Quattro

Quella sera la cena a Buckingham Palace fu decisamente infelice. Vittoria e la duchessa di Kent erano sedute ai capi opposti della tavola, e poiché non conversavano tra loro toccò ai membri della corte ravvivare l’atmosfera per dare almeno una parvenza di convivialità alla serata. Lord Alfred Paget raccontò la storia lunga e contorta di quando aveva tentato di insegnare gli scacchi alla sua cagnolina Mrs Bumps. Harriet ed Emma tentarono di aggiungere qualche fronzolo all’aneddoto fino a trasformarlo in una sorta di conversazione. Emma riferì di una sua zia che aveva un gatto capace di giocare a piquet, e Harriet rivelò che a Raisby c’era un pappagallo che teneva il conto del punteggio in una sala da biliardo. Di solito queste erano le facezie che la regina adorava sentir raccontare, e tutti i commensali la guardavano per vedere se spuntava un sorriso sulle sue labbra.

Ma la regina non pareva affatto divertirsi, e intanto dissezionava la pietanza con coltello e forchetta come se fosse una cavia di laboratorio. La duchessa, da parte sua, non faceva alcun tentativo di inserirsi nella conversazione, preferendo ingurgitare la maggior quantità di cibo possibile in totale silenzio.

Vittoria vide sua madre tirare su l’ultimo boccone di quenelle de brochet dal piatto, e fece un sospiro. Se solo ci fosse stato Lord M! Lui avrebbe trovato il modo di rendere tutto più semplice. Robert Peel non possedeva quell’abilità, a giudicare dal modo in cui si era comportato. Non si aspettava certo di essere adulata, ma lui era stato addirittura incivile. Aveva fatto irruzione a Palazzo e le aveva suggerito di eliminare tutte le sue amiche dalla corte. Sembrava quasi avesse dimenticato con chi stava parlando. Come poteva Melbourne averla lasciata nelle mani di un uomo così rozzo? Sbatté rumorosamente coltello e forchetta per comunicare che non avrebbe mangiato altro, e nel giro di pochi istanti i valletti ritirarono tutti i piatti, nonostante le proteste della duchessa, che non aveva ancora finito.

Dopo cena, Vittoria si sedette a sfogliare un volume de La Mode Illustrée. Le piaceva il nuovo tipo di décolleté che metteva in risalto collo e clavicola. Una volta Lord M le aveva detto che aveva delle belle spalle. Chiamando Harriet ed Emma a sedersi accanto a lei, mostrò loro uno degli abiti che ammirava maggiormente. Harriet, che era considerata una delle donne meglio vestite di Londra, indicò invece un modello che a suo avviso le sarebbe stato particolarmente bene, e così trascorsero una felice mezz’ora sfogliando la rivista e discutendo di passamanerie e della lunghezza ideale di una balza di pizzo.

Quando arrivarono all’ultima pagina, Emma guardò Vittoria. «So bene, Maestà, che dovrete apportare dei cambiamenti a corte ora che c’è una nuova amministrazione, e probabilmente dovrò lasciarvi. Harriet è molto più abile di me, e credo che possa darvi preziosi consigli in qualunque situazione, mentre io so a malapena suonare il piano e abbigliarmi alla moda.»

Harriet scosse la testa. «No, Emma. Tu hai saggezza ed esperienza. Mio marito dice sempre che sei tu l’uomo più capace tra tutti i ministri del governo. Senza Lord Melbourne, la regina necessita ancora di più del tuo consiglio.»

«Sei troppo gentile, Harriet. Ma credo che la regina abbia bisogno di un’amica più giovane. Io potrei essere sua madre.»

Entrambe le donne lanciarono un’occhiata alla duchessa di Kent, seduta su un divano davanti al fuoco, con le palpebre semichiuse.

Vittoria, che aveva ascoltato in silenzio quello scambio di battute, sollevò lo sguardo. «Il fatto è che siete entrambe inestimabili. Voi non siete solo le mie dame: siete le mie amiche, e non intendo rinunciare a nessuna delle due.»

Harriet ed Emma si guardarono. Emma parlò per prima. «Maestà, è consuetudine che le dame di corte vengano sostituite quando cambia il governo.»

