All’inizio i sogni, notti al sicuro permettendo, privilegiarono il paradigma d’ansia più comune. Era invischiato nelle strutture istituzionali della sua esistenza precedente – a scuola, in uno dei vari lavori insulsi – mentre gli altri studenti e gli insegnanti, colleghi e capi erano morti. Morti e in un rovinoso stato di decomposizione, rattrappiti dal morbo: ossa che scivolavano sotto la pelle tesa a ogni movimento, gengive nere che si scoprivano per una battuta o per la comparsa di una complicazione nello schema (l’esame è oggi, il supervisore è sul piede di guerra), ferite mollicce e livide. Sgocciolavano, sgocciolavano costantemente da piaghe, occhi, orecchie, morsi. In sogno il loro aspetto non lo disturbava, né disturbava loro. Lo informavano che tutti avevano studiato per il test tranne lui, che la verifica importante era prevista dopo pranzo e non la settimana successiva, che la valutazione del rendimento era già in corso con la complicità di telecamere segrete. Non che fosse mai stato sottoposto a una valutazione del rendimento in vita sua: era un nevrotico tiro a effetto che il suo inconscio gli faceva per spaventarlo riciclando le esotiche fanfaluche di adulti in buona fede. I morti non erano di quelli ferini, né ritardatari. Si comportavano all’incirca come prima, il suo migliore amico, l’insegnante di scienze insidioso, il capo distratto. Se escludevi la faccenda dell’epidemia, erano sogni che faceva da anni.
Cambiarono quando raggiunse il primo grande insediamento. Non era più in ritardo per l’esame finale di un corso al quale non sapeva di essersi iscritto, né in procinto di cominciare la superpresentazione ai capi solo per accorgersi di aver lasciato l’unica copia sul sedile posteriore del taxi. I sogni si svolgevano nel teatro del quotidiano. Gli eventi non subivano escalation da batticuore, né c’erano premi in palio. Prendeva il treno per andare al lavoro. Aspettava che uscisse il suo trancio ai peperoni dall’indaffaratissimo forno della pizzeria. Chiacchierava con la sua ragazza. E tutti i personaggi spalla erano morti. Dicevano: “Stiamo a casa a guardare un film”, “Vuoi anche delle patatine?”, “Sai che ora è?” con le mosche che scorrazzavano sulla faccia in cerca di un lembo molle per deporre le uova, brandelli di carne umana fra gli incisivi come i leggendari spinaci, e braccia che si fermavano al gomito per esibire una meraviglia di osso bianco orlato di muscoli sciolti e tendini sgocciolanti. E lui rispondeva: “Certo, stiamocene a casa tranquilli, è stata una giornata pesante”, “No, prendo un’insalata, grazie”, “Le cinque meno dieci. Fa buio presto in questo periodo dell’anno”.
A una lezione aperta di yoga assumeva la posizione del cane che guarda in giù mentre lo schel accanto si spezzava a metà nel tentativo. Nessuno ci faceva caso: non lui, non l’istruttore morto, non i morti entusiasti e flessibili che gli stavano intorno e nemmeno lo schel bisecato sul tappetino di canapa a motivi floreali che per il resto dell’ora continuava ad agitarsi come un vero irriducibile. Nello spogliatoio, si rivestiva mentre lo schel yuppie al suo fianco infilava un costoso orologio da polso che gli staccava le croste fresche. Uscendo, d’istinto ordinava un frullato misto al bar, decidendo di non dire nulla quando lo schel brufoloso metteva una fetta di banana nel frullatore. Odiava la banana. Lo beveva comunque, soffiando nella cannuccia a righe per espellere un pezzo di polpa, poi, giunto sul marciapiede, si univa alla fiumana di morti dell’ora di punta che tornavano a casa: assistenti legali, circoncisori, precari rassegnati, fattorini in bicicletta e massaggiatori dalle spalle cadenti, una panoplia di cittadini negli spasmi di una lenta decomposizione. L’epidemia era un artigiano meticoloso che sceglieva dove applicare i suoi effetti. I morti si disfacevano, ma ci sarebbe voluto parecchio tempo prima che il pezzo fosse compiuto. Solo allora avrebbe potuto firmarlo. Fino a quel momento, continuavano a camminare.
Prendeva la metropolitana fino al treno dei pendolari e stringeva le dita intorno all’asta ancora calda per lo schel che vi si era tenuto fino a un attimo prima. Sui poster pubblicitari all’altezza degli occhi, teste di morti ritoccate raccomandavano scuole professionali e rimedi vari. Alcuni cadaveri salivano sul treno educatamente, altri erano piuttosto prepotenti e spingevano per entrare mentre lui cercava di scendere. Tutti ansiosi di sfangarla fino a casa. Al binario dei pendolari si accertava di avere l’abbonamento mensile nel portafoglio e immaginava la serata. Farsi portare a casa qualcosa da mangiare, aprirsi una birra e guardare il reality che aveva videoregistrato tre giorni prima. Si svegliava mentre il treno usciva dal tunnel e correva in superficie.
L’unica cosa inquietante del sogno era che non aveva mai seguito una lezione di yoga in vita sua.
Questa serie sfuggiva alla categoria degli incubi. Si svegliava riposato, o quanto meno sollevato rispetto al terrore mattutino in cui si era barcamenato per mesi. La nuova stagione onirica lo lasciava stranamente indifferente. I morti parlavano del più e del meno, blateravano ipotesi sul fronte freddo dell’indomani, carambolavano passivamente di impegno in impegno come avevano fatto in precedenza, ma erano infetti. Gli tornò in mente una vecchia teoria che vedeva nei sogni la realizzazione dei desideri, e un’altra secondo la quale si è ogni persona che compare in sogno; entrambe sembravano ugualmente plausibili e irrilevanti, e alla fine non perse troppo tempo ad analizzarle. Era un uomo indaffarato, ormai.
Via per la nuova griglia, e buona fortuna. L’unità si spremette sulla lingua pasta di uova e bacon – color ambra con spirali d’un rosso marronastro – e preparò gli zaini. Kaitlyn posò la biografia sul davanzale come dono per l’ospite successivo del soleggiato resort. Erano quasi arrivati alle scale, quando si ricordò del rilevatore di movimento. Tornò a prenderlo. Succedeva spesso in quel periodo. Era bello sapere che c’era anche se non aveva suonato nemmeno una volta dall’inizio della missione.
La nuova assegnazione era Fulton Street x Gold, Misto Residenziale/Uffici, pochi isolati più a est. Cominciò come una spruzzatina da niente, ma Mark Spitz tirò su la mantellina per via della cenere e gli altri lo imitarono appena la pioggia si intensificò.
Procedettero senza parlare, finendo di svegliarsi lungo il cammino. Mentre marciavano fra le pozzanghere grigie, Kaitlyn fischiettò “Fermo! Senti l’aquila ruggire?” (colonna sonora di Ricostruzione), l’irrefrenabile inno fenicino. «E se quando arriviamo lì» disse infine Gary «sono collassati tutti? Si sono beccati la stessa roba di quegli schel delle distese e d’ora in poi ci resta solo da imbustarli?» Stessa antifona ogni volta che cambiavano griglia.
«Sarebbe bello» rispose Mark Spitz. La scoperta delle distese di morti quella primavera aveva accelerato l’inizio di numerose operazioni di ricostruzione. La voce era giunta con i nuovi sopravvissuti che a fatica avevano oltrepassato i cancelli del campo con le loro assurde storie di prati e parcheggi di centri commerciali coperti di morti. Non che qualcuno li avesse neutralizzati e poi se ne fosse andato senza sterilizzare l’area, le teste erano intatte, dissero. Sembrava che i morti fossero caduti sul posto.
Rientrare nell’anticamera della civiltà era sempre difficile, e più tempo i sopravvissuti passavano fuori, più era difficile recuperarli. Ma perfino dopo aver fatto una doccia calda, aver dormito come sassi per dodici ore filate e assaggiato il grano (tutti erano giustamente orgogliosi del raccolto), i rifugiati avevano continuato con le loro storie farneticanti. Poi le unità di ricognizione erano tornate con la conferma video, registrata lungo tutta la costa. I morti cadevano en masse nei luoghi all’aperto. Un campo da calcio di un liceo nella lontana Raleigh cosparso di cadaveri, un parco pubblico a Trenton dove mosconi neri ronzavano sul banchetto. Buffalo diffuse voci di corridoio generate dai think-tank: l’epidemia aveva finalmente e inevitabilmente esaurito tutto quello che il corpo umano poteva sopportare. C’era un limite al saccheggio, il che significava un limite alla devastazione.
I rapporti sulle varie distese di morti giunsero nello stesso periodo, suggerendo (secondo alcuni) che l’infezione si sviluppasse in un determinato arco temporale. Era la stagione dei dispacci incoraggianti. Comunicazioni costanti con altre nazioni, informazioni che andavano e venivano sorvolando i mari. Metti poi il continuo consolidamento di gruppi e clan di non infetti, più il semplice fatto che secondo ogni misuratore empirico gli attacchi e avvistamenti di schel erano diminuiti, e c’era motivo di rispolverare il vecchio ottimismo. Bastava guardare il debole movimento nelle ceneri: di certo questa è la risorgente Fenice Americana. Almeno così dicevano le magliette prelevate dagli scatoloni biodegradabili provenienti da Buffalo. Disponibili anche in misure da poppanti.
Mark Spitz ebbe modo di osservare in prima persona la riduzione nel numero degli schel. Semplicemente, di quegli sfigati sifilitici ce n’erano meno in giro, una benedizione durante il periodo passato nel Corridoio nel maledetto Connecticut e oltre. Ma, a parte le distese di morti – di cui non c’erano cifre precise data la diffusa voglia di bei falò risolutivi – nessuno sapeva spiegare dove fossero finiti gli schel. Secondo una scuola di pensiero l’esposizione all’inverno feroce li aveva falcidiati. Le speculazioni erano al di sopra del suo livello contrattuale, tanto più che era pagato in calze e filtro solare.
Kaitlyn disse: «Non ho ancora sentito che sia successo in aree urbane». Si accorse dell’espressione delusa di Gary e, tenendo a bada la propria impulsività, aggiunse: «Però potrebbe».
Mark Spitz tese un braccio per fermarla, un gesto ereditato dai suoi genitori, che l’avevano ereditato dai propri genitori, che ricordavano un tempo prima delle cinture di sicurezza: aveva scorto un movimento sull’altro lato della strada.
Obsoleti o no, i protocolli da terra desolata si avviarono. Il suo cervello confrontò il repertorio di scenari e scontri precedenti con la scena in Fulton Street, inserendo comportamento, equipaggiamento, postura ed espressioni facciali nel database. Morto o bandito, ritardatario o sopravvissuto, spesso era difficile distinguerli. Parlavano? Era quella la prima verifica. Possedevano ancora il linguaggio? Da lì si capiva. Prima che fossero allestiti i campi, in aperta campagna, dovevi tenere d’occhio chiunque incontrassi. I morti erano prevedibili. Le persone no. I più erano come Mark Spitz, solitari che se la cavavano a stento in quell’immensità, barretta energetica dopo stantia barretta energetica. Una volta stabilito che si era entrambi senzienti, ti avvicinavi per un cauto abboccamento. Da dove vieni, a quale miraggio hai agganciato le tue speranze, hai visto altre persone (secondo i vecchi parametri), dov’è che non dovremmo avventurarci. Le informazioni essenziali.
Se sceglievi di stare insieme per un po’, ciascuno finiva per raccontare la propria storia dell’Ultima Sera. In quella sconfortante avventura, i sopravvissuti tentavano di trascinarsi fino ai mitici insediamenti e forti che avevano immaginato, dove l’epidemia era parte di una frazione del notiziario dedicata alla tragedia di un’altra città, un riempitivo prima delle previsioni del tempo, dove c’erano corrente elettrica e prodotti agricoli a volontà, bambini che giocavano e coniglietti saltellanti. Un porto sicuro. Ogni ripetizione della storia dell’Ultima Sera era un ulteriore passo verso un altro fantastico rifugio, quello della verità. Mark Spitz aveva rifinito la sua storia dell’Ultima Sera in tre versioni. L’Abbozzo era per quei sopravvissuti con cui non avrebbe viaggiato a lungo. Si era stufato in fretta dello sconosciuto che gli stava davanti accanto alla porta della cantina della fattoria, o accanto al metal detector della motorizzazione civile, dove gli schel non potevano vederli, sicché scodellava il brodino dell’Abbozzo dalla disperazione per la fine di una conoscenza. In fondo in fondo, le storie dell’Ultima Sera erano tutte uguali: sono arrivati, siamo morti, ho cominciato a correre. L’Abbozzo poteva bastare. Non c’era bisogno di consegnare il cuore, la parte buona. Ci si divideva prima ancora di cominciare a parlare.
L’Aneddoto, robusto e con più polpa intorno all’osso, lo offriva a quelli con cui poteva rintanarsi per una notte in un ristorante greco a gestione familiare da tempo svuotato, in una casa mobile fatiscente con le erbacce che spuntavano dalla moquette o sul tetto di un casello autostradale, dove arrostivi ma eri grato per la vista a trecentosessanta gradi. Proponeva la versione Aneddoto anche negli incontri con gruppi più numerosi, quando l’Abbozzo poteva sembrare scortese, ma il Necrologio era troppo intimo per condividerlo con le facce appena intuite raccolte intorno alle torce. L’Aneddoto comprendeva un accenno ad Atlantic City, il viaggio di ritorno a casa (spettacolarmente profetico in retrospettiva, con i fantasmi che giocavano a pallacanestro), e finiva con la frase: «Ho trovato i miei genitori e poi ho cominciato a correre». Aveva appreso che per gli sconosciuti era il minimo accettabile per potersi addormentare senza temere che li avrebbe uccisi a mazzate nei sacchi a pelo. Le versioni che quelli fornivano in cambio, invece, per quanto ricche di dettagli significativi e sincerità, a lui per dormire non bastavano mai.
Il Necrologio, benché rifinito per mesi e non privo di un’aria collaudata, restava comunque autentico e in più punti rifletteva la sua vera natura, pieno com’era di digressioni sulla lunga amicizia con Kyle, sulla nostalgia per le vecchie gite ad A.C., sull’atmosfera inquietante e spenta dell’ultimo fine-settimana al casinò, fino a un’accurata descrizione del quadretto a casa e relative conseguenze. Sebbene nelle narrazioni successive gli aggettivi tendessero alla neutralità, il Necrologio era il sacro nella sua veste mondana. L’ascoltatore di solito ricambiava in maniera analoga, a meno che la rivisitazione della notte più lunga non mettesse entrambi in fuga, cosa che di tanto in tanto accadeva. Avevano trascorso un po’ di tempo insieme. L’altro avrebbe potuto essere l’ultimo essere umano che ciascuno aveva visto prima di morire. Parlante e ascoltatore, chi dava e chi riceveva, volevano essere ricordati. Il Necro tramandava tutto per un futuro tranquillo e lontano in cui da tempo non c’eri più e uno sconosciuto si sarebbe preso la briga di dire il tuo nome.
Dietro la curva si materializzavano degli uccellacci del malaugurio, ovviamente, e due minuti della loro compagnia bastavano. Erano andati. Malati, non colpiti dall’epidemia, ma da vari acciacchi da bestie da soma che si erano inaspriti di recente nella terra desolata: polmonite, artrite reumatoide e simili. Roba che richiedeva farmaci generici da decodificare nelle farmacie spoglie. Oppure erano impazziti. Come era riuscito ad arrivare fin lì quel mezzo schel decerebrato? Dio aveva protetto bambini e ubriachi e adesso non proteggeva nessuno, ma quegli sventurati in qualche modo ce la facevano. Non avevano provviste né uno straccio di arma, non possedevano altro che quello che avevano indosso e le loro ferite. Magari se ne sarebbero tirati fuori, la tosse sarebbe sparita con un pacchetto di zuppa di pollo reidratata, ma Mark Spitz si affrettava a battere in ritirata, più veloce che se avesse avuto un centinaio di schel alle calcagna. Più sicuro partire dal presupposto che con loro avrebbe finito per farsi ammazzare. Magari genitore e figlio spuntavano sulla sommità di una vecchia strada di campagna, smunti e sospettosi, e Mark Spitz se ne allontanava anche se erano ben equipaggiati. La condizione di genitore rendeva gli adulti imprevedibili. Esitavano nel momento cruciale in considerazione delle capacità o della sicurezza del figlio, si facevano la paranoia che lui volesse violentare o mangiare la loro prole, lo rallentavano con la loro andatura da bimbi o lo distraevano obbligandolo a meditare sulle loro bizzarrie. Erano peggio dei banditi, che volevano soltanto la tua roba e a volte riuscivano a prendersela al primo incontro oppure puntandoti una pistola addosso appena si presentava l’occasione, mentre dormivi o pisciavi. I genitori erano pericolosi perché non volevano le tue preziosissime scorte. Avevano già i gioielli di famiglia, e il raziocinio ne era paralizzato.
Per qualche tempo si agganciò a sconosciuti con cui scambiava un lercio barattolo di composta di mirtilli rossi o un succo di frutta, come da nuovo rituale di saluto, informazioni sulle grandi questioni del giorno, tipo le concentrazioni di morti, e su affarucci come le condizioni del mondo. A qualche mese dall’inizio del crollo solo gli idioti chiedevano del governo, dell’esercito, delle stazioni di soccorso designate, di tutte le isole irraggiungibili, e gli idioti diminuivano di giorno in giorno. Rimaneva con loro finché optavano per destinazioni diverse, litigavano sulle teorie relative al comportamento degli schel o su come individuare segni di botulino in una lattina ammaccata. La gente si dedicava alle cose più assurde. Rimaneva con loro finché venivano attaccati e quelli morivano, e lui no. A volte li scaricava perché… cazzo, parlavano davvero troppo.
