Una sonata
La signora Hedwig Dillenius uscì dalla cucina, si slacciò il grembiule, si lavò e pettinò e poi andò in salotto, ad aspettare il marito. Guardò due o tre fogli di una cartella di Dürer, giocherellò con una figuretta di porcellana di Copenaghen, udì dalla torre più vicina i rintocchi del mezzogiorno e infine aprì il pianoforte a coda. Toccò qualche tasto, cercando una melodia a mezzo dimenticata, e indugiò ad ascoltare l’armonioso smorzarsi delle corde. Sottili, esalanti vibrazioni, che diventavano sempre più delicate e irreali, e poi ci furono istanti in cui ella non sapeva se quelle note risuonassero ancora o se quella sottile sollecitazione nell’orecchio fosse soltanto un ricordo. Non suonò oltre, pose le mani in grembo e si mise a pensare. Ma non pensava più come un tempo, come quando era fanciulla, nella sua casa in campagna, non pensava più ai piccoli avvenimenti bizzarri o commoventi, dei quali sempre soltanto la metà più piccola era reale e vissuta. Da qualche tempo pensava ad altre cose. La realtà stessa le era divenuta incerta e problematica. Nei desideri e nelle emozioni vaghe e sognanti del suo tempo di fanciulla aveva spesso pensato che un giorno si sarebbe sposata, è avrebbe avuto un marito e una vita e una casa proprie, e da questo mutamento si era attesa molto. Non soltanto tenerezza, calore e nuovi sentimenti d’amore, ma soprattutto una sicurezza, una vita chiara, un benefico rifugio da tentazioni, dubbi e desideri impossibili. Per quanto fortemente avesse amato fantasticare e sognare, la sua nostalgia si era sempre rivolta a una realtà, a un sicuro cammino su sentieri fidati. Rifletté ancora. Le cose erano andate diversamente da come se le era immaginate. Suo marito non era più quello che era stato durante il fidanzamento, o piuttosto lei lo aveva visto allora in una luce che adesso si era spenta. Aveva creduto che egli fosse pari a lei e anche superiore, che potesse camminare con lei ora come amico, ora come guida, e adesso spesso le sembrava di averlo sopravvalutato. Era onesto, gentile, anche tenero, le concedeva libertà, la sollevava da piccoli incarichi domestici. Ma era soddisfatto, di lei e della sua vita, del lavoro, del mangiare, di un po’ di divertimento, e lei di questa vita non era soddisfatta. Aveva dentro di sé un folletto che voleva burlare e danzare, e uno spirito sognatore che voleva inventar favole, e una costante bramosia di collegare la piccola vita quotidiana con la grande magnifica vita che risuonava nei canti e nelle pitture, nei bei libri e nei boschi e nel mare in tempesta. Non ammetteva che un fiore dovesse essere soltanto un fiore e una passeggiata soltanto una passeggiata. Un fiore doveva essere un elfo, uno spirito bello in una bella metamorfosi, e una passeggiata non un piccolo, doveroso esercizio e uno svago, bensì un viaggio ricco di presentimenti verso l’ignoto, una visita resa a venti e a ruscelli, un dialogo con le cose mute. E quando aveva ascoltato un bel concerto, restava ancora a lungo in un regno spirituale nuovo, mentre suo marito già girava in pantofole, fumava una sigaretta, parlava un po’ della musica e agognava il letto. Da qualche tempo, non di rado doveva guardarlo stupita e meravigliarsi che egli fosse così, che non avesse più ali, che sorridesse con indulgenza quando lei voleva parlargli dal profondo dell’animo. Decideva ogni volta di non adirarsi, di essere buona e paziente, di rendergli la vita come lui la voleva. Forse era stanco, forse sul lavoro lo tribolavano cose dalle quali voleva risparmiarla. Era così gentile e compiacente che lei doveva essergli grata. Ma non era più il suo principe, il suo amico, il suo signore e fratello, ed ella percorreva tutte le care vie del ricordo e della fantasia ancora una volta da sola, senza di lui, e le vie erano diventate più oscure, perché alla fine di esse non c’era più un misterioso futuro. Il campanello squillò, il suo passo risuonò nel
corridoio, la porta si aprì ed egli entrò. Lei gli andò incontro e ricambiò il suo bacio.
