Aprile 1992
Passarono tre anni.
In quel periodo, il padre di Tariq ebbe tre infarti che lo lasciarono con la mano sinistra paralizzata e un leggero impedimento della parola. Quando si agitava, cosa che gli capitava spesso, le sue difficoltà di articolazione si aggravavano.
La Croce Rossa assegnò a Tariq un nuovo arto artificiale, perché quello vecchio, con la crescita, non gli andava più bene, ma dovette aspettare sei mesi per averlo.
Come Hasina aveva temuto, la sua famiglia la portò a Lahore, dove le fecero sposare il cugino proprietario del negozio di automobili. La mattina della partenza, Laila e Giti andarono a salutarla. Hasina disse che il cugino, il suo futuro marito, aveva già iniziato le pratiche per il trasferimento in Germania, dove vivevano i suoi fratelli. Entro un anno, pensava, avrebbero messo su casa a Francoforte. Piansero e si avvinghiarono in un abbraccio a tre. Giti era inconsolabile. Il padre aiutò Hasina a infilarsi sul sedile posteriore del taxi, già occupato da altri membri della famiglia. Sarebbe stata l’ultima immagine che Laila avrebbe conservato di lei.
L’Unione Sovietica si sfasciò con una rapidità sorprendente. A distanza di poche settimane, Babi tornava a casa con la notizia di un’altra repubblica sovietica che aveva dichiarato la propria indipendenza. La Lituania. L’Estonia. L’Ucraina. La bandiera sovietica sul Cremlino venne ammainata. Era nata la Repubblica Russa.
A Kabul, Najibullah cambiò tattica e cercò di riproporsi come un devoto musulmano. «Troppo poco e troppo tardi» disse Babi. «Come si può essere un giorno a capo del KHAD e il giorno dopo pregare in moschea insieme alle persone cui hai torturato e ammazzato i parenti?» Sentendo che il cappio si stringeva attorno a Kabul, Najibullah cercò un accordo con i mujahidin, che però rifiutarono l’offerta.
Dalla sua postazione a letto, la mamma sentenziò: «Gli sta bene». Pregava per i mujahidin, aspettando che sfilassero vittoriosi per le strade di Kabul. Aspettava la disfatta dei nemici dei suoi figli.
E finalmente la sua attesa fu ricompensata. Nell’aprile del 1992, l’anno in cui Laila compiva quattordici anni.
Najibullah alla fine si arrese e ottenne asilo presso la sede delle Nazioni Unite vicino a Darulaman Palace, a sud della città.
La jihad era finita. I vari regimi comunisti che avevano tenuto il potere dalla notte in cui era nata Laila erano stati tutti sconfitti. Gli eroi della mamma, i compagni d’armi di Ahmad e di Nur, avevano vinto. E ora, dopo oltre un decennio in cui avevano sacrificato tutto, lasciando le famiglie per vivere in montagna e combattere per la sovranità dell’Afghanistan, i mujahidin, veterani di tante guerre, si presentarono a Kabul in carne e ossa – ossa martoriate dalle battaglie.
La mamma conosceva tutti i loro nomi.
C’era Dostum, il brillante comandante uzbeko, leader della fazione Junbish-i-Milli, che aveva fama di cambiare con disinvoltura le alleanze. L’intenso, burbero Gulbuddin Hekmatyar, leader della fazione Hezb-e-Islami, un pashtun che aveva studiato ingegneria e che in passato aveva ucciso uno studente maoista. Rabbani, il leader tagiko della fazione Jamiat-e-Islami, che aveva insegnato scienze islamiche all’Università di Kabul al tempo della monarchia. Sayyaf, un pashtun originario del Paghman, legato agli arabi, un inflessibile musulmano e leader della fazione Ittehad-i-Islami. Abdul Ali Mazari, leader della fazione Hizb-e-Wahdat, conosciuto come Baba Mazari tra i suoi compagni hazara, con forti legami con l’Iran sciita.
E, naturalmente, c’era l’eroe della mamma, l’alleato di Rabbani, il pensoso, carismatico comandante tagiko Ahmad Shah Massud, il Leone del Panshir. La mamma aveva appeso un suo manifesto in camera. Il bel viso serio di Massud, fronte altera e pakol sulle ventitré, come marchio di fabbrica, sarebbe diventato un’immagine popolare in tutta la città. I suoi malinconici occhi neri avrebbero guardato gli abitanti di Kabul dai cartelloni pubblicitari, dai muri delle case, dalle vetrine delle botteghe, dalle bandierine montate sulle antenne dei taxi.