«È ridicolo. Che diritto ha Robert Peel di dirmi chi devono essere le mie amiche?»

«Io credo, Maestà» disse Harriet, «che egli reputi difficile formare un nuovo governo se non può contare sul vostro supporto.»

Vittoria rivolse a entrambe un sorriso sagace. «Precisamente.»

Le due dame si scambiarono un’altra occhiata, sorprese dalla reazione di Vittoria.

La regina si alzò in piedi, imitata immediatamente da tutti i presenti, e disse a tutte e due: «Dunque, mie care, la questione non riguarda chi delle due devo mettere alla porta.»

Harriet fece un profondo inchino, seguita immediatamente da Emma.

La duchessa si svegliò dalla sua sonnolenza e chiese in tono lamentoso: «Dove stai andando, Drina? Desidero parlare con te. Non dovresti sempre agire di testa tua. È pericoloso.»

Vittoria la guardò con occhi scintillanti. «Non sono sola, mamma. Ho le mie dame.»

La duchessa grugnì. «Tu dimentichi, Drina, che il sangue è più denso dell’acqua.»

«Lo credi davvero? Forse dovresti dirlo a Sir John Conroy!»

«Sei davvero infantile, Drina. Sir John e io vogliamo solo servire i tuoi interessi. È sempre stato così.» La duchessa levò al cielo le mani con gesto di esasperazione, poi prese il fazzoletto e cominciò a tamponarsi gli occhi.

Vittoria ebbe un momento di esitazione. Sua madre non piangeva mai in pubblico. Tornò sui suoi passi e andò a sedersi accanto a lei. «Lo so, mamma, che sei preoccupata, ma non ve n’è alcun bisogno. Ho imparato a gestire la mia vita.»

«È una questione di punti di vista. Sei stata da sola in visita alla Dover House ignorando il mio consiglio, e mi pare di capire che tu abbia detto a Sir Robert che non intendi rinunciare alle tue dame.» La duchessa lanciò un’occhiata torva a Harriet ed Emma, strette l’una all’altra al capo opposto della sala.

«Sì, mamma, è così. Ma non per puro capriccio. So cosa sto facendo.»

«Credi di saperlo, ma Sir John dice che stai giocando con il fuoco. Questo paese ha bisogno di un Primo Ministro, e se ti dimostri ostile alla formazione del nuovo governo, il popolo te ne addosserà la colpa.»

Vittoria si alzò. «L’hai detto tu, mamma. Il sangue è più denso dell’acqua. Forse dovresti fidarti del mio giudizio più che di quello di Conroy.» Voltando le spalle alla madre, uscì in fretta dalla stanza, con Emma e Harriet a seguirne la scia.

Il giorno dopo Emma Portman si recò alla Dover House a un orario che normalmente avrebbe trovato sconvenientemente prematuro per qualsivoglia visita, ma con i tempi che correvano le regole erano passate in secondo piano. Il maggiordomo le disse che il visconte non si era ancora alzato, ma Emma non si curò di quella risposta e prese le scale diretta alla camera da letto. Il maggiordomo protestò, ma il guizzo che Lady Portman aveva negli occhi gli fece capire che ogni tentativo di resistere sarebbe stato vano.

Melbourne era a letto e leggeva il Times quando Emma fece irruzione nella stanza. Di fronte alla faccia costernata del maggiordomo Melbourne fece semplicemente un cenno d’assenso, come per rassicurarlo. Emma si sedette in fondo all’imponente letto a baldacchino.

«Emma cara, avresti potuto darmi un minimo di preavviso. Sono appena presentabile.»

«Le mie faccende non potevano aspettare. E poi sono troppo vecchia per scandalizzarmi davanti al tuo mento ispido o alle macchie d’uovo sulla vestaglia.»

Melbourne abbassò lo sguardo e vide che c’era effettivamente un frammento di tuorlo rappreso sul bavero della veste da camera a disegni cachemire. «Allora devi prendermi così come sono, Emma. Ma cosa ti ha portata a precipitarti qui in fretta e furia anziché aspettare con calma in biblioteca, come farebbe qualunque rispettabile donna sposata?»