Smise di agganciarsi ad altri quando si rese conto che il suo primo pensiero era calcolare se sarebbe riuscito a correre più veloce di loro.
Dopo Mim, Mark Spitz fece a meno dei vari buona-fortuna e ci-si-vede-in-giro. Si alzava furtivo alle prime luci. Sentiva i suoi compagni temporanei svegliarsi allo scalpiccio di commiato, ma non si muovevano dai miseri sacchi a pelo una volta capito che non stava rubando nulla, non le batterie e neanche gli hard disk portatili pieni di foto di famiglia. Né a loro importava sentirsi dire “arrivederci”.
Quel pomeriggio in Fulton Street, Mark Spitz diede un taglio alle proprie routine di benvenuto appena individuò le tre figure sull’altro lato della strada. Persone. Portavano la mantellina, e chi se la metterebbe la mantellina, se non un essere colpito dalla maledizione del libero arbitrio? I morti non la portavano. Gary urlò qualche saluto seguito da epiteti affettuosi. Il gruppetto ribatté con entusiasmo, canticchiando un ritornello sdolcinato che aveva a che fare con isole nella corrente.
Era l’unità Bravo: Angela, No Mas e Carl. Considerata l’enigmatica distribuzione delle griglie assegnate dal tenente, era raro che le unità si incontrassero nella Zona. Le dieci unità di spazzini andavano avanti e indietro come se avessero dovuto spuntare una lista di cose da fare: nel posto che garantisce la consegna entro il giorno successivo per inoltrare la domanda di lavoro, di corsa in lavanderia, poi nel negozio di formaggi a comprare quel bel tocco esoterico dopo aver stupidamente chiesto all’ospite se occorreva portare qualcosa. Quando si incrociavano era un piacevole diversivo.
Come al solito, Gary aveva un passato con quelli che incontrarono. Aveva prestato servizio con tutti e tre a ripulire l’esasperante Connecticut prima di essere assegnati alla Zona. Il Connecticut con le sue orde bubboniche sans limites e il famigerato talento nel coniare nuove facce della sfortuna, il depravato Connecticut dalle notti senza stelle e mattine fameliche, il Connecticut delle brutte notizie generava squadre di inseparabili straccioni. Al confronto Mark Spitz e i pochi spazzini provenienti da altri Stati erano sbarbatelli che ripetevano perennemente il primo giorno da recluta. Aveva un’avversione particolare per No Mas, che se ne andava in giro per Wonton a vantarsi del suo album con le umiliazioni inflitte ai ritardatari. Mettiamo che uno spazzino lo pungolasse durante il turno di riposo della domenica sera: «Chi hai visto questa settimana?» e No Mas coscienziosamente si lanciava nella cronaca delle ultime bravate. Teneva un pennarello rosso nel giubbotto e gli piaceva disegnare goffi sorrisi da clown sulle facce tolleranti dei ritardatari, battezzando ciascuno con un nome adeguato. Poi puntava la bocca del fucile d’assalto alla tempia di Mr Ridarella o di Sua Altezza Elevatissima Lady Griselda, sorrideva all’uccellino e si faceva fare una foto da Angela prima di spappolargli il cranio. La domenica sera al quartier generale No Mas divideva una branda con un giovane impiegato che gli stampava i souvenir su carta patinata. «Se trovi Capitan Ridolini, fammi uno squillo. Lo detesto» gli dava corda uno del pubblico porgendo un tazzone I love New York pieno di whisky. Tanto per divertirsi un po’.
Angela e Carl erano più discreti circa le proprie trasgressioni, perlomeno quando la compagnia si allargava, ma Mark Spitz li aveva sentiti ricordare il tempo passato con un gruppo di banditi a fregare aspirina e intimo termico a sopravvissuti più deboli, e chissà quali altre cattive azioni. Non faticava a immaginarsi la loro spensierata scalata della Fenice Americana fino a posizioni di autorità venale. A indagare persone segnalate per recuperi illeciti – “Non so proprio come abbiano fatto tutte quelle scarpe a finire nel mio armadio, agente, ma non sono divine?” – per poi barattare i beni confiscati sul mercato nero. O ad affittare appartamenti a New York, magari assegnandoli ai nuovi arrivati secondo appetiti e capricci, accettando una bustarella qua e un favore sessuale là in cambio di un edificio migliore, un isolato migliore, esposto a mezzogiorno. Due bagni, vista parco e seminterrato uso deposito avrebbero riacquistato il proprio valore nel nuovo ordine, e la burocrazia malsana crea i propri avatar. Venivano dal Connecticut, il ripugnante Connecticut.
La pioggia aumentò. Le due unità si strinsero sotto la tenda di un locale noto per caffè e ciambelle aggiornandosi reciprocamente sulla settimana. Bravo raccontò come avessero perso mezza giornata e riempito due confezioni di sacchi per sgomberare un branco di suicidi in decomposizione dalle panche di una chiesa ucraina. Al solito: sedetevi in cerchio e prendete una tazza, agirà in fretta. A un certo punto Bravo aveva smesso di aprire le mani a tutti per togliere i crocifissi e li aveva semplicemente chiusi nei sacchi con i cadaveri.
Per Omega erano state un paio di griglie facili facili, a parte l’atterramento di Mark Spitz, di cui Kaitlyn, circospetta come sempre, non fece parola. Finì per raccontare del nightclub cinese segreto. Omega era giunto alla conclusione che si trattava di un covo di gangster, due rampe di traballanti scale sopra un negozio che vendeva erbe rinsecchite come le dita dei morti. Il retro era un trionfo di macchinette mangiasoldi elettroniche, pistole con l’impugnatura rivestita di nastro adesivo e foto di minorenni discinte. Una cassaforte hi-tech se ne stava rannicchiata in una cavità del muro piena di chissà cosa, oppio e vari capi di imputazione. La tana di un criminale da film, disse. Si era dimenticata che quel posto l’avevano scoperto due settimane prima e aveva già raccontato la storia. Nessuno la interruppe. Pioveva. Erano in pausa caffè.
Mark Spitz si sfregò gli occhi. Avrebbe voluto dire a Bravo del ritardatario triste nel laboratorio riparazioni, ma faticava a spiegare perché l’affascinasse tanto. Avevano trovato quell’armeggione davanti a un tavolo da lavoro maestosamente ingombro, in meditazione sulle viscere di un videoregistratore. Intorno si ammucchiavano i gusci di varie macchine, un sottile skyline di metallo. Il vecchio era circondato da tecnologia obsoleta, una sgraziata serie di apparecchi che per una generazione precedente erano stati il meglio per ascoltare musica o tostare il pane. Che razza di idiota amava quei rottami al punto da cercare quel posto su internet e sottrarre tempo alla propria vita per portarli a far togliere i batuffoli di polvere accumulati sulla scheda madre? Il genere di idiota che sa che esistono idioti pronti a firmare un contratto di affitto per fare quel tipo di cose. Nutrivano le reciproche illusioni. I mucchi di pezzi avevano ricordato a Mark Spitz la volta in cui avevano ripulito il magazzino di protesi, circondati da avambracci e piedi rosa che penzolavano dal soffitto o spuntavano dalle scatole. Persone incomplete. Tutte parti morte.
No Mas e Gary si accesero una sigaretta, il che spinse Kaitlyn a fulminarli con un’occhiata e dare in un teatrale accesso di tosse. Angela ringraziò Cristo che era sabato, per cui il giorno dopo sarebbero tornati a Wonton per una notte di riposo. Chiese se avessero visto qualcun altro in giro.
Kaitlyn scosse la testa. «Tutto piuttosto morto.»
«Ho incrociato Teddy e gli altri sulla West Broadway» disse Carl con un ghigno. «Prima ho visto il fumo. Stavano facendo un barbecue.»
Gary ridacchiò. Kaitlyn volle sapere le coordinate.
«Non ricordo» rispose Carl. Puzzava di urina. «Avevano recuperato un grill portatile e si erano messi sotto la grande tettoia di vetro di un palazzo fichissimo. Con tanto di tovaglia rossa sul marciapiede e tutto.»
«Cosa stavano cucinando?» domandò Kaitlyn, indubbiamente immaginando burger ricavati da carne lavorata di contrabbando. Grill rubato, tovaglia pure. Già due infrazioni.
Si fecero cauti. Stile Connecticut. «Saranno state le razioni pronte, devi chiedere a loro.»
«So solo che il profumo era buono» disse No Mas.
«Potrebbero beccarsi un’ammonizione» borbottò Kaitlyn. Gary diede un’alzata di spalle. Angela cambiò argomento chiedendo dove erano diretti.
Gary scese dal marciapiede e controllò il nome della via. «Qui.»
«Errore» disse Carl. La faccia si irrigidì. «Questa è nostra.»
Le griglie assegnate erano identiche. Fulton x Gold. Si spostarono all’incrocio per controllare che non si stessero contendendo isolati adiacenti e non poterono fare a meno di notare che il lato est di Gold Street aveva la benedizione di case a tre e quattro piani e che un enorme parcheggio dominava il lato nord di Fulton Street. Una pacchia. Massimo quattro giorni di lavoro, che nelle mani giuste potevano essere stiracchiati fino a sei o sette senza che Wonton ne sapesse nulla. C’era da litigare.
«Siamo arrivati prima noi» disse No Mas.
«Non c’entra niente» ribatté Mark Spitz. Il parcheggio era praticamente vuoto. Nemmeno un cadavere accasciato sul volante da imbustare. Quanto ai bagagliai, non avevano ordine di controllarli.
«È nostro.»
«Non è normale che il tenente sbagli» disse Kaitlyn. «Chiamatelo con la vostra radio. La nostra è in tilt.»
«Radio?» disse No Mas. «È tutta la settimana che non prende un cazzo.»
«Hanno messo le nonnette fenicine a fare ’sta roba, che ti aspettavi?» disse Carl.
Gary lasciò andare una serie di improperi. «Ii-ho de puta. Fabio. Vi ricordate quella volta che ha dato una griglia a Marcy e poi è saltato fuori che era oltre la muraglia. Su per Spring Street. Quello è fuori di testa.» Gary guardò No Mas, e Mark Spitz si accorse che l’altro si affrettava ad abbassare lo sguardo per studiare il marciapiede.
Fabio aveva distribuito le griglie la domenica precedente. Il tenente era stato convocato in quel di Buffalo, sicché c’era solo il vice. Con il capo fuori città, Fabio li aveva informati che non c’era bisogno di rientrare. Aveva dato istruzioni di saltare il consueto turno di riposo e rimanere nella Zona, quelli dello smaltimento avrebbero lasciato delle razioni durante i loro giri. Aveva mandato le griglie via radio augurando a tutti buona fortuna. «Sarà meglio che ci riprendiamo quel turno di riposo,» raccomandò Gary alla sua unità «o qualcuno finirà per farsi male.»
«Il tenente gli fa un culo che non finisce più quando gli raccontiamo che casino ha fatto» disse Angela.
Tornarono alla tenda e aspettarono che spiovesse, come ai vecchi tempi, cittadini normalissimi a parte i fucili d’assalto. E il resto dell’equipaggiamento. Un gocciolone atterrò sul dorso della mano di Mark Spitz; non portava i guanti. Sulla pelle, un contorno di particolato grigio. Cadendo, la pioggia catturava la cenere e, levando lo sguardo, Mark Spitz immaginava le gocce come lunghe striature grigie che colavano a terra. Sopra la sua testa, giganti che strizzavano strofinacci sporchi. «Guarda qui» disse a Gary indicando la propria mano.
Gary si accigliò. «Non vediamo niente.»
Quando Mark Spitz era piccolo, suo padre guardava con lui i suoi film preferiti, quelli sulle guerre nucleari. Un legame padre-figlio nei pomeriggi nuvolosi. Facce fresche di stelle nascenti che non avevano mai sfondato e facce segnate di caratteristi marciavano attraverso piogge acide e paesaggi imbrattati di cenere, perseverando, schiaffeggiando compagni isterici – Calmati, ce la faremo – cadendo a uno a uno nella caccia al favoleggiato rifugio. «Cosa vuol dire “apocalisse”, papà?» chiedeva, e suo padre premeva il tasto pausa prima di rispondere: «Vuol dire che in futuro le cose andranno ancora peggio di come vanno ora».
Al college, in occasione di un compito sulla guerra fredda, Mark Spitz si era barcamenato come al solito. Avevano appeso il loro destino ad atomi spaccati. Erano ignari del progetto distruttivo dell’epidemia, ma avevano visto la cenere. L’onnipresente, inesorabile grigio era un’anomalia atmosferica locale, non quello che Buffalo aveva in mente proponendo l’immagine della Fenice Americana, ma funzionava. Risorti dalle ceneri, rinati.
Carl si fermò. Gli altri si voltarono. C’era un morto che veniva giù per la via. Era uno spettacolo strano dopo tutto quel tempo, così, all’aperto. Sulle loro strade. Mark Spitz aveva visto solo un altro schel a piede libero dal suo arrivo. Questo era riuscito a scampare ai marines e finalmente era uscito dalla sua squallida cella, lo stanzino al bowling dove tenevano le scarpe non proprio immacolate o la cantina sotto il bugigattolo del souvlaki. Risvegliato dal loro battibecco, lo schel li aveva individuati e, infilandosi fra due utilitarie straniere, virava lentamente dall’asfalto verso il marciapiede. Camminava sotto la pioggia come nessuno avrebbe fatto in un rovescio simile, senza rabbrividire né battere ciglio, con l’acqua che gli rimbalzava sulla testa e sulle spalle formando una nuvola simile a uno sciame di moscerini. Si avvicinava, implacabile e sicuro, con il ben noto passo lugubre.
Indossava un cupo gessato coperto di macchie, una sostanziosa cravatta rosso cremisi e mocassini marrone scuro con le nappe. Un assicuratore, pensò Mark Spitz. Non era più uno schel, ma una versione di qualcosa antecedente i tormenti. Era uno di quei businessmen silurati o sul lastrico che fingono di andare in ufficio per salvare la faccia in famiglia e passano tutto il giorno al parco, su una panchina sfondata a dar da mangiare briciole di bagel ai piccioni, con la valigetta piena di sacchetti delle patatine vuoti e volantini di centri massaggi. Da tempo la città aveva la propria epidemia. L’infezione aveva convertito quella creatura in uno dei vecchi quadri perdenti, l’ennesimo spezzato e deluso, disadattato, sfortunato a oltranza. Sbucavano da camere singole o si staccavano dal divano-letto del parente impoverito e uscivano alla luce del sole barcollando verso miserevoli avventure. Li aveva visti arrancare dolenti lungo i marciapiedi, coccolarsi una tazza di caffè con troppo latte nel baretto all’angolo nei periodi di apertura fra un giro di vite dell’ufficio d’igiene e l’altro. La creatura davanti a loro era l’uomo sull’autobus cui nessuno si sedeva accanto, lo sparuto mistico che strillava sentenze nell’affollato vagone della metropolitana, quello che i nuovi arrivati in città giuravano di non diventare mai, ma ovviamente qualcuno poi lo diventava. Questione di percentuali.
Fu Carl a sparare, poi ripresero le trattative.
«Non è che questo casino si risolve da solo» disse Kaitlyn. «Mark Spitz, va’ a vedere com’è la situazione.»
«Perché proprio lui?» ribatté Carl. Mark Spitz non aveva mai visto un duro mettere il broncio.
«Perché è uno che tira dritto per la sua strada.»
Angela, la leader dell’unità Bravo, non protestò. Sembrava rassegnata a perdere la griglia e si stava corazzando in vista dell’ostacolo successivo, quale che fosse.
Kaitlyn si sfilò il fucile dalla tracolla e lasciò cadere lo zaino. Sedette a gambe incrociate sul cemento. «Adesso chi va a imbustare quello schel?»
Aveva conosciuto Mim in un negozio di giocattoli. Minimarket, ipermercati, farmacie e altri probabili luoghi sospetti erano stati perlustrati a fondo, sicché Mark Spitz aveva cominciato a dedicarsi ai negozi di giocattoli. L’epidemia gli aveva fatto rivivere delusioni primigenie: in giorni più teneri era stato tormentato dalla dicitura BATTERIE NON INCLUSE abbastanza spesso perché gli restasse un segno permanente. La trovava una tattica ingegnosa, visto che parecchi negozi di giocattoli avevano ancora l’espositore delle batterie dietro il bancone, perfino nell’odioso Connecticut, dove aveva incontrato Mim durante un raid di mezzogiorno. Una manciata di schel se ne andava a zonzo per Main Street, le bussole interne insensibili a un nord che non fosse il riquadro lastricato successivo. Passò sul retro, dove c’era il parcheggio dei dipendenti e visse dieci minuti ad alta tensione mentre grattava come un forsennato per forzare la porta con un piede di porco, finché gli giunse una voce smorzata: «Chi è?».
«Sono vivo» disse Mark Spitz, e lei lo fece entrare.
Si chiamava Miriam Cohen Levy e per molto tempo fu l’ultima persona che gli disse il nome completo. Fin dall’inizio aveva bazzicato i negozi di giocattoli. «Ho tre figli» gli disse in seguito.
