I due peccatori
In un luogo sperduto della Tebaide vissero lungamente in romitaggio due fratelli, che avevano abbandonato la vita del mondo e deciso, ancora in giovane età, di trascorrere i loro giorni pentendosi dei peccati commessi e conducendo una santa vita. Uno si chiamava Basilio, l’altro Giustino, e ambedue avevano un temperamento, se non del tutto privo di moderazione, comunque indisciplinato e incline ai piaceri, sicché nella loro città e nella vita mondana non erano riusciti ad attenersi a una condotta pura. Infatti Basilio, il maggiore, amava il gioco dei dadi e i banchetti, mentre Giustino, il più giovane, aveva una propensione innata per le donne e i diletti dell’amore. Poiché ambedue avevano sperimentato quanto grande fosse il potere della tentazione e dei cattivi esempi, e conoscevano per di più la pericolosità delle loro inclinazioni naturali e desideravano profondamente vincersi e dominare i propri appetiti, avevano rinunciato a patria e averi per perseguire, nella pietà e nella mortificazione, una santa condotta di vita.
Nei primi tempi del loro ritiro cercarono di imitare in tutto i santi padri. Si dedicavano alla preghiera e alle pie meditazioni, leggevano un libro che conteneva le lettere di Paolo ai Corinzi e si cibavano parcamente delle provviste che avevano portato con sé, nella speranza che presto la fama del loro romitaggio si sarebbe diffusa, e allora pii visitatori e supplicanti avrebbero loro recato in abbondanza quanto era necessario alla vita del corpo. Ma questa loro speranza non si realizzò, e presto i due si ritrovarono nel loro crepaccio, dimenticati dagli uomini e assillati dal bisogno. Adesso i due penitenti capivano che il Signore poteva, sì, nutrire i suoi eletti e i suoi profeti in modo miracoloso, ma non era intenzionato a mantenere allo stesso modo i fannulloni. Perciò cominciarono a lavorare, e non passò molto tempo che toccò anche a loro la benedizione che Dio riserva al lavoro manuale. Raccolsero frutti, bacche e radici, piantarono alberelli, dissodarono un pezzo di terreno e vi seminarono frumento e granturco. Scavarono anche una vasca sotto la sorgente che zampillava dalla roccia, per raccogliervi quell’acqua limpida e irrigare così il loro orticello. La fatica e il lavoro li fortificarono e resero loro più facile combattere i desideri e le passioni di quanto avessero fatto la lettura e la preghiera. Ciononostante quell’esiguo terreno dava solo scarsi frutti, e così pure le palme e gli alberi di fico. I due pii fratelli stentavano a far fronte ai bisogni quotidiani, e pensavano preoccupati come procurarsi grano e semente per la prossima stagione della semina. Inoltre mancavano di parecchi attrezzi e di abiti. Così si industriarono a migliorare la propria situazione e a guadagnare un po’ di denaro per i tempi del bisogno. Giustino si mise a intrecciar cesti di vimini, che dopo un po’ di pratica gli riuscivano assai belli e svariati. Basilio invece negli anni precedenti aveva acquisito qualche conoscenza di erbe salutari, e ora le raccoglieva solertemente dovunque le trovasse, le faceva seccare, estraeva succhi dalle radici e ordinava e mondava con cura steli, foglie e semi. Con queste attività che, accanto alla coltivazione dell’orto, assorbivano tutto il loro tempo, i due eremiti speravano di sottrarsi presto a ogni bisogno, e questa loro speranza non fu delusa. Quando per la prima volta si recarono in città, con un viaggio di mezza giornata, poterono vendere senza difficoltà e a buone condizioni tutte le erbe raccolte, insieme con i bei cesti e i graticci di Giustino, e tornarono nella loro solitaria caverna con una notevole provvista di viveri e di sementi. Ma la vista della città, dei traffici e della gente, dei commerci e delle feste sontuose non fece bene a nessuno dei due, ed eccitò segretamente le loro passioni sopite, sicché essi abbandonarono