportarci bene.
I suggerimenti di cui avremmo bisogno non sono molto complessi: perdona il prossimo, non arrabbiarti per ogni sciocchezza, prova a immaginare le cose dal punto di vista altrui, cerca di ridimensionare le tue tragedie... Se pensiamo di non avere bisogno di brevi promemoria diretti, ben scritti e strutturati in maniera semplice, allora significa che ci stiamo aggrappando a una visione di noi stessi troppo sofisticata, che non ci aiuta di certo. Sarebbe molto più saggio accettare il fatto che, nella maggior parte delle situazioni, siamo entità piuttosto elementari, bisognose di essere guidate con semplicità e fermezza, proprio come si fa con i bambini e gli animali domestici.
I veri rischi che corriamo sono diversi da quelli immaginati dai libertari. Nelle società avanzate la mancanza di libertà non è più un grosso problema; la nostra rovina sta piuttosto nell'incapacità di sfruttare al meglio la libertà che i nostri predecessori ci hanno garantito, al prezzo di enormi sofferenze, più di trecento anni fa. Ne abbiamo abbastanza di poter fare come vogliamo, ma senza la saggezza necessaria a sfruttare la nostra libertà. Non siamo alla mercé di autorità paternalistiche, delle quali vogliamo sbarazzarci perché mal sopportiamo le loro rivendicazioni. Il pericolo risiede invece nella situazione opposta: affrontiamo le tentazioni che ci fanno orrore nei momenti in cui riusciamo a osservarle con un certo distacco, ma spesso nessuno ci incoraggia a resistere, e quindi finiamo per essere delusi e disgustati da noi stessi. La parte matura di noi osserva disperata i lati infantili calpestare i nostri princìpi più elevati e ignorare ciò che più ci sta a cuore. La nostra speranza più grande è che qualcuno possa salvarci da noi stessi.
Anche i genitori più libertari ammettono che con i bambini di quattro anni il metodo delle tabelle a punti funziona.
Un monito occasionale e paternalistico a comportarsi bene non costituisce un'infrazione alla «libertà» nel senso proprio del termine. Essere davvero liberi non significa essere lasciati completamente a se stessi, ma è una condizione compatibile con restrizioni e consigli.
I matrimoni moderni rappresentano un banco di prova per i problemi che sorgono in assenza di un ambiente morale. Partiamo con le migliori intenzioni e un forte sostegno da parte della comunità; tutti gli occhi sono puntati su di noi: amici, parenti e pubblici ufficiali apparentemente si impegnano a garantire la nostra felicità e la correttezza del nostro comportamento. Ma ben presto ci ritroviamo soli con i regali di nozze e due caratteri agli antipodi, e siccome siamo creature dalla volontà debole, l'accordo che con grande onestà abbiamo appena suggellato comincia a starci stretto. I desideri romantici e travolgenti sono un materiale ben fragile con cui costruire una relazione. Iniziamo a mentire e a mostrarci sempre meno premurosi. Siamo così sgarbati da sorprendere perfino noi stessi, e diventiamo falsi e vendicativi.
Potremmo cercare di convincere gli amici che vengono a trovarci nel fine settimana a trattenersi un po' più a lungo, perché il loro affetto e la loro considerazione ci ricordano le grandi aspettative che il mondo nutriva nei nostri confronti. Ma dentro di noi soffriamo perché nessuno ci sprona a cambiare atteggiamento e a impegnarci di più. Invece le religioni hanno capito che, per alimentare la bontà, avere un pubblico aiuta; per questo durante la cerimonia nuziale ci forniscono una galleria di testimoni, e poi affidano alle divinità un ruolo di vigilanza. Per quanto l'idea di essere sorvegliati possa apparire fastidiosa, può essere rassicurante vivere come se qualcuno ci osservasse continuamente, augurandoci il meglio. È gratificante percepire che la nostra condotta non riguarda soltanto noi: rende un po' più semplice lo sforzo immane di comportarsi bene.