Chiacchierarono nella corsia dei robot. L’attrezzatura di Mim era posata a terra in sacchetti di nylon vivaci e ordinati. La sua arma d’elezione era un’ascia dalla lama rossa strappata alla dotazione antincendio di una scuola elementare o un edificio comunale, talmente pulita da scintillare perfino alla debole luce che filtrava dalla vetrina. «Germi» disse. «Ma se posso, preferisco correre. Cardiofitness.»
Mark Spitz notò che c’erano solo due punti di accesso all’edificio. Indicò la scala a chiocciola. «Altri giocattoli al piano di sopra. Puoi mettere lì il tuo zaino» disse da brava padrona di casa. «Sei diretto a Buffalo?»
«Cosa c’è a Buffalo?»
«Il governo è lì adesso. Hanno organizzato un grande complesso.»
Quella non l’aveva ancora sentita, ma confermava la sua teoria secondo la quale ogni favoleggiato rifugio si trovava in un luogo che non aveva mai avuto la minima intenzione di visitare. «L’ultima che ho sentito era che la gente puntava verso Cleveland.»
«Quello era un po’ di tempo fa.»
«Buffalo è la nuova Cleveland.»
Così si diceva in giro, gli spiegò. Mim si era unita per una settimana ad alcuni pellegrini diretti a Buffalo, ma poi le era venuto qualcosa allo stomaco e l’unico modo per patire meno era restare sdraiata sul fianco tutto il giorno. Si erano scusati, nulla di personale, ma dovevano lasciarla indietro. Lei non se l’era presa. «Sono le regole» disse a Mark Spitz con una rapida alzata di spalle.
Mim aveva continuato a spostarsi dopo l’implosione del suo ultimo bivacco. Aveva trascorso l’estate e la maggior parte dell’autunno in una magione a Darien: due pasti e mezzo al giorno, muri di pietra e un generatore. I proprietari erano morti, ma il figlio del giardiniere, Taylor, aveva le chiavi e vi si era installato all’inizio dell’abominio. Da piccolo giocava a Guerra Spaziale e conosceva i tunnel scavati nella proprietà durante il proibizionismo e conservati all’apice dell’infedeltà. Un sacco di uscite, nel caso le altre venissero infestate dagli schel. Taylor reclutava altri sopravvissuti nelle missioni in cerca di benzina o li sorprendeva a scalare il muro di cinta, zainetti pieni di lattine e accessori. Se vedeva qualcosa in te che gli piaceva, ti invitava a fermarti. Si vestiva come un biker tutto muscoli, ma era d’animo dolcissimo; era un vezzo, e quando cacciava qualcuno, quello ubbidiva.
«Non era un pazzo che cercava di mettere su una setta» disse Mim succhiando la polverina di un preparato proteico e leccandosi le dita. «Niente follie tipo ogni giovedì a mezzanotte dovete ammazzare il più vecchio fra voi, voleva soltanto persone con cui andava d’accordo. Più che altro cannati.» Il picco di Willoughby Manor era stata una popolazione di trenta persone, e pure ben organizzate. Spedizioni in cerca di cibo, tabelloni con le varie attività. «Niente bulli, niente stupri. Un profilo basso evitava che i morti si avvicinassero.» La regola era luci spente appena faceva buio e tutti in cantina per serate di degustazione vini. Nei vari tunnel c’erano un sacco di divertimenti per passare il tempo. Giocavano a poker fra il Brunello, al gioco dei mimi davanti alle vendemmie argentine, guardavano le sit-com preferite nell’ultima stanza, non finita, che si trovava, pensa un po’, sotto la piscina. Avevano sottratto Mim alla noia di Darien quando lei aveva sbagliato a calcolare la distanza di sicurezza e tentato di superare uno sciame di schel in cui si era imbattuta. «Non ti manda in bestia quando succede?» chiese. «Ti stai facendo i fatti tuoi, cerchi giusto un burro di cacao, e bum!» Quelli di Willoughby l’avevano issata su un Suv e lei si era arruolata.
«Sembra una buona sistemazione.»
«Fantastica. Pensavo che sarei rimasta lì ad aspettare la fine di tutta la faccenda.» Cambiò tono. Non era la prima a travisare l’espressione di Mark Spitz. «Ci credo ancora… credo che riusciremo a sconfiggere questa cosa. Anche se ci vorrà chissà quanto. E poi ce ne andremo tutti a casa.»
Lui strinse i denti per conservare la maschera.
L’idillio era terminato quando uno del gruppo, Abel, aveva elaborato teorie tutte sue sull’epidemia e relativo andamento. Era uno di quei tipi da apocalisse come igiene morale con una spruzzata di socialismo da università. I morti erano venuti per ripulire la terra dal capitalismo e dall’enorme sovrastruttura borghese con i suoi centrini, genitori iperprotettivi e video in streaming per restituirci alla natura e a una sana vita di comunità. Nessuno gli dava granché retta, disse Mim; Abel era un gran lavoratore e nelle lande desolate si incontravano persone ben più fuori di testa.
Negli ultimi mesi Mark Spitz aveva incontrato frotte di tipi da castigo divino. Era il loro momento, venditori di ombrelli all’uscita di una stazione della metro nel bel mezzo di un diluvio. La razza umana meritava l’epidemia, ce l’eravamo tirata addosso per aver avvelenato il pianeta, per la morte di Dio, per le calcolate brutalità del sistema economico globale, per aver causato l’estinzione di specie primordiali: il collasso dell’intero sistema di valori si manifestava in tutto, dalla fissione nucleare ai reality in Tv al parcheggio a giorni e lati alterni. Mark Spitz sopportava simili arringhe per un paio di minuti prima di rompersi. Una noia. L’epidemia era l’epidemia. Ti eri messo le calosce, oppure no.
«Poi, una sera,» riprese Mim «finì tutto.» Erano quasi tutti in cantina per la serata dei giochi, quando Abel era sceso dicendo che non poteva più starsene lì con le mani in mano mentre gli altri ignoravano il verdetto dell’epidemia. Che diritto avevamo di ridere e divertirci e giocare a poker mentre il resto del mondo subiva la giusta punizione? «Ecco perché» aveva detto «ho aperto i cancelli.»
Erano risaliti di corsa. Abel aveva fatto più che aprire i cancelli. I morti avevano invaso la proprietà, riversandosi nel salone dalla veranda «come invitati a un matrimonio in cerca di un cocktail dopo la cerimonia». Abel doveva averli attirati con la promessa di un buffet. Il posto era perduto. «Il solito parapiglia» disse Mim. Si era ritrovata isolata da tutti gli altri, ma era riuscita a recuperare un po’ di roba che aveva nascosto in un angolo remoto del muro di cinta proprio per simili emergenze. «Fermati pure dove vuoi» commentò Mim. «Offriti per il turno di lavoro e va’ ad annaffiare i pomodori. Ma devi nascondere uno zaino d’emergenza, perché prima o poi va tutto a catafascio.»
Gli piaceva tantissimo, malgrado la sua fede in Buffalo. Tutto fumo: il grande insediamento oltre la prossima altura, la base militare a due giorni di cammino, la comune utopica sull’altra sponda del fiume. Non erano mai esistiti o quando arrivavi erano stati distrutti da tempo, tanfo di cadaveri e fuochi ormai fumanti. Oppure erano pazzi che avevano elaborato una nuova società demenziale: costituzione fascista o regole deliranti, tipo tutte le donne devono andare a letto con gli uomini per rimpinguare la razza, o qualche altro segreto malsano che scoprivi solo dopo un paio di giorni di permanenza e quando dovevi filartela ti accorgevi che ti avevano nascosto le armi e rubato i dadi per il brodo. Mark Spitz era allergico ai gruppi per il momento, ma, se avesse trovato la combinazione giusta, avrebbe cominciato a usare il trucco di Mim. Mettersi da parte una riserva.
Mark Spitz era disposto a prendere solo le batterie che Mim non voleva, ma lei insistette per dividerle equamente. «Non posso portare tutto questo, è assurdo. Prendine.» Aveva riempito lo zaino, poi l’aveva sentita imprecare.
Mim era alla finestra. «Brutto tempo» disse. Lui pensò che avesse cominciato a nevicare; era dal mattino che fiutava la neve nell’aria. Poi si avvicinò al vetro e vide Main Street. Si buttò a terra. Era chiusa la porta sul retro? Sì. Strisciarono dietro le corsie di giochi per i più piccoli, finti bebè, orsetti pigolanti e tutto un assortimento di sagome di plastica da quattro soldi. Da mesi non vedeva una fiumana di morti così grande, una macabra parata che da un marciapiede all’altro marciava al seguito di un invisibile pifferaio infernale. La Festa del Ritorno, l’Anniversario del Fondatore, la fine della guerra. Le cittadine festeggiavano ancora i soldati che tornavano dal fronte? Onoravano il miracolo di sopravvivere all’ordalia? I festeggiamenti che avrebbero celebrato la sconfitta dell’epidemia, l’armistizio con il caos, non avrebbero retto il confronto con lo spettacolo là fuori. Non sarebbero rimaste abbastanza persone da reggere uno striscione. Scosse il capo. Cazzo di Connecticut.
Le necrotiche moltitudini superarono le vetrine del negozio di giocattoli. Quella processione immonda. Mark Spitz e la sua nuova compagna ripararono in magazzino. Magari era stato il clima a spingere i morti a formare quel grande gruppo, aveva riprogrammato le sinapsi nei cervelli spugnosi e traforati obbligandoli a sottrarsi al vento e alla bufera che batteva la costa. Qualche anima sventurata avrebbe scoperto dove i morti riparavano aspettando la fine del brutto tempo. Non lui. Mark Spitz e Mim rimasero nel retro. Quando i morti finalmente scomparvero, grandi fiocchi soffici si fermarono sulla strada e sul marciapiede. Nei giorni andati, quando i tubi erano pieni e gli elettroni viaggiavano in molteplici cavi, il calore del terreno avrebbe impedito un accumulo così rapido. Ora la neve si ammucchiava velocemente sulla terra insensibile.
Ritardarono l’Ultima Sera. Aveva capito che le avrebbe riservato il Necrologio quando lei aveva aperto la porta, emergendo dall’oscurità. Nella sua popolazione mentale, le facce umane erano state sostituite dai teschi, pelle tirata sulle ossa, sguardo impietoso, incisivi in bella vista. L’ostinata normalità degli occhi miti di Mim e i lineamenti arrotondati e vigorosi erano un souvenir. La bandana gialla stretta intorno alla testa parlava di lavori di casa nel fine-settimana, di ghiande e ramoscelli estratti dalla grondaia sputacchiante, del grill da pulire del residuo nero dell’estate precedente. Riti antichi. Era come lui, uno degli improbabili, eppure tirava avanti. Normale.
Invece dei racconti dell’Ultima Sera, si concessero il “Da dove vieni?”, che tendeva ad avere più successo rispetto a prima dell’epidemia, o così pareva a Mark Spitz. Come se tutti i sopravvissuti avessero in comune un legame clandestino, stabilito in vari momenti della loro vita in previsione di quell’evento. O forse, nella disconnessione dei suoi giorni, Mark Spitz si lasciava più facilmente sbalordire dalle coincidenze. “Oh, sei di Wilkes-Barre? Conosci Gabe Edelman?” “Davvero? Buffo, una volta ci siamo incontrati a una conferenza per venditori ad Akron.” La sua vita si sovrapponeva a quella dei due dentisti, del camionista pimpante, del perito assicurativo, di tutti gli altri dagli occhi tristi, e non importava che nulla avesse senso. “Deve essere andata in un centro di recupero, perché non era affatto così.” Era una seduta spiritica per bucare il velo dell’aldilà. I colpi incorporei battuti dagli spiriti rallegravano per un po’ gli angoli di tenebra di ciascuno. “Ci sono stato una volta, ho mangiato in una caffetteria che faceva una apple pie meravigliosa. La conosci? Sì, proprio quella.” “Ci andava mio cugino. Ma lui è molto più grande, non credo che vi siate mai incrociati.” Quelle associazioni acceleravano l’arrivo del mattino, quando ciascuno prendeva direzioni diverse. A volte finivano prima. A volte i morti li trovavano nella notte.
Rimase con lei, già mezzo innamorato prima del crepuscolo. Non avevano molto in comune, anche se con il tempo scoprirono di amare gli stessi programmi televisivi. Ma all’epoca tutti preferivano gli stessi programmi e la cultura di massa univa meno di persone e luoghi. Non poteva fare a meno di pensare che le interminabili sit-com e serie poliziesche fossero ancora distribuite in qualche parte del pianeta, un crescendo di risate registrate e anticipazioni pre-pausa pubblicitaria che trillavano e rombavano nel regno delle tenebre. I programmi erano stati talmente ineludibili che ormai non richiedevano più corrente elettrica. Pure, nella stanza giochi sotterranea di un survivalista o una struttura governativa (Buffalo non si era ancora rivelata), le prime sette stagioni della fiction ospedaliera innovativa per realismo e la commedia ad alto numero di comparse ambientata sul posto di lavoro e stroncata dai critici scorrevano sugli schermi mentre gli spettatori discutevano sull’opportunità di aprire le cose buone, le palline di mais al formaggio che avevano tenuto per un’occasione speciale. Rompevano il cellophane: le occasioni speciali erano finite. I nuovi spot pubblicitari, immaginò cupamente, avrebbero reclamizzato taniche di cherosene superleggere (Per quando devi bruciare i morti in fretta!) e anticiprofloxacina (Per quattro medici non infetti su cinque, l’unico antibiotico che fa la differenza!). Non si saltavano quegli annunci: erano beni di prima necessità.
Lui e Mim non avevano nessuno in comune, a parte la disgrazia. Ed entrambi ne erano le pulci. «Sono solo una mamma» aveva detto lei, sbagliando il tempo verbale. In quella prima notte aprirono una scatola di candeline da compleanno, che non davano calore, ma il concetto di fuoco li scaldò comunque. Mark Spitz tappò lo spiffero dalla porta sul retro con una fila di armadilli di pezza e altri membri della stessa troupe. Fu lei a cominciare.
Veniva da Paterson, la città natale di suo marito. Si erano trasferiti lì quando lei era rimasta incinta. I suoi genitori erano inutili, intrappolati in un circolo vizioso di narcisismo, ma la madre di Harry era affidabile e, da quando era in pensione, aveva un sacco di tempo. Mim aveva imparato ad amare quella città. Tramite il sito locale per famiglie conobbe altre donne in attesa, e negli inquietanti giorni post parto fecero squadra. Nei successivi dieci anni ebbero un sacco di bambini e Mim inserì una vera e propria comunità nella sua lista contatti, soprattutto quando, iniziata la scuola, fece amicizia con le mamme (e l’estemporaneo papà) che riconosceva per averli visti nei due parchi giochi locali. “Non andavi sempre in quel giardino accanto al Café Loulou?” “Ci siamo conosciute durante quell’ondata di calore… è stata così gentile da fare due gavettoni a mia figlia Eve.”
Harry lavorava nell’ufficio vendite di una ditta che redigeva semi-notizie per stazioni radio di vecchi successi: “Questo impavido motivo dominò le classifiche per dodici settimane nell’estate del 1964, una cosa senza precedenti”. “L’irrefrenabile fabbricante di grandi successi nacque in questo stesso giorno nel 1946.” I deejay del posto le usavano per infarcire le loro chiacchiere, un business solido in un’era di nostalgia commerciale in cui ogni generazione radunava i preferiti per salvarli dai mordaci rivali appena sfornati. Harry viaggiava molto, ma un devoto calendario di chiacchierate on-line cancellava la distanza, soprattutto i primi tempi, quando erano solo loro due. Mentre ridevano e facevano smorfie davanti ai minuscoli obiettivi era quasi come se Harry fosse stato sul divano, al computer, ma seduto accanto a lei. Quando il ginecologo li informò che era in arrivo il terzo figlio, si trasferirono al quarto e ultimo indirizzo di Paterson. Una nuova costruzione. Harry adorava le case vecchiotte lungo la via in cui era cresciuto, ma Mim era immune al loro fascino.
Il figlio più piccolo di Gladys, Oliver, stava per fare cinque anni. Quello di Miriam, Asher, aveva festeggiato il compleanno la settimana prima. Era uno di quei mesi incantati e iperattivi in cui i fine-settimana erano saturi di feste di compleanno e le mamme (e l’estemporaneo papà) ce la mettevano tutta per combinare le date – tu prendi il sabato e noi la domenica, poi l’anno prossimo facciamo cambio – prenotare le aree per bambini sorvegliate, scoprire parchi giochi nuovi e inesplorati e spaccarsi la testa su come riempire le diafane borsine regalo per gli invitati con qualcosa di appiccicoso, gommoso, cariogeno. Era una gara generosa nel suo genere. Forse sfinita dal passatempo, Gladys optò per un classico e organizzò la festa di Oliver a casa. Scaricò gli ultimissimi giochi e consigli da un sito di cui era convinta nessun altro fosse ancora a conoscenza. Per quel giorno la piscina sarebbe finalmente stata pronta e, tempo permettendo, con la festa l’avrebbero inaugurata alla grande.
