Cinque

Vittoria aspettava Melbourne nel suo salottino privato. Aprì una delle valigette e cercò di concentrarsi sui documenti relativi alla nomina del Decano della Cattedrale di Lincoln, ma non riusciva a tenere salda l’attenzione. Chiuse il coperchio della valigetta rossa ed esaminò la sua immagine riflessa nello specchio che sovrastava il caminetto. Indossava l’abito rosa che una volta Melbourne aveva definito “grazioso”, ma osservandosi ebbe l’impressione che quel colore le rendesse il colorito giallognolo. C’era tempo per cambiarsi?

Guardò l’orologio di Boulle sulla consolle di malachite: erano quasi le undici. Se fosse andata a cambiarsi d’abito sarebbe arrivata in ritardo, e non voleva che Melbourne la aspettasse. Si pizzicò le guance e si morse le labbra, cercando di far affluire un po’ di colore al viso, ma era ancora pallida. Aveva fatto fatica a dormire, quella notte. Si chiese se Lord M l’avrebbe notato. Di solito era un ottimo osservatore.

Prima che l’orologio finisse di battere le undici, il valletto aprì la porta e fece entrare il visconte di Melbourne.

Vittoria vide subito che il suo sorriso era meno caloroso di quanto sperasse, ma cercò di non darlo a vedere quando lo accolse porgendogli la mano. «Mio caro Lord M, non immaginate quanto sia lieta di vedervi.» Cercò di assumere un’espressione di complicità. «Non credete che io abbia agito nel migliore dei modi?»

Melbourne rimase impassibile e rispose: «Avete dimostrato di avere grande intraprendenza, Maestà.»

«Sir Robert voleva che mi sbarazzassi di tutte le mie dame e le sostituissi con spie dei Conservatori.»

Con un fremito del labbro, che diede a Vittoria una certa soddisfazione, Melbourne replicò: «Peel è un fine politico e un uomo dai saldi principi, ma temo che non abbia mai compreso le esigenze del gentil sesso.»

Vittoria lo guardò fisso negli occhi, poi disse, abbassando la voce: «Mi siete mancato, Lord M.»

Lui sollevò un sopracciglio. «È passato solo un giorno e mezzo dall’ultimo nostro incontro.» Avanzò di un passo, e lei lo guardò con occhi impazienti, ma lui parlò in tono grave: «Sono venuto qui, Maestà, per dirvi che va contro i vostri stessi interessi offrirmi un ulteriore mandato come Primo Ministro.»

Vittoria dovette ripetersi quelle parole in mente prima di poterne afferrare il senso, poi proruppe, in tono sbigottito: «Contro i miei interessi? Ma è l’unica cosa al mondo che desidero!»

Melbourne chinò il capo come per ringraziarla e poi proseguì: «Mi adulate, Maestà. Ma non posso permettere che mettiate a repentaglio la posizione della Corona a causa mia.»

Vittoria si sentiva esplodere la testa. Non l’aveva neppure sfiorata la possibilità che lui potesse opporle un rifiuto dopo l’incontro con Peel. E ora le stava parlando come se fosse una bambinetta ostinata, e non la sua sovrana. Sollevando il mento, iniziò: «Non potete permetterlo, Lord Melbourne?»

«Peel aveva pieno diritto di domandarvi di apportare qualche cambiamento nel vostro entourage. Dopo tutto le vostre dame sono state accolte su mio consiglio.»

Vittoria sentì un nodo allo stomaco e il fiato le si fece corto. «Le dame sono mie amiche. Se perdo anche loro oltre a voi, non mi resterà più una sola persona amica. Sarà come quando ero a Kensington con la mamma e Sir John. Non credo potrei sopportarlo.» Sentì che le lacrime stavano per affiorarle e le ricacciò indietro mordendosi il labbro. «Sir Robert Peel non può capirlo, ma credo che voi invece dobbiate, Lord M.»

Melbourne sospirò, cercando di non perdere la compostezza del suo bel viso. Vittoria pensava fosse giunto il momento della resa, ma quando lui riprese a parlare non aveva cambiato tono. «Mi rincresce, ma se adesso accetto di formare un nuovo governo voi ne uscirete sconfitta. Gli avversari – di cui dispongo in abbondanza – diranno che vi ho manipolata per avvantaggiarmi politicamente, approfittando della vostra giovane età e impressionabilità.»

Vittoria protestò con veemenza. «Ma non è affatto vero! Io non sono un blocco di argilla che chiunque può modellare a proprio piacimento!»

Melbourne rispose in tono calmo, scegliendo accuratamente le parole. «No, non siete più una bambina, ed è per questo che dovete cercare di capire che non è così importante chi vi piace o chi non vi piace.»

