L’arresto
Il 30 luglio 1672, nel suo nascondiglio vicino a Place Maubert, moriva il signor di Sainte-Croix. Gli storici, per i quali nulla è sacro e che non hanno alcuna sensibilità per il valore del gesto, benché in realtà la loro scienza non si occupi d’altro, gli storici recentemente hanno dimostrato che egli morì nel suo letto dopo lunga malattia, come succede a tanti altri. Questa verità di cattiva lega, quand’anche sia tale, presto tramonterà e, com’è giusto, a restare sarà la bella e spaventevole leggenda della morte dell’avvelenatore Sainte-Croix, il quale nel fabbricare i suoi veleni in polvere finissima si proteggeva sempre con una maschera di vetro per non respirare quelle polveri mortali, ma una volta, durante questo suo delicato lavoro, la maschera gli cadde ed egli stramazzò morto nel suo terribile laboratorio. Se non ci si discosta da questo comprovato racconto, si può spiegare anche la strana circostanza che il criminale abbia lasciato così negligentemente in giro tutti i suoi veleni e le sue pericolose carte. Insomma, io mi attengo alla leggenda e non ai dotti, che recentemente hanno di fatto screditato come favola quanto verrà qui di seguito narrato. Dunque, il 30 luglio moriva l’avvelenatore Sainte-Croix, l’amante e complice della bella signora di Brinvilliers, e questa dama si vide seriamente compromessa dal sequestro giudiziario di quanto lasciato da costui, ivi comprese tutte le sue lettere. Appena seppe che la cassetta del suo amante, a lei ben nota e nella quale egli conservava tutte le sue lettere, era nelle mani della giustizia, si diede tutta la pena possibile per entrare in possesso dello scrigno chiuso. Quando, il 22 agosto, la scabrosa cassetta doveva essere aperta dal tribunale e anche la signora di Brinvilliers fu invitata a presenziarvi, essa si fece rappresentare dal suo amministratore, e quando subito dopo venne arrestato un complice del suo amante, essa fuggì alla volta dell’Inghilterra. Il processo si protrasse per tutto l’autunno e l’inverno, e in marzo fu emessa la sentenza che condannava il complice alla ruota, e la signora di Brinvilliers alla mannaia in contumaciam. Era stata riconosciuta colpevole di aver avvelenato suo padre e i suoi due fratelli. Giacché nel frattempo le venivano confiscati i beni, e suo marito, l’indolentissimo signor di Brinvilliers, si preoccupava attualmente di sua moglie tanto poco quanto se ne era preoccupato durante la relazione di lei con Sainte-Croix, quella viziata dama venne presto a trovarsi in una situazione penosa, e sembra persino che abbia implorato o addirittura ricevuto aiuto da sua sorella - quella stessa sorella, alla cui vita essa aveva attentato per anni. La condannata viveva a Londra, e si teneva continuamente al corrente della sua faccenda. Il re Luigi xiv si interessò personalmente al processo, e insistette perché nonostante tutti gli ostacoli la giustizia facesse il suo corso. Così a Londra fu vivamente sollecitata l’estradizione della delinquente, rinviata però più volte a causa di ostacoli e piccoli malintesi, sicché Madame continuava a girar liberamente, mentre il re d’Inghilterra ne aveva già promesso alla Francia l’estradizione. E quando finalmente le difficoltà vennero superate, e tutte le formalità di tale estradizione adempiute, la signora di Brinvilliers era scomparsa da Londra. Si dice che si fosse trattenuta qualche tempo in Piccardia e in diverse località olandesi; sarebbe stata vista a Valenciennes e a Cambrai; infine fuggi a Liegi. Qui la fuggiasca trovò ospitalità in un convento, e ritenne d’essere fuori pericolo. In effetti, in quel luogo non era molestata né da spie né da notizie angosciose, e cominciò a sentirsi tanto sollevata che si impegolò in un affare amoroso con un certo Theria. Ora è singolare il fatto che quella donna feroce, egoista e senza principi portasse sempre con sé uno scritto, che essa definiva la sua confessione e in cui aveva narrato tutta la sua vita, la quale, a partire dalla precocissima perdita dell’innocenza, rappresentava una folle catena di dissolutezze e delitti d’ogni