La piscina non fu pronta. Gladys disse a Mim che Lamont si era spazientito e voleva liquidare l’impresario, ma tutti gli altri erano pieni di lavoro, avevano controllato. Dietro casa era un inferno di buchi e spuntoni, sicché sarebbero rimasti dentro per motivi di sicurezza. Come se non bastasse, le disse Gladys, Lamont era a letto con l’influenza. Tuttavia, un aspetto del pomeriggio funzionò a meraviglia. Era una di quelle feste dove molli il pupo, quell’oasi di due ore nel calendario del genitore oberato, l’uscita verso un mondo di manicure e pedicure, magari un sonnellino, un bicchiere o due di rosé come si deve. Mim lasciò i bambini. Erano coetanei e si conoscevano fin dalla nascita. Asher, Jackson e la piccola Eve non persero tempo nemmeno per salutarla e trotterellarono nella stanza dei giochi dove gli altri bambini erano già impegnati in un gran subbuglio. «Buona fortuna» disse Mim mentre Gladys chiudeva la porta per trattenere l’aria condizionata.
Quando tornò, un’ora e mezzo più tardi (aveva deciso di dare una riordinata allo studio, ma poi si era fatta prendere dal cruciverba), vide l’ambulanza, ma si calmò immediatamente: se si fosse trattato di uno dei suoi figli, Gladys l’avrebbe chiamata. Poi le auto della polizia la superarono a tutta velocità, quasi rovinando nel giardino e nelle adorate ortensie dell’amica, e Mim pensò che forse Gladys non aveva avuto tempo di chiamare ed era successo qualcosa ai suoi bambini. Aveva ragione: Gladys non aveva avuto tempo di chiamare.
Dodici ore più tardi, Mim correva come tutti. Scacciati nelle cupe steppe. Mark Spitz non le chiese di Harry. Non chiedevi mai dei personaggi che scomparivano da una storia dell’Ultima Sera. Conoscevi la risposta. L’epidemia aveva un talento speciale per i finali.
Mark Spitz ripensò a Mim e al negozio di giocattoli mentre si dirigeva a Wonton per chiarire la faccenda del doppione con l’unità Bravo. Altre persone e relative sorprese, diversi esiti sociali nel mondo nuovo. Prima dell’epidemia capitava di rado in quella parte del centro, né aveva mai incontrato alcun conoscente, sicché era strano vedervi Angela e gli altri due. Era stupito della propria calma all’avvicinarsi dello schel uomo d’affari, di quanto fosse lontano dalla vita là fuori. D’altra parte erano sei soldati armati fino ai denti. E quella non era l’Ultima Sera con i suoi crudeli servigi. Era il nuovo regno della Zona Uno. Il suo territorio dopo tanto tempo.
La città – la città pre-catastrofe dagli inenarrabili trabocchetti e macchinazioni – l’aveva intimidito. Non aveva mai vissuto sull’isola. D’accordo, aveva trascorso un agosto rovente con un compagno di college in Bushwick Avenue, sperduta sulla linea L della metro, ma, anche quando avrebbe potuto raggranellare abbastanza da permettersi una squallida topaia, aveva resistito a trasferirsi in città. Tutti i giorni andava a lavorare a Chelsea, ma abitava con i genitori per risparmiare, si raccontava. Non era l’unico a posticipare la grande mossa; un sacco di quelli con cui era cresciuto erano tornati a Long Island dopo il college, conoscendone la sicurezza o rendendosene conto dopo qualche schiaffone e livido rimediato nel mondo là fuori. Ammesso che se ne fossero mai allontanati.
A ripensarci, che sciocchezza. Dopo una capatina in California, contava di fare il punto della situazione, avere un lavoro con le palle o una non meglio identificata conquista prima di trasferirsi a Manhattan. Pensare che c’era stato un tempo in cui una cosa del genere aveva un senso: il significante della propria posizione nel mondo. Oggi un machete rugginoso e un sacchetto di mandorle facevano di te una persona con dei mezzi. Si era atteso un bel tirocinio in una delle ditte del centro che strangolano il globo o… non riusciva neanche a pensarci, che altro gli avrebbe reso comodo camminare per la frenetica ebollizione delle vie di New York. La città l’aveva impaurito. Sapeva tenersi a galla, ma niente di più. Nessuno aveva monopolizzato il marciapiede per non farlo passare, nessuno gli aveva fregato il posto a sedere in metropolitana, né s’era scontrato con lui. Incontrava solo lenti desperados e sceriffi che facevano giustizia sul territorio.
Un pezzo di plastica appiccicato allo scarpone batteva sul marciapiede. Lo staccò. Si era abituato al silenzio ormai, lo intendeva come parte di sé, attrezzatura senza peso che metteva nello zaino accanto alle garze e all’anticiprofloxacina. Camminava in mezzo alla strada, fra le caviglie degli autoarticolati d’acciaio. Passava davanti a finestre desolate. Il suo passo era diverso da quello dei marines. Sentendo i soldati suonare il campanello della cena, grida di guerra e spari, i morti si erano riversati fuori dagli edifici ed erano stati falciati. Il suo giro di caseggiati e palazzi di lusso era più calmo: aveva tempo di interpretare le stanze del manicomio. Il vuoto era un indice. Registrava l’incomprensibile cronaca della metropoli, le realtà demografiche, come funzionava il denaro, le vite tenute insieme alla bell’e meglio e le abitudini stanziali. La popolazione manteneva una densità miracolosa, gli sembrava, poiché le stanze vuote traboccavano di prove: gli eventuali ritardatari al loro interno, le barricate abbattute, i parenti defunti sui futon, braccia incrociate sul petto come da riti ad hoc. Le stanze contenevano indizi antropologici relativi a rituali e tabù di parentela. Come si trattavano i propri morti.
I ricchi perlopiù erano scappati. Interi edifici ultra-esclusivi vuoti, come Omega aveva scoperto dopo aver strattonato e poi sfasciato le porte a vetri dell’atrio (non c’era altra scelta, malgrado i cartellini No-No). I ricchi erano fuggiti durante le convulsioni della grande evacuazione, trascinando un distillato dei propri averi dentro valigie con le rotelle di fattura europea, abbandonando le piantane da migliaia di dollari ad attirare la polvere sulle superfici argentee e parlare di lusso ai visitatori successivi, inarcate come salici piangenti sopra tappeti di importazione. Una percentuale maggiore di poveri era rimasta, spingendo cassettoni e mobili porta-Tv contro le porte. C’era chi decideva di restare, ostinandosi a non capire o perché stupido o inebetito dalla magnitudo del disastro, e chi non poteva andarsene per cento altri motivi: perché aspettava che la fidanzata, la madre o l’amico del cuore arrivasse a casa, perché aveva problemi di mobilità o un familiare debilitato, sulle stampelle, troppo piccolo. Perché era impossibile l’enormità del pensiero: è finita. Li conosceva tutti dalle loro assenze.
Entrava nei nidi abbandonati, calciava barattoli vuoti che avevano contenuto le verdure più comuni, pilastri di una buona dieta americana. Dove nuclei familiari terrorizzati avevano tremato aspettando che i vicini smettessero di strillare “Salvateci, lasciateci entrare!”. Quando gli urli erano cessati, i residenti avevano aspettato che smettessero di passare davanti allo spioncino della porta d’ingresso, ombre mortali nella minuscola apertura. Gli inquilini degli appartamenti 7J e 9F, ciechi all’epidemia, dopo essersi studiatamente ignorati durante l’occasionale reclusione in ascensore, erano stati eletti nel consiglio d’amministrazione del condominio senza voti contrari e ora pattugliavano i corridoi a caccia di infrazioni al regolamento e carne, attardandosi davanti alle porte se sentivano il respiro di qualcuno malgrado tutto quello che le creaturine ammassate facevano per zittirsi. Nel soggiorno al quinto piano del palazzo senza ascensore gli amanti tumulati, ricavato un letto da costose coperte cucite a mano incrostate della cera di candele usate per le cene e le seratine romantiche, mormoravano tenerezze appena coniate: “No, prendi tu l’ultimo, io ho mangiato ieri” e “Se non ci fossi tu con me, mi sarei già ammazzato”. Tutti costoro aspettavano il momento giusto per la fuga, i primi giorni. Tutti costoro, più i solitari: fichetti, nostalgici studenti in trasferta e insegnanti in pensione che non mettevano più il naso fuori casa, anziani convinti che nessun complotto invidioso del mondo li avrebbe sorpresi, nuovi arrivati al momento inopportuno con zero amici e privi di qualcosa che somigliasse vagamente al falso assemblaggio definito “rete di sostegno”, ed eccentrici in attesa, finalmente graziati con una versione perversa dell’agognato sogno di liberazione dall’umanità. Avevano passato settimane o mesi rintanati, divorando l’economica ebanisteria fino all’ultimo pezzo tranne le imbottiture (e a volte perfino quelle recavano segni di denti), poi si erano finalmente lanciati fuori, nell’ora del giorno che ritenevano più sicura, nella direzione dettata da teorie a lungo ponderate, verso i ponti, verso il fiume per cercare un mezzo che potesse navigare, sul tetto da cui chiedere un passaggio agli angeli. Fuori, fuori.
Avevano vissuto in città nei giorni dell’epidemia. Esauriti il cibo e la speranza di essere salvati, avevano riempito una piccola borsa. Poi avevano lasciato gli appartamenti o si erano imboscati secondo le ricette del manuale di cultura pop. Mark Spitz non aveva mai incontrato nessuno nei campi o nella desolazione al di fuori che fosse riuscito a scappare dalla città dopo i primi due giorni. Avevano lasciato le porte aperte.
Era diventato un conoscitore della poesia trovata nei nascondigli abbandonati. Il minuscolo cuneo di spazio stentato fra i mobili ammucchiati e la porta di casa in cui si erano infilati coloro che se ne andavano. L’ampio arco invitante di una vecchia chiesa oppressa dai palazzoni, l’unica porta aperta nell’intero isolato, le macerie sulla scalinata spinte via durante la fuga e il passaggio sgombro a creare una sorta di tappeto per gli sposi diretti alla limousine della luna di miele. Fuori, in campagna, la sola finestra libera fra le altre rivestite di assi al primo piano della fattoria e lo zerbino di vetri infranti. Quelli dentro avevano tentato una sortita e lì la storia si interrompeva. Ce l’avevano fatta? Sempre meno deprimente dello spettacolo della barricata superata, delle fortificazioni che avevano ceduto, con i cadaveri putrefacenti esposti alle intemperie e le eruzioni espressioniste di cremisi sulle superfici.
Quando era solito guardare film dell’orrore e di catastrofi, si convinceva che sarebbe sopravvissuto a quel particolare scenario di morte: guarda caso era lontano dalla sua zona quando cadevano i megatoni, si trovava controvento rispetto al fallout, copriva i bocchettoni del bunker con nastro elettrico. Spaparanzato su una collinetta, tratteneva il fiato quando lo tsunami colpiva la costa e, nella lotteria per un posto sulla navicella spaziale in partenza da una terra che si disintegrava sotto i raggi cosmici, il suo numero era l’ultimo estratto ed era pure il suo compleanno. Tutti mezzi di fuga logici, riusciva a scamparla come aveva sempre fatto. Era l’unico componente del cast a dar retta alle parole dell’infangato profeta dell’atto I, nonché l’impavido che estraeva il coltello portafortuna, cimelio di famiglia, dalla calza e tagliava le funi mentre nella stanza accanto la famiglia cannibale litigava su quando affettarlo per cena. Era l’unico rimasto a spiegare tutto a uno scettico mondo dopo i titoli di coda, recalcitrante nella tuta da lavoro zuppa di sangue davanti alle inette autorità locali, ai giornalisti e alle agenzie governative che ci avevano messo metà film per arrivare sulla scena. So che sembra una follia, ma venivano dal formicaio radioattivo, le ragazze della sororanza erano morte quando sono arrivato, la creatura marina preistorica è il colpevole, dragate il lago e troverete i corpi nel suo tratto digestivo, andate a vedere. Visto attraverso il binocolo del fucile, il film vero cominciava dopo la fine dell’altro, nell’impossibile ritorno alle cose del passato.
Questa è la storia che Mark Spitz raccontò quell’ultima domenica. Il sangue aveva smesso di zampillare dal morso. Erano solo loro due, visto che Kaitlyn si stava occupando della radio nell’altra stanza. «Perché ti chiamano Mark Spitz?» chiese Gary.
«Dopo qualche mese a Happy Acres mi sono offerto per altri incarichi, e poi volevo uscire di più. Mi mancava stare là fuori. Non funzionavo bene… sogni strani, la sensazione di essere scombussolato, fin da quando ero stato raccolto dall’esercito.»
Quando il convoglio aveva lasciato il campo Screaming Eagle, Happy Acres era ancora conosciuto come PA-12; al suo arrivo, due giorni più tardi, l’insegna che annunciava il nuovo nome era fresca, bianca e profumata, e gli stampini si arricciavano uno sull’altro accanto ai bidoni dell’immondizia. Buffalo aveva ricollocato gli insediamenti sul mercato – CT-6 era diventato Gideon’s Triumph, VA-2 Bubbling Brooks – e magari anche Mark Spitz stava per essere ricollocato, da segnato vagabondo con gli occhi infossati ad attivo agente della Fenice Americana. Lavorava all’inventario, teneva conto di quanti galloni di olio di arachidi e lattine di asparagi entravano e uscivano, risolveva gli intoppi nei treni di rifornimento fra campi locali. Happy Acres riceveva la giusta quantità di antisettico o no, un’adeguata parte della provvista appena rinvenuta di filo interdentale e, cosa più importante, Morning Glory si stava accaparrando la carta igienica di proposito o era semplicemente in balia di una disavventura gastrointestinale diffusa? Registrava tutto su carta riciclata sponsorizzata, scrivendo per esteso come nei secoli bui prima del computer. Serviva a passare il tempo.
Quando era giunta voce dell’operazione Corridoio di Nordest, Mark Spitz era affamato di cambiamento. Aveva cacciato il bigliettino nell’urna e quando sul muro del centro ricreativo era comparso l’elenco di nomi, proprio accanto alla lista dei sopravvissuti del giorno, si era rallegrato per la prima volta dall’ultima gita ad Atlantic City, da quando Kyle aveva infilato una serie fortunata e il tavolo dei dadi per un po’ aveva dato di matto. Il nuovo lavoro non pareva terribile, il Corridoio sembrava abbastanza capace da accogliere sia l’ordinata qualità della vita nell’insediamento, sia il brivido fuorilegge della resistenza nella terra desolata.
Nel cinema apocalittico le strade che portano alla città deserta sono spesso sgombre; quelle in uscita, ingolfate di veicoli paralizzati. Che i supercomputer governativi abbiano calcolato con assoluta certezza che il meteorite decimerà il centro o gli scarafaggi killer frutto dell’ingegneria genetica stiano assumendo il controllo della città, le corsie d’entrata sono libere. È un’immagine assai efficace: l’eroe pazzo torna nella metropoli condannata per salvare suo figlio o la ragazza o rintracciare il file criptato che potrebbe – bada bene, potrebbe! – fermare il disastro, e viaggia ai centosessanta all’ora verso le aree maledette mentre tutti gli altri stanno telando, occhi sgranati dal terrore, bocche punteggiate di schiuma bianca.
Nella particolare apocalisse di Mark Spitz, gli esseri umani erano casinisti che non ubbidivano alle regole, e ogni corsia in entrata e in uscita, ogni arteria e vena, era piena di traffico diretto fuori città. Una città sbudellata che riversa le viscere tende per forza al disordine. Se vuoi lottare contro il flusso del buonsenso, nobile protagonista, avrai qualche problemino. Per un po’ gli esagitati evacuandi metteranno una distanza preziosa fra sé e la rovina. Automobili e furgoni si lanciano avanti, si fermano, balbettano, una fila si butta nella corsia d’emergenza e poi si apre una corsia nuova, dei succhiabenzina a quattro ruote motrici lasciano la strada e devastano il verde delle quasi-aiuole ai bordi dell’autostrada, falciando il cartello che vi informa che LA MANUTENZIONE DI QUESTO CHILOMETRO DELLA ROUTE 23 È OFFERTA DAL CORO DEGLI ANZIANI DI MORTVILLE. Autisti e passeggeri non vogliono morire. Hanno assistito al raccapricciante dénouement di altri, sono pieni di panico e vergogna per la rapidità con cui hanno buttato alle ortiche gli oggetti di scena della civiltà. Una certa percentuale ce la farà, riuscirà a raggiungere una delle stazioni di soccorso di cui hanno sentito parlare per radio, dobbiamo assolutamente, ma… ehi, sono io o gli annunciatori hanno smesso di nominare la scuola elementare Benjamin Franklin… Che dici, sarà ancora operativa?
I veicoli si fermano. Un qualche ostacolo che non riescono a vedere in cima alla colonna. Angosciante. Al casello la gente si urla vari sentito dire. La zia Ethel si agita sul sedile posteriore, il suo nuovo cervello sta impartendo ordini, lo scialle di macramè le cade dal petto e lei cava un tocco di carne dal collo di Jeffrey Fitzsimmon, il quale nipote Jeffrey schianta il fuoristrada di due anni contro l’utilitaria giapponese dei Peterson, talmente stipata di cimeli di famiglia, bottiglie d’acqua e attrezzatura da campeggio che Sam Peterson a malapena riesce a vedere dai finestrini – non che avrebbe avuto tempo di togliersi di mezzo anche se avesse visto i Fitzsimmon arrivare. Bang, crash, puuuff degli airbag che si gonfiano, sguish del metallo che impala la carne in composizioni imprevedibili dai professionisti dei crash test. Il groviglio di otto auto ferma tutto il movimento diretto a nord sull’autostrada federale. Non c’è modo di girargli intorno. Né di fare retromarcia. Incastrati lì. E a quel punto i morti cominciano ad arrivare da al di là degli alberi.