I libertari arrivano perfino ad ammettere che forse, in teoria, una guida ci farebbe bene, ma sostengono che sia impossibile trovarla, per il semplice motivo che dentro di sé nessuno sa più cos'è bene e cos'è male. E non lo sappiamo perché Dio è morto, come ribadisce spesso un aforisma tanto seducente quanto drammatico.
Gran parte del pensiero morale moderno è paralizzato dall'idea che il declino della fede abbia irreparabilmente danneggiato la capacità di fondare la nostra vita su una struttura etica convincente. Ma questa ipotesi, di natura apparentemente atea, ha uno strano quanto ingiustificato debito nei confronti della mentalità religiosa: infatti, solo se crediamo che Dio sia davvero esistito (e che le fondamenta della moralità abbiano dunque un'essenza sovrannaturale), il fatto di riconoscere la sua presente non esistenza rischia di scuotere i nostri princìpi morali. Invece, se diamo per scontato fin dall'inizio che Dio è una nostra invenzione, questa ipotesi dà origine a una tautologia: perché dovremmo sentire il fardello dei dubbi etici, se sappiamo che le numerose regole attribuite alle creature sovrannaturali sono state in realtà concepite dai nostri umanissimi antenati?
Mi sembra chiaro che l'etica religiosa abbia avuto origine dal bisogno pragmatico delle prime comunità di tenere sotto controllo gli istinti violenti dei propri membri e di alimentare in loro sentimenti di armonia e perdono. I codici religiosi nacquero come precetti precauzionali, poi proiettati nei cieli e rispediti sulla terra in forme maestose e incorporee. L'ammonizione a essere pazienti o comprensivi derivava dalla consapevolezza che solo così si poteva evitare la frammentazione e l'eventuale declino della società. Tali regole erano così vitali per la nostra sopravvivenza che per migliaia di anni non abbiamo osato ammettere di averle formulate noi, per paura che fossero esaminate con occhio critico e poi trattate con irriverenza. Dovevamo fingere che la moralità ci fosse piovuta dal cielo, per poterla proteggere dalla nostra fragilità e dall'istinto di prevaricazione.
Ma il fatto di poter ormai ammettere di aver spiritualizzato le norme etiche non ci autorizza a disfarcene. Abbiamo ancora bisogno di esortazioni a essere comprensivi e retti, anche se non crediamo che esista un Dio che, seppur in modo indiretto, ci spinge a farlo. Non dovremmo più sentirci costretti a rigare dritto con la minaccia dell'inferno o la promessa del paradiso, ma a qualcuno spetta il compito di ricordarci che siamo noi – ovvero le parti più ragionevoli e mature della nostra personalità (di rado presenti in periodi di crisi e ossessione) – a voler condurre il tipo di esistenza che un tempo immaginavamo ci fosse imposta da esseri sovrannaturali. Una giusta evoluzione della moralità dalla superstizione alla ragione dovrebbe costringerci a riconoscere che siamo noi gli autori dei nostri comandamenti morali.
Ovviamente, la nostra disponibilità ad accettare delle direttive dipende piuttosto dal tono in cui ci vengono impartite. Tra le caratteristiche più sgradevoli delle religioni c'è la tendenza degli uomini di fede a esprimersi come se fossero loro, e soltanto loro, i detentori di un'autorità morale e matura. Eppure il cristianesimo è davvero affascinante quando nega la dicotomia bambino-adulto e ammette che in fin dei conti siamo tutti molto infantili, incompleti, non finiti, che cadiamo spesso in tentazione e nel peccato. Siamo più inclini ad ascoltare lezioni sui vizi e le virtù, se pronunciate da persone che sembrano a proprio agio con entrambe le categorie. Ecco come si spiegano il fascino e l'utilità dell'idea del peccato originale.
Siamo dovuti ricorrere alla paura per costringerci a fare ciò che, in fondo, già riconoscevamo come giusto: I tormenti dell'inferno, manoscritto francese miniato, 1454 ca.