“Stai bene, tesoro?”
“Sì, grazie, e tu?”
Si misero a tavola.
“Senti”, disse lei, “ti va che stasera venga Ludwig?”
“Se ti fa piacere, naturalmente”.
“Potrei telefonargli dopo. Sai, non vedo l’ora”.
“Di che cosa?”
“Della nuova musica. L’altro giorno raccontava di aver studiato queste nuove sonate, e ora può eseguirle. Dice che sono così difficili”.
“Ah, già, di quel nuovo compositore, vero?”
“Si, si chiama Reger. Debbono essere cose straordinarie, ne sono tremendamente curiosa”.
“Beh, le ascolteremo. Non sarà certo un nuovo Mozart”.
“Dunque, questa sera. Lo invito anche a cena?” “Come vuoi, piccola.”
“Sei curioso anche tu di ascoltar Reger? Ludwig ne ha parlato con tanto entusiasmo.”
“Beh, fa sempre piacere ascoltare qualcosa di nuovo. Ludwig forse è un po’ troppo entusiasta, nevvero? Ma infine di musica deve capirne più di me. Quando si suona il piano per delle mezze giornate!”
Al caffè Hedwig gli raccontò delle storie di due fringuelli che quel giorno aveva visto nel parco. Egli ascoltava con benevolenza e rideva.
“Che inventiva hai! Saresti potuta diventare una scrittrice!”
Poi uscì per recarsi in ufficio, ed essa lo seguì con lo sguardo dalla finestra, perché a lui faceva piacere. Poi si mise anch’essa al lavoro. Riportò le spese dell’ultima settimana sul libro di casa, riordinò la stanza del marito, lavò le piante ornamentali e infine mise mano a un lavoro di cucito, sinché fu ora di occuparsi di nuovo della cucina. Verso le otto arrivò suo marito e subito dopo Ludwig, suo fratello. Strinse la mano alla sorella, salutò il cognato poi prese di nuovo le mani di Hedwig. A cena i fratelli conversarono vivacemente e di gusto. Il marito metteva una parola qua e là e faceva scherzosamente il geloso. Ludwig stette al gioco, essa invece non disse nulla, ma si fece pensosa. Sentiva che realmente, fra loro tre, l’estraneo era il marito. Ludwig era parte di lei, aveva la stessa indole, lo stesso spirito, gli stessi ricordi di lei, parlava la sua stessa lingua, afferrava e ricambiava ogni piccolo motteggio. Quando c’era lui, la circondava un’aria familiare; allora tutto tornava come una volta, allora ridiventava vero e vivo tutto ciò che essa portava dentro di sé, da casa sua, e che da suo marito era gentilmente tollerato, ma non ricambiato e forse in fondo nemmeno capito. Rimasero seduti a bere vino rosso sino a che Hedwig non li sollecitò. Allora si recarono in salotto, Hedwig aprì il pianoforte coda e accese i candelabri, il fratello depose la sigaretta e aprì lo spartito. Dillenius si accomodò in una bassa poltrona a braccioli e si tirò accanto il tavolinetto da fumo. Hedwig si sedette in disparte, accanto alla finestra. Ludwig disse ancora qualche parola sul nuovo musicista e sulla sonata. Poi, per un istante, regnò il silenzio. E allora egli cominciò a suonare. Hedwig ascoltò attenta le prime battute, la musica la toccava in modo nuovo e singolare. Il suo sguardo era fisso su Ludwig, i cui capelli scuri di quando in quando rilucevano al lume delle candele. Ma presto ella sentì in quella musica inconsueta uno spirito forte e sottile che la prendeva e le dava le ali, sicché essa, al di là delle difficoltà e dei punti incomprensibili, poteva afferrare e vivere quell’opera. Ludwig suonava, ed essa vedeva una vasta, oscura distesa d’acqua ondeggiare in ampie cadenze. Uno stormo di uccelli grandi, possenti, volava con scroscianti colpi d’ala, primordialmente fosco. La tempesta risuonava cupa e a tratti lanciava in aria creste schiumanti, che si polverizzavano poi in tante piccole perle. Nel fragore delle onde, del vento e