Ora era tempo di aprire le corsie. Se tutto andava bene, il Corridoio di Nordest si sarebbe esteso da Washington a Boston, e i carichi preziosi (medicinali, munizioni, cibo, persone) avrebbero potuto viaggiare liberamente lungo la costa. Il distaccamento demolitori di Mark Spitz era responsabile di un tratto della I-95 nel mefitico Connecticut e dell’estemporaneo affluente che si immetteva dal confortevole Fort Golden Gate. Nei giorni prima della caduta, la base era stata una delle maggiori comunità per anziani di tutto lo Stato, nota per l’apertura alle ultime tendenze e correnti nella cura dell’Alzheimer. I muri di mattoni che circondavano la proprietà, costruiti per tenere gli ottenebrati al sicuro dentro, adesso tenevano fuori quelli con una menomazione mentale di tutt’altro genere. Ovviamente, c’erano più postazioni per le mitragliatrici.
Le numerose finestre degli edifici del campus consentivano il costante diletto di tramonti tonificanti – in effetti Mark Spitz aveva faticato a riabituarsi a tutto quel vetro dopo un’esistenza in bunker – e i bungalow prima occupati da anziani attivi e autosufficienti erano un miglioramento non da poco rispetto alle brande comuni dei campi. L’assertiva sala da pranzo era in tinte pastello e nessuno ebbe a lagnarsi il giorno in cui un ribaldo riavviò il vecchio stereo e gli anodini brani strumentali accompagnarono ogni pasto con un incessante ciclo di pop privo di radici. Gli abitanti del forte svolazzavano lungo i vialetti di cemento su carrozzine elettriche e ogni sera le finestre scoppiettavano del bagliore azzurro degli schermi a mano a mano che la grande videoteca ripresentava a quei servi della ricostruzione i vecchi intrattenimenti tanto significativi per loro, in passato. Difficile credere che un tempo c’erano state facce così, i belli, con le loro promesse e seduzioni.
Fort Golden Gate, appena fuori Bridgeport, era un fulcro di iniziative per la ricostruzione. Mark Spitz giocava a poker con tecnici nucleari, ingegneri civili e vari guru delle infrastrutture. Fu da Golden Gate che le prime squadre di ricognizione si avventurarono a verificare la fattibilità di un’operazione a Manhattan. Mesi dopo, gli venne in mente che alcuni di quelli del poker avevano borbottato qualcosa a proposito di una “Zona Uno”.
Quasi tutti gli abitanti di Golden Gate provenivano dal Nordest, conformemente alla demografia della rovina. Era una mania dell’interregno: la gente tendeva a rimanere nella propria regione, girando in circolo, rimbalzando al contatto con un’invisibile barriera due Stati più a sud. Una catena montuosa drappeggiata di ombre solenni la spingeva impaurita verso la comunità di sopravvissuti di cui altri vagabondi continuavano a farfugliare. In fila per la sbobba, i compagni di Mark Spitz tremavano ed erano pieni di tic come i partecipanti a un miserevole concorso di bellezza Spasm. Osservandoli, Mark Spitz stimò le probabilità di rinascita della civiltà al cinquanta per cento. Se l’ultimo schel fosse stato abbattuto il giorno dopo, quei pellegrini tormentati avrebbero avuto energie sufficienti per tirarsi via dalla spirale di morte? Sarebbero riusciti a riprodursi i cupi sopravvissuti, a ingrassare i neonati? Quale venerabile indebolimento, quale paziente vecchia malattia li avrebbe mietuti? Non era difficile vedere gli abitanti dei campi regredire in relitti dementi troppo danneggiati per fare di meglio che assottigliarsi fino all’estinzione nel giro di una generazione o due.
Cinquanta per cento. Era lieto di avere un letto tutto suo, ottenuto aprendo il divano nel soggiorno di un bungalow spazioso e arredato con gusto. I proprietari avevano trascorso gli anni del tramonto frequentando assiduamente le crociere più belle del mondo, e le foto di navi sontuose solcavano la parete sopra la sua testa mentre dormiva. Un paio di volte l’anziana coppia si insinuò nelle sue più recenti narrazioni oniriche: i morti si intrattenevano con giochi di società a bordo e giravano per i più mattinieri con i vassoi del buffet, che ogni notte si riforniva a una diversa cucina del pianeta, all-you-can-eat, tutto compreso.
Divideva il bungalow con Tempesta Cheta e Richie, e in tre componevano metà di una squadra di demolitori. Guidavano carri attrezzi e camion con braccio gru: imponenti prima del disastro, quando blindature e reti metalliche antischel all’ultima moda furono saldate, imbullonate e fissate in altro modo, quei mezzi divennero la manifestazione fisica, alimentata a diesel, della più pura belluinità americana. In quattro lavoravano ai veicoli bloccati, blandendoli e disincastrandoli da molteplici confusioni, mentre gli altri due stavano di sentinella con l’ordine di avvistare e abbattere. Mark Spitz e Richie si occupavano degli schel, sparando a ogni lettore di contatore o ogni meteorologo morto che s’avvicinava lungo la mezzeria o, intrappolato nel sedile posteriore, batteva sul finestrino imbrattato di sangue del taxi giallo capovolto, del furgone che pubblicizzava la radio locale, del carro funebre. Non giocavi mai a “indovina il rottame” perché la risposta era ovvia: si era trattato di guidare o morire.
Le sentinelle avevano più tempo libero. In quella parte della costa la densità di morti era bassa ormai – avevano smesso di domandarsene il motivo e l’accettavano come un fatto – e quelli attirati dal rumore dei motori non erano mai più di uno o due ogni paio d’ore. Gli schel intrappolati – esagitati piccoli giocatori di baseball senza mani, matrone legate con grugni maniacali – servivano per il tirassegno, e comunque erano pochi. Se i fuggitivi si erano preoccupati di portarsi dietro i propri febbricitanti consanguinei mezzo andati, di certo non li avevano abbandonati quando si era trattato di farsela a piedi. Quasi tutte le portiere erano spalancate come conseguenza della fuga. I profughi avevano frettolosamente vagliato l’imponderabile – prendere i gioielli di mamma o la cassetta degli attrezzi, il sacchetto del riso o la scatola di vitamine – e si erano uniti ai vicini di corsa, scomparendo nell’abietto vuoto dell’interregno.
«Probabilmente Vanderbilt 80, giusto?» domandò Gary.
«Cosa?»
«I demolitori? I carri attrezzi. Fantastici.»
«Non ne ho idea.»
Il lavoro era semplice. Le chiavi erano nel nottolino oppure no, i passe-partout funzionavano oppure no, potevano spingere i veicoli fuori strada oppure entravano in gioco i mezzi, si agganciavano le catene ai telai e i mastodonti disabili venivano spostati con l’argano sul ciglio. In base alle dimensioni e al numero delle corsie, al tipo di ingorgo e a quanto era esteso, i veicoli venivano parcheggiati perpendicolarmente o di sbieco rispetto alla strada, oppure la superstrada si ritrovava costeggiata da un nuovo muro di utilitarie, auto più o meno sportive, inframmezzate dal furgone dei gelati con i frigoriferi sciabordanti di dolciumi sciolti. In teoria. Tempesta Cheta seguiva un mandato diverso.
Al solito, Mark Spitz rinveniva parabole nelle prove rimaste. La strada era sgombra per un chilometro, poi comparivano le auto, paraurti contro paraurti, portiere e bagagliaio spalancati; ti avvicinavi per una ricognizione e scoprivi la causa: un autoarticolato piegato in due, collisione di pulmini familiari, una barricata eretta dalle autorità della contea come miope precauzione. Cadaveri mezzo divorati accasciati sui sedili passeggeri, o allacciati al volante con l’ultima imprecazione contro il traffico ancora riconoscibile sebbene le labbra fossero state mangiate: l’invettiva nasceva dai muscoli. Se c’erano abbastanza corpi nelle vicinanze, i demolitori facevano un falò, ma gli elementi e i microbi se la cavavano egregiamente a ripulire per conto proprio.
Era bello sfrecciare verso casa alla fine della giornata lungo un tratto di strada che avevi sgomberato. Un progresso misurabile, chilometri visibili nel mondo nuovo. A differenza degli inventari e dei barattoli di capperi, quel lavoro gli indolenziva il corpo a riprova di sé.
«Non sei ancora arrivato a Mark Spitz» disse Gary.
«Sta di nuovo sanguinando» rispose Mark Spitz. Aprì un altro cerotto medicato e riprese.
«Viaggiavo in cima alla colonna con Tempesta Cheta» disse. Tempesta Cheta era una dei nuovi skinhead, che si rasavano la testa per commemorare le proprie privazioni. La moda aveva appena cominciato a diffondersi nei campi – altrimenti come riconoscere uno come te, il più tormentato dei tormentati? Era una delle prime a essere state tratte in salvo dalle squadre di recupero di Buffalo, una componente di un clan eziolato che aveva passato un anno rinchiuso nella prigione sotterranea della stazione di polizia di una cittadina, sfortunate pupille di un pazzoide. Non entrava nei dettagli.
Era un levriero smilzo, ipervigile come lo è chi ha visto il proprio rifugio invaso troppe volte. Tutti erano stati invasi, ma c’erano quelli che si collocavano in una fascia di frequent flyers totalmente diversa. Non dormivano mai, di rado battevano le palpebre. Tempesta Cheta funzionava meglio della maggior parte degli skinhead nel senso che ancora parlava e di tanto in tanto permetteva a un sorriso di fenderle le labbra. Lavorava in un vivaio prima del recente abbrutimento del mondo, curava e coltivava le siepi che impedivano al popolino di sbirciare l’aristocrazia. Non molto efficace come materiale da barriera, aveva pensato Mark Spitz, incapace di evitare un’immediata valutazione. Ogni cosa era un’arma o un muro, da quantificare e distinguere secondo il grado di utilità.
Era lei la caposquadra e aveva idee tutte sue su come disporre i veicoli sull’asfalto: forse la predilezione per la prospettiva dovuta al lavoro precedente influenzava il suo stile di rottamazione. A volte le istruzioni di Tempesta Cheta non lasciavano dubbi circa le sue ragioni, ma altrettanto spesso i suoi ordini eludevano ogni intuizione. Su quel segmento tranquillo di strada trovavi solo cinque auto che guastavano il passaggio, e lei ordinava che fossero messe in perpendicolare, o magari a spina di pesce, anche se il ciglio poteva benissimo accoglierle paraurti contro paraurti. Una scuola di allineamento auto sosteneva che quest’ultima disposizione, come un frangiflutti, avrebbe ostacolato un’ondata di morti attirati dal rumore di un convoglio; Buffalo ne era stato un esplicito fautore per un po’. Mark Spitz aveva notato che Tempesta Cheta preferiva schemi divisibili per cinque e li raggruppava in base alle dimensioni e ogni tanto al colore, arrivando talvolta a trainare un’auto per chilometri per portare a compimento la sua ideazione. Tempesta Cheta consultava il suo tablet, muovendo la penna sulle mappe a video, annotazioni simili a geroglifici. «Ordini» diceva. Mark Spitz l’attribuiva a una microgestione militare senza scopo oppure al suo ceppo di Spasm, l’una o l’altra di quelle tenaci debolezze. Solo in seguito aveva capito.
«Che vuol dire?»
«Ci sto arrivando.»
I demolitori dividevano quel mare di schifezze, raddrizzando, srotolando il caos. Quando un imbottigliamento colossale creava un serpente di veicoli silenziosi che si snodava per chilometri, il loro sistema lo smontava. Restauravano l’ordine. A volte Mark Spitz immaginava che per ogni centimetro di asfalto che sgomberavano contrastassero un uguale aumento di tragedia, disfacendo le sventure abbattutesi sugli occupanti scomparsi. Si censurava subito per simili pensieri, concentrandosi sull’incombente collisione successiva. Dopo un mese, brevi convogli di rifornimento utilizzavano le strade che avevano ripulito, trasportando fagioli a ovest, spostando le autocisterne con l’acqua là dove i fusti erano vuoti. L’alchimia della ricostruzione. I tratti di strada sgomberati dalle squadre di demolitori a nord e a sud alla fine si sarebbero uniti come la ferrovia transcontinentale. Avrebbero collegato campi e forti isolati uno dopo l’altro, città indipendenti appena sedotte dal cuore nazionale, ordinato ai materiali vivificanti di tornare a fluire: avevano garantito il percorso, fatto avanzare la rotta chilometro dopo chilometro.
Sulle superstrade Mark Spitz diventò un tiratore scelto. Avvantaggiandosi della copertura, della visuale, del lusso di mirare con tutta calma a una creatura in lento avvicinamento, imparò a colpire i cinque punti del cranio raccomandati da Buffalo per abbattere gli schel. (Avevano fatto test, raccolto testimonianze verbali.) C’erano giorni in cui i demolitori avevano anche i puntatori laser, sempre che l’esercito o i marines di passaggio a Golden Gate non li avessero arraffati, e dopo qualche tempo Mark Spitz fu in grado di definire il proprio mutevole centro del bersaglio, da uccidere con un proiettile, un’accetta o un pezzo di granito grande come una palla da baseball, attivando un calmo registro computerizzato che nel suo cervello calcolava distanza e velocità del vento, compensava il grado di imprevedibilità nella rotta dell’obiettivo, la distanza e l’agibilità delle vie di fuga. La squisita nuova arte di spianarli.
Eliminava ciò che l’avrebbe distrutto. Nella terra piagata, le molteplici strategie di sopravvivenza perfezionate in una vita tesa a evitare qualsiasi responsabilità si riscrissero per il mondo nuovo, o forse scoprirono finalmente la loro vera arena, il campo di battaglia per cui erano state create. Erano state proposte, collaudate, corrette, ripulite da bachi nel corso di una vita di minuscole prove e gare, elusione di pericoli piccoli e grandi, sociali, simbolici e, con l’epidemia, letali. Se fosse stato in grado di spiegare l’entità di quanto stava succedendo nel suo cervello il giorno in cui lo soprannominarono Mark Spitz, l’affollamento di processi maniacali e sovrapposti, forse si sarebbe guadagnato un nomignolo diverso, adatto ai processi completamente impassibili in corso nella sua mente.
«In un certo senso, finalmente ero completo.»
«Non ti seguo.»
«Scusa.»
Il giorno in questione, il loro incarico riguardava un segmento appestato della 95. Uno dei generali in visita a Golden Gate per una missione di verifica degli sforzi della ricostruzione nel New England aveva sempre contato su quella superstrada quando visitava la famiglia durante le vacanze, nel caro vecchio mondo morto, sicché la sua scorciatoia preferita era diventata un tratto ufficiale del Corridoio. Le previsioni schel erano buone, uno o due per chilometro. I demolitori avevano cominciato a dare per scontate le distese di morti – difficile non farlo – e i loro impulsi di lotta o di fuga non beneficiavano più del regime di esercizio quotidiano. La squadra trovò asfalto sgombro fra due città. «Mi servono delle macchine» aveva detto Tempesta Cheta a Mark Spitz. «Uno schema nuovo mi si sta formando in testa.»
Le sfuggì un risolino soddisfatto quando raggiunsero il viadotto. L’inghiottitore di veicoli perduti, indisciplinato e malinconico, si estendeva per un chilometro e mezzo. Quando i demolitori avanzarono per capire che tipo di ingorgo dovessero sbrogliare, videro che finiva all’estremità settentrionale della campata di cemento, completamente sbarrata da navette di alberghi e filo spinato. Tre auto della polizia ci avevano piantato i paraurti contro e i demolitori ipotizzarono che fosse stato il tentativo di qualche sceriffo di bandire l’epidemia dalla propria giurisdizione. Aveva fallito, ovviamente, e il blocco aveva soltanto impedito la fuga di quelle persone, senza dubbio condannandole a morte. Nessun giudizio. Che l’epidemia marchiasse i pellegrini lì o qualche chilometro più oltre, il finale era lo stesso.
Si divisero. Martha, Jimmy e Mel, l’altra metà della squadra, presero l’estremità meridionale della fila di mezzi di fuga mancati, mentre il gruppo di Mark Spitz affrontò il viadotto. Dall’acqua torbida sottostante proveniva una piacevole melodia, un mormorio rassicurante. Occuparsi del filo spinato aveva tutta l’aria di essere una scocciatura, così Mark Spitz suggerì di rimandare e cominciare con lo sgombero del ponte, il che risultò essere in linea con le intenzioni di Tempesta Cheta. Affrontarono i noti mezzi e i prevedibili aneddoti della diserzione: quattro motociclette che si erano infilate fra le auto all’inizio dell’imbottigliamento e poi non avevano più potuto muoversi; veicoli di servizio caricati all’inverosimile sulla scorta delle monotone istruzioni degli annunci radiofonici di emergenza solo per abbandonare le provviste salvavita in questo ingorgo; una spoglia berlina con tutte le portiere spalancate perché ogni sedile era stato sradicato, dopodiché si era smaterializzato, zero tracce.
L’unico esemplare inconsueto era l’autoarticolato messo di traverso, il logo sul lato del rimorchio che lo individuava come parte della flotta di un ipermercato. I demolitori non erano una squadra di recupero materiali. Il loro manifesto comprendeva una certa quantità giornaliera di benzina, che prelevavano dopo la rimozione dei veicoli, e potevano arraffare per uso personale tutto il cibo che trovavano, dalle barrette energetiche alle patatine piene di conservanti, ma nient’altro. Quando Richie aveva aperto il rimorchio – come raccontò più tardi – era per verificare se valesse la pena mandare la squadra giusta in seguito. Richie era un perfezionista, un ragazzino preso come mascotte dal primo distacco militare a Golden Gate. Sgomberare rottami era il suo primo incarico fuori dalle mura del campo.