genere. Non possiamo spiegarcelo altrimenti se non come un terrore per le pene eterne che sconfinava con la superstizione, tanto più che essa anche in seguito non si mostrò colpita da nessuna delle ignominiose circostanze della sua esecuzione quanto dal fatto che le venne rifiutata l’eucarestia. Dunque, evidentemente per poter fare un giorno, in caso di estrema necessità, una completa confessione, essa aveva steso quel terribile elenco dei suoi delitti e dei suoi vizi, e lo teneva sempre in camera sua, in un’apposita cassettina. Per il resto, le sventure non avevano troppo piegato l’ardita avventuriera. Al marito rimasto in Francia fece addirittura candidamente la proposta di tornar da lei, cosa a cui lui naturalmente non acconsentì. Intanto viveva indisturbata come ospite di quel convento e, in mancanza di più grandi imprese, continuava ad amoreggiare con Theria, il che però non le impediva di essere accessibile anche ad altri approcci galanti. Così, un giorno di marzo, comparve in visita al convento un abate francese, chiese dell’illustre signora e fu da lei ricevuto. Era un uomo ancor giovane, di bell’aspetto e di buone maniere, il cui piglio parigino ricordò subito a Madame la patria. Interrogato sullo scopo della sua visita, egli dette la più cortese delle risposte. “Sto facendo”, disse in tono rispettoso, ma sorridendo, “un lungo viaggio che mi obbliga a visitare alcuni conventi. Ho appreso del tutto casualmente, e con grandissima gioia, che lei, riverita signora, ha chiesto e ottenuto accoglienza qui. E così non ho voluto lasciarmi sfuggire l’occasione di conoscere una dama così famosa e attualmente così perseguitata dalla sfortuna, e di dirle qualche parola di conforto. A Parigi si deplora molto la sua dura sorte e si è stupiti, o meglio indignati, che ai suoi avversari sia riuscito di influenzare tanto il Parlamento contro di lei da render possibile la sua condanna. Tanto più ci rallegriamo invece di saperla al sicuro qui, dove potrà tranquillamente aspettare il momento in cui le sarà resa quella giustizia di cui tanto avvertiamo la mancanza nel verdetto di Parigi. Non può farsi un’idea, gentile signora, di quanto lei manchi alla società parigina”. Erano accenti che madame Brinvilliers non aveva udito da tempo. Lottò per un istante contro le lacrime che volevano salirle agli occhi, poiché d’improvviso, alle lusinghiere parole dell’elegante abate, le si parava davanti tutto quel che aveva perduto. Era ancora una bellezza, e di buona nobiltà, e anche se per il momento doveva rinunciare a godersi la sua famosa ricchezza, ciò non sarebbe potuto durare troppo a lungo. Dopo aver conversato piacevolmente per un’ora, dapprima in tono cautamente consolatorio e poi decisamente mondano, l’abate si congedò, baciò la mano bianca della bella signora e chiese con insistenza che gli fosse concesso di farle ancora visita, se, com’era da supporre, il suo soggiorno a Liegi fosse durato ancora uno o due giorni. La signora accordò con gioia questo permesso, aggiungendo che la possibilità di ripetere una conversazione così piacevole e intelligente le era troppo preziosa per non averne un vivo desiderio, e che anche per lei sarebbe stato un vero dolore se il signor abate non fosse tornato. Il grazioso ometto salutò, promise di tornare e lasciò la solitaria nella più piacevole eccitazione. Lo doveva a lui se da un’ora si sentiva di nuovo pienamente una dama di mondo, un’aristocratica riverita, e le sembrò di aver fatto su quell’uomo distinto sufficiente impressione, per invogliarlo a prolungare un po’ il suo soggiorno a Liegi senza bisogno di altri motivi, ma solo per causa sua. Questa supposizione dell’esperta dama si rivelò il giorno dopo non infondata. Egli apparve abbastanza presto, ma non prima che fosse l’ora di ricevimento per una nobildonna durante un soggiorno in campagna. Il signor abate, in fine giacca di seta, portava un mazzo di mughetti, assai costosi in quella stagione, e cominciò subito la conversazione dal punto in cui l’aveva interrotta il giorno prima. Oggi l’animo e il contegno dei due era molto