Il diavolo dei campi
Al tempo in cui in Egitto il corrotto paganesimo via via cedeva alla nuova dottrina, e nelle città e nei villaggi sbocciavano numerose le comunità cristiane, i diavoli del paese si ritiravano progressivamente nel deserto della Tebaide. A quel tempo esso era ancora assolutamente spopolato; infatti i pii penitenti ed eremiti non avevano ancora osato metter piede in quella zona desolata e pericolosa e per lo più risiedevano, benché chiusi a ogni rapporto col mondo, in piccole masserie o in capanne in prossimità dei villaggi e delle città. Così quel vasto deserto era tutto a disposizione dei diavoli col loro esercito e il loro seguito; infatti ci vivevano solo fiere selvagge e ogni sorta di rettili velenosi. Alla loro comunità vennero ora a unirsi, scacciati dai penitenti e dagli eremiti, i diavoli superiori e quelli subalterni, come pure tutti gli esseri e gli animali di carattere pagano. Tra questi c’erano satiri o fauni, che ora venivano detti diavoli dei campi o divinità silvane, unicorni e centauri, driadi e spiriti di ogni genere; il potere su tutti costoro era infatti stato conferito al diavolo, ritenendosi che essi, sia per la loro origine pagana sia per la loro conformazione semianimale, fossero ripudiati da Dio, e non potessero esser partecipi della beatitudine. Di questi uomini-animali e divinità pagane spodestate non tutti però erano di natura malvagia, alcuni anzi sottostavano al diavolo solo con riluttanza. Altri gli ubbidivano volentieri, e nel loro corruccio avevano assunto un carattere veramente diabolico; infatti non sapevano perché fossero stati strappati alla loro esistenza innocua e indisturbata e relegati fra i vilipesi, i perseguitati e i malvagi. Dai racconti sulla vita del beato anacoreta Paolo e dalle notizie di Attanasio sul santo padre Antonio pare che i centauri o uomini-cavallo fossero astiosi e di indole cattiva, mentre parte dei satiri o diavoli dei campi erano pacifici e miti. Almeno è scritto che sant’Antonio, durante il suo meraviglioso viaggio nel deserto alla volta di padre Paolo, incontrò sia un uomo-cavallo che un diavolo dei campi, e il primo si comportò in modo rozzo e malvagio, mentre il satiro parlò con il santo e manifestò il desiderio di esser da lui benedetto. E appunto di questo satiro o diavolo dei campi tratta la presente leggenda. Il diavolo dei campi aveva seguito, con molti altri della sua specie, il corteo degli spiriti maligni nel deserto, e là vagava per quelle aspre solitudini. Poiché in precedenza era vissuto in una bella e fertile zona boscosa e aveva frequentato soltanto i suoi simili e alcune avvenenti driadi, gli doleva non poco di esser relegato in un luogo così selvaggio, in compagnia di spiriti maligni e di diavoli. Di giorno amava isolarsi dagli altri, andandosene da solo tra rocce e deserti sabbiosi, sognava i luoghi sereni della sua gaia e lieta vita di un tempo e dormiva per ore sotto le rare palme. La sera era solito sedere in una selvaggia e cupa valle rocciosa in cui scorreva un ruscelletto, e su un flauto di canna suonava tristi canzoni, inventandone sempre di nuove. Quando si udivano quegli accenti accorati, qualche fauno ascoltava di lontano e ricordava con dolore i bei tempi passati. Alcuni di loro sospiravano da far pietà e si abbandonavano a dolorosi lamenti. Altri, non sapendo far di meglio, tra fischi e grida intrecciavano danze sfrenate, per dimenticar più facilmente il loro mondo perduto. Ma i diavoli veri, quando vedevano il piccolo solitario diavolo di campagna starsene seduto in disparte a suonare il flauto, si prendevano gioco di lui, lo scimmiottavano sprezzanti e lo beffavano in mille modi. Dopo che nella sua solitudine ebbe riflettuto a lungo, sospirando e crucciandosi, sulle cause del suo dolore, sulla gioia paradisiaca di prima e sulla vita attuale grama e disprezzata, il satiro, a poco a poco, cominciò a parlare di queste cose con qualche suo fratello. Presto fra i diavoli dei campi più pensosi si formò una piccola comunità, alla quale stava a cuore indagare i motivi della presente abiezione e riflettere sulle possibilità di un ritorno allo stato felice di un tempo. Tutti loro sapevano bene di essere in potere del diavolo e di dover militare per lui perché governava il mondo un nuovo dio. Ma di questo dio sapevano poco. Ben sapevano invece, e molto, del governo e della natura del loro principe, il diavolo. E quel che sapevano di lui, a loro non piaceva. Era, sì, assai potente e conosceva molte magie, tanto