«Ieri la regina ha incontrato Peel.»

«Lo so. Le ho detto io che era l’unica cosa sensata da fare.»

Emma lo guardò con aria interrogativa. «Ma sai anche che gli ha detto che non avrebbe rinunciato a nessuna delle sue dame?»

Melbourne sospirò. «No. Anzi, le avevo già accennato io stesso al fatto che si sarebbero resi necessari dei cambiamenti tra il personale di corte, altrimenti Peel avrebbe dubitato della fiducia che gli veniva accordata.»

«Ho visto Peel mentre usciva. Aveva le orecchie paonazze, come se lei gliele avesse prese a pugni.»

Melbourne fece un altro sospiro. «Ma come mai Peel non è riuscito a convincerla? Non le ha fatto capire che era nel suo interesse apportare qualche modifica? Non le ha detto che non sarebbe stato conveniente per lei essere vista come una regina che appoggiava un unico schieramento?»

Emma Portman sorrise. «Sai bene perché non è riuscito a convincerla: non vuole cambiare le sue dame perché rivuole te al comando, William.»

Melbourne si alzò e suonò il campanello per chiamare il valletto. «Non spetta a lei la decisione» disse in tono brusco.

«Eppure è questa la sua intenzione.» Emma inarcò un sopracciglio. «Non la si può biasimare. Perché mai dovrebbe accontentarsi di uno zotico come Peel se può avere accanto a sé l’affascinante Lord M?»

La porta si aprì e il maggiordomo fece entrare un messo da Palazzo che recava una lettera. «Da parte della regina, signore.»

Melbourne la lesse e si incupì.

«Hai visto?» disse Emma con un sorriso. «Ecco giunta la tua convocazione.»

Melbourne si lasciò sfuggire un suono che, se l’avesse prodotto un uomo meno raffinato di lui, sarebbe facilmente stato scambiato per un grugnito. «Spero solo di essere riuscito a insegnare alla regina la differenza tra inclinazione e dovere.»

Emma gli andò vicino e lo baciò sulla guancia. «Sono certa che tu ci abbia provato, William. Ma dimentichi che la regina è una ragazzina che ama ottenere ciò che desidera.»

A poche centinaia di metri di distanza, nei locali del White’s, roccaforte del Partito Conservatore, il duca di Cumberland si stava dirigendo verso la sala di lettura. Se notava che alcuni membri del club gli voltavano le spalle, non lo dava a vedere: era troppo concentrato sul suo bisogno impellente di incontrare Wellington, che teneva banco con una corte di notabili del suo partito, tra cui c’era anche Robert Peel.

Il duca s’inserì nel gruppo e senza salutare nessuno iniziò il suo attacco: «Possiamo dunque accettare che il Partito Conservatore, il partito di Burke e di Pitt, sia stato messo in scacco dai capricci di una ragazzetta di diciott’anni?» Puntò i suoi occhi azzurri iniettati di sangue su Peel, che fece un passo indietro.

«Non posso formare un governo, signore» replicò Peel con il suo accento del nord che gli faceva appiattire le vocali, «senza il supporto della regina.» Peel aveva sostenuto lo sguardo di Cumberland senza vacillare.

Cumberland si portò un dito alla tempia e, rivolgendosi a Wellington, domandò: «Credete, duca, che il comportamento della nostra sovrana sia razionale? È normale che si dia tanta pena per le dame di corte? Mi ricorda mio padre: non era sano di mente neppure prima che lo colpisse la sua… triste malattia.»

Peel sollevò un sopracciglio. «State dicendo che la regina non è in sé, signore?»

«Sto dicendo che non possiede le capacità necessarie per governare il paese. Ha bisogno di una guida. Quando mio padre si ammalò, gli affiancarono un reggente. Non potremmo fare la stessa cosa con lei?»

Wellington si appoggiò alla mensola del caminetto, e lanciò a Cumberland uno sguardo glaciale. «Sono certo che la duchessa di Kent sarebbe ben contenta di affiancarla, e sappiamo per certo che lei gode del favore del popolo.» L’enfasi di Wellington non lasciava adito a dubbi: in caso di reggenza, la duchessa avrebbe avuto il supporto che a Cumberland sarebbe invece mancato.

