Sacrificio d’amore
Per tre anni ho lavorato come aiuto in una libreria. All’inizio guadagnavo ottanta marchi al mese, poi novanta, poi novantacinque, ed ero lieto e orgoglioso di guadagnarmi il pane e di non dover accettare un centesimo da nessuno. La mia ambizione era di farmi strada nell’antiquariato. Lì si poteva vivere come un bibliotecario, in mezzo a vecchi libri, datare incunaboli e xilografie, e nel buon antiquariato esistevano posti pagati duecentocinquanta marchi e più. Ad ogni modo, la strada da fare era ancora lunga, e bisognava lavorare, lavorare... Strani tipi c’erano, tra i miei colleghi. Spesso avevo la sensazione che il commercio librario fosse un asilo per ogni sorta di spostati. Preti che avevano perduto la fede, eterni studenti male in arnese, dottori in filosofia disoccupati, redattori inetti e ufficiali in congedo stavano accanto a me allo scrittoio. Alcuni avevano moglie e figli e andavano in giro in abiti desolatamente frusti, altri vivevano quasi agiatamente, ma i più scialavano per i primi dieci giorni del mese, accontentandosi per il tempo che restava di birra, formaggio e discorsi burbanzosi. Ma tutti avevano conservato da tempi migliori tracce di maniere distinte e un linguaggio scelto, ed erano convinti di esser decaduti alla loro umile condizione soltanto per colpa di una sfortuna inaudita. Strana gente, come ho detto. Eppure una persona come Columban Huss non l’avevo ancora mai vista. Un giorno venne a elemosinare in ufficio e per caso trovò libero un modesto posto di scrivano, che accettò con gratitudine e tenne per un anno. Per la verità egli non faceva né diceva mai nulla di straordinario, e in apparenza non viveva diversamente da altri poveri impiegati. Ma si vedeva che non aveva sempre vissuto così. Poteva aver superato di poco la cinquantina, e aveva la corporatura di un soldato. Le sue movenze erano nobili e grandiose, e il suo sguardo era come io allora credevo dovessero averlo i poeti. Accadde che Huss venisse con me in trattoria, poiché aveva intuito che in segreto io lo ammiravo e gli volevo bene. Fece discorsi elevati sulla vita e mi permise di pagargli il conto. Quanto segue me lo disse in una sera di luglio. Poiché era il mio compleanno, era venuto a cena con me, avevamo bevuto del vino e poi, nella notte calda, eravamo andati a passeggiare nel viale, risalendo il fiume. Là, sotto l’ultimo tiglio, c’era una panchina di pietra, sulla quale egli si allungò, mentre io mi sdraiai sull’erba. E allora raccontò.
“Lei è uno sbarbatello, e non sa ancora nulla della vita e del mondo. E io sono un vecchio fesso, altrimenti non le racconterei quanto sto per dirle. Se lei è una persona per bene, se lo tenga per sé e non ci chiacchieri sopra. Ma faccia come vuole. Se lei mi guarda, vede un piccolo scrivano con le dita rattrappite e i pantaloni rattoppati. E se mi volesse uccidere, non avrei nulla in contrario. In me c’è ormai poco da uccidere. E se le dico che la mia vita è stata fiamma e vento di tempesta, rida pure, per carità! Ma forse invece non riderà, caro il mio sbarbatello, se in una notte d’estate un vecchio le racconta una favola. Lei è già stato innamorato, vero? Qualche volta, vero? Sì, sì. Ma lei non. sa ancora che cos’è amare. Non lo sa, le dico. Forse una volta ha pianto tutta la notte? E ha dormito male per un mese intero? Forse ha anche scritto poesie, e per una volta ha anche un po’ giocato con pensieri di suicidio? Sì, conosco già. Ma questo non è amore. L’amore è un’altra cosa. Ancora dieci anni fa ero un uomo rispettabile e appartenevo alla migliore società. Ero funzionario amministrativo e ufficiale di riserva, ero benestante e indipendente, avevo un cavallo da sella e un servitore, abitavo comodamente e vivevo bene. Posto in palco a teatro, viaggi in estate, una piccola collezione d’arte, equitazione e vela, serate da scapolo con Bordeaux rosso e bianco e colazioni con spumante e sherry. A tutto questo ero abituato da anni, eppure ne faccio a meno abbastanza facilmente. Che importanza hanno in fondo mangiare e bere, cavalcare e viaggiare, nevvero? Un po’ di filosofia, e tutto diventa superfluo e ridicolo. Anche la società e la buona reputazione e la gente che ti si scappella davanti, in fondo sono cose di secondaria importanza, anche se decisamente piacevoli. Ma volevamo parlare dell’amore, no? Dunque, che cos’è amore? A morire per una donna amata oggi si arriva di rado. Certo sarebbe la cosa più bella. — Non m’interrompa, lei! Non parlo dell’amore a due, del baciarsi, dormire insieme, sposarsi. Parlo dell’amore divenuto l’unico sentimento di una vita. Esso resta solitario, anche se, come si dice, viene “ricambiato”. Consiste in questo, che ogni volontà e capacità di una persona tendono con passione a un unico scopo, e che ogni sacrificio diventa un godimento. Questa specie di amore non vuol essere felice, vuole bruciare e soffrire e distruggere, è fiamma e non può morire prima di aver divorato sin l’ultima cosa che possa raggiungere. Sulla donna che amavo non occorre lei sappia nulla. Forse era meravigliosamente bella, forse soltanto graziosa. Forse era un genio, forse no. Che importa, santo Dio! Essa era l’abisso in cui dovevo