Come e perché i morti fossero stati stipati all’interno rimase un mistero. Tempesta Cheta ipotizzò che fossero ordini del governo, che li aveva destinati a qualche esperimento (all’inizio quella era ancora una priorità), magari un computer a Buffalo aveva etichettato il carico come “Dispersi in azione” e dopo lo scontro il file era stato adeguatamente rinominato. La teoria di Mark Spitz si basava sui racconti di quelli che avevano tenuto i propri cari incatenati nella sala giochi o in garage nella speranza che arrivasse una cura. La creazione della barricata sul viadotto era concomitante con l’apice di simili gesti ottimistici: possiamo sconfiggerla, è solo una questione temporanea, basta tenere i nervi saldi. Immaginò l’associazione di un quartiere residenziale coeso, una qualche comunità pianificata lontano dallo stradone – confinante con il campo da golf del country club e a pochi minuti d’auto dal centro commerciale – rinchiudere tutti i propri infetti nel rimorchio, mamma e papà, gli Smith e metà dei Jones, per un viaggio lungo l’autostrada. Verso un luogo dove potessero essere guariti o liberati o sterminati con una parvenza di dignità e una briciola di tradizione religiosa. L’autista, una colonna portante del posto, si era fatto da sé passando da caddie del country club a padrone del cinema locale, proprietario della casa più grande nella via senza uscita, un castello spettacolare che certe notti sembrava fluttuare sulla propria nuvola borghese sopra il complesso residenziale. Per di più non gli dispiaceva nemmeno portare una camionata di ragazzini al multisala… Se c’è qualcuno che può farli arrivare a destinazione, è lui. “Mandati a vivere in una fattoria nel Nord del paese.”
Nel momento in cui Richie si era proteso verso il portellone del rimorchio, Tempesta Cheta si stava sistemando davanti al quadro del posto di guida, in intima unione con la macchina, e Mark Spitz si accovacciava in un pulmino di fabbricazione tedesca per aprire un pacchetto di noccioline ricoperte di cioccolato che vi aveva trovato. Aveva sentito Richie urlare. Poi Richie era corso verso i suoi compagni seguito dal colossale battaglione di schel che aveva appena liberato. Erano sessanta, settanta o di più? In seguito, quando raccontarono la storia, furono invariabilmente accusati di esagerare: l’aneddoto restava sospeso per qualche minuto finché il dibattito sulla versione moderna di “Quanti angeli possono danzare sulla punta di uno spillo?”, cioè “Quanti morti possono stare in un camion a rimorchio?” non si placava. «Un bel po’» era l’invariabile conclusione.
Comunque, i demolitori erano in mezzo al ponte, tagliati fuori dalla terraferma. Il trio aveva due armi, ché mai ne erano servite di più durante la missione. Tempesta Cheta aveva smesso di portarsi il fucile; non lo usava da settimane, dalla volta in cui Richie era stato messo fuori combattimento da una roba allo stomaco. Ecco il problema del progresso: ti rammolliva. I morti si contorcevano infilandosi fra i veicoli, la decappottabile verde con il tettuccio di plastica a pezzi e il furgone dell’idraulico. Appena Richie si tolse da davanti al mirino, Mark Spitz procedette ad abbattere le creature, atterrando uno schel in camice da chirurgo insanguinato – impossibile sapere se si fosse guadagnato quell’impiastro in servizio o fuori – e una urban cowgirl i cui strass scintillavano glaciali alla luce del sole. Mark Spitz cancellò le facce e quello che stava immediatamente al di sotto, ma col cavolo che la squadra sarebbe riuscita a liquidarli tutti. Non si poteva quantificare quell’orda.
«Non ce la facciamo a far fuori questo branco» disse Tempesta Cheta. Erano calmi. Facevano le proprie valutazioni. Lo sceriffo del posto e i suoi avevano sbarrato il proprio angolino di paradiso piuttosto bene: i demolitori non potevano nemmeno cercare di strisciare lungo la ringhiera oltre il filo spinato.
«Sembra abbastanza profonda» disse Richie mentre saltava in acqua dal ponte.
Erano circa sei metri di altezza. La testa di Richie emerse poco più a valle. Fece cenno agli altri di buttarsi. Tempesta Cheta si passò le dita fra le setole sul cranio, lanciò un fiume di invettive e lo seguì.
Era impossibile. Mark Spitz contò la massa di morti. Quei poveri diavoli guadavano fra le auto, muti e putridi, brancolando verso il cibo che si era ormai assottigliato di due terzi. Erano troppo decerebrati – pensò – per restare delusi se avessero dovuto dividersi i suoi resti dopo l’eterna reclusione nel rimorchio. Col cavolo che Mark Spitz sarebbe riuscito a superarli. Erano troppi. In simili situazioni, correvi. Un semplice calcolo senza vergogna.
Richie urlò dalla riva. I colpi d’arma da fuoco avrebbero allertato gli altri tre demolitori; ben presto avrebbero avuto copertura. L’istinto ormai avrebbe dovuto prelevare Mark Spitz dal ponte e lasciarlo cadere nella corrente. Ma lui non si mosse.
Quando, più tardi, disse loro che non sapeva nuotare, risero tutti. Era perfetto: da quel momento sarebbe stato Mark Spitz. Non che avesse paura dell’acqua, non con i suoi affidabili compagni accanto e con il sempreverde alone di fortuna. Qualche bracciata la sapeva fare. No: era balzato sul tetto della station wagon ultimo modello e aveva cominciato a far fuoco, liquidando prima la nonna in tuta, poi l’adolescente che vestiva i lerci colori della sua squadra di calcio, certo che non sarebbe morto. Con un salto arretrò sulla berlina nera alle sue spalle e demolì il cranio di altri due schel, che si accasciarono e furono calpestati dai sostituti al seguito. Ne aveva il sospetto, e ogni giorno trascorso in quella terra desolata forniva ulteriori prove: non sarebbe morto. Quello era il suo mondo ormai, in tutta la sua sublime sordidezza, un mondo in cui intelligenza, ingegno e talento erano altrettanto privi di significato quanto ostinazione, codardia, stupidità. Bucò la fronte a quello che portava gli occhiali da aviatore con le lenti verdi e sparò due volte alla creatura con la giacca da caccia prima di finirla con un’ultima raffica. Non sarebbe morto. Altri due rotolarono sull’asfalto, il cranio disintegrato. La bellezza non poteva fiorire e l’orrore era troppo normale per avere il minimo rilievo. Solo nel mezzo stava la salvezza.
Mark Spitz era un mediocre. Aveva avuto una vita mediocre, eccezionale solo nella grandezza della sua non-eccezionalità. Ora il mondo era mediocre, il che rendeva lui perfetto. Si chiese: “Come potrei morire? Sono sempre stato così. Adesso sono più me stesso”. Aveva le munizioni. Li fece fuori tutti.
La misera Tribeca, il triangolo sotto Canal Street. Mark Spitz procedeva verso ovest lungo il percorso e, passando davanti al locale sull’angolo dove una volta era andato a bere qualcosa con Jennifer dopo il lavoro, permise al suo inconscio di prendere la guida. Alle dieci i buttafuori tiravano il cordone di velluto e cominciavano a scegliere i sopravvissuti, ma all’inizio della serata era ancora tutto calmo. (Un’altra barricata a dividere i malati dai sani.) L’happy hour era impenetrabile, con travet inzaccherati raccolti su sgabelli e divani bassi a sventolare il centimetro per vedere chi avesse la lamentela più grande, cercando di dimenticare che nell’attimo in cui seppellisci la tua giornata schifosa ecco che risorge dalla bara il mattino dopo, il mostro. Il messaggio con cui Jennifer lo invitava aveva ricevuto una risposta entusiasta. Lei era una bevitrice seriale che a suon di insistenze e battute obbligava gli accompagnatori a tenere il passo. Ci avrebbe pensato lei a fargli prendere tutta la medicina.
Il lavoro di Mark Spitz non era particolarmente fastidioso; più di tutto odiava il pendolarismo da Long Island e la sensazione di calma piatta. Lavorava per una multinazionale del caffè, nella gestione delle relazioni con i clienti, reparto nuovi media. Era stato un compagno di college a segnalarglielo. «Sei perfetto. Non richiede nessuna particolare abilità.» La compagnia del caffè aveva cominciato sulla costa nordoccidentale con un unico locale e un processo di tostatura brevettato che, se provavi a informarti con il proprietario, non mancava mai di stampargli sulle labbra un sorrisetto curioso. Una vetrina diventò due, e una dozzina di altri punti vendita si metastatizzarono in un’entità in franchising internazionale dal carattere svantaggiato e tuttavia indomito, un armamentario da ambulante che articolava in forma fisica la filosofia di vita che il cliente aveva a sua insaputa sposato anni prima attraverso cento sottomissioni e taciti giuramenti, e aveva ormai raggiunto la piena maturità. Ogni pacchetto di chicchi di caffè trasformati in bevanda calda con l’armamentario marezzato dal logo ti ricordava la missione più grande e lo stato-nazione di menti affini. Il tuo locale in franchising era la tua casa. Non occorreva nemmeno mettere un cartello in bagno che ti ricordasse di lavarti le mani.
I chicchi incantati, provenienti da coltivazioni biologiche e raccolti in condizioni umane, erano poi affidati a un marketing misterioso nella sua progettazione e spietato nell’attuazione. Mark Spitz doveva tenere d’occhio il web a caccia di opportunità per disseminare la consapevolezza del prodotto e alimentare sentimenti di partecipazione alla vita del marchio. Quanto meno, così la metteva il suo superiore. Il che significava – apprese ben presto – cercare siti web e social media che citassero il marchio e lasciare un saluto. Inviava bots nell’etere elettronico, dove si mescolavano a vari siti globali e feeds individuali e, quando ricevevano risposta, mandava un messaggio: “Grazie per la vostra visita; siamo contenti che vi sia piaciuto il nostro caffè!” oppure “La prossima volta prova il Mocha Burst: mi ringrazierai”. Stava appollaiato sui cavi dell’alta tensione come un avvoltoio binario, antichi occhi pixellati attenti a cogliere i rimasugli. Quando vedeva carne, si tuffava. A volte il destinatario rispondeva, a volte no.
Non occorreva che i cittadini del vuoto – intenti a mordersi la coda e pubblicare compulsivamente le inezie della propria quotidianità su blog e pagine varie – nominassero i prodotti in modo esplicito. I ragazzi magri e pallidi che lavoravano nell’ufficio Implementazione, due piani più in basso, ampliavano le parole chiave fino a comprendere l’intera matrice del consumo di caffè e della caffefilia, sicché la sua postazione era invasa da riferimenti a caffeina, fiacchezza, sovreccitazione, letargia e ogni sorta di preparazione al combattimento giornaliero, ai quali inviava un “Perché non provi la nostra miscela giamaicana di stagione la prossima volta che passi di qui?” oppure “Hai proprio bisogno di una bella tazza di Iced Number Seven!”. Razionava i punti esclamativi, li malediceva entro fine mattinata, poi se ne innamorava di nuovo.
Il software aziendale teneva sotto osservazione i clienti di modo che, se per caso accennavano a un compleanno o un qualche evento significativo, lui trasmetteva uno spumeggiante “Cento di questi giorni!” e offriva un buono regalo utilizzabile negli Stati contigui. Oppure “Mi spiace che vi siate lasciati… ma non avrebbe funzionato comunque”, più un buono regalo. Era bello mandare i buoni regalo, sempre che gli fornissero le proprie informazioni tramite connessione protetta. Aveva istruzioni di distribuire buoni regalo un tot di volte al giorno. Erano un po’ una scocciatura se mettevi insieme quelli che andavano persi, quelli scaduti e i trenta centesimi rimasti qua e là che non venivano mai usati.
Il suo responsabile, a rigore un tipo da tè, e per di più decaffeinato, lo incoraggiava a coltivare un’immagine pubblica personale per i social media. Niente parolacce, niente politica, ma un ragionevole buon senso, diceva l’e-mail. Entrò facilmente nell’artificio, un talento naturale per i surrogati delle connessioni umane e le pose da finta empatia. Era d’aiuto (“Una spolverata di cannella gli dà quella punta speciale”), dispensava rimproveri passivo-aggressivi (“Perché andare dai nostri concorrenti quando ci alziamo all’alba per la tua felicità?”) e non si asteneva dall’anodino (“Una bella tazza di caffè fa rivivere il mondo”). Senza quel tocco umano, gli era stato detto, tanto valeva usare il rudimentale algoritmo di intelligenza artificiale escogitato dai loro programmatori nerd, che tutti sapevano essere un fiasco prima ancora che i gruppi di discussione si esprimessero. Senz’anima.
Due mesi dopo la sua assunzione, ci fu un aumento del cinque per cento nel traffico del sito aziendale. Non era chiaro se fosse dovuto alla sua interpretazione del premuroso o al lancio del programma di una nuova affiliata, ma Mark Spitz ricevette una gradevole e-mail dalla responsabile del suo responsabile, la donna che si era inventata quel posto dopo profonda meditazione al ritiro annuale, accompagnata dalla promessa di un riconoscimento per il buon lavoro svolto in occasione della successiva revisione trimestrale, che in effetti sarebbe stata due trimestri più tardi dal momento che, tecnicamente, lui era ancora nel periodo di prova.
Non era il posto peggiore che avesse avuto. Lavorava lì quando calò l’Ultima Sera; era notte, e stava sfogliando i quaderni del corso preparatorio all’esame di legge nella stanza dei giochi. A New York, il quartier generale della ditta di caffè era a Chelsea, due chilometri oltre la muraglia. Poteva solo fare congetture su chi ce l’aveva fatta a scappare e chi ancora vagava per le sale. La sua immagine pubblica da social media probabilmente continuava a timbrare il cartellino, spettegolare con il nulla, controllare l’ortografia di composizioni pseudoamichevoli e premere il tasto Invia. “Malumore da Appena Dissanguato? Imho, niente è meglio di un baffo di schiuma.” “Peccato che la pira funeraria sia all’alba. Perché non prendi un Sumatra grande, così ti tiene sveglio per quando ci butterai la nonna? Di certo non vorrai dormire in quell’occasione, Lol!”
Per prudenza Mark Spitz gettò lo sguardo lungo Reade Street e vide la caratteristica insegna del ristorante due isolati più su, sentendosi immediatamente rassicurato. Era a metà strada rispetto a Wonton. Lo stomaco si agitava. Nella testa sentiva la tumultuosa riunione del comitato di zona in cui i residenti si erano lamentati per l’imminente apertura: “Non dietro casa mia” e “Rovinerà il quartiere”. La sbobba preferita di Tribeca era servita da bistrot e ricettacoli gastronomici uno scalino più su, non da volgari catene. No, pensò Mark Spitz. Il ristorante era fuori posto. Vivere al di sopra dei propri intrugli era una tragedia. Una tragedia facilmente evitabile, date le numerose altre ubicazioni adatte.
Aveva tempo. Tagliò il catenaccio e arrotolò la serranda metallica. A giudicare dalle condizioni dell’uscita sul retro, era la prima persona non infetta lì dentro dopo il raccapricciante abbraccio dell’Ultima Sera. C’erano un sacco di altri posti più facili da depredare. I saprofagi svuotavano prima supermercati, empori e negozi, e i ristoranti poi, ma la scienza della ricerca di cibo di più alto livello non si era mai sviluppata pienamente in città data la concentrazione di schel prima dell’arrivo dei marines. I morti erano padroni dell’isola. Mark Spitz non smaniava dalla voglia di salsa Buffalo e fiocchi di patate, ma eccoli lì nei freezer, interi barattoloni, senza dubbio in compagnia di salsicciotti con sciroppo d’acero e mele ormai in decomposizione e tortini di salmone confezionati in stabilimenti silenziosi.
Tese l’orecchio per sentire l’eventuale raspare di morti entrati in ottusa attività al rumore che aveva prodotto: niente. Puntò la torcia del casco dove non arrivava la luce del giorno, scrutando le ringhiere di ottone intorno ai tavoli per famiglie, il legno scuro del bancone con i suoi strati di smalto segnati dai gomiti. Scrutò il pavimento a scacchi in cerca di qualsiasi creatura che districasse le membra da un posatoio sotto i tavoli. I fedeli quadri rossi e bianchi decoravano menu, insegne e divise del personale, invisibile in quel momento, grazie a Dio, t’immagini una carcassa zoppicante che arriva carica di piatti dalla cucina e spalanca la bocca in un “Vuole ordinare?”. Le divise avevano trasformato camerieri e cameriere in arbitri che si pronunciavano su oscure competizioni legate al cibo. In effetti i martedì con gamberi all-you-can-eat erano tosti. Una volta suo padre era finito in una zuffa per il diritto di prelazione sull’ultima cucchiaiata di gamberi all’orientale tremolanti in una vasca di gelatina arancione. L’incidente era diventato parte del lessico familiare, richiamato ogni volta che si preparavano per una gitarella al ristorante di zona. «Ho una mezza intenzione di prendere a pugni qualcuno oggi» diceva il padre, lanciandosi in un fiume di insulti finto-buzzurri, e Mark Spitz sapeva dove sarebbero andati a cena quella sera.