Di tanto in tanto la tradizione giudaico-cristiana ha avallato l'idea che ciò che ci impedisce di migliorare è un senso di colpa solitario, legato alla convinzione di essere particolarmente cattivi e ormai senza speranza. Queste religioni hanno quindi proclamato, con notevole sangue freddo, che tutti noi, senza eccezioni, siamo creazioni spaventosamente difettose. «Ecco, nella colpa io sono nato, nel peccato mi ha concepito mia madre» tuona l'Antico Testamento (Salmo 51), messaggio che riecheggia nel Nuovo: «Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, e così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato» (Lettera ai Romani, 5:12).
Tuttavia, riconoscere questo lato oscuro non è lo scopo principale, come spesso sostiene il pessimismo moderno. Il fatto che la razza umana sia continuamente tentata di rubare, ingannare, insultare, tradire e ignorare gli altri, viene accettato senza stupori. La questione non è se ci capita di cedere a terribili tentazioni, ma se di tanto in tanto riusciamo a osservarle con distacco.
La dottrina del peccato originale ci incoraggia a procedere pian piano verso il miglioramento morale, accettando i difetti che tanto disprezziamo in noi stessi come caratteristiche inevitabili della nostra specie. Possiamo quindi ammetterli candidamente, e alla luce del sole cercare di correggerli. La dottrina sa che il senso di colpa è un sentimento che non è bene provare, soprattutto quando cerchiamo di ridurre al minimo i motivi per vergognarci di noi stessi. Gli illuministi credevano di farci un favore dichiarando che in origine l'uomo era buono, ma sentir parlare di continuo della nostra perfezione originaria può arrivare a paralizzarci, perché non ci sentiremo mai all'altezza di quegli irraggiungibili livelli di integrità. La confessione di peccati universali è quindi un punto di partenza migliore da cui muovere i primi, piccoli passi verso la virtù. Il peccato originale è utile anche a dissipare qualsiasi dubbio su chi ha il diritto di dispensare consigli in un'epoca democratica. Alla domanda infuriata: «E tu chi sei per dirmi come devo vivere?» un credente non deve far altro che ribattere con una frase disarmante: «Un altro peccatore». Discendiamo tutti da un unico antenato, il peccatore Adamo, e siamo quindi tormentati dalle stesse angosce, dalle stesse tentazioni, dallo stesso desiderio d'amore e, di tanto in tanto, dalla stessa aspirazione alla purezza.
Non scopriremo mai delle regole inflessibili di buona condotta che rispondano alle questioni relative alla convivenza pacifica degli esseri umani. Tuttavia, la mancanza di un accordo definitivo su cosa sia una vita retta non dovrebbe impedirci di studiarne e promuoverne il concetto.
La priorità di un'educazione morale dovrebbe essere assoluta, anche se i vizi e le virtù che ci guidano non sono mai gli stessi, e tutti tendiamo all'idiozia e al rancore in modi sorprendentemente diversi.
L'unica generalizzazione che potremmo ricavare dall'approccio giudaico-cristiano al buon comportamento è che sarebbe meglio concentrarsi su esempi di cattiva condotta relativamente secondari e poco drammatici. L'orgoglio, atteggiamento apparentemente inoffensivo, era ritenuto degno di considerazione dal cristianesimo, proprio come l'ebraismo non vedeva niente di frivolo nell'indicare alle coppie il numero esatto dei loro rapporti sessuali. Pensiamo invece alla miopia e all'intempestività con le quali lo Stato moderno entra nelle nostre vite a forza di ingiunzioni. Di fatto interviene quando è troppo tardi, quando abbiamo impugnato l'arma, rubato il denaro, mentito ai bambini o spinto la moglie giù dal balcone. Non sembra riconoscere che i grandi crimini sono una conseguenza di abusi minori. L'etica giudaico-cristiana è risultata vincente in quanto non si è limitata ai grandi vizi: le sue reprimende abbracciano un'intera gamma di piccole malefatte, crudeltà che distorcono le relazioni quotidiane e spianano il terreno a nefandezze ben più orribili, nella consapevolezza che maleducazione e offese ostacolano il buon funzionamento di una società tanto quanto rapine e omicidi.