che teneva loro stessi in suo potere, ma il suo dominio era duro e terribile. Ora però si rendevano conto che anche questo potente diavolo era a sua volta un esule, fuggito in quelle spopolate solitudini. Dunque il nuovo dio doveva essere più potente ancora. E i poveri diavoli dei campi ne dedussero che probabilmente per loro sarebbe stato meglio trovarsi sotto il governo di Dio anziché di Lucifero. Perciò nacque in loro il desiderio di conoscere meglio questo Dio e decisero di raccogliere ogni possibile notizia sul suo conto, così che, se fosse loro piaciuto, avrebbero cercato la maniera di giungere a lui. Così la piccola e avvilita comunità di diavoli dei campi, sotto la guida del suonatore di flauto, continuò a vivere giorni tristi in una debole, timida speranza. Ancora non sapevano quanto grande fosse su di loro il potere del diavolo capo. Ma lo avrebbero saputo presto. In quel tempo infatti i pii eremiti cominciarono a fare i primi passi nel deserto della Tebaide, sino allora inesplorato. L’unico a precederli in quella solitudine era stato, già parecchi anni prima, padre Paolo. Di lui narra la santa leggenda che conducesse per molti decenni una vita di penitenza in un’angusta grotta, nutrendosi esclusivamente dell’acqua di una sorgente, dei frutti di una palma e di un mezzo pane che ogni giorno un corvo gli gettava dall’alto. Un giorno il diavolo dei campi scorse questo Paolo di Tebea, e giacché provava una certa timida inclinazione verso gli uomini, cercò di osservare e spiare spesso quel santo eremita. Gli atti di quest’uomo gli parvero sorprendenti. Paolo infatti conduceva in perfetta solitudine una vita miserrima. Non mangiava o beveva più di quanto occorra a un uccello per il suo sostentamento, si vestiva con foglie di palma, abitava in una grotta angusta senza neppure un giaciglio e sopportava calore, gelo e umidità; arrivava a mortificarsi persino con particolari esercizi, restava inginocchiato molte ore sulla dura roccia e pregava; inoltre in determinati giorni digiunava completamente, astenendosi anche da quel misero cibo di cui disponeva. Tutto ciò sembrò assai strano al curioso diavolo dei campi, che all’inizio prese quell’uomo per pazzo. Ma presto si accorse che il suddetto Paolo conduceva, sì, una vita aspra e miseranda, ma nella preghiera la sua voce risuonava stranamente calda e fervida e profondamente beata, e sul suo capo grigio e sul volto smunto e doloroso c’era un santo riflesso e brillava una gioia sincera e fiduciosa. A lungo il diavolo dei campi osservò, giorno dopo giorno, il santo penitente, e giunse alla conclusione che questo eremita era un uomo beato e godeva di una felicità non terrena, che scaturiva da una sorgente sconosciuta. E poiché tanto spesso lo sentiva gridare ed esaltare il nome di Dio, pensò che Paolo fosse servo e amico di quel nuovo dio, e che fosse cosa buona appartenere a questo dio. Perciò un giorno si fece coraggio, uscì di dietro le rocce e si avvicinò al decrepito eremita. Questi io respinse e gridò: “Apage! apage!”, e lo minacciò con forza, ma il diavolo dei campi lo salutò umilmente e disse piano: “Sono venuto perché ti amo, eremita. Se sei un servo di Dio, oh, dimmi qualcosa del tuo dio e insegnami affinché anch’io possa servirlo”. A queste parole Paolo fu preso dal dubbio, e nella sua mitezza gli gridò: “Dio è amore, sappilo. Ed è beato colui che lo serve e gli offre la sua vita. Ma tu mi sembri uno spirito impuro, per cui non posso darti la benedizione dì Dio. Allontanati, demone!”. Il diavolo dei campi se ne tornò tristemente via, portando con sé le parole del penitente. Avrebbe dato volentieri la vita pur di diventare come quel servo di Dio. Le parole amore e beatitudine, benché il loro senso gli fosse oscuro, risuonavano nel suo cuore come un prezioso presagio e destavano in lui un forte desiderio, non meno dolce e potente della nostalgia del suo passato perduto. Ed essendosi ricordato, dopo alcuni giorni di inquietudine, dei suoi amici che come lui erano stanchi di servire il diavolo, li andò a trovare e raccontò loro tutto, ed essi ne parlarono, sospirarono, e non sapevano che partito prendere. Proprio in quel tempo giunse nel deserto un secondo penitente e si fermò in un luogo desolato, in un punto in cui, davanti ai suoi piedi, fuggì una schiera di rettili nauseabondi. Era sant’Antonio. Ma il diavolo, irato contro l’intruso e temendo per il suo predominio in quel deserto, mise immediatamente in opera il suo potere per scacciarlo. Ognuno sa