Per la mamma questo era il giorno tanto agognato. Questo era il premio per tutti quegli anni di attesa.
Finalmente la veglia funebre era finita e i suoi figli avrebbero potuto riposare in pace.
Il giorno della resa di Najibullah, quando la mamma si alzò dal letto era una donna nuova. Lavò i vetri, spazzò il pavimento, arieggiò la casa e fece un lungo bagno. Per la prima volta da cinque anni, dopo che Ahmad e Nur erano diventati shahid, non si vestì di nero. Indossò un abito di lino color cobalto a pois bianchi. La sua voce era stridula per l’eccitazione.
«Dobbiamo dare una festa» dichiarò.
Spedì Laila a invitare i vicini. «Di’ loro che domani ci sarà un grande pranzo!»
In cucina, la mamma si guardò attorno con le mani sui fianchi, chiedendo a Laila con tono di benevolo rimprovero: «Cosa hai fatto alla mia cucina, Laila? Wuy. Non c’è più niente al suo posto».
Incominciò a spostare pentole e padelle, in modo teatrale, come per rivendicarne nuovamente il possesso, segnando il proprio territorio ora che era tornata. Laila si tenne lontana. Era meglio. La mamma sapeva essere indomabile nei suoi accessi di euforia come nei suoi attacchi di rabbia. Con preoccupante energia si mise ai fornelli: minestra di aush con fagioli e aneto essiccato, kofta, mantu bollente inzuppato di yogurt fresco e spolverato di menta.
«Ti strappi le sopracciglia» disse la mamma mentre apriva un sacchetto di riso sul bancone della cucina.
«Un po’ soltanto.»
La mamma versò il riso in una grande pentola nera piena d’acqua. Si rimboccò le maniche e incominciò a rimestare con la mano.
«Come sta Tariq?»
«Suo padre è stato male» rispose Laila.
«Quanti anni ha adesso?»
«Non lo so. Sessanta, credo.»
«Volevo dire Tariq.»
«Oh. Sedici.»
«È un bravo ragazzo. Non credi?»
Laila fece spallucce.
«In realtà non è più affatto un ragazzo, ti pare? Sedici anni. Quasi un uomo. Non credi?»
«Dove vuoi arrivare, mamma?»
«Niente» disse con un sorriso innocente. «Niente. Solo che tu… Ah, niente. Faccio meglio a stare zitta, in ogni caso.»
«Mi sembra invece che tu voglia dire qualcosa» disse Laila, irritata da quelle accuse indirette, anche se scherzose.
«Bene.» La mamma appoggiò le mani sull’orlo della pentola. Laila lesse nel modo in cui aveva parlato e nel gesto delle mani qualcosa di artificioso, di enfatico, come se avesse fatto le prove di quella recita. Temeva che stesse per arrivare una predica.
«Un conto era quando eravate bambini. Correvate in giro tutto il tempo. Niente di male. Era bellissimo guardarvi allora. Ma adesso. Adesso. Noto che porti il reggiseno, Laila.»
Laila non si aspettava quell’osservazione.
«E, tra parentesi, avresti potuto dirmelo, del reggiseno. Non lo sapevo. Mi delude che tu non me l’abbia detto.» Intuendo che si era guadagnata un vantaggio, proseguì. «Ad ogni modo, non si tratta di me o del reggiseno. Si tratta di te e di Tariq. Lui è un ragazzo, capisci, e, come tale, cosa gli importa della reputazione? Ma tu! La reputazione di una ragazza, specialmente di una ragazza bella come te, è una cosa delicata, Laila. È come uno storno tra le mani. Se allenti la presa, vola via.»
«E cosa dire allora di te che scavalcavi il muro e te la svignavi nel frutteto con Babi?» chiese Laila, felice di aver prontamente recuperato terreno.
«Eravamo cugini. E ci siamo sposati. Questo ragazzo ha per caso chiesto la tua mano?»
«È un amico. Un rafiq. Tra noi è diverso» disse Laila sulla difensiva, in modo non molto convincente. «Per me è come un fratello» aggiunse incautamente. E si rese conto di aver fatto un passo falso, ancor prima che una nube passasse sul viso della mamma, adombrando i suoi lineamenti.
«Lui non è tuo fratello» disse la mamma senza possibilità d’appello. «Non ti permetto di paragonare quello sciancato, figlio di un carpentiere, ai tuoi fratelli. Non c’è nessuno come i tuoi fratelli.»