delle grandi ali d’uccello risuonava qualcosa di segreto, e ora con pathos sonoro ora con esile voce infantile si levava un canto, un’intima, cara melodia. Nubi vagavano in nere matasse sfrangiate, e in mezzo strani bagliori si levavano verso profondi cieli dorati. Su grandi flutti cavalcavano mostri marini di orrido aspetto, ma su piccole onde giocavano tenere, commoventi ridde di angioletti dalle membra comicamente paffute e occhi da bambino. E l’orrido era con sempre maggiore incanto superato dal leggiadro, e il quadro si tramutava in un lieve, vaporoso interregno senza gravità, nel quale in una luce particolare, come lunare, tenui elfi leggeri danzavano aeree ridde e con voci pure, cristalline, incorporee cantavano melodie radiosamente lievi, che si smorzavano senza dolore. Ma adesso era come se non fossero più quegli angelici elfi di luce a cantare e fluttuare nel bianco splendore, ma ci fosse qualcuno che narrava e sognava di loro. Una pesante goccia di struggimento e di inconsolabile dolore umano scivolò nel trasfigurato mondo del bello pago di sé, al posto del paradiso si levò l’umano sogno di paradiso, non meno splendente e bello, ma accompagnato da profondi accenti di insanabile nostalgia. Così il piacere dell’uomo nasce da quello del fanciullo; il riso dispiegato è lontano, ma l’aria si è fatta più intima, e di più dolorosa dolcezza. Lentamente i soavi canti degli elfi si dispersero nello scroscio del mare, che di nuovo si gonfiava possente. Fragore di lotta, passione e impeto di vita. E con il rotolar via di un ultimo, alto maroso il canto finì. Nel pianoforte l’onda vibrò ancora in una lieve, prolungata risonanza, e si smorzò, e si levò un profondo silenzio. Ludwig rimase seduto, il corpo piegato in avanti, ad ascoltare, Hedwig aveva gli occhi chiusi e si appoggiava alla sedia quasi dormisse. Finalmente Dillenius si alzò, tornò in camera da pranzo e portò al cognato un bicchiere di vino. Ludwig si alzò, ringraziò e bevve un sorso.
“Allora, cognato”, disse, “che ne pensi?”
“Della musica? Sì, interessante, e una volta di più tu hai suonato splendidamente. Già, farai molto esercizio.”
“E la sonata?”
“Vedi, è questione di gusti. Non sono affatto contro le novità, ma per me questa era troppo "originale". Wagner ancora lo sopporto...”
Ludwig voleva replicare. Ma la sorella gli si era avvicinata, e gli posò la mano sul braccio.
“Lascia stare, vuoi? È veramente questione di gusti.”
“Non è vero?”, esclamò soddisfatto il marito. “Perché discutere? Cognato, un sigaro?”
Ludwig perplesso guardò in viso la sorella. Vide allora che essa era rimasta profondamente commossa da quella musica e che avrebbe sofferto se se ne fosse parlato ancora. Ma allo stesso tempo vide, per la prima volta, che essa credeva di dover trattare con tatto il marito perché gli mancava qualcosa che era per lei necessario, e in lei innato. E poiché essa gli sembrò triste, prima di andarsene le disse piano: “Hede, qualcosa non va?”
Essa scosse il capo.
“Me la dovrai risuonare presto, per me sola. Vuoi?”. Sembrava esser ritornata allegra, e dopo un po’ Ludwig tranquillizzato se ne andò a casa.
Ma lei quella notte non poté dormire. Che suo marito non potesse capirla, lo sapeva, e sperava di poter sopportare tutto ciò. Ma continuava a risuonarle nell’orecchio la domanda di Ludwig, “Hede, qualcosa non va?”, e pensava che aveva dovuto rispondergli con una bugia, per la prima volta con una bugia. E solo ora, le sembrava, aveva completamente perduto la casa paterna e la splendida libertà giovanile e tutta la serena, chiara letizia del paradiso.
(1906)