La prima avventura
Strano, come ciò che abbiamo vissuto ci diventi estraneo e ci sfugga! Interi anni, con mille vicende, possono andare perduti. Spesso vedo bambini correre a scuola e non penso a quando ci andavo anch’io, vedo studenti liceali e mi rendo appena conto che una volta anch’io ero uno di loro. Vedo meccanici recarsi in officina e commessi di dubbio aspetto che vanno in ufficio, e ho totalmente dimenticato che un tempo io facevo il loro stesso tragitto, indossavo il camiciotto blu e la giaccia da scrivano coi gomiti lucidi. Vedo in libreria curiosi libriccini di poeti diciottenni, editi dalla casa Pierson di Dresda, e non penso più che una volta anch’io scrivevo versi del genere e addirittura mi facevo imbrogliare dallo stesso cacciatore di talenti. Sinché una volta, durante una passeggiata o un viaggio in treno oppure di notte, in un’ora insonne, tutto un frammento dimenticato di vita ritorna, e mi sta davanti violentemente illuminato come uno scenario, con tutti i particolari, con tutti i nomi e i luoghi, i suoni e gli odori. Così mi accadde la notte scorsa. Mi ricomparve davanti un avvenimento che a suo tempo ero certissimo non avrei mai dimenticato, e che invece avevo dimenticato per anni, senza serbarne traccia. Esattamente come si perde un libro o un temperino, non lo si trova più e lo si dimentica, e un giorno quello sta in un cassetto in mezzo a vecchie cianfrusaglie ed è di nuovo lì, e ci appartiene di nuovo. Avevo diciott’anni e stavo terminando il mio apprendistato nell’officina di un meccanico. Da poco mi ero reso conto che in quel ramo non avrei fatto molta strada, ed ero deciso a cambiare ancora una volta mestiere. In attesa che si presentasse un’occasione per dirlo a mio padre, continuavo a restare lì e svolgevo il mio lavoro tra il riluttante e il contento, come chi si è già licenziato e sa che tutte le strade maestre lo attendono. Nell’officina avevamo allora un volontario, la cui principale qualità era di essere imparentato con una ricca signora che abitava in una cittadina non lontana. Questa signora, giovane vedova di un industriale, abitava in una villetta, possedeva un’elegante vettura e un cavallo da sella e passava per superba ed eccentrica perché non frequentava i caffè e invece cavalcava, pescava, coltivava tulipani e teneva cani di San Bernardo. Si parlava di lei con invidia e risentimento, soprattutto da quando si sapeva che a Stoccarda e a Monaco, dove si recava spesso, poteva essere assai socievole. Questa meraviglia, dacché suo nipote o cugino lavorava da noi come volontario, era già stata tre volte nell’officina, aveva salutato il parente e si era fatta mostrare le nostre macchine. Aveva ogni volta un aspetto splendido, e su me aveva fatto grande impressione mentre, nella sua raffinata toilette, si aggirava con occhi curiosi e bizzarre domande per lo stanzone rugginoso, una donna alta, coi capelli di un biondo chiaro e un viso fresco e ingenuo come quello di una fanciulla. Noi ce ne stavamo h con i nostri camiciotti bisunti, le mani e le facce nere, e ci sembrava che ci avesse fatto visita una principessa. Ciò non andava d’accordo con le nostre idee socialdemocratiche, del che ogni volta ci rendevamo conto, dopo. Un giorno, durante la pausa pomeridiana, ecco che mi si avvicina il volontario e mi dice: “Domenica vuoi venire con me da mia zia? Ti ha invitato.”
“Invitato? Senti, non farmi scherzi idioti, altrimenti ti ficco il naso nella tinozza.” Invece diceva sul serio. Lei mi aveva invitato per domenica sera. Potevamo tornare col treno delle dieci, e se volevamo trattenerci più a lungo, forse ci avrebbe dato la carrozza. Essere in relazione con la proprietaria di una lussuosa carrozza, padrona di un servitore, due cameriere, un cocchiere e un giardiniere, era, secondo la mia ideologia di allora, semplicemente empio. Ma questo mi venne in mente solo assai dopo che avevo accettato con entusiasmo e chiesto se il mio vestito giallo della domenica sarebbe stato abbastanza adatto.
Girai fino a sabato in uno stato di eccitazione e di gioia mai provate. Poi mi assali la paura. Che cosa dire, come comportarmi, come parlare con lei? Il mio vestito, di cui ero sempre stato orgoglioso, aveva improvvisamente tante di quelle pieghe e macchie, e tutti i miei colletti erano sfilacciati agli orli. Inoltre il mio cappello era vecchio e logoro, e tutto questo non poteva venir compensato dai miei tre cavalli di battaglia - un paio di scarpe a punta, una cravatta rosso vivo di mezza seta e occhiali a stringinaso con la montatura nichelata. La domenica sera con il volontario mi recai a piedi a Settlingen, malato di eccitazione e di imbarazzo. Arrivammo in vista della villa, ci fermammo davanti a una cancellata oltre la quale erano pini e cipressi esotici, l’abbaiare dei cani si mescolò al suono del campanello. Un cameriere ci fece entrare, non fece parola e ci trattò sprezzantemente, degnandosi soltanto di proteggermi dai San Bernardo che volevano azzannarmi i pantaloni. Guardai con angoscia le mie mani, che da mesi non erano state così meticolosamente pulite. La sera prima le avevo lavate per mezz’ora con petrolio e sapone in pasta. In un semplice abito estivo turchino chiaro, la dama ci ricevette in salotto. Strinse la mano a tutti e due e ci disse di sederci, ché la cena sarebbe stata subito pronta.