La mamma sospirò stringendo i denti.
«In ogni caso,» riprese, ma senza la spensierata allegria di qualche minuto prima «quello che voglio dire è che, se non stai attenta, la gente farà delle chiacchiere.»
Laila aprì la bocca per dire qualcosa. Non che la mamma avesse torto. Laila sapeva che erano finiti i giorni dei giochi innocenti, spontanei con Tariq. Da qualche tempo, quando si trovavano in presenza di altri, Laila intuiva che tra di loro si frapponeva qualcosa di strano e di nuovo. Sentiva di essere osservata, esaminata, di essere diventata oggetto di pettegolezzi. E non avrebbe percepito il cambiamento neppure adesso, se non per un unico fatto fondamentale: si era innamorata di Tariq. Disperatamente, perdutamente innamorata. In sua presenza, Laila non poteva fare a meno di essere divorata dai pensieri più scandalosi, dall’immagine del corpo sottile e nudo di Tariq avvinghiato al suo. Di notte, a letto, si abbandonava alla fantasia che lui le baciasse il ventre, si stupiva della morbidezza delle sue labbra, del piacere di sentire le sue mani sul collo, sul petto, sulla schiena e ancora più giù. Quando si abbandonava a questi pensieri era presa da sensi di colpa, ma anche da una straordinaria sensazione di calore che le saliva dal ventre e le copriva di rossore il viso.
No, la mamma aveva ragione. In realtà, più di quanto lei stessa immaginasse. Laila sospettava che alcuni vicini, se non tutti, già tagliassero i panni addosso a lei e a Tariq. Aveva notato risolini maliziosi, era consapevole che nel vicinato si sussurrava che lei e Tariq erano una coppia. L’altro giorno, per esempio, mentre camminavano per strada avevano incontrato Rashid, il calzolaio, con al seguito la moglie Mariam in burqa. Mentre li superava, Rashid aveva detto scherzosamente: «Ecco i nostri Magnun e Laila» riferendosi agli infelici innamorati del popolare poema romantico di Nizami risalente al XII secolo – una versione farsi di Romeo e Giulietta, come diceva Babi, che tuttavia aggiungeva sempre che Nizami aveva scritto il racconto degli infelici amanti quattro secoli prima di Shakespeare.
La mamma aveva ragione.
Ma ciò che a Laila bruciava, era che la mamma non si era guadagnata il diritto di avere ragione. Sarebbe stata una cosa diversa se fosse stato Babi a sollevare il problema. Tutti quegli anni lontana, rinchiusa nella sua stanza, senza curarsi mai di dove sua figlia andasse, chi incontrasse e cosa pensasse… Era ingiusto. Sentiva di non valere molto di più di tutte quelle pentole e padelle, di essere qualcosa che poteva essere ignorato e su cui poi, capricciosamente, vantare di bel nuovo dei diritti, a seconda dell’umore.
Ma quello era un grande giorno, un giorno importante per tutti loro. Sarebbe stato stupido rovinarlo. In sintonia con lo spirito della giornata, Laila decise di lasciar correre.
«Capisco il tuo punto di vista.»
«Bene!» disse la mamma. «Allora è tutto chiaro. Dov’è Hakim adesso? Dov’è, dov’è il mio adorato maritino?»
Era una giornata di luce abbagliante, senza una nube, perfetta per una festa. Gli uomini erano seduti in cortile sulle seggiole traballanti. Bevevano tè, fumavano e con voci eccitate parlavano del progetto politico dei mujahidin. Laila lo conosceva per sommi capi. L’Afghanistan ora aveva un nuovo nome, Stato Islamico dell’Afghanistan. A Peshawar si era costituito il Consiglio Islamico della Jihad, formato da diverse fazioni di mujahidin, che, sotto la guida di Sibghatullah Mojadidi, avrebbe esercitato il potere per due mesi. Questo organismo sarebbe stato sostituito per altri quattro mesi da un consiglio direttivo con a capo Rabbani. Durante questi sei mesi si sarebbe tenuta una loya jirga, l’assemblea generale dei capi tribali e degli anziani che avrebbero formato un governo ad interim destinato a rimanere in carica per due anni sino alla convocazione di libere elezioni.
Un uomo sventolava spiedini di agnello, che arrostivano su una griglia improvvisata. Babi e il padre di Tariq giocavano a scacchi all’ombra del vecchio pero, con il viso teso per la concentrazione. Anche Tariq seguiva la partita, ma di tanto in tanto prestava ascolto alle chiacchiere politiche del tavolo accanto.
