Aventiure... narrata secondo antiche fonti
Viveva una volta, in una provincia dell’impero romano, un nobile e facoltoso gentiluomo di nome Ottokar, da molti ritenuto il vanto dell’intera cavalleria di quel paese. Possedeva molte terre, castelli, boschi e villaggi, con bestiame e selvaggina; ma aveva perso la moglie ancora in giovane età, e non aveva saputo decidersi a sposarsi una seconda volta. Riversava invece tutto il suo amore sull’unica figlia, Alinda; avuta da quella sposa. Questa damigella era di non comune leggiadria e di indole assai nobile, il che sarebbe bastato, anche senza l’ingente eredità che le spettava, a far accendere più di un gentiluomo di ardente amore per lei. Poiché tuttavia la suddetta damigella non sapeva, o non voleva sapere, ancor nulla dell’amore, e per di più suo padre era un uomo quanto mai superbo e severo, nessuno degli innamorati era riuscito ad avvicinarsi all’oggetto dei suoi desideri. Tra coloro che avevano perso il cuore per i begli occhi di Alinda c’era un giovane di assai nobile casato, che però lotte di parte ed esilio avevano disperso e privato di tutti i possedimenti. Costui si chiamava Hildebrant. Era arrivato in quella regione dopo che l’unico suo fratello Ebert, maggiore di lui, se n’era andato per il mondo a cercar fortuna al servizio dei signori. Questo giovane, essendo affatto privo di beni e non potendo, per via dell’esilio, far ritorno alla città natale, era entrato a far parte del seguito di Ottokar, che molto lo lodava e lo prediligeva per le sue eccellenti qualità di cavaliere, sia quando lo accompagnava in viaggio o a caccia, sia a casa. Cosi Hildebrant aveva spesso occasione di vedere la figlia del suo signore e di parlar con lei e di esser vicino all’oggetto dei suoi appassionati desideri. Tuttavia si asteneva dal manifestarle il suo ardente amore fosse pure con uno sguardo o con un gesto. Infatti il pensiero di godere di questo suo amore in modo men che onesto era tanto lontano dal generoso giovane quanto lo è il mattino dalla sera, e giacché nella sua triste povertà riteneva impossibile ottener mai Alinda in moglie, preferiva tener per sé il suo grande amore, e magari anzi morirne, piuttosto che esporre al sia pur minimo pericolo la tranquillità e il nome della dama. Le cose andarono avanti così, senza cambiare, per un lungo periodo. Intanto Ottokar, per motivi o vantaggi ignoti, si era strettamente e pericolosamente legato a certi nemici dell’imperatore, del quale era vassallo. Per volere di Dio accadde che l’imperatore Friedrich venisse a sapere di questa faccenda, per la qual cosa si adirò fortemente, come ben si può immaginare, tanto che giurò di punire nel modo più duro l’infelice Ottokar. Dunque questo signore venne immediatamente arrestato, condotto in città e rinchiuso in un carcere ben sorvegliato, in attesa che giungesse l’imperatore con la corte e il tribunale. Sua maestà imperiale riunita con tutti i signori e i consiglieri espresse un severo giudizio su questo delitto, e la sentenza dell’imperatore fu che l’infelice Ottokar venisse messo a morte mediante impiccagione e privato di ogni suo possesso e avere. Intanto sua figlia, la damigella Alinda, grandemente angosciata e afflitta era rimasta a casa, dove Hildebrant e alcuni altri del seguito la proteggevano e invano cercavano di consolarla. Quando la notizia della condanna a morte risuonò per ogni dove e penetrò anche nella casa, la misera damigella si abbandonò a pianti e lamenti, tanto che nessuno poteva assistervi senza a sua volta scoppiare in lacrime. Soprattutto, però, il suo profondo cordoglio rattristava il buon Hildebrant, al quale Alinda, benché ora la vedesse precipitata nel lutto e nella povertà, piaceva quasi più di prima, sicché cercava di far l’impossibile per confortarla. Quando la povera fanciulla se ne accorse, tollerò soltanto la presenza del giovane gentiluomo, e fece uscire dalla stanza tutti gli altri che volevano consolarla. Ma dopo che si fu saziata di lacrime, da damigella accorta e assennata soppesò la sua difficile situazione e poi disse a Hildebrant: “Voi mi avete, caro signore, manifestato tanta bontà, e mi siete stato di tale conforto che ardisco rivolgervi una preghiera”.