“Lei è miope?”, mi domandò.
“Un pochino.”
“Gli occhiali a stringinaso non le donano affatto, sa?” Me li tolsi, li misi in tasca e presi un’espressione caparbia.
“E anche lei è un rosso?”, chiese ancora.
“Vuol dire socialdemocratico? Sì, certo.”
“E perché?”
“Per convinzione.”
“Ah, ecco. Ma la cravatta è veramente graziosa. Beh, volevamo mangiare. Vi siete portati dietro la fame?”
Nella stanza accanto era apparecchiato per tre. Ad eccezione dei tre diversi bicchieri, contrariamente alle mie aspettative non c’era nulla che potesse mettermi in imbarazzo. Minestra di cervelli, arrosto di lombo, contorno, insalata e dolce erano tutte cose che ero in grado di mangiare senza far brutta figura. E i vini li versava la stessa padrona di casa. Durante il pasto essa parlò quasi esclusivamente con il volontario, e poiché i buoni cibi e il vino mi tenevano piacevolmente occupato, presto mi sentii a mio agio e discretamente sicuro. Dopo mangiato i bicchieri del vino ci vennero portati in salotto, e quando mi fu offerto un eccellente sigaro, che con mio stupore venne acceso a una candela rossa e oro, il mio benessere si tramutò in agio. Adesso osavo anche guardare la dama, ed era così fine e bella che con orgoglio mi sentii trasportato nei campi elisi del mondo aristocratico, di cui mi ero fatto un’idea vaga e nostalgica attraverso la lettura di alcuni romanzi e racconti d’appendice. Iniziammo una conversazione assai vivace, e divenni così ardito che osai scherzare sulle osservazioni fatte prima dalla signora sulla socialdemocrazia e la cravatta rossa.
“Ha perfettamente ragione”, disse lei sorridendo. “Rimanga pure della sua idea. Ma almeno la cravatta dovrebbe annodarla meno storta. Vede, così...”
Mi stava davanti e si piegò su di me, prese la cravatta con ambedue le mani e la girò. All’improvviso sentii, con forte spavento, che essa insinuava due dita nell’apertura della mia camicia e mi toccava piano il petto. E quando alzai inorridito lo sguardo, essa premette ancora con le due dita, guardandomi fisso negli occhi.
Accipicchia, pensai, e mi venne il batticuore, mentre lei si ritraeva e fingeva di osservare la cravatta. Invece mi guardò di nuovo, con serietà, in piena faccia, e annuì due volte lentamente.
“Potresti andare di sopra a prendere la cassetta dei giochi nella stanza d’angolo”, disse al nipote che sfogliava un giornale. “Su, sii così gentile.”
Egli andò, ed essa mi venne vicina, lentamente, con grandi occhi.
“Tu! “, disse in tono sommesso e tenero. “Tu sei caro.”
Avvicinò il suo viso al mio e le nostre labbra si unirono, mute e brucianti, e poi ancora e ancora. Io la abbracciai e la strinsi a me, l’alta e bella dama, così forte che dovetti farle male. Ma essa cercò ancora la mia bocca, e mentre baciava i suoi occhi diventarono umidi e lucenti come quelli di una fanciulla. Il volontario tornò coi giochi, ci sedemmo e tutti e tre giocammo a dadi dei cioccolatini. Lei parlava di nuovo con vivacità e scherzava a ogni tiro, ma io non riuscivo a far parola e respiravo a fatica. Talvolta, di sotto il tavolo, la sua mano si tendeva a giocare con la mia o si posava sul mio ginocchio. Verso le dieci il volontario dichiarò che per noi era tempo di andare.
“Vuoi già andarsene anche lei? “, essa mi chiese, e mi guardò.
Non avevo alcuna esperienza nelle faccende d’amore, e balbettai che sì, era tempo, e mi alzai.
“Va bene, allora!”, esclamò, e il volontario si avviò. Lo seguii sino alla porta, ma non appena egli ebbe varcato la soglia, lei mi tirò indietro per un braccio e mi attrasse a sé. E mentre uscivo mi sussurrò: “Sii bravo, sii bravo!” Ma non compresi nemmeno questo. Ci congedammo e corremmo alla stazione. Comprammo i biglietti, e il volontario salì sul treno. Ma io adesso non potevo desiderare la compagnia di nessuno. Salii soltanto sul primo gradino, e quando il capotreno fischiò, balzai giù e rimasi indietro. Era già notte fonda. Stordito e triste percorsi la lunga strada fino a casa, passando come un ladro accanto al suo giardino e al cancello. Una gran dama mi amava! Innanzi a me si schiudevano paesi incantati, e quando per caso trovai in tasca gli occhiali a stringinaso, li gettai nel fosso. La domenica successiva il volontario fu di nuovo invitato a pranzo, ma io no. Né lei venne più all’officina. Per tre mesi continuai a recarmi a Settlingen, la domenica o la sera tardi, origliavo al cancello e mi aggiravo attorno al giardino, udivo i San Bernardo abbaiare e il vento soffiare attraverso gli alberi esotici, vedevo la luce nelle stanze e pensavo: forse una volta o l’altra mi vedrà; lei mi ama. Una volta udii nella casa il suono di un pianoforte, morbido e cullante, mi sdraiai lungo il muro e piansi. Ma mai più il servitore mi fece entrare e mi protesse dai cani, mai più la mano di lei toccò la mia, e la sua bocca la mia. Soltanto in sogno ciò mi accadde ancora qualche volta, in sogno. E a fine autunno lasciai l’officina e deposi per sempre il camiciotto blu e me ne andai lontano, in un’altra città.
(1906)