Le donne si erano raccolte in soggiorno, in corridoio e in cucina. Chiacchieravano con in braccio i più piccoli e scansavano istintivamente, con impercettibili scarti dei fianchi, i più grandicelli che si inseguivano per casa. Il mangianastri suonava a tutto volume un ghazal di Ustad Sarahang.
Laila era in cucina a preparare caraffe di dogh con Giti. Giti non era più timida e scontrosa come un tempo. Ormai da parecchi mesi l’espressione perennemente ingrugnita era sparita dal suo viso. Ora rideva più spesso e – cosa che colpì Laila – con una certa civetteria. Aveva eliminato le mortificanti treccine e aveva lasciato crescere i capelli, schiarendoli con dei colpi di sole rossi. Laila alla fine era venuta a sapere che lo stimolo per questa trasformazione era stato un diciottenne di nome Sabir, dal quale Giti era riuscita a farsi notare. Giocava come portiere nella squadra di calcio del fratello maggiore di Giti.
«Ha un sorriso bellissimo e dei capelli neri, folti folti!» aveva confidato a Laila. Naturalmente, nessuno era al corrente della cosa. Giti l’aveva incontrato un paio di volte per un tè, in assoluta segretezza e per un solo quarto d’ora, in un localino di Taimani, dall’altra parte della città.
«Ha intenzione di chiedere la mia mano, Laila! Forse già questa estate! Ti pare possibile? Giuro che non riesco a pensare ad altro che a lui tutto il tempo.»
«E la scuola?» aveva chiesto Laila. Giti l’aveva guardata con la testa leggermente inclinata di lato e un’espressione che diceva, tutte e due sappiamo che c’è di meglio della scuola.
“Prima dei vent’anni,” diceva sempre Hasina “Giti e io avremo scodellato quattro o cinque marmocchi ciascuna. Ma tu, Laila, sarai l’orgoglio di noi poverette. Tu diventerai qualcuno. So che un giorno prenderò in mano un giornale e troverò la tua foto in prima pagina.”
Giti ora era accanto a Laila e affettava cetrioli con un’espressione trasognata.
La mamma, con il suo allegro abito estivo, sgusciava uova sode insieme a Wajma, la levatrice, e alla madre di Tariq.
«Regalerò al comandante Massud una foto di Ahmad e Nur» stava dicendo la mamma a Wajma, che annuiva cercando di dimostrare un interesse sincero.
«Si è fatto carico della sepoltura dei ragazzi. Ha recitato una preghiera sulla loro tomba. Sarà un segno di gratitudine per la sua bontà.» Ruppe il guscio di un altro uovo. «Dicono che sia un uomo serio e onesto. Penso che l’apprezzerà.»
Le altre donne entravano e uscivano dalla cucina portando ciotole di qurma, vassoi di mastawa e di pane e disponevano tutto sulla sofrah stesa sul pavimento del soggiorno.
Di tanto in tanto, Tariq si faceva vedere in cucina, pizzicando qua e là.
«Qui è vietato agli uomini» diceva la mamma.
«Fuori, fuori, fuori!» gridava Wajma.
Alle donne che scherzosamente lo scacciavano Tariq rispondeva con dei sorrisi. Sembrava provar piacere nell’essere considerato un intruso in cucina, nell’inquinare quell’atmosfera squisitamente femminile con la sua irridente irriverenza maschile.
Laila faceva del suo meglio per non guardarlo, per non offrire a quelle donne nuovi argomenti di pettegolezzo. Così teneva gli occhi bassi e non gli rivolgeva la parola. Ma ricordava un sogno che aveva fatto qualche giorno prima: aveva visto i loro due visi in uno specchio, sotto un sottile velo verde. E grani di riso che gli cadevano dai capelli e rimbalzavano sulla superficie con un leggero ticchettio.
Tariq allungò la mano per assaggiare un boccone di stufato di vitello e patate.
«Ho bacha!» esclamò Giti dandogli uno schiaffetto sul dorso della mano. Tariq ridendo corse via con la sua preda.