I dieci comandamenti rappresentano un primo tentativo di mettere un freno all'aggressività dell'uomo verso i suoi simili. Negli editti del Talmud e nell'allegoria cristiana dei vizi e delle virtù assistiamo alla rappresentazione di inosservanze apparentemente veniali, ma non meno infide e potenzialmente pericolose. Nulla di sorprendente, se si condannano l'omicidio e il furto; ma mettere in guardia contro le conseguenze di un commento umiliante o di una sessualità indifferente richiede senza dubbio un'immaginazione etica di gran lunga più sviluppata.
Il cristianesimo non ha avuto paura di creare un ambiente morale in cui le persone potessero indicarsi i reciproci difetti e riconoscere che il loro comportamento poteva essere migliorato. E, non vedendo particolari differenze tra adulti e bambini, non ha mai snobbato l'idea di offrire ai suoi seguaci una vasta gamma di tabelle o decaloghi utili a indicare loro la retta via. Una delle più interessanti si trova a Padova, sul soffitto di mattoni a volta della Cappella degli Scrovegni.
All'inizio del Trecento, all'artista fiorentino Giotto fu chiesto di decorare le pareti della cappella con una serie di affreschi: ci sarebbero state quattordici nicchie, ciascuna contenente l'allegoria di un vizio o di una virtù. Sul lato destro della chiesa, vicino alla navata, Giotto dipinse le cosiddette virtù cardinali (Prudenza, Fortezza, Temperanza e Giustizia), seguite dalle virtù teologali (Fede, Carità e Speranza). Di fronte, ritrasse i rispettivi vizi: Follia, Incostanza, Ira, Ingiustizia, Infedeltà, Invidia, Disperazione. Giotto creò un'immagine vivida per ciascuno dei ritratti, in modo da evocare in chi li guardasse non solo ammirazione, ma anche senso di colpa. L'Ira è quindi rappresentata mentre si strappa di dosso i vestiti e urla con gli occhi al cielo in una scena di indignata autocommiserazione, mentre, due nicchie prima, l'Infedeltà ammicca con aria ambigua. Seduti nei banchi, i membri della congregazione avrebbero dovuto riflettere sulle virtù che avevano abbracciato e sui vizi dei quali erano preda, mentre Dio li guardava dalla sfera celeste, le mani piene di stelle.
La tradizione religiosa a cui apparteneva il memento di Giotto non aveva evidentemente problemi a fornire consigli dettagliati su come comportarsi e come distinguere ciò che viene semplicemente definito buono dal suo opposto. Le rappresentazioni di vizi e virtù erano ovunque –sul retro delle bibbie, nei libri di preghiera, sulle pareti di edifici pubblici e chiese – e il loro scopo era puramente didattico: avrebbero dovuto agire a mo' di bussole per guidare i fedeli nella giusta direzione.
Giotto, I vizi e le virtù, Cappella degli Scrovegni, Padova, 1304 ca.
In contrasto con il desiderio cristiano di creare un ambiente morale, i teorici del libertarismo sostengono che lo spazio pubblico dovrebbe essere mantenuto neutro. Sulle pareti dei nostri edifici o nelle pagine dei nostri libri non dovrebbero esserci esempi di gentilezza. Questi messaggi, infatti, costituirebbero gravissime infrazioni alla nostra preziosa «libertà».
Tuttavia, abbiamo già visto che questa preoccupazione per la libertà non è necessariamente in accordo con i nostri desideri più profondi, a causa della nostra natura compulsiva e deviata. Dobbiamo inoltre ammettere che i nostri spazi pubblici non sono affatto neutri, ma coperti di pubblicità, come dimostra una rapida occhiata a una qualsiasi strada commerciale. Anche nelle società che in teoria ci lasciano liberi di scegliere, le nostre menti sono continuamente sospinte in direzioni che a livello conscio non riconosciamo nemmeno. A volte, trincerandosi dietro una falsa modestia, le stesse agenzie pubblicitarie ci raccontano che la pubblicità non funziona davvero. Siamo adulti, sostiene questa tesi, e pertanto non perdiamo la capacità di ragionare nel momento in cui ci soffermiamo a guardare un cartellone o un catalogo. Indubbiamente i bambini, essendo meno determinati, vanno difesi da certi messaggi televisivi, anche per evitare che sviluppino un desiderio irrefrenabile per un particolare trenino elettrico o una bibita gassata. Ma gli adulti hanno abbastanza buon senso e autocontrollo da non modificare i propri valori o stili di consumo solo per assecondare l'incessante bombardamento di messaggi creati ad arte che li raggiunge ovunque, con ogni mezzo, e a tutte le ore del giorno e della notte.