Il ristorante era la meta della sua famiglia per uscite non premeditate, compleanni e festeggiamenti vari, stagione dopo stagione. Da bambino si arrampicava sul sedile del séparé e si nascondeva dietro il gigantesco menu finché non sentiva il primo “Salve, mi chiamo…” da chi serviva a tavola quella sera e, dalla voce, provava a immaginarne l’aspetto. I camerieri avevano baffi più lunghi di quanto immaginasse, le cameriere seni più grandi. Quanto meno finché non raggiunse la pubertà. Nelle loro orbite, riproduzioni di dischi d’oro o di platino, prime pagine sensazionali, poster di concerti e trofei sportivi disseminati sulle pareti. Non riconosceva nessuna celebrity, né le occasioni storiche, i gruppi musicali o le squadre, non i retroscena delle gare eliminatorie o i nomi dei successi pop. Ma se stavano sulle pareti dovevano pur significare qualcosa. Altrimenti perché sarebbero stati lì? Rimase mortificato la prima volta che mangiò in un altro posto e sulle pareti vide la stessa roba. La sua introduzione all’industria della nostalgia. Le fabbriche della memoria oltreoceano stampavano quegli artefatti utilizzando manodopera sottopagata in nero, gli spiegò poi la sua baby-sitter. Era una matricola e le si erano aperti gli occhi per la prima volta. I singoli esercenti erano liberi di scegliere i propri cimeli, ma dall’inventario risultavano disponibili solo un tot di scatole. La sovrapposizione era inevitabile, faceva parte del meccanismo. Lui aveva creduto originali le palle da baseball firmate e le chitarre appese, rincuorato all’idea di mangiare nel locale di un viaggiatore cosmopolita, un collezionista di curiosità reduce da varie avventure. L’estate prima di cominciare il college, aveva letto sul giornale che il gestore locale era finito in prigione per truffa. Un nido d’amore, foto caricate su un sito porno amatoriale. Era subentrato un cugino, e quando Mark Spitz era tornato a casa per le vacanze natalizie sembrava che nulla fosse accaduto. Il ristorante tirava avanti.
Ogni volta erano stati accolti da classici del rock, gracchianti sotto il chiacchiericcio di scadenze lavorative centrate o ignorate, confidenze inquietanti, aggiornamenti sulla terapia di coppia di quel pomeriggio, attrezzature elettriche. Di tanto in tanto artisti più recenti entravano sgomitando nel pantheon, insieme con qualche creazione azzardata; verso mezzanotte diventava un posto per rimorchiare, con tutto un assortimento pigiato al bar in cerca di ispirazione per le proprie vanterie e collaudate lusinghe. Gli scheggiati juke-box ai tavoli non funzionavano mai, ma Mark Spitz si faceva immancabilmente prestare dal padre due monete da un quarto di dollaro. Il tintinnio del metallo era già musica. Il posto fungeva anche da palcoscenico per beneamate, ripetitive scenette. A ogni visita i suoi genitori esaminavano il menu come fosse la prima volta e Mark Spitz chiedeva se avessero dei pastelli, pur sapendo che ne avevano un cassetto pieno di mozziconi carichi di germi e smangiucchiati in scatole di cartone mutilate, un’intera corsia di ospedale militare. La madre si domandava sempre se avessero qualche piatto speciale, quando qualsiasi malnato antipasto inserito fra le portate della sera si sarebbe senz’altro sottratto a un simile titolo. Mentre aspettava il cibo, Mark Spitz trascinava un frammento verde sulla tovaglietta del Club dei Piccoli, collegava i puntini per de-atomizzare lo zoo, animale per animale, rovesciando gli effetti del raggio alieno che aveva fatto tutto a pezzi. Saccheggiava il menu bimbo, volando fra crocchette, varie parti di pesce unite a forma di stella e sciropposi intrugli gasati, divorando il tutto. Buon cibo americano.
Quel mattino, Mark Spitz arraffò un menu da un espositore, il braccio che ancora fremeva per il dolore dell’assalto del giorno precedente. Aveva permesso che si prendessero un pezzo di lui. Alla fine il management aveva modificato l’elenco, aggiungendo un’insalata Festival Mediterraneo e un pollo alla citronella alla serie di sistemi di consegna del colesterolo che si concentravano nelle enormi portate, incollate al proprio posto da salse dense e sospette. Tabelle delle calorie e linee guida governative fischiettavano accanto alle selezioni, irridendo il girovita dei clienti. Suo padre ci scherzava spesso: pregava che l’incontro con il creatore avvenisse per un infarto fulminante nel sonno dopo un gigantesco doppio cheeseburger alla fiamma. La madre lo zittiva, disapprovando quel cosiddetto humor. Non era stato un infarto a portarselo via.
Fece scorrere la mano lungo la ringhiera d’ottone, esitando. Era stato lì prima e non ci era stato. Ecco la magia del franchising. A parte le piccole differenze nella disposizione, la composizione tavoli-sedie comandata sopravviveva alle dimensioni di Manhattan, i paralume rosso vermiglio chiudevano le lampadine pendenti dal soffitto con un’eleganza da bei vecchi tempi, le applique camuffate da lanterne erano inchiodate alla parete alla distanza prescritta. Era stato lì in altre vite che si insinuavano in quella attuale. Premette la fronte contro il vetro e si guardò: un grumo cinquenne di materia infantile; lo sciatto groviglio dei sedici anni; una creatura indefinita che al trentesimo anniversario di matrimonio dei suoi faceva scoppiare i palloncini quando pensava di non essere osservato. Gli vennero le vertigini. Si sentì come un bimbo che, tornando dal bagno, dimentica dov’erano seduti i genitori. Un’altra famiglia ha preso il posto della sua al tavolo, perfetti sconosciuti piovuti dal nulla che lo squadrano sospettosi ed estranei. Un orrore primordiale gli si agitò nel cervello e lo spinse a girarsi, strisciando la luce della torcia attraverso tenebre e polvere. Cercasse pure quanto voleva, questa volta non li avrebbe trovati.
Era un fantasma. Un ritardatario.
I pensieri scatenati dai film di mostri della sua infanzia l’avevano indotto in molte notti tetre a domandarsi che tipo di schel sarebbe diventato se l’epidemia gli avesse trasformato il sangue in veleno. Ovviamente allo schel d’ordinanza non era concessa l’improvvisazione. Avrebbe raggiunto i suoi ripugnanti scopi. Ma che genere di ritardatario sarebbe stato? Che cosa amava, quale posto era stato importante per lui? Lavoro o casa, dove canalizzava le sue energie? Sì, amava casa sua. Magari sarebbe finito là, incollato al suo posto consunto sul lato destro del divano (quello giusto se guardavi la console intrattenimento, e che altro volevi guardare). Forse là.
Consultò il lacero libro mastro della sua storia lavorativa. Non si vedeva a ciondolare intorno al cassiere della panineria artigianale in cui aveva lavorato per due estati, quel buco sfigato, né si sentiva talmente condizionato emotivamente dal periodo trascorso a servire piña colada da dedicare la sua esistenza a strofinare il bancone con uno straccio grigio finché il corpo si fosse disintegrato. O finché la Fenice Americana, riconquistata la Zona Uno e quelle successive, avesse cominciato a ripulire il resto del paese, e un futuro spazzino membro di una futura unità gli avesse sparato in testa. Tutto questo se fosse stato contagiato da solo… Il tacito patto di morte era “il prossimo giro è mio”. Abbattetemi se vengo morso. E di certo non avrebbe marciato fino a Chelsea per fingere di inviare vivaci panegirici nella rete morta. Magari sarebbe venuto qui.
Una domenica sera all’inizio del tour stava bevendo vino sponsorizzato con Kaitlyn in una gastronomia cinese, quando il tenente era comparso sulla porta. Mark Spitz e Kaitlyn avevano lasciato la riunione al ristorante cinese dopo che un plotone in pausa prima di proseguire per Buffalo si era lanciato nelle trite battute sugli schel subite centinaia di volte (“T’ho detto di succhiarmi il cazzo, non di mangiarmelo”). Poi la banda del Connecticut, compreso Gary, aveva fatto a gara con i marines, elencando barocche mutilazioni e decapitazioni di schel: era giunto il momento di andarsene.
«È questo il mio vero ufficio» aveva detto il tenente. «Il mio sancta sanctorum.» Aveva fatto cenno di rimettersi a sedere quando si erano alzati. «Ma potete unirvi a me. Io ho la saggezza, e vedo che voi la cercate.» Mark Spitz sapeva che al calar della sera il tenente era cotto; già durante il giorno i suoi pori trasudavano dolciastri effluvi ad alta gradazione e ormai era tardi. Al riguardo, Mark Spitz rimaneva fedele alla propria politica: non giudicate le disfunzioni altrui, per non essere giudicati.
Il tenente sgusciò nel séparé accanto a Mark Spitz, di fronte a Kaitlyn. «Veglia irlandese» disse. L’etichetta sul suo whisky era stata tolta per nascondere il nome della distilleria non sponsorizzata, strisce di colla giallo muco levitanti sulla bottiglia.
Kaitlyn rabbrividì e portò le braccia sul petto.
«Pelle d’oca» disse il tenente. «La brezza notturna o radiazioni allo sbando?» Si sfregò l’angolo della bocca. «Noi abbiamo messo in sicurezza gli impianti nucleari contro eventuali incidenti – impianti nucleari e Fort Knox e i bunker dei vari papaveri – ma non tutti l’hanno fatto. Adesso abbiamo ’sta nebbiolina da fusione che svolazza sul Pacifico. Come neve invisibile.»
«O cenere» disse Mark Spitz.
«O cenere.» Il tenente s’informò sulla Zona e i due fornirono risposte ottimistiche su quanto il compito si stesse rivelando inaspettatamente facile. Spari a questo qui, a quell’altro là. Li imbusti. Quasi nessun problema. Kaitlyn gli disse che magari avrebbero finito prima di quanto avesse previsto Buffalo. «Sono contenta che siano solo ritardatari» disse.
«Siamo tutti contenti» commentò il tenente. «Siano benedetti. Immaginate come sarebbero le cose se l’epidemia avesse reso il novantanove per cento degli schel così, e non viceversa. Allora sì che saremmo nella merda fino al collo.» Ci avevano mai pensato?
Gli spazzini confessarono di no. Il tenente afferrò due bicchieri da acqua e li riempì di whisky, facendoli tintinnare contro quelli del vino. «Un bel miscuglio» disse. Si curvò sul tavolo. «Aiutatemi, immaginate il novantanove per cento di ritardatari. Lasciamo perdere come sono stati morsi… diciamo che la trasmissione è avvenuta per via aerea. Che ne faremmo? Tutti quegli schel immobili. Non li puoi curare. Li porti a casa, nel cosiddetto ambiente familiare, e quelli probabilmente tornano nel punto esatto in cui li hai trovati. Quindi li lasci lì, direi. Ovunque abbiano scelto. Seduti nel proprio cubicolo in ufficio, in viaggio sull’autobus giorno e notte e perfino nel deposito. Sdraiati sulla spiaggia a prendersi qualche raggio. Non sanno che cosa sta succedendo… probabilmente pensano che sia tutto normale. Si fanno gli affari loro come hanno sempre fatto.»
«Tutto questo è disgustoso» disse Kaitlyn incrociando le braccia. «Lei è disgustoso.» Kaitlyn parlava sempre dei genitori al passato, rifiutando lo scenario in cui mamma e papà tornavano lentamente verso la città natale, confusi e affamati. Secondo Mark Spitz li immaginava di fronte al barbecue nel cortile dietro casa, irrigiditi e dannati sul patio lastricato.
Dalla strada giunsero frenetici colpi di clacson: l’autista di una jeep toglieva di torno gli ubriachi della domenica sera. Il tenente si appoggiò allo schienale della panca di finta pelle con la consueta indolenza. «No, hai ragione. Non dobbiamo umanizzarli. Tutta la faccenda non sta in piedi a meno che siamo fondamentalmente sicuri che loro non sono noi. Io non assomiglio a quell’animale, ti dici, accovacciandoti nel retro del minimarket a pisciare in un secchio e cucinare scoiattoli rognosi per cena.» Il tenente bevve una sorsata rumorosa. Mark Spitz non avrebbe saputo dire se stesse sminuendo Kaitlyn o le proprie illusioni calpestate. «Sei ancora la stessa persona di prima dell’epidemia, ti dici, anche mentre corri per salvare la pelle nel parcheggio di un merdoso centro commerciale inseguito da una banda di mostri. Mica ne esci svilito. “Ehi, magari questo morto ha nel carrello qualcosa che potrei mangiare.”»
Kaitlyn aprì la bocca, ma poi si controllò. Si era scontrata con insegnanti falliti e ne era uscita vincitrice. «Se l’epidemia si diffondesse per via aerea» disse. «Lei non li lascerebbe in giro.»
«Era un processo speculativo astratto.»
«Dopo un po’ non li noteremmo neppure» disse Mark Spitz.
Il tenente mise insieme un sorriso rabberciato. «Per questo mi piacciono i ritardatari. Sanno che cosa stanno facendo. Esuberanza e idee chiare. Noi che cosa abbiamo? Paura e pericolo. I ricordi delle persone che abbiamo perduto. Gli schel normali sono un casino. Ma il ritardatario non ha nulla di tutto ciò. Abita sempre il momento perfetto. L’ha trovato… il luogo cui appartiene.» Si interruppe. «Mark Spitz, vedo che ti sei dato al whisky. Buono, no?»
Finirono la bottiglia. La settimana successiva tutti e tre si recarono alla gastronomia, ciascuno per conto proprio, e divenne una consuetudine della domenica sera.
Nel ristorante, mesi più tardi, dopo diversi altri contatti con le creature, griglia dopo monotona griglia, Mark Spitz si domandò se fossero i ritardatari a scegliere i posti o i posti a scegliere loro. Impossibile esprimersi sulle visioni elaborate dai cavi incrociati nel cervello, quella malaelettricità che si aggirava fiaccamente fra le sinapsi deteriorate. Ripensò al primo ritardatario, fermo in mezzo al campo con il suo stupido aquilone. Secondo la spiegazione più ovvia, giocava lì da bambino, lo sguardo alto sul cielo, indifferente alle cose che potevano farlo inciampare. Magari non si trattava di quanto era accaduto in un certo luogo – la stanza preferita o il tratto di spiaggia o il prato verde pieno di erbacce – bensì l’associazione che con quel luogo si era indelebilmente creata. È dove ho deciso di chiederle di sposarmi, in questo ascensore, e ora esisto di nuovo in quel momento di possibilità. Un minuto soltanto in quel posto, ma aveva cambiato la sua vita in modo irrevocabile. E così ci torna. Questa è la stanza d’albergo dove è stata concepita nostra figlia e ritrovarmi qui adesso mi fa sentire che lei è di nuovo con me. Importante non era la stanza in sé, con la moquette chiazzata, il menu del servizio in camera e il cavatappi scomparsi, ma il risultato nove mesi dopo. La ritardataria era schiava della stanza 1410, non delle lunghe notti passate a controllare che i minuscoli polmoni continuassero a espandersi e contrarsi, né della soleggiata piscina infinita del resort dove avevano trascorso i migliori quattro giorni / tre notti, o degli scalini a sinistra del palco dove si erano abbracciate dopo la recita scolastica. Così ci torna, stanza 1410. Sollevati da ansie e preoccupazioni, i ritardatari vivevano eternamente, immortali nel proprio paradiso personale. Dove il mondo malefico e i suoi assalti erano banditi e non c’erano che possibilità.
Si tolse la mantellina e lasciò cadere lo zaino. Depose l’arma sul bancone e si avvicinò al muro. Aveva dimenticato le perle di saggezza in cornice argentata sparse fra la mercanzia. “Amore a uno, amicizia per molti e buona volontà verso tutti.” “Ogni ospite esce felice.” “Ai bei vecchi tempi, che stiamo vivendo proprio adesso.” Affermazioni formato A4. Gli antenati dei suoi messaggi per conto della società del caffè, a mano a mano che la comunicazione si metteva al passo con i luoghi comuni collaudati e gli insipienti adottavano i modi dei vecchi saggi. Conciso e punta al messaggio, prego. Usa i simboli. È così che parliamo oggigiorno.
Gli mancavano le stupidaggini che mancavano a tutti, il wi-fi e l’infaticabile tostapane cromato, i trasporti pubblici e i trasferimenti gratis, pulirsi le mani dalla polvere delle palline di mais al formaggio sui pantaloni e calcolare la coda più corta alle casse, gli mancavano le cose inimmaginabili nella ricostruzione. Quelle che sarebbero sfuggite. I suoi. Famiglia e amici e gente dagli occhi felici seduta al bancone all’ora di pranzo. I morti. Gli mancavano i defunti. Gli inadatti erano stati spazzati via – come dirla altrimenti – e tutti quelli che rimanevano erano rovinati come lui. Gli mancavano le donne con cui non era mai finito a letto. Dall’altra parte della stanza, la tentatrice al tavolo accanto, quella meraviglia che passando davanti alla vetrina della taquería l’aveva fatto sobbalzare. Si truccavano troppo o proiettavano emozioni complesse su animaletti minuscoli, sorridevano proprio così, gli davano ragione quando nessun altro lo faceva, ascoltavano quando a nessun altro interessava. Erano ricche di famiglia o si agitavano per disastri economici ridicoli quanto improbabili, erano astemie o bevevano come spugne, gli davano bacetti leggeri sulle labbra o se lo mangiavano bramose. Avevano un vocabolario ristretto o si degnavano di abbassarsi al suo livello nei giochi da tavolo a base di parole in cui lui non era mai riuscito a destreggiarsi. Tutte andate, quelle inconoscibili senza volto che il curatore della sua vita aveva tenuto da parte per il momento giusto, per dargli una lezione che probabilmente non avrebbe mai imparato. Gli mancavano fiche impazienti quando infilava la mano sotto l’elastico dell’intimo da sera e gli mancavano recessi incerti ma convincibili, ascelle ispide e cavigliere arrotolate, nei sul culo a forma di Ohio, somiglianza di cui dovette essere informato perché ignorava come fosse fatto l’Ohio. I sospiri. Avevano occhi dolci o tristi o erano talmente brave a dominare le turbolenze interne da non lasciargli vedere le ombre. Smalto scheggiato sulle unghie dei piedi e l’accenno casuale al profumo di una nuova crema che apriva un monologo sulla provenienza, gli ingredienti speciali, i poteri magici e la superiorità rispetto a tutte le altre creme. Il segno strano lasciato dalla spallina di un reggiseno appena tolto, indumento più o meno fantasioso che in ogni caso liberava seni grandi o piccoli. Gli piacevano i seni grandi e gli piacevano i seni piccoli; i seni piccoli erano solo un’altra varietà di seni. Cervello, un vantaggio certo, ma non indispensabile. Soprattutto alle tre del mattino. La peluria che contorna il lobo, nei esattamente al posto giusto, imperfezioni divine nella loro coordinazione. Gli mancavano le donne morte in cui non si sarebbe mai perduto, che non l’avrebbero mai sorpreso, né deluso.