quel luogo con onore, sì, ma più simili a fuggiaschi che a vincitori, per tornare a vincersi e a purificarsi di nuovo con lavoro, preghiera e moderazione nella loro quieta solitudine. Decisero altresì che per il futuro si sarebbero recati in città, luogo di perdizione, solo tutti e due insieme e solo per affari indispensabili. La loro vita trascorse così, immutata, per qualche anno. Giustino intrecciava i suoi bei cesti, che riuscivano sempre meglio e recavano sempre maggior guadagno; Basilio raccoglieva erbe medicinali e preparava polveri e sciroppi, e tutti e due insieme coltivavano il campo, raccoglievano i frutti degli alberi, e tenevano in ordine la loro dimora povera ma solida. In determinati giorni digiunavano e leggevano il loro libro, santificavano il settimo dì e talvolta ricevevano l’incoraggiamento dei fratelli di altri romitaggi che si trovavano a passar di là. Ma due volte l’anno si recavano in città. Ciò era necessario a causa della semente, perché in quel paese si può seminare e raccogliere due volte l’anno, ed essi dovevano acquistare dai mercanti sia orzo che farro, granturco e avena, dal momento che il loro piccolo raccolto era assorbito sino all’ultimo chicco dal fabbisogno quotidiano. Questa escursione in città metteva nel cuore dei due fratelli, già qualche giorno prima e per molto tempo dopo, una grande agitazione e angoscia, poiché la vicinanza e la vista del peccato e della vita mondana li turbava sino in fondo all’animo, riaccendeva i loro cattivi desideri e opponeva al loro avanzamento spirituale un pesante ostacolo, che poi riuscivano a rimuovere solo lentamente, con la preghiera e il lavoro. Anzi si può dire che ciascuna di queste rare andate in città demoliva nei loro cuori più della metà di ciò che solitudine e penitenza vi avevano costruito, sicché quei due uomini pii restavano, sì, mondi da nuovi peccati, ma facevano ogni volta un passo indietro nella penitenza, e anno dopo anno si sforzavano vanamente, senza poter mai raggiungere la sospirata santità. Così stavano le cose quando, trascorso il solito intervallo, i due fratelli si videro ancora una volta nella necessità di andare a vendere il lavoro delle loro mani per acquistare viveri, grano e tela. Nessuno dei due si arrischiava a parlare della città, ma sia l’uno che l’altro la sera sedevano oziosi, tacevano e sospiravano segretamente. La semina era imminente, e un grosso carico di cesti di Giustino era pronto per essere venduto. Anche Basilio metteva i suoi medicamenti e le sue erbe in scatole e cestelli, e si preparava al viaggio. Fu lui, come maggiore, che cominciò a parlarne per primo. “Che ne dici?”, chiese. “Vogliamo in nome di Dio andarci domani?”. Giustino lo guardò e rispose tra i sospiri: “à necessario, fratello, e i miei cesti sono pronti. Ti senti anche tu il cuore inquieto e angosciato?” “Sì, fratello mio”, disse Basilio con tristezza. “Vedo già assalirmi il falso splendore dei piaceri mondani, e mi debbo fare molta forza perché il mio cuore non si laici sedurre e non tradisca. In tal modo Dio vuol mettere alla prova noi poveri penitenti. A lui affido la salvezza della mia anima. Preghiamo, fratello Giustino!” E si inginocchiarono, sospirarono e pregarono sino a notte fonda. Ma dovettero gridare e farsi violenza per non restar vittime del male, perché l’imminente ritorno in città avvolgeva ciascuno di loro in un seducente profumo, che quasi li inebriava, indeboliva e assopiva ogni buon proposito, come un mago incanta dei poveri fanciulli. Quando venne l’alba, avevano dormito poco tutti e due, e si alzarono alla stessa ora. Si caricarono in spalla la loro mercanzia, e i loro sandali di legno risuonarono sui sentieri rocciosi. Per strada non dissero parola, ma i loro pensieri li precedevano e indugiavano nei sollazzi della città, sicché Giustino vedeva solo donne belle e lascive, Basilio invece sentiva il