“Parlate, venerata signora”, rispose Hildebrant, “e sappiate che non occorre mi preghiate di nulla, ma potete disporre della mia persona e delle mie deboli forze a vostra completa discrezione!”
“Ascoltate, dunque!” proseguì Alinda. “Come ben sapete, non solo il mio infelice padre è stato condannato a morte, ma gli saranno tolti anche tutti i beni, sicché da questo momento io sono una povera orfana senza averi. Ma chissà che non debba capitarmi anche di peggio, quando verranno gli sgherri e i messi dell’imperatore a prender possesso di questa casa. Potrebbero facilmente mettere in carcere anche me, che pure sono del tutto innocente, e anche se conserverò la libertà, essendo una fanciulla priva di protezione sarei esposta a molti pericoli nella vita e nell’onore. Pertanto la mia preghiera è che mi aiutiate a uscire da questa casa, cosicché io possa chiedere asilo a uno dei conventi vicini e attendere quanto altro Dio vorrà disporre per me”.
Il giovane messer Hildebrant ammirò grandemente la saggia accortezza della fanciulla e subito si offrì di servirla in tutto. Verso sera la condusse, avvolta in un ampio mantello da uomo, fuori dalla casa e dal parco; poi la accompagnò sino a un convento non molto distante di là e si congedò da lei assai cortesemente, promettendole di andarla a trovare il giorno seguente e di portarle altre notizie. In quel convento, che al padre di lei doveva parecchi benefici, Alinda fu accolta con ogni gentilezza. Hildebrant si recò in città e chiese per ogni dove del prigioniero messer Ottokar. Ma non poté sapere altro se non che l’indomani, a una determinata ora, il suo signore sarebbe dovuto morire. Quella notte dormì all’aperto, e la mattina dopo si recò per tempo al luogo dell’esecuzione, verso cui già si stava incamminando una grande folla di curiosi. All’ora stabilita accadde dunque ciò che imperatore e legge esigevano: messer Ottokar fu ignominiosamente impiccato e morì miseramente sotto gli occhi della grande folla accorsa. A quel pietoso spettacolo molti, e fra questi anche il giovane Hildebrant, versarono lacrime sincere. Tra il suo folto e brillante seguito, l’imperatore aveva un giovane cavaliere che prediligeva e al quale dava spesso numerosi segni della sua simpatia, cosa che rendeva felice questo cavaliere mentre colmava di invidia gli altri cortigiani. Questo cavaliere si chiamava Ebert e si mostrava altamente degno di tanta augusta fiducia. Ora, poiché era stato stabilito che il cospiratore impiccato restasse appeso alla forca otto giorni e otto notti, e l’imperatore non voleva assolutamente che i familiari di Ottokar ne sottraessero il corpo e gli dessero onorata sepoltura, convocò quell’Ebert e lo incaricò di far personalmente la guardia presso il cadavere, e lo impegnò alla massima fedeltà promettendogli un ricco dono, e minacciandolo di una severa punizione qualora avesse fallito nel suo incarico. Così questo giovane e nobile cavaliere si recò immediatamente sul luogo del supplizio e, benché già ci fosse una guardia con quell’incarico, vi rimase anche lui, si aggirò là attorno e si prefisse di eseguire il suo compito nel migliore dei modi. E quando, verso sera, il mercenario di guardia cominciò ad insonnolirsi, assopendosi ogni tanto, gli ordinò di andarsene e decise che quella notte avrebbe vegliato da solo. Intanto Hildebrant era tornato al convento, a trovare la damigella Alinda e ad offrirle di nuovo i suoi servigi. Essendo il convento assai vicino al luogo dell’esecuzione, l’infelice figlia già sapeva tutto quel che era accaduto, e il giovane la trovò immersa nel più profondo dolore per la morte del suo signor padre. Ma passato qualche tempo riprese il dominio di sé, e dopo aver parlato con lui di molte altre cose, disse a Hildebrant: “Non so, buon signore, come ringraziarvi di tanti servigi e tanta protezione. Possa la giustizia divina ripagarvi più e più volte di tutta la vostra fedeltà; io pregherò per questo ogni giorno. Ma se avete ancora pietà di me e non vi siete ancora del tutto stancato della vostra premura, io vi imploro di darmi un consiglio su quel che mi resta da fare. Infatti, come sapete, sono orfana e non ho più né casa né beni”.