Gli mancavano la vergogna e il senso di colpa e un tempo in cui qualcosa di più elevato dello stupido istinto guidava le sue azioni.
Infilò due monete da un quarto di dollaro nel juke-box da tavolo più vicino. Non aveva due monete da un quarto, ma andava bene lo stesso. Il juke-box attaccò senza protestare e lui ascoltò il concerto di leve segrete che portavano il quarantacinque giri dal selettore a margherita al piatto sopra la polvere. Le luci della macchina lampeggiarono allegre, le applique nell’angolo vicino ai bagni, sopra il bancone e nei séparé si accesero una a una, per poi trovare l’unisono.
Tremolando, la macchina scelta prese vita. Le casse colsero la canzone al terzo verso, strombazzando all’assordante volume prescelto segnato con un pezzo di nastro adesivo. Parecchi clienti presero a canticchiare e muovere la testa; quel singolo andava fortissimo dodici estati prima. Non un filo di spazio al bancone. Gli habitué mugugnavano chiedendosi quando sarebbero stati riparati gli sgabelli traballanti, erano settimane che li sopportavano. La ragazza del barista cercò di attirarne l’attenzione, ma quello ricorse alla visione selettiva, vecchio trucco del mestiere, che usava troppo spesso quando non era dietro il bancone. Poi la vide e sorrise. Era il loro anniversario. Tre mesi. Piatti unti risalirono il braccio dell’aiutocameriere; finse di lasciarne cadere uno, scherzando con la coppia di anziani che mangiava un boccone prima del bridge. Stesso giorno della settimana, stessi piatti, stessa mancia pidocchiosa. Nell’angolo, un rumoroso gruppo di otto persone si lanciò in “Tanti auguri a te” e i clienti ai tavoli accanto si sentirono obbligati a unirsi o quanto meno a muovere la bocca. L’addetta all’accoglienza guidò i due della ditta di disinfestazione a un tavolo a due ripiani sotto il televisore Hd, ma quelli ne vollero un altro. La partita sarebbe cominciata dopo mezz’ora e loro odiavano l’annunciatore con tanta ferocia che non vedevano l’ora di coprirlo di improperi. Una volta tanto la nuova dieta dell’addetta all’accoglienza funzionava, glielo dicevano tutti e sembravano sinceri. In effetti la divisa era troppo grande. Per fortuna aveva ancora quella vecchia da qualche parte, o l’aveva buttata? Poi un altro tavolo raffazzonò un “Tanti auguri a te” versione sbronza anche se non c’erano compleanni, perché qualcuno si era fatto l’idea – sbagliata – che gli avrebbe fruttato un giro di bevute gratis. Avevano confuso il locale con un’altra catena. La cameriera nuova riportò in cucina la carne quasi fredda. Ogni settimana le sue scuse perdevano di sincerità.
I suoi genitori erano esattamente dove li aveva lasciati, il padre che allargava la cintura di un buco e la madre che sorrideva, gli occhi luccicanti mentre sorseggiava il suo daiquiri alla banana da un’enorme cannuccia verde. La finta pelle rossa era ancora calda. Era la loro serata fuori.
«Vuoi un passaggio?»
Il mondo era un pantano. Ma i sistemi sono duri a morire – sopravvivono ai loro creatori e, a differenza delle epidemie, non richiedono ospiti individuali – sicché era un pantano bene organizzato, con tanto di gerarchia, responsabilità e una mole crescente di scartoffie. Bozeman in quella fase era l’impiegato militare più alto in grado a Wonton, il principale custode dell’integrità olistica del campo in tutti i suoi aspetti. Ogni sera Bozeman si caricava la guarnigione sulle spalle e le faceva fare il ruttino, tubando ninnananne di ordini di servizio. Conosceva il contenuto segreto dei pacchi nelle pance degli elicotteri che traversavano il mare, garantiva che i calibri designati raggiungessero i caricatori vuoti, la notte dormiva con una catena intorno al collo gonfio, da cui pendeva la chiave del frigorifero contenente le bistecche per gli alti ufficiali, manzo ingrassato a foraggio. Mark Spitz fu sorpreso di vedere alla guida della jeep il loro economo, che raramente abbandonava gli uffici al secondo piano della banca. Di certo più si allontanava dal ground zero, più rimpiccioliva.
Accanto a lui, una donna in abiti civili – gonna a tubo nera e camicetta bianca – squadrò Mark Spitz da sopra il bordo degli occhiali da sole azzurri. Era una meteora caduta da un’altra parte del sistema solare, o da un luogo ancora più remoto, dalla vita prima dell’agonia, uscita da una rivista rivolta alla professionista contemporanea. Dalla copertina però erano spariti test di compatibilità e dispacci dalle frontiere della ricerca su “Come accontentare il tuo uomo” per fare spazio a testimonial dell’autosufficienza, alle virtù di un’esistenza contenuta, al santo graal della completa realizzazione. Minacciò una mosca con un faldone bianco patinato e sorrise a Mark Spitz, la prima vera cittadina dal suo arrivo nella Zona. «C’è un sacco di posto» disse. Nonché la prima che Mark Spitz vedeva con una collana di perle da quando aveva cominciato a correre.
Mark Spitz ubbidì. Bozeman lo informò che erano diretti al quartier generale dopo una breve sosta ai box sulla West Broadway. «Questa è Ms Macy» disse. «È stata mandata qui da Buffalo in ricognizione.» Bozeman calcò un poco sull’ultima parola, con quella che Mark Spitz avrebbe definito ironia se il mondo non l’avesse resa merce rara. L’ironia era un minerale sepolto troppo in profondità nella crosta terrestre e non esisteva macchinario sulla faccia della terra in grado di raggiungerlo. L’impiegato teneva gli occhi sulla strada, evitando colossali chiazze di asfalto bruciato dove i marines avevano arrostito gli schel prima che diventassero operative le squadre di smaltimento. Le macchie nere di catrame corrugato non erano una minaccia per il veicolo. Mark Spitz lo attribuì alla superstizione.
Sfrecciarono davanti a una fila di negozi di abbigliamento di lusso, ultimi capi in vetrina e sconti imbronciati nella luce itterica. «Oh!» fece Ms Macy, e poi: «Non importa» rendendosi conto che la sua attuale scorta non avrebbe gradito un raid improvvisato. Mark Spitz sorrise. Era come fare un lungo viaggio attraverso la città, a piedi o in auto, con Kaitlyn e Gary o chiunque altro. La tua fantasia sfiorava timidamente una vetrina e i vecchi elettroni del consumatore si agitavano pieni di belle intenzioni. Poi sopprimevi l’impulso con la realtà: non ti saresti fermato, era troppo tardi, c’erano altri passeggeri oltre a te e al tuo capriccio. Il momento scompariva. Saresti rimasto deluso comunque. Il negozio non era poi così originale adesso che guardavi meglio, solo pappette da mamma e papà raggrumate sui rebbi, il più antico ottovolante di tutto lo Stato chiuso da anni, con cartelli che avvertivano della presenza di veleno per topi che impedivano perfino una sbirciatina ai locali fatiscenti. Come tutti i miraggi, anche quelli evaporavano una volta vicini.
I regolamenti antisaccheggio mantenevano i celeberrimi negozi di New York off limits, ma Mark Spitz sospettava che Ms Macy avesse abbastanza potere da organizzare una spedizione fuori orario, in cambio di un certo prezzo. Quattro scatole di succo di frutta.
Ms Macy si rivolse a Mark Spitz. «Mi permetta di cogliere l’occasione per ringraziarla a nome di Buffalo per il fantastico lavoro che voi, uomini e donne, state facendo in questo posto.» Fermò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Avete un sacco di gente che fa il tifo per voi, lassù.»
«Grazie.»
La jeep virò a sinistra e Ms Macy si aggrappò al sedile, unghie perfette affondate nell’imbottitura. Lui avrebbe definito il colore dello smalto azzurro, ma senza dubbio la boccetta era ornata da un appellativo più fantasioso. «Non succede spesso di trovarmi in trincea» disse lei. «Perlopiù ce ne stiamo seduti intorno al nostro tavolino da riunioni con la nostra piantina triste e la lavagnetta e tiriamo fuori progetti grandiosi. Ma le cose stanno cambiando.» Le andò un po’ di polvere negli occhi e lei si voltò per massaggiarli guardando nello specchietto da borsa incrinato, inclinandolo per trovare l’angolatura giusta.
Bozeman si fermò davanti a un piccolo hotel di lusso, parcheggiando con una carezza al marciapiede. Dall’ultima volta che Mark Spitz vi era passato, l’esercito aveva rimosso le auto da quel lato della strada. Il rivestimento di metallo scuro della facciata era invecchiato ad arte, con striature e segni di calcolata imperfezione che in quell’era impoverita sottintendevano lungimiranza. Di certo era l’architettura che guardava al futuro che tutti stavano aspettando. Mark Spitz riconobbe l’umile locanda dalle regolari apparizioni nelle estinte pagine del gossip. Accoglieva le feste per la prima di flop cinematografici e le disperate e convulse abbuffate di droga di celebrities e ragazzini ricchi che non avevano mai ricevuto un abbraccio come si deve. Scesero, e Ms Macy zampettò verso la pensilina che bloccava la pioggia con vetro bianchissimo e intelaiatura di acciaio inox. «Perché non viene anche lei?» disse Ms Macy chinandosi per guardare Mark Spitz in faccia. «La sua esperienza potrebbe tornarmi utile.»
Non sapeva a che cosa si riferisse, visto che la sua unica esperienza stava nell’interpretazione dello scarafaggio, creatura di cui aveva imparato alla perfezione l’infinita resilienza. Un brontolio continuo di raffiche dalla muraglia più a nord assassinava il silenzio. Oltrepassarono gli scintillanti cubi di vetro che erano state le porte d’ingresso, con Ms Macy – impacciata sui tacchi alti – che aggrottava le sopracciglia ed emetteva suoni di disappunto. Bozeman, in avanscoperta, perlustrava la sala al piano terra, un tetro sacco che si annidava nella reception come un tumore. Mark Spitz fece una rapida ispezione del corridoio che portava ai bagni e alle invisibili riserve del personale. Sentiva che erano soli, ma si affrettò a tornare nell’atrio giusto per. Niente schel in giro, ma nessuno avrebbe gioito se si fosse sbagliato e una di Buffalo si fosse ritrovata senza faccia, tanto più con quelle scarpe.
Ms Macy andava avanti e indietro, lenta e pensierosa. Gli piaceva il rumore dei tacchi sul pavimento. Rimandava a un’affascinante seduzione, come il ruggito di una festa promettente dietro la porta in fondo al corridoio. «Cinque isolati» disse lei. Erano cinque isolati fino alla muraglia, calcolò Mark Spitz, e oltre venti piani sopra la testa prima di esaurire le camere. Ms Macy era in cerca di alloggio.
Bozeman emerse dalla sala e alzò le spalle in risposta allo sguardo interrogativo di Mark Spitz.
«Mi pareva che avesse detto che le porte erano state riparate» disse Ms Macy. «Non vogliamo che entrino scoiattoli e ratti e Dio sa che altro.»
«Ci stiamo dando da fare per trovare un bravo vetraio, signora» disse Bozeman.
«Vetraio?»
«Qualcuno che fa finestre, che tratta il vetro. Finora gli unici che abbiamo individuato sono nei campi più lontani. E stanno tagliando di brutto il trasporto aereo non strettamente necessario, soprattutto in vista dell’operazione che si prepara.»
Lei scosse il capo. «Non si lasci abbindolare dal gioco del questo non c’è, quello neppure. È roba del passato.» Appariva infastidita, e perplessa circa il motivo del fastidio. Poi levò lo sguardo al soffitto, dove pennellate gialle alla buona riproducevano una rozza mappa della vecchia New York olandese. Il tocco amatoriale era voluto, per attenuare la gelida premeditazione in mostra tutt’intorno. «Come sono le stanze?» domandò, un po’ abbattuta.
«Belle. A parte quello che sta scritto nel faldone.» Poi aggiunse: «Almeno per quanto ne so io. Non c’ero durante l’ispezione. Però sono bravissimi nel loro lavoro».
«A Buffalo possiamo contare solo su quello che ci dite voi.»
«Evacuato durante la prima ondata. Poi è stato sigillato.» Bozeman fece una pausa. Sigillato tranne le porte d’ingresso. «Però possiamo salire e fare un’ispezione in prima persona, se vuole.»
«Con gli ascensori fuori servizio?» Ms Macy prese qualche appunto. «Quelle devono sparire» disse, indicando le decorazioni alle pareti. Due tele mostruose giganteggiavano sopra i divani di pelle nera, rappresentazioni della metropoli di notte dalla visuale privilegiata di un avvoltoio. La prima aveva fuochi che ardevano alle intersezioni, deboli ma inquietanti nella loro disposizione regolare sulla griglia, mentre l’altra manteneva l’angolatura ma catturava gli incendi rapaci che rosicchiavano gli edifici, con gli abitanti curvi ai davanzali per osservare l’avanzata delle fiamme. La catastrofe affamata, che striscia di buon passo. Decorazioni alle pareti.
«Sono un po’ lugubri» disse Mark Spitz. Non gli era chiaro se potesse parlare, se stesse fornendo la propria esperienza, ma voleva togliere Bozeman dalla graticola. Durante le prime settimane nella Zona, gli spazzini avevano battuto le griglie assegnate senza le nuove mimetiche con rete di fibre speciali. Una parte di equipaggiamento a dir poco indispensabile, ma gli spazzini non erano in cima alla lista delle priorità. Quando finalmente si era profilata la fornitura, Bozeman aveva avvertito Mark Spitz, che era stato il primo in fila per la distribuzione. «Sei un ragazzo di Long Island» gli aveva spiegato poi «proprio come me.»
«Il fatto è che in questi piccoli hotel di nicchia potresti essere ovunque» disse Ms Macy. «L’avevano imparata proprio bene prima dell’epidemia, la lingua internazionale dell’ospitalità.»
«Mai stata a Barcellona?» chiese Bozeman. «Fanno festa tutta la notte.»
«Sto pensando… bambini» disse Ms Macy. Tracciò una rigaccia rossa sulla sua lavagna mentale: forza, squadra, uniamo i cervelli. «Immagini di piccoli fenicini nei campi, che fanno capriole, tutti insieme. Seminano il terreno e affilano i machete. No, niente machete… roba da bambini. Sorridono, ridono e fanno cose da bambini. Dopo tutto, sono loro il futuro. Perché è proprio di questo che si tratta, del futuro.»
Il futuro richiedeva molte cose, ma le decorazioni per interni a Mark Spitz non erano venute in mente. Già, i bambini avrebbero senz’altro dato il tocco finale alla stanza. Non si era reso conto che gli mancava il raffinato gergo dei professionisti urbani. Era come il maglione preferito tirato fuori al primo freddo autunnale, collaudato, rassicurante e comodo. Il futuro era quello che in precedenza si definiva “un quartiere in corso di riqualificazione”. Servizi essenziali ridotti all’osso, saloni di toilettatura per barboncini e caffè malconci, ma se arrivi al momento giusto non importa che l’edificio accanto brulichi di schel. Alla fine ci penseranno gli affitti stellari a cacciarli a tre fermate della metropolitana da lì, e non li vedrai mai più. I bistrot stanno arrivando, abbi pazienza, tesoruccio. «Come mai è qui, Ms Macy?» domandò Mark Spitz.
La visitatrice prese tempo. «Non dovrei dire ancora nulla,» rispose «ma voi siete persone fidate. Abbiamo premuto i tasti giusti e la settimana scorsa ci è giunta voce che Manhattan sarà la sede del prossimo vertice. Fantastico, no?»
Mark Spitz e Bozeman composero una risposta adeguata.
«New York è la città più straordinaria del mondo. Immaginate come si sentiranno tutti quei capi di Stato e ambasciatori vedendo quanto siamo riusciti a realizzare. Anzi, siete riusciti a realizzare. Abbiamo riconquistato questo posto ai morti. Già solo il simbolismo. Se possiamo fare questo, possiamo fare qualsiasi cosa.»
«Per allora potremmo perfino essere alla Zona Due, se rispettiamo la tempistica» disse Bozeman sfruttando il vantaggio.
«Questa è l’America.»