profumo di dolce vino e saporite vivande, e udiva il sonoro rotolar dei dadi sui tavoli di marmo. E per quanto essi lottassero, i loro desideri percorrevano sempre la stessa strada, mentre il sudore colava dalle loro fronti, e le labbra riarse mormoravano mute preghiere. Chi li avesse visti, li avrebbe presi non per due innocui pellegrini, ma per due disperati. Un’ora prima di mezzogiorno raggiunsero la porta orientale della città. Nella loro commozione, che poteva essere definita paura ma anche bramosia, trottarono rapidi sotto la porta addentrandosi nei vicoli. Ma sulla piazza si fermarono e si separarono, per attendere ciascuno ai propri affari. E, come ogni volta, si accordarono per trovarsi in una certa locanda, dove erano abituati a fare un modesto spuntino per poi lasciare, dopo un breve riposo, la trista città. Così si separarono anche questa volta. Ora a Giustino avvenne che i suoi affari si svolgessero più rapidamente e favorevolmente del solito. Infatti, subito nel primo vicolo lo chiamò nel suo magazzino un commerciante all’ingrosso, e gli comprò tutti i panieri, un carico notevole, senza mercanteggiare e a buon prezzo, perché aveva ricevuto una grossa spedizione di olive che voleva subito mettere nei cesti e mandare al mercato. Così l’eremita si vide inopinatamente sollevato dal carico e dal pensiero, e si ritrovò con due grosse monete d’argento in mano. Riconoscente vide in ciò il volere di Dio e, per sfuggire il più sicuramente a ogni scandalo, si recò senza indugio alla locanda, dove intendeva aspettare il fratello. Questi però aveva da fare molti giri, e non sarebbe arrivato ancora per parecchio. Nella locanda a quell’ora non c’era nessuno, e l’oste dormiva per terra su una stuoia. Giustino si sedette umilmente su una panca e aspettò con pazienza che l’oste si svegliasse. Quello però continuava tranquillamente a dormire, e in sua vece comparve poco dopo una giovane serva, che domandò al penitente che cosa desiderasse. Egli chiese pane e datteri, e benché non osasse guardare in faccia la ragazza e tenesse gli occhi bassi, quando essa uscì dalla stanza dovette tuttavia alzare lo sguardo e osservarla da dietro. E vide una figura piena e rotondetta, capelli neri, una nuca bruna circondata da un nero arruffio e anche due braccia robuste e tornite, fianchi ben fatti tesi nel passo e piedi piccoli e ben calzati. Queste cose fecero sudare la fronte al povero eremita, e mentre, ancora affascinato, guardava nel vuoto, nella sua anima confusa nascevano vergogna, angoscia e paura. Gemette piano, si deterse la fronte con la manica e quando la giovane serva tornò, si costrinse a tenere gli occhi abbassati sul tavolo. Ma essa gli mise davanti il cibo, lo guardò con attenzione, notò subito il tormento e l’imbarazzo di lui e, nel suo animo depravato, concluse che quel pesce aveva abboccato all’amo, e in ciò purtroppo aveva ragione, anche se Giustino non lo avrebbe ammesso. Ma il suo cuore batteva forte, e i suoi occhi volevano a ogni costo tornare a guardare la fanciulla. Essa rise piano e disse in tono serio: “A quel che vedo, voi siete un penitente e un sant’uomo. Avete anche denaro per pagare il vostro pasto? Perché io ve l’ho portato e debbo risponderne”. A queste parole egli estrasse rapidamente le sue due monete d’argento, e le mostrò alla femmina.
“Va bene”, disse lei, “e io ho fiducia in voi. Sapete, vorrei parlare con voi di una cosa importante. Ma non posso farlo qui, perché l’oste potrebbe sentire, e questo mio affare è una cosa segreta. Vi prego, sant’uomo, uscite un momento con me, la questione mi sta molto a cuore”.
Giustino la seguì stordito e imbarazzato, ma essa lo portò in camera sua, fece cadere il rosso fazzoletto da collo, lo guardò ridendo radiosamente e disse, stringendosi a lui: “Se mi dai un denaro, potrai vedere la mia bellezza. E se me ne dai due, potrai dormire con me”.