più leggero e libero di ieri; del terribile processo e della pietosa situazione dell’illustrissima stavolta non si fece parola, ma si chiacchierò in modo amichevole e divertente, la dama fece balenare piccole deliziose civetterie alle quali il signore replicò con complimenti, e questi complimenti scivolarono via via, con sottili sfumature, da luoghi comuni mondani alla galanteria personale e improvvisata, anzi l’audace signore alla fine si permise un bacio sulla spalla di Madame, bacio che venne a malapena rimproverato. Ed egli confessò, con fuoco improvviso e cadendo in ginocchio, che ieri aveva ancora intenzione di partire oggi, ma che ora gli era impossibile andar via, e avrebbe voluto passare tutti i giorni della sua vita in quella stanzetta, ai piedi di quella donna incantevole. Le teneva stretta la mano, che copriva di baci, e profondamente emozionato le pose il capo in grembo: e lei gli passò le mani carezzevoli sui lisci capelli neri. “Signor abate”, disse infine bonariamente, “lei dimentica che siamo in un convento. Per quanto mi aggradino la sua gioventù e la sua inclinazione per me, con altrettanta decisione debbo ricordarle che io, come ospite di questa santa casa e come povera perseguitata, debbo usare particolari riguardi. Certamente lei comprenderà, e non mi esporrà al pericolo che io perda il diritto di essere qui ospitata”. “Ma certo, mia gemma”, sussurrò con ardore l’innamorato, “come potrei fare la minima cosa che le fosse sgradita! Mi consenta perciò, o bella fra le belle, di attenderla domani in un luogo sicuro e di invitarla nella mia carrozza per una passeggiata. Ah, come la amo, mio bijou!”. Lei fece ancora qualche resistenza di rito, poi l’appuntamento, con raccomandazione di molta prudenza, fu fissato per l’indomani in un certo posto fuori città, e ora per la prima volta il giovane attirò a sé la sua conquista e le diede, senza che lei protestasse, tutti i baci che volle. Poi lei lo spinse alla porta e passò il resto della giornata pensando soddisfatta alla nuova graziosa avventura. Lesse anche un po’ della sua confessione scritta, non pensando stavolta alle pene infernali, ma contemplando, nell’euforia del momento, la propria vita, indipendente e fiera, come un bell’incendio selvaggio, ancora in pieno splendore e che si sarebbe estinto solo in un lontano futuro.
Il giorno dopo fece un’accurata toilette, si mise in seno alcuni mughetti profumati e, avvolta in un mantello scuro, si recò a piedi all’appuntamento. Fuori città, tra i muri di due giardini, si fermò, respirò la mite aria primaverile odorosa di terra e aspettò il suo galante. E pochi minuti dopo già sentiva, sulla strada alle sue spalle, il rotolio di una carrozza che si avvicinava rapida. Si mise sul margine della strada umida - la carrozza girò l’angolo e poi si fermò proprio accanto a lei. Sotto il soffietto abbassato essa vide il volto dell’abate che si chinava verso di lei, e sorridendo pose il piede sul predellino. In quell’istante udì dei passi dietro di sé, si sentì afferrare da braccia robuste, si vide, con improvviso spavento, circondata da tre, quattro, cinque facce estranee e, riconosciute le uniformi della polizia parigina, stramazzò con un grido forsennato, che fece spaventare i cavalli. Quando pochi minuti dopo tornò in sé, sedeva in un veloce tiro a due a fianco dell’abate, che stavolta però indossava un’uniforme e si presentò freddamente come ufficiale di polizia. Era il caporale Desgrais, che il Parlamento di Parigi aveva inviato a catturare la condannata, e che aveva assolto l’incarico con l’aiuto di quella commedia amorosa, non osando operare un arresto in convento per timore di un’eventuale insurrezione popolare. Con ciò la storia di madame de Brinvilliers è finita; e per quanto furiosamente lei si opponesse a che Desgrais sequestrasse la sua confessione manoscritta, non dovette preoccuparsi per la sua completezza, giacché nel breve tempo che intercorse fra il suo arresto e la sua esecuzione a Parigi non le fu più offerta nessuna possibilità di arricchire in alcun senso quella singolare lista.