Era una ventina di centimetri più alto di Laila, ora. Si radeva. Il suo viso era diventato più affilato, più angoloso. Anche le spalle si erano allargate. Gli piaceva indossare calzoni con la piega, mocassini neri lucidi e camicie con le maniche corte che mettessero in mostra le braccia muscolose, frutto di un vecchio bilanciere arrugginito con cui si esercitava quotidianamente in cortile. Da qualche tempo aveva assunto un’espressione scherzosamente provocatoria. Aveva adottato un modo piuttosto arrogante di inclinare leggermente la testa da un lato quando parlava e di alzare il sopracciglio quando rideva. Si era lasciato crescere i capelli e aveva preso l’abitudine di gettare indietro i morbidi riccioli, troppo spesso e senza nessuna necessità. Anche il mezzo sorriso insolente era un atteggiamento nuovo.
L’ultima volta che Tariq venne scacciato dalla cucina, Laila gli lanciò un’occhiata furtiva che la madre di lui colse al volo. Laila se ne accorse e, distogliendo gli occhi con aria colpevole, sentì il cuore balzarle in gola. Si diede subito da fare versando i cetrioli spezzettati in un contenitore con lo yogurt salato e diluito con acqua. Ma sentiva su di sé lo sguardo della madre di Tariq, che sapeva e approvava con un mezzo sorriso.
Gli uomini si riempirono piatti e bicchieri e li portarono fuori in cortile. Dopo che si furono tutti serviti, le donne e i bambini si sedettero attorno alla sofrah e pranzarono.
Sparecchiarono e impilarono i piatti in cucina, poi ci fu il delirio del tè; bisognava ricordare chi lo prendeva verde e chi nero. Solo a quel punto Tariq le fece un cenno del capo e svicolò fuori dal portone.
Cinque minuti dopo, Laila lo seguì.
Lo trovò tre case più in là, appoggiato al muro all’entrata di un vicolo stretto tra due case adiacenti. Canticchiava una vecchia canzone in pashtu, di Ustad Awal Mir:
Da ze ma ziba watan.
Da ze ma dada watan.
Questo è il nostro bel paese.
Questo è il nostro amato paese.
E fumava, un’altra abitudine nuova presa dai ragazzi con cui Laila l’aveva visto gironzolare negli ultimi tempi. Non li sopportava, questi nuovi amici di Tariq. Si vestivano tutti nello stesso modo, calzoni con la piega e camicie attillate che mettevano in evidenza i muscoli delle braccia e del petto. Tutti facevano un uso esagerato di colonia e fumavano. Andavano in giro per il vicinato pavoneggiandosi, scherzando, ridendo ad alta voce, talvolta arrivavano persino a richiamare l’attenzione delle ragazze con stampato sul viso un medesimo stupido sorriso compiaciuto. Uno degli amici di Tariq, grazie a una vaghissima somiglianza con Sylvester Stallone, si faceva chiamare Rambo.
«Tua madre ti ammazza se viene a sapere che fumi» disse Laila guardandosi attorno prima di infilarsi nel vicolo.
«Ma lei non lo sa» disse, spostandosi per farle posto.
«Ma potrebbe scoprirlo.»
«Chi dovrebbe dirglielo? Tu?»
Laila ebbe un gesto d’impazienza. «Rivela il tuo segreto al vento, ma non lamentarti se lo dirà agli alberi.»
Tariq sorrise con il sopracciglio inarcato. «Chi l’ha detto?»
«Khalil Gibran.»
«Sei un’esibizionista.»
«Dammene una.»
Tariq scosse la testa, incrociando le braccia sul petto. Anche questa era una posa inedita del suo repertorio: spalle al muro, braccia conserte, sigaretta che pendeva dall’angolo della bocca, la gamba buona ripiegata con disinvoltura.
«Perché no?»
«Ti fa male» disse.
«A te no?»
«Io lo faccio per le ragazze.»
«Quali ragazze?»
Lui sorrise in modo compiaciuto. «Trovano che sia sexy.»
«Non è vero.»
«No?»
«Te l’assicuro.»
«Non è sexy?»
«Hai un’aria khila, sembri un mezzo scemo.»
«Questa è un’offesa» disse.
«Quali ragazze, a proposito?»
«Sei gelosa.»
«Sono curiosa con sovrana indifferenza.»
«Non si può essere allo stesso tempo curiosi e indifferenti.» Fece un altro tiro socchiudendo gli occhi dietro la nuvola di fumo. «Scommetto che staranno parlando di noi, adesso.»
Nella testa di Laila risuonò la voce della mamma. Come uno storno tra le mani. Se allenti la presa, vola via. Si sentì mordere dal senso di colpa. Poi fece tacere la voce della mamma e assaporò il modo in cui Tariq aveva detto “noi”. Pronunciato da lui, quel noi suonava eccitante, intimo. E come la rassicurava sentirglielo dire con naturalezza. Noi. Era un riconoscimento del loro legame, che diventava così una realtà oggettiva.