Ciò investì quell’uomo tormentato come il caldo vento del deserto. Non era più in grado di pensare, da quando la fantesca aveva toccato con mano morbida la sua, e avvicinato i propri occhi ai suoi. Tremando consegnò le due monete, udì la ragazza ridere, vide risplendere sotto una tela leggera una spalla e candidi segreti, e si gettò perdutamente su di lei, balbettò tenerezze dimenticate e consumò il peccato tramortito e cieco, come un ubriaco. Poi si ritrovò seduto al tavolo della locanda, pane e datteri davanti a sé e l’oste che russava sulla stuoia. Destatosi dal suo delirio profondo come la morte e dallo spasimo dei sensi, guardò con occhi abbagliati la luce del giorno e ogni cosa intorno, vide ciò che aveva fatto, si coprì gli occhi con le mani e sprofondò in una indicibile tristezza, fu preso da rimorso, vergogna e disperazione, la sua caduta gli sembrava inconcepibile, e vide i lunghi anni di romitaggio cancellati innanzi a Dio, e tutta la sua espiazione e la sua speranza distrutte. In questo stato lo trovò un’ora dopo Basilio, che nel frattempo aveva accudito ai suoi affari e guadagnato una moneta d’argento. “Che ti è successo?”, gridò spaventato, e mise la mano sulla spalla del fratello. Giustino scoppiò in lacrime e gridò: “Ahimè, sono perduto!”. Ma non poté confessare l’accaduto, scosse solo il capo con disperazione e mostrò le mani vuote. Allora Basilio lo condusse via amorevolmente e lo fece uscire dalla città, e davanti alla porta Giustino si sedette su una pietra che si trovava sulla strada e disse, stornando lo sguardo: “Abbandonami, fratello e va’ da solo. Io ho ceduto al demonio e per me non c’è più speranza”. E gli raccontò tutto. Basilio vide bene in che condizioni si trovava l’infelice, e che non era il momento per rimproveri e prediche. Il suo cuore sanguinava per colui che era caduto, e nel suo amore ferito e compassionevole inventò un’astuzia benevola, ma pericolosa, per consolarlo. Quest’astuzia era una menzogna. “Fratello”, disse con ipocrisia e simulata vergogna, “hai torto a respingermi da te. Ah, se sapessi che cosa ho io sulla coscienza! Vedi, mio caro, mentre tu mi aspettavi nella locanda e cadevi in peccato, io infelice ho fatto di peggio”. E mentendo raccontò di aver avuto tre monete d’argento, e di essere andato con quelle in una taverna dove aveva gozzovigliato e giocato a dadi, vincendo a un giovane tutto il ‘suo denaro e perdendolo a sua volta con altri giocatori. Si umiliò profondamente per sollevare il compagno, si accusò per consolarlo, si insozzò per mondarlo. Giustino ascoltò sbalordito, poi piangendo gli diede la mano e si disperò: “Fratello mio, che sarà di noi?”. Basilio lo fece alzare, lo portò via con sé e disse consolandolo: “In Dio è perdono. Torniamo nel deserto e facciamo penitenza”. Percorsero il lungo cammino in silenzio, assorti ambedue in profondi pensieri, e a tarda notte furono di nuovo nel loro eremo. Giustino guardò con mestizia quel luogo e il suo puro giaciglio. Non si coricò sul suo letto di foglie, ma si gettò sulla nuda roccia e prese sonno solo verso mattina, dopo infinite accuse contro sé stesso e pensieri di contrizione. Per Basilio le cose andavano diversamente. Quanto aveva raccontato all’afflitto era una menzogna, e la menzogna dà cattivi semi. Mentre consolava il fratello, quel suo racconto aveva avvelenato lui stesso, e acceso la sua fantasia. Quello aveva commesso un peccato e se ne pentiva amaramente, ma lui, anche se con buone intenzioni, aveva giocato con il peccato e aperto la porta al Maligno. Ora tutti i suoi pensieri percorrevano con bramosia la strada che era stata loro indicata, ed egli si dipingeva a colori vivaci tutto ciò che aveva inventato per amore di Giustino, e si consumava nell’ardore di una cattiva passione che gli toglieva il sonno. Così accadde che quella notte Giustino rimpiangesse dolorosamente di aver peccato, mentre Basilio con non minor forza rimpiangeva di non aver peccato. Così si alternano nell’animo dell’uomo le forze buone e quelle cattive. Quando all’alba Giustino si destò sul suo duro giaciglio, si trovò solo. Recitò silenziosamente le sue preghiere e, benché stanco, si accinse al lavoro quotidiano, pensando che il suo compagno fosse andato in cerca di erbe. E per tutto il tempo che Basilio non si fece vivo, e quando non tornò neppure la sera, quel tormentato non sospettò di nulla, ma pensò nella sua contrita umiltà che l’altro lo avesse lasciato solo per