in quanti e svariati modi egli cercasse ora di sedurre, ora di spaventare e cacciar via quel sant’uomo. Gli apparve nelle sembianze di una donna bella e procace, e persino come penitente e compagno di preghiera, gli offrì cibi squisiti e pose oro e argento sul suo cammino. Ma poiché tutto ciò non aveva effetto, il diavolo ricorse al terrore. Picchiò a sangue il santo, gli apparve in forme spaventose, penetrò nella sua grotta con diavoli, spiriti malvagi, satiri e centauri, e così pure con feroci lupi, pantere, leoni e iene. Anche il nostalgico diavolo dei campi dovette seguire il corteo, ma si avvicinò alla vittima in atteggiamento mansueto, e quando i suoi fratelli lo beffeggiavano, tirandogli la barba e maltrattandolo, egli chiedeva silenziosamente perdono con sguardi pieni di vergogna. Ma Antonio non si accorse di lui, oppure lo prese per un inganno del maligno. Resistette a tutte le tentazioni e condusse per molti anni in solitudine una santa vita. Quando ebbe novant’anni, Dio gli fece sapere che nello stesso deserto viveva un penitente ancor più vecchio e venerando, e subito Antonio si mise a cercarlo. Senza conoscere il cammino peregrinò attraverso quella solitudine selvaggia, e il nostalgico diavolo dei campi lo segui, lo aiutò senza farsi notare a trovare la giusta via, e alla fine gli comparve timidamente davanti. Lo salutò umilmente e disse che lui e i suoi fratelli avevano desiderio di Dio e lo pregavano di benedirli. Ma poiché Antonio non gli credette, si allontanò gemendo, come è scritto in tutti gli antichi racconti delle Vitae patrum. Nel frattempo Antonio prosegui il suo cammino, trovò padre Paolo, si umiliò innanzi a lui e fu suo ospite. Ma Paolo morì, a centotredici anni, e Antonio fu testimone di come due selvaggi leoni si avvicinassero ruggendo lamentosamente e con gli artigli scavassero una fossa per il santo. Poi lasciò quella zona e tornò dov’era prima. A tutti questi fatti il diavolo dei campi aveva assistito da una certa distanza. Nel suo cuore innocente soffriva immensamente per essere stato scacciato dai due santi padri e lasciato senza conforto. Essendo deciso a morire piuttosto che sottostare come prima al maligno, e poiché aveva ben osservato e impresso nella mente la vita e la natura del beato Paolo, si recò nella misera grotta di quello. Indossò l’abito da penitente fatto di foglie di palma, si nutri di acqua e datteri, stette inginocchiato per ore, con fatica e. sofferenza, sulle dure pietre e cercò di imitare in ogni cosa l’estinto. Ma il suo cuore diventava sempre più triste. Che Dio non lo accettasse come Paolo, lo poteva ben vedere, perché il corvo che ogni giorno recava a quello il pane non si fece più vivo. E aveva anche visto come, durante la visita di sant’Antonio, quello stesso corvo avesse recato due pani. Nella grotta c’era, sì, un vangelo, ma il diavolo dei campi non sapeva leggere. In certi momenti, quando era rimasto inginocchiato sino allo stremo e aveva gridato il nome di Dio, sentiva, sì, alitare accanto come un lieve, segreto sentore di Dio e della sua beatitudine; solo che alla piena conoscenza non riusciva a giungere. Pertanto si ricordò delle parole di quel Paolo, che cioè è cosa benedetta morire per Dio, e decise di morire. Non aveva ancora visto morire nessuno dei suoi simili, e il pensiero della morte gli era spaventoso e amaro. Tuttavia persisté nel suo proposito. Non mangiò né bevve più, e trascorse notte e giorno in ginocchio, con il nome di Dio sulle labbra. E morì. Morì inginocchiato, come aveva visto morire padre Paolo. Ma pochi istanti prima della morte aveva visto con stupore giungere in volo il corvo, con un pane come quello del santo, e improvvisamente, con gioia profonda, ebbe la certezza che Dio aveva accolto il suo sacrificio e lo aveva eletto alla salvezza.
Poco tempo dopo la sua morte giunsero in quella parte del deserto altri pii pellegrini, per stabilirvisi. Scorsero il corpo che, in abiti da penitente, stava in ginocchio, appoggiato alla roccia, e poiché si avvidero che era morto, decisero di dargli una sepoltura cristiana. Scavarono una piccola fossa, dato che il morto era di figura minuta, e intonarono orazioni. Ma quando sollevarono il cadavere per adagiarlo nella fossa si accorsero che sotto i capelli arruffati si nascondevano due piccole corna, e sotto il vestito di foglie due piedi di capra. Allora gridarono forte e inorridirono di questa presunta beffa del maligno. Lasciarono il morto dov’era e fuggirono via, gridando preghiere.