A queste parole della fanciulla il cuore del giovane cominciò a battere così forte, che egli quasi non riusciva a parlare e gli occorse qualche tempo per riprendersi. Ma piegato su un ginocchio le disse: “Giacché, venerata signora, mi rivolgete queste parole, non mi sembra bene nascondervi oltre il mio segreto. Sappiate che già da lungo tempo vi porto un amore profondo e sincero, che tuttavia vi ho taciuto con cura; infatti quando voi eravate ricca e potente, ed io soltanto un povero gentiluomo, come avrebbe potuto vivere in me una qualche speranza? Ma ora che siete diventata povera come me, anzi ancor più di me, e avete bisogno di chi vi protegga, vi manifesto questo mio amore e vi chiedo se mi stimate degno di condurvi onoratamente in sposa. Ma anche se voi non accondiscenderete, io sarò pronto a servirvi in ogni modo”.
La damigella apprese con meraviglia di questo amore, che messer Hildebrant aveva celato tanto a lungo, con devozione e grandi sofferenze. “Nobile signore”, disse, “questo vostro fedele amore mi sembra cosa rara, e ben degna di ricompensa; inoltre, nella mia triste condizione, non posso desiderare nulla di meglio che trovare uno sposo così valente e buono. Pertanto esaudirò volentieri il vostro desiderio, e sarò per sempre la vostra fedele amica e ancella. Tuttavia oggi non si addice che io pensi a queste cose, mentre il mio misero padre, che era anche vostro signore, resta in un luogo infamante, senza cristiana sepoltura. Sia dunque questa la prova del vostro amore, che voi portiate via da quel luogo il suo caro corpo e lo seppelliate onorevolmente; e quando ciò sarà accaduto, da quel momento disporrete di me come di una vostra serva”. Porse al giovane la mano destra, che egli baciò con profondo rispetto, promettendo di far tutto secondo i suoi ordini. Poi si allontanò nella più grande felicità, e poiché si stava facendo sera, si recò presso il luogo dell’esecuzione, dove si nascose dietro un cespuglio. Mentre da quel nascondiglio teneva d’occhio la forca e il guardiano che vi stava accanto, per attendere il momento favorevole alla sua impresa, nel convento in cui si era rifugiata Alinda accadeva un’altra novità. Infatti qualche giorno prima vi era entrato, con la moglie, un nobile pellegrino gravemente ammalato. Ora, proprio verso sera, egli era stato sopraffatto dalla debolezza, e la moglie, ancor giovane e bella, riempiva il convento dei suoi lamenti. Intanto il cavaliere Ebert stava di guardia sotto la forca, camminando su e giù e scrutando spesso nell’oscurità. Ma poiché da parecchio nessuno si avvicinava a quel luogo e, con l’avanzare della notte, si diffondeva tutt’intorno un silenzio mortale, si avvolse nel mantello e pensò di riposarsi un poco; ma si addormentò. Non appena Hildebrant dal suo nascondiglio ebbe visto questo, si alzò silenziosamente e si avvicinò. Trovando il guardiano addormentato, gli sottrasse la spada, tirò giù dalla forca più rapidamente che poté il corpo dell’impiccato e lo infilò in un sacco che aveva portato con sé. Poiché però il cavaliere addormentato lo colpiva per la grandezza e la bellezza della sua figura, ebbe voglia di guardarne il viso, e così fece. Ma non appena Io ebbe fatto ed ebbe osservato attentamente i tratti del dormiente, da segni sicuri riconobbe in lui suo fratello Ebert, che parecchi anni prima era andato per .il mondo a servizio dei signori. A questo punto fu assalito da un grande imbarazzo; infatti poteva facilmente immaginare in quale severa punizione sarebbe incorso suo fratello, una volta che si fosse scoperta la scomparsa del cadavere. Per quasi un’ora rimase profondamente afflitto e in preda a gravi dubbi davanti al dormiente, mentre accanto a lui giaceva abbandonato per terra il sacco con il cadavere. Alla fine però l’amore per Alinda vinse quello per il fratello; inoltre gli sembrava un dovere più alto soccorrere l’infelice damigella, poiché Ebert, da uomo e da cavaliere, avrebbe trovato da solo il modo di trarsi d’impaccio. Prese dunque il cadavere, ma lasciò al dormiente la spada, che piantò in terra accanto a lui. Poi con il suo carico si precipitò in un villaggio, dove svegliò il prete e lo costrinse a benedire il morto, che poi frettolosamente seppellì. Dopo di che corse via, e prima dell’alba era di nuovo davanti alla forca; ma cercò invano messer Ebert.