disgusto, e dopo il suo traviamento non volesse più essere suo fratello. Si ricordava ancora, è vero, della confessione di Basilio, ma la propria colpa gli appariva assai più grande ed esecrabile. Per cui continuò nella sua rigida penitenza, digiunò per molti giorni, si fustigò a sangue con verghe di salice e di notte si coricò nudo sulla pietra. Nel frattempo Basilio, che nottetempo si era allontanato recandosi di nascosto in città, girava per le taverne greche con una borsa piena di denaro vinto ai dadi, e gozzovigliando e ubriacandosi sfogava le sue cattive passioni. Ora potrebbe sembrare che la giustizia di Dio si fosse dimenticata di questi due uomini, dal momento che la loro fervida penitenza era così fallita e diventata una beffa. Ma i pensieri di Dio sono imperscrutabili. A Lui non era rimasto nascosto che in quei poveri penitenti i piaceri terreni non erano spenti, e li lasciò cadere, ma non per perderli. Mentre Giustino si dedicava a una severa espiazione, nell’animo suo tornò la pace, ed egli si accorse che i cattivi desideri si erano per sempre allontanati da lui. Ma non esultò per questo, anzi perseverò nella sua umiliazione e non smise di punirsi per quanto era accaduto. E pregò Dio di dargli un segno, facendo il proposito di non porre termine alla sua dura mortificazione sino a che secondo il volere di Dio suo fratello non fosse tornato e non lo avesse perdonato. Allora Dio ebbe misericordia di quell’umiliato e gli mandò in sogno una voce, che gli riferì come Basilio per pietà fosse diventato mentitore, e da mentitore peccatore, e lo esortò a cercare lo smarrito affinché la misericordia di Dio potesse trionfare in tutti e due. Lietamente Giustino si mise in viaggio ancor prima che spuntasse il giorno, e corse in città quasi avesse le ali, ed era la prima volta che percorreva quella strada a cuor leggero e senza oppressione. E raggiunse la città per tempo, oltrepassò pieno di fiducia la porta e si diresse alla piazza del mercato, in cerca del fratello perduto. Poco dopo passò accanto a un’osteria malfamata, dalla cui porta si udiva un chiasso infernale di bestemmie, alterchi, risa e oscenità. E mentre appunto vi passava davanti, la tenda della porta fu aperta violentemente e, spinta da calci e pugni, barcollò per la strada una figura di
ubriaco in vesti lacere e col viso insanguinato, fece un giro su sé stessa e crollò nel fango. Nessuno venne in soccorso di quell’uomo, anzi gli risuonarono dietro degli insulti, cane e pendaglio da forca, e l’oste sputò e gli volse le spalle. Con spavento e compassione Giustino si chinò sul misero, che batteva smarrito gli occhi torbidi ed era tutto ammaccato, e lo riconobbe e prese suo fratello Basilio tra le braccia e lo portò via. “Tutto questo l’ha sofferto per me!”, si disse con gli occhi umidi, e strinse al cuore il depravato chiamandolo fratello amatissimo, lo lavò alla fontana, lo fece bere tra lo scherno generale e lo portò via barcollante attraverso i vicoli. Lo portò a gran fatica sino al loro vecchio romitaggio, gli preparò un giaciglio, gli fasciò le ferite, lo curò e lo vezzeggiò con premuroso affetto. E poiché Basilio guariva nel corpo, ma la sua anima precipitava nel buio e nella disperazione, rimase accanto a lui, lo consolò, pregò con lui egli raccontò come la grazia di Dio li avesse assistiti. Ma quando i due fratelli si consigliarono sul modo in cui potessero onorar Dio, punire la propria carne e cancellare i loro misfatti, decisero di far voto che nessuno di loro avrebbe mai più visto la città. E si promisero reciprocamente che sarebbero piuttosto morti di fame e avrebbero sofferto la miseria, anziché rivolgersi ancora agli affari del mondo. Poi la loro vita tornò tranquilla, laboriosa e pacifica per parecchi anni. Diventarono vecchi e si dimenticarono del mondo, ma non del voto. E Dio si compiaceva della loro vita. Infatti una volta il raccolto andò completamente a male, e anche le palme e i fichi non diedero alcun frutto, e gli eremiti soffrirono una dura carestia. Tuttavia non li sfiorò nemmeno l’idea di rompere il loro voto e di cercar salvezza tra gli uomini, ma riposero la loro fiducia unicamente in Dio, e se a Lui fosse piaciuto così, sarebbero volentieri morti di fame. Ma successe che, dopo che i fratelli erano rimasti due giorni senza mangiare, il Signore mandò un corvo, che portò un pane celeste e lo depose davanti ai penitenti e li nutrì, come Dio nutre solo i suoi eletti.
(1907-1909)