sprofondare, era la mano di Dio che un giorno penetrò nella mia vita futile. E da quel momento questa futile vita fu grande e principesca, capisce, d’improvviso non fu più la vita di un uomo di rango, bensì quella di un Dio e di un fanciullo, delirante e sconsiderata, bruciava e risplendeva. Da quel momento divenne meschino e noioso tutto quel che per me sino allora era stato importante. Trascurai cose che non avevo mai trascurato, inventai astuzie e intrapresi viaggi solo per veder sorridere un istante quella donna. Per lei io fui tutto ciò che potesse allietarla, per lei fui allegro e serio, loquace e silenzioso, savio e pazzo, ricco e povero. Quando si accorse dello stato in cui mi trovavo, mi sottopose a prove innumerevoli. Per me era un piacere servirla, e non avrebbe potuto inventare cosa, escogitare desiderio che io non potessi soddisfare come fosse un’inezia. Allora si rese conto che io l’amavo più di qualunque altro uomo, e vennero tempi tranquilli, in cui lei mi capì e accettò il mio amore. Ci vedemmo mille volte, viaggiammo insieme, facemmo l’impossibile per star vicini e ingannare il mondo. Adesso sarei stato felice. Io l’amavo. E per un certo tempo fui anche felice, forse. Ma il mio destino non era di conquistare quella donna. Quando ebbi goduto per un po’ di quella felicità e non ebbi più bisogno di offrir sacrifici, quando senza fatica ottenevo da lei un sorriso, un bacio e una notte d’amore, cominciai a sentirmi irrequieto. Non sapevo cosa mi mancasse, avevo ottenuto più di quanto i miei arditi desideri avessero mai bramato. Ma ero irrequieto. Come ho detto, il mio destino non era di conquistare quella donna. Che ciò mi fosse accaduto, era un caso. Il mio destino era di soffrire del mio amore, e quando il possesso dell’amata cominciò a lenire e guarire quel dolore, mi afferrò l’irrequietezza. Per un certo tempo resistetti, ma poi d’improvviso fui trascinato via. Abbandonai quella donna. Presi un permesso e feci un lungo viaggio. A quel tempo le mie sostanze erano già fortemente intaccate, ma che cosa importava? Viaggiai e tornai dopo un anno. Uno strano viaggio! Ero appena partito che ricominciò ad ardere il vecchio fuoco. Quanto più avanti mi spingevo e quanto più a lungo stavo lontano, tanto più tormentosa tornava la mia passione, e io stavo a guardare e mi rallegravo, e continuai a viaggiare, ininterrottamente per un anno, sinché la fiamma non divenne intollerabile e mi costrinse di nuovo vicino all’amata. E così fui là, di nuovo a casa, e la trovai irata e amaramente offesa. Essa, non è vero, si era data a me e mi aveva reso felice, e io l’avevo abbandonata! Aveva un altro amante, ma vedevo che non lo amava. Lo aveva accettato per vendicarsi di me. Io non potevo dirle né scriverle cosa fosse che mi aveva allontanato e ora risospinto a lei. Lo sapevo forse io stesso? Ricominciai dunque a corteggiarla e a lottare per lei. Ella licenziò l’amante ma presto ne prese un altro, poiché non aveva più fiducia in me. Tuttavia mi vedeva volentieri ogni tanto. Talvolta, a un pranzo o a teatro, improvvisamente guardava oltre i suoi vicini, verso di me, stranamente dolce e interrogativa. Mi aveva ritenuto sempre molto, molto ricco. Avevo destato in lei quella fiducia e la tenevo in vita soltanto per poter continuare a fare per lei ciò che a un povero ella non avrebbe consentito. Prima le avevo fatto dei regali, ma questo era ormai passato e dovevo trovare nuove vie per poterle dar gioia e offrirle sacrifici. Organizzai concerti nei quali musicisti da lei apprezzati suonavano e cantavano i suoi pezzi preferiti. Feci incetta di palchi per poterle offrire il biglietto per una prima. Ella si abituò di nuovo a farmi provvedere a mille cose. Ero in un incessante vortice d’affari, per lei. Il mio patrimonio si era esaurito, adesso cominciarono i debiti e gli artifizi finanziari. Vendetti i miei quadri, la mia porcellana antica, il cavallo, e comprai un’automobile che stesse sempre a sua disposizione.
Arrivai così a un punto tale che vidi innanzi a me la fine. Nel momento in cui avevo speranza di riconquistarla, vedevo esaurite le mie ultime risorse. Ma non volli smettere. Avevo ancora la mia carica, la mia influenza, la mia stimata posizione. A che scopo, se ciò non poteva servire a lei? Così avvenne che mentii e rubai, che smisi di temere l’ufficiale giudiziario perché avevo da temere di peggio. Ma non fu invano. Aveva licenziato anche il secondo amante, e io sapevo che adesso avrebbe preso me o nessun altro. E mi prese anche, sì. Ciò significa che andò in Svizzera e mi permise di seguirla. La mattina dopo presentai una domanda di congedo. Anziché la risposta, seguì il mio arresto. Falsificazione di documenti, appropriazione di pubblico danaro. Non dica nulla, non è necessario. So già. Ma lo sa, lei, che anche questo era ancora fiamma e passione e ricompensa d’amore, l’essere disonorato e punito, e perdere sin l’ultima camicia? Lo capisce questo, giovane innamorato? Le ho raccontato una favola, giovanotto. L’uomo che l’ha vissuta non sono io. Io sono un povero contabile, che si fa invitare da lei a bere una bottiglia di vino. Ma ora voglio andare a casa. No, lei resti ancora, vado solo. Resti!”
(1906)