Questi infatti dopo qualche tempo si era svegliato, e aveva subito visto che l’impiccato era stato portato via. Al che si spaventò fortemente, si mise a esplorare i dintorni ma non trovò nessuno; allora tornò presso la forca, si sedette per terra e si abbandonò al suo dolore. Infatti sapeva bene che a questo punto, anche se non avesse dovuto pagare la sua mancanza con la vita, si era pur sempre giocato l’amicizia e il favore dell’imperatore. Pensava ora di fuggire, ora di gettarsi sulla sua spada; ma alla fine si chiese, da uomo accorto, se non gli fosse possibile salvarsi con uno stratagemma. Decise dunque di appendere un altro cadavere al posto di quello scomparso, per risparmiare a sé dolore e disgrazia, e all’imperatore ira e corruccio. Non esistendo nei dintorni altro luogo abitato, si recò in fretta nel vicino monastero, dove giaceva nella bara quel nobile pellegrino morto. La moglie di questo morto continuava a riempire le sue stanze di alti pianti e lamenti. Quando Ebert ne chiese il perché e venne a saper tutto, entrò nella stanza della vedova e prese a consolarla. All’inizio essa non gli diede quasi ascolto, ma poiché egli parlava con sempre maggiore insistenza, e inoltre essa vide com’egli fosse alto e bello e prestante, smise di lamentarsi e prestò orecchio alle sue parole. Il giovane cavaliere la pregò di non affliggersi oltre per il morto, al quale ciò non sarebbe servito a nulla; la vita era meglio della morte, e giacché essa, come lui vedeva, godeva ancora in larga misura di gioventù e bellezza, senza dubbio avrebbe assai presto dimenticato il presente dolore con un nuovo e felice matrimonio. E poiché la donna lo ascoltava compiaciuta e, come egli poté notare, si sarebbe assai volentieri consolata subito con lui, le raccontò in fretta della sua situazione e le chiese il permesso di appendere alla forca, al posto dell’altro, il marito morto. Quella donna infedele, che già aveva completamente dimenticato il suo lutto, disse di sì e aiutò addirittura il cavaliere a trascinare in tutta segretezza il cadavere al luogo dell’esecuzione. Erano appena arrivati ed Ebert stava appunto per appendere il morto al cappio, quando improvvisamente gridò: “Ahimè! Sono perduto lo stesso! All’impiccato mancava un dente davanti, e da ciò lo si riconosceva facilmente; questo invece ha ancora tutti i denti. E così tutto è stato inutile; infatti si accorgeranno che questo è un altro”. “Consolatevi”, gridò quella femmina sfacciata, “il male non è poi così grave”. Così dicendo prese una pietra e spezzò un dente al morto. Allora il cavaliere appese il cadavere alla forca, e fatto ciò si rimise di guardia, poiché cominciava ad albeggiare. Allora la donna gli disse in tono supplichevole: “Sapete bene quel che mi avete promesso, e non vorrei aver fatto tutto questo invano. Perciò prendetemi in moglie al posto dell’altro; io acconsento”. Allora messer Ebert rise e disse: “Mia cara dama, credete forse che vorrei prendere una moglie la quale, quando fossi morto, mi rompesse i denti con una pietra e mi impiccasse? Farete meglio ad andarvene e a fuggire in tutta fretta, perché, siatene certa; se qualcuno venisse a sapere quel che avete fatto stanotte, sareste lapidata. Il vostro sposo potete invece affidarmelo senza pensieri; gli farò buona guardia”. Allora l’abietta donna gettò alte grida, scappò via e lasciò quella regione più rapidamente che poté. A giorno fatto Hildebrant era di nuovo presso la forca, vide il cavaliere che montava la guardia e rimase assai stupito di trovare nuovamente occupato il posto dell’impiccato. Si avvicinò al guardiano, lo salutò e cominciò a parlare con lui.