«E cosa diranno?»
«Che navighiamo lungo il Fiume del Peccato» disse. «Ci mangiamo una fetta di Torta dell’Empietà.»
«Corriamo sul Risciò della Scelleratezza?» aggiunse Laila.
«Prepariamo il Qurma del Sacrilegio.»
Risero. Poi Tariq notò che i capelli di Laila erano più lunghi del solito. «Ti stanno bene» disse.
Laila sperava di non essere arrossita. «Hai cambiato argomento.»
«In che senso?»
«Parlavi delle ragazze tonte che ti trovano sexy.»
«Lo sai.»
«So cosa?»
«Che ho occhi solo per te.»
Laila si sentì svenire. Cercò di leggere l’espressione indecifrabile del suo viso: il sorriso stupidamente allegro faceva a pugni con lo sguardo tormentato dei suoi occhi. Uno sguardo furbo, studiato perché cadesse esattamente a metà strada tra lo scherzo e la sincerità.
Tariq schiacciò il mozzicone della sigaretta con il piede buono. «Allora, cosa pensi di tutto questo?»
«Della festa?»
«Chi fa l’idiota adesso? Volevo dire dei mujahidin, Laila. Della loro presenza qui a Kabul.»
«Oh!»
Laila stava riferendogli qualcosa che le aveva detto Babi, sul pericoloso connubio tra fucili e personalismi, quando sentì provenire da casa un putiferio di voci alterate. Di grida.
Si mise a correre. Tariq la seguì zoppicando.
Nel cortile era scoppiata una rissa. Iniziata da due uomini che ora si avvoltolavano per terra lanciandosi insulti. Tra di loro un coltello. Uno dei due era l’uomo che Laila aveva sentito discutere di politica. L’altro era il tizio che sventolava gli spiedini di kebab. Alcuni uomini si fecero avanti cercando di dividerli. Babi se ne stava a distanza di sicurezza, lontano dalla mischia, appoggiato al muro in compagnia del padre di Tariq, che piangeva.
Dalle voci eccitate, Laila coglieva frammenti che le permettevano di ricostruire l’accaduto: l’uomo del tavolo dove si discuteva di politica, un pashtun, aveva dato del traditore ad Ahmad Shah Massud per “essere venuto a patti” con i sovietici negli anni Ottanta. Il tizio del kebab, un tagiko, si era offeso e aveva preteso una ritrattazione. Ma il pashtun si era rifiutato. Il tagiko allora aveva insinuato che, se non fosse stato per Massud, la sorella del pashtun non avrebbe ancora smesso di “darla” ai soldati sovietici. Erano passati alle mani. Uno dei due aveva estratto un coltello. Non c’era accordo su chi fosse stato.
Con orrore, Laila vide che Tariq si era buttato nella zuffa. Vide anche che alcuni pacieri adesso si erano messi pure loro a tirar pugni. Le parve di intravedere un secondo coltello.
La sera, Laila ripensò a come la baruffa fosse degenerata: gli uomini che cadevano gli uni sugli altri fra urli, grida, strepiti e pugni, e nel mucchio, cercando di sgusciarne fuori, c’era anche uno sghignazzante Tariq, i capelli scarmigliati, l’arto artificiale slacciato.
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Fu trovata una soluzione in modo incredibilmente rapido.
Il presidente Rabbani venne eletto dal consiglio dei capi messo insieme con eccessiva fretta. Le fazioni che erano rimaste escluse gridarono al nepotismo. Massud fece appello alla calma e alla pazienza.
Hekmatyar, uno degli esclusi, era furibondo. Gli hazara, con la loro lunga storia di etnia oppressa ed esclusa dal potere, fremevano.
Lancio di insulti. Dita puntate. Scambio di accuse. Riunioni rabbiosamente cancellate e porte sbattute. La città stava con il fiato sospeso. Sulle montagne si caricavano i kalashnikov.
I mujahidin, armati sino ai denti, in assenza di un nemico comune, presero a scannarsi a vicenda.
A Kabul era giunto il giorno della resa dei conti.
E quando i razzi cominciarono a piovere sulla città, la gente cercò di mettersi al riparo. La mamma riprese il lutto, si rintanò in camera sua, chiuse le tende e trovò rifugio, ancora una volta, sotto le coperte.