Non devono ricordarci solo i pregi degli snack salati.
In ogni caso, la distinzione tra bambino e adulto si dimostra surrettiziamente funzionale agli interessi commerciali. In realtà, siamo tutti vittime di una volontà fragile e capricciosa e, dal moccioso incantato dalla fattoria giocattolo completa di cuccia per cani gonfiabile, al quarantaduenne conquistato dalle potenzialità di un set per il barbecue con tanto di forchettone, pinza e grill, ci facciamo ammaliare dal canto da sirena della pubblicità.
La sostanziale pietà degli atei verso le popolazioni dominate dalle caste sacerdotali, per via della massiccia propaganda a cui sono sottoposte, non tiene conto dei continui richiami alle adunate di massa dei quali anche le società secolari sono oggetto. Uno stato libertario degno di questo nome cercherebbe di bilanciare l'effetto dei messaggi commerciali, orientando i cittadini verso una concezione olistica del miglioramento di sé. Fedeli alle ambizioni degli affreschi di Giotto, questi messaggi darebbero nuovo smalto ai comportamenti nobili che ammiriamo, eppure ignoriamo con tanta facilità.
Semplicemente, finiamo per trascurare i valori più elevati se l'unico memento della loro importanza viene dalle poche copie vendute del libro di un filosofo semisconosciuto, mentre, nelle grandi città, i migliori talenti delle agenzie pubblicitarie del pianeta mettono in atto fantasmagoriche alchimie per solleticare le nostre terminazioni sensoriali a vantaggio di un nuovo detergente o di una merendina prelibata.
Se dedichiamo tanto tempo a pensare al nuovo detersivo per pavimenti all'essenza di limone o alle patatine aromatizzate al pepe nero, e per contro ci soffermiamo di rado a riflettere sulla temperanza e la giustizia, non è solo colpa nostra. Difficilmente queste due virtù cardinali entreranno nel portafoglio clienti della Young & Rubicam.
Oltre a prestare attenzione ai messaggi esposti nei propri spazi pubblici, il cristianesimo, con grande buon senso, è consapevole di quanto la nostra idea del bene e del male sia influenzata dalle persone che frequentiamo. Sa inoltre che siamo tutti pericolosamente permeabili all'etica del gruppo di appartenenza e fin troppo inclini a interiorizzare e imitare atteggiamenti e comportamenti altrui. Al tempo stesso, non nutre dubbi sulla casualità pressoché totale delle nostre frequentazioni, una miscela del tutto unica di elementi tratti dalla nostra fanciullezza, dagli anni di scuola, dalla comunità e dal lavoro. Tra le centinaia di persone che incontriamo con regolarità, non sono molte le personalità eccezionali capaci, con i loro pregi, di soddisfare la nostra immaginazione, rinvigorire la nostra anima e prestarci la voce per esprimere i nostri impulsi più nobili.
I campioni di virtù sono talmente rari che il cattolicesimo dispiega per i suoi credenti una schiera di circa duemilacinquecento tra i migliori esemplari di uomini retti. Ciascuno a suo modo, questi santi simboleggiano le qualità che noi tutti dovremmo coltivare. San Giuseppe, per esempio, ci insegna ad affrontare con calma le pressioni tipiche di una famiglia giovane, e a superare con animo mite e grande modestia le prove a cui siamo sottoposti sul luogo di lavoro. A volte ci viene voglia di lasciarci andare, e singhiozzare in compagnia di san Giuda, il patrono delle cause perse, che con i suoi modi bonari riesce a darci conforto anche nei casi in cui non si intravede via d'uscita, né la minima speranza. Nei momenti di ansia ci potremmo rivolgere a san Filippo Neri che, senza minimizzare i nostri problemi né umiliarci, saprebbe far emergere il nostro senso dell'assurdo, strappandoci una risata terapeutica. Potremmo trarre grande consolazione dall'imperturbabilità con cui san Filippo affronterebbe i rischi di una riunione famigliare o il crash del disco rigido del computer.