“Nobile signore”, chiese infatti, “dite, di chi è il cadavere al quale fate la guardia con tanta cura?”
“Non lo sapete?”, rispose Ebert. “È un certo messer Ottokar, un nobile, ed è stato mandato al patibolo per alto tradimento”.
“Ehi”, gridò allora il giovane Hildebrant, “volete prendervi gioco di me? Perdonate infatti, ma questo impiccato non è affatto messer Ottokar, che conoscevo molto bene”.
A queste parole grande fu lo spavento di messer Ebert, che però disse: “Vi ingannate, giovane signore, oppure volete voi prendervi gioco di me. Vi dico che questo è Ottokar, reo di alto tradimento, e sua maestà l’imperatore mi ha ordinato di fargli la guardia”.
Allora Hildebrant sorrise e disse confidenzialmente: “Non vi accalorate per questo, caro signore, perché questa faccenda io la conosco meglio di voi. Quello che era appeso qui ieri sera, era certamente il nobile Ottokar; ma questo che vi è appeso ora è un altro. Ciò è tanto più vero, in quanto io stesso stanotte ho tolto da questa forca messer Ottokar e l’ho sepolto con le mie mani”.
Quando messer Ebert ebbe udito questo, saltò su e gridò con ira: “Allora siete voi il ladro, e lo ammettete persino? Orsù, prendete la spada e preparatevi a morire”.
“Aspettate un momento!”, esclamò Hildebrant, sempre sorridendo. “Caro signor cavaliere, quando questa notte stavo davanti a voi che dormivate, la vostra vita era nelle mie mani e vi avrei potuto uccidere con minor fatica di quella che occorre per strangolare una lepre. Avevo però un motivo per lasciarvi la spada e la vita, e questo motivo ora lo saprete. Ma prima ditemi: non vi chiamate Ebert, e non siete il figlio maggiore di un nobile esiliato?”
“Si, sono io”, esclamò stupito il cavaliere. “Come potete conoscermi, mentre io non vi ho mai visto?”
“Eppure mi avete visto”, replicò Hildebrant, “ma a quel tempo avevo cinque anni di meno e sembravo ancora un fanciullo. Avete anche parlato spesso con me, e persino dormito nello stesso letto; infatti io sono vostro fratello Hildebrant”.
Allora quello lo riconobbe, benché fosse molto cambiato e da fanciullo che era fosse diventato uomo. Lo abbracciò e baciò teneramente, e dopo aver parlato alquanto ed essersi rimirati a vicenda, Hildebrant gli narrò tutto l’accaduto, e alla fine disse: “Se correrai qualche pericolo per questa faccenda, io conosco il mezzo per salvarti. Perciò non preoccuparti, e se ti sembrerà che le cose si mettano male, rivolgiti subito a me!”.