Cumberland lo guardò con disprezzo. «Credo che la duchessa non sia in grado di assumersi la reggenza, se non fosse a sua volta aiutata.»

«Oh, di sicuro Sir John Conroy sarebbe lieto di poterle offrire i suoi preziosi consigli. È un uomo decisamente ambizioso» replicò Wellington con un sorriso.

Cumberland si fece scuro in volto. «Una sempliciotta tedesca e un ciarlatano irlandese: non credo che possa funzionare.»

Peel prese la parola. «Allora chi avreste in mente, signore?»

Wellington fece un passo verso Cumberland. «Oh, secondo me il duca vorrebbe che il reggente fosse scelto tra i membri della famiglia reale, non è così?»

Cumberland tirò indietro le labbra atteggiandole a una sorta di sorriso. «Avete proprio ragione, Wellington. La duchessa è la madre della regina, ma le occorrerebbe un co-reggente di sangue reale.»

Wellington annuì. «Bene, speriamo che non si arrivi a tanto. Un’altra reggenza non sarebbe un bene per la nazione.»

«Meglio una reggenza che una ragazzina isterica sul trono inglese» ribatté Cumberland cercando di nascondere il proprio disappunto.

Peel si schiarì la gola. «Non definirei isterica la regina, signore. Anzi, mi è parsa perfettamente calma.»

Cumberland volse la testa di scatto. «Ma si è comportata in modo del tutto irragionevole!»

Wellington sorrise. «A mio avviso il suo comportamento è perfettamente razionale, se ci si mette nei suoi panni. Rifiutando di sbarazzarsi delle sue dame, la regina pensa di poter riavere Melbourne al suo fianco.»

«Ma questo è anticostituzionale!» sbottò Cumberland.

«Anche sostituire una sovrana perfettamente sana di mente con un reggente lo sarebbe, esimio duca» ribatté Wellington ostentando eccessiva cortesia. Peel strinse le labbra.

«Bisogna fare qualcosa!» brontolò Cumberland, ignorando lo scherno di Wellington.

Wellington annuì. «Sì, ci occorre un Primo Ministro. La regina convocherà nuovamente Melbourne, ma mi chiedo come reagirà lui.»

«La asseconderà, non c’è dubbio. Quell’uomo è infatuato di lei» replicò Cumberland.

«Può darsi, ma Melbourne potrebbe anche rifiutarsi di diventare il suo secondo cagnolino» disse Wellington, «e quale che sia la vostra opinione sulle sue idee politiche, è un uomo che conosce i suoi doveri.»

Peel guardò Wellington e poi Cumberland. «Le sue nozioni in materia di economia politica sono alquanto lacunose, ma è un uomo dai saldi principi.»

Cumberland fissò entrambi con occhi increduli. «Doveri e principi, ma certo! Qui non stiamo parlando di un romanzo di Sir Walter Scott! Melbourne è un politico: farà ciò che più soddisfa i suoi interessi.»

Il sorriso di Wellington non vacillò. «Bene, non resta che stare a vedere. Per ora siamo nelle sue mani.»

Cumberland sembrava sul punto di sbottare in nuove invettive, ma evidentemente pensò bene di trattenersi. Dispensando a entrambi un impercettibile cenno del capo, si voltò sui tacchi e se ne andò, mentre i membri del club, come pecore impaurite, si scostavano per lasciarlo passare.

Peel si rivolse a Wellington. «Suppongo che se la regina non vuol sentire ragione… a un certo punto dovremo prendere in considerazione l’ipotesi di una reggenza.»

Wellington assottigliò le palpebre. «È possibile, naturalmente. Ma di una cosa sono sicuro: il popolo si farebbe governare da Pollicino piuttosto che vedere il duca di Cumberland sul trono. Mezza nazione pensa che abbia assassinato il suo valletto e l’altra metà crede che abbia concepito un figlio con sua sorella. La piccola Vittoria sarà giovane e stolta, ma non è certo un mostro. O almeno non ancora.»