Per rinsaldare ulteriormente la nostra amicizia immaginaria con i santi, il cattolicesimo ci fornisce calendari con l'elenco dei giorni della loro morte, ricorrenze pensate per sottrarci alla nostra cerchia di conoscenze e farci meditare sulla vita di individui che hanno donato tutti i loro averi e sono partiti senza meta, pronti a compiere buone azioni e a mortificare la carne indossando solo un ruvido saio (san Francesco), o che hanno utilizzato la loro fede in Dio per riattaccare magicamente un orecchio reciso alla testa del suo sventurato proprietario (san Cutberto).
La religione cattolica, inoltre, è consapevole di quanto possiamo beneficiare della presenza di amici immaginari in versione tridimensionale e miniaturizzata. In fondo, tutti noi da piccoli abbiamo vissuto in stretta simbiosi con orsetti e altri animali, presenze a cui abbiamo rivolto le nostre parole e da cui abbiamo ricevuto tacite risposte. Questi animaletti, sia pure immobili, sono comunque riusciti a rappresentare una presenza consolante e ispiratrice. Parlavamo con loro quando eravamo tristi, e ne ricevevamo conforto quando nella nostra cameretta li vedevamo affrontare stoicamente il sopraggiungere della notte. Il cattolicesimo non vede alcun motivo valido per abbandonare il meccanismo su cui si basano queste relazioni; è logico dunque che ci inviti a comprare versioni lignee, di pietra, plastica e resina dei suoi santi e a collocarle sui ripiani o sulle nicchie di casa nostra. Nei momenti di caos famigliare, possiamo fissare un san Francesco di plastica e chiedergli mentalmente un consiglio su cosa dire a nostra moglie in preda all'ira e ai nostri figli isterici. Forse la risposta è sempre stata dentro di noi, ma non riesce a emergere, a concretizzarsi, fino a quando non completiamo una sorta di rituale, ponendo la domanda a un'immagine sacra.
Un'opportunità di ricordare gli amici: i mesi di novembre e dicembre, da un salterio del sedicesimo secolo in cui sono elencati i giorni della morte dei santi Ugo, Caterina, Teodoro, Edmondo, Clemente, Barbara, Lucia, Osmondo e molti altri.
Cosa farebbe lui? San Francesco d'Assisi in vendita in vari formati.
Una società civile ben funzionante si occuperebbe con altrettanta cura dei propri modelli, e non si limiterebbe a indicarci stelle del cinema e cantanti. Non c'è motivo per cui la mancanza di un credo religioso debba cancellare il bisogno di «santi patroni» pronti a salvaguardare virtù come il Coraggio, l'Amicizia, la Fedeltà, la Fede o lo Scetticismo. Può farci bene assegnare uno spazio interiore alla voce di persone più equilibrate, coraggiose e magnanime di noi – Lincoln o Whitman, Churchill o Stendhal, Warren Buffett o Paul Smith – attraverso le quali ritrovare un legame con le nostre più autentiche, lodevoli potenzialità.
Secondo questa visione religiosa della moralità, ribellarsi con troppa veemenza se veniamo trattati come bambini denota una certa immaturità. L'ossessione per la libertà sembra ignorare l'infantile bisogno di regole e consigli che alberga in tutti noi, in fondo permeabili alle strategie paternalistiche. Non è poi così liberatorio, né particolarmente divertente, essere considerati tanto adulti da poter fare soltanto ciò che ci pare e piace.
Anche gli atei più convinti hanno bisogno di modelli. Qui sopra: la scrivania di Sigmund Freud a Londra, coperta di statuette assire, egizie, cinesi e romane. In alto: oppure si può scegliere Virginia Woolf.