Poi si recò al monastero; era giunta infatti l’ora conveniente per far visita alla damigella Alinda. Con grande premura le riferì del rapimento e della sepoltura di messer Ottokar, al che l’affettuosa fanciulla versò nuove lacrime, poi però lo ringraziò con grande slancio, salutandolo nel contempo come suo legittimo sposo. Il felice giovane la baciò più volte di quante se ne possano contare, la ringraziò e le narrò anche tutto quel che era avvenuto quella notte, e come avesse ritrovato suo fratello. Due giorni dopo accadde che alcuni signori del seguito dell’imperatore passassero per il luogo del supplizio e, guardata la forca, sembrò a uno di essi che il corpo non fosse più lo stesso, ma uno un po’ più piccolo. Senza dirne nulla a Ebert, poiché era gente invidiosa, quella sera al momento adatto lo comunicarono all’imperatore Friedrich, che si afflisse e si adirò fortemente. Il giorno seguente l’imperatore stesso si recò sul luogo dell’esecuzione, dove messer Ebert adempiva come sempre al suo incarico. “Ingrato!”, gli gridò con ira l’imperatore, “come hai potuto dimenticare fedeltà e dovere? So bene che questo cadavere non è quello del mio nemico Ottokar, ma un altro”.
“Misericordioso signore”, rispose il guardiano, “chi vi ha narrato così gravi calunnie? E oggi il terzo giorno, ed è stata oggi la terza notte, che non mi sono allontanato da questo luogo sciagurato, e con tale zelo avevo sperato di mostrarvi il mio amore e la mia fedeltà; ma ora ben vedo che persone cattive mi hanno giocato questo tiro, e vi hanno riferito malvage menzogne sul mio conto. Suvvia, messer imperatore, se non potete credermi, inviate qualcuno nel convento dove soggiorna un certo giovane cavaliere Hildebrant. Costui ha conosciuto piuttosto bene l’impiccato, e può dire se è lui o no”.
Hildebrant venne subito condotto sul posto, e l’imperatore in persona gli chiese se il morto sulla forca fosse l’impiccato Ottokar oppure no.
“Misericordioso imperatore”, rispose questi, “poiché il cadavere sta qui all’aperto da quasi quattro giorni e quattro notti, si è molto alterato, e benché io ritenga per certo che si tratti di quello, tuttavia non posso dirlo con assoluta sicurezza. Ma se volete accettare il mio cortese consiglio, messer imperatore, sappiate che in questo convento dimora la figlia di messer Ottokar. Essa lo conosce sicuramente meglio di chiunque altro, e farà rapidamente luce su tutto”.
L’imperatore ascoltò con meraviglia queste parole, e ordinò di condurre immediatamente a lui la damigella. Essa venne senza alcun indugio (poiché tutto era stato concertato in precedenza), cortesemente accompagnata da Hildebrant. Vedendo la sua rara avvenenza, l’imperatore la salutò cavallerescamente e la pregò di dare una risposta. Ella osservò il morto per un istante, versò qualche lacrima e disse piano: “È lui”. Allora l’imperatore stesso la riaccompagnò al convento; e dopo lodò altamente il suo cavaliere Ebert, gli chiese scusa e lo invitò a chiedere un dono, fosse pure un’intera provincia. Ora messer Ebert narrò all’imperatore la storia e la situazione di suo fratello e di Alinda, e concluse con le parole: “Per me non chiedo altro favore se non che mi sia concesso anche in futuro di servire la vostra illustre persona con le mie povere forze, come ho fatto sinora. Ma se volete degnarvi e fare del bene a persone riconoscenti, ricordatevi di mio fratello e di Alinda, che non hanno avuto parte di sorta nella colpa di messer Ottokar, e saranno vostri servi fedeli”. L’imperatore si meravigliò molto di questa storia, abbracciò con affetto il suo cavaliere e lo ringraziò; infeudò suo fratello Hildebrant di tutti i beni di messer Ottokar, e fece staccare e seppellire il presunto cadavere di questo, sicché l’innocente pellegrino ebbe infine il meritato riposo. Per qualche tempo si parlò di questi fatti per ogni dove. Ma più tardi, quando morì l’imperatore Friedrich, si venne via via a sapere come in realtà erano andate le cose, e mentre lentamente le altre circostanze venivano dimenticate, per lungo tempo ancora nessuna storia fu narrata tanto spesso come quella della vedova così rapidamente consolata, che spezzò il dente al marito morto e aiutò a metterlo sulla forca, e così la si può leggere ancor oggi in tutti i libri di storie e di novelle.
(1904)