Vittoria dovette tenersi a freno. Come poteva non capire che le occorreva un sostegno, non una predica sui doveri della monarchia? «Ma certo che è importante. Io sono la regina.» Mentre parlava, notò che Melbourne stava scuotendo la testa.

«Vitt…» iniziò, ma poi si corresse subito. «Vostra Maestà, capirete senz’altro quale sia qui la posta in gioco.»

«Lord Melbourne! State perdendo il senso della misura!» esclamò lei raddrizzando le spalle e chiamando a raccolta tutte le sue energie.

Ma il volto di Melbourne non cambiò espressione: sembrava scolpito nel granito. I suoi occhi sempre gentili erano impietriti, e la sua bocca dal sorriso perpetuo aveva assunto una smorfia arcigna. Vittoria si sentiva come se il cuore stesse per esploderle in petto. Si era fidata di lui completamente, e ora lui le stava rifiutando l’unica cosa al mondo che le interessasse davvero.

Alla fine lei domandò, con un filo di voce: «Non volete essere il mio Primo Ministro?»

La risposta di Melbourne non venne fuori fluida dalle sue labbra. «Non in queste circostanze, Maestà. La relazione tra la Corona e il Parlamento è sacra, e non vi permetterò di metterla a rischio.»

Prima che lei potesse ribattere, il visconte aggiunse con voce cupa: «Dovete scusarmi, Maestà» e senza attendere il suo consenso si voltò e uscì rapidamente dalla stanza.

Conroy stava dirigendosi a Palazzo dal suo alloggio in Bruton Street quando fu intercettato da un messaggero con una lettera del duca di Cumberland che lo convocava nella sua residenza. La mente duttile di Conroy cominciò a ponderare gli eventuali punti di convergenza tra gli interessi della duchessa e quelli di suo cognato, e percorse la strada verso il St James’s Palace, dove il duca alloggiava, concentrandosi sulle possibili svolte che quell’incontro avrebbe presentato. Con Melbourne fuori dai giochi e Cumberland come alleato, si aprivano numerose possibilità per lui di migliorare la propria posizione.

Cumberland lo ricevette nella Sala delle Armi, le cui pareti erano interamente rivestite di spade, elmi e armature. Mentre entrava, Conroy restò abbagliato da una scheggia di luce che, posandosi su una composizione di sciabole, si era irradiata per tutta la sala.

Cumberland era in piedi sotto una scure di argento sbalzato, e aveva l’aria di un uomo che non avrebbe battuto ciglio alla sua stessa decapitazione. Aveva appena sniffato una presa di tabacco, e stava starnutendo violentemente. Quando le esplosioni si placarono, strinse le palpebre per mettere a fuoco il suo visitatore.

«Eccovi arrivato, Conroy» disse.

Conroy percepì una nota di impazienza nella voce del duca e disse in tono mellifluo: «Sono arrivato non appena mi è pervenuto il vostro messaggio, signore. Confesso tuttavia che la vostra richiesta mi ha lasciato alquanto sorpreso. Come ben sapete, sono molto vicino alla duchessa di Kent, con la quale mi risulta non siate in buoni rapporti.»

Cumberland starnutì ancora. «Le cose sono cambiate, Conroy.» Poi, avvicinandosi al suo interlocutore, il duca aggiunse, in un sussurro degno di un attore in scena: «Sono preoccupato per mia nipote. Mi sembra che il senno l’abbia abbandonata…» Fece una pausa, poi sollevando gli occhi al cielo, terminò la frase: «… come era accaduto al mio povero padre.»

Conroy alzò lo sguardo, cercando di capire quali fossero le intenzioni del duca. La regina era di temperamento nervoso, incline all’isteria come tutte le donne di giovane età, ma mettere in dubbio le sue facoltà mentali paragonandola a re Giorgio III era un azzardo bello e buono. Poiché però quelle parole preludevano sicuramente a qualcosa d’altro, annuì con espressione grave. «Credo che abbiate ragione, signore. Ha un carattere irrequieto sin da quando era bambina. È possibile che le tensioni causate dal ruolo che riveste le abbiano confuso l’intelletto.»

«Esattamente!» Una metà della bocca del duca sorrise entusiasticamente. «Ho pensato che avreste potuto trovarvi d’accordo con me. Mio padre era solito parlare da solo e urlare senza motivo. Mia nipote adotta mai simili comportamenti?»

Conroy ricambiò il sorriso. «L’umore della regina è certamente… instabile. Prima c’è stata la questione di Lady Hastings, e ora quella delle sue dame di corte. Sapete che si è recata alla Dover House per un tête-à-tête con Lord Melbourne?»

«Una simile condotta non è appropriata per una sovrana» disse il duca scuotendo la testa. «Ovviamente nessuno vuole credere che la testa sulla quale poggia la corona sia ammalata, ma se così fosse non dobbiamo sottrarci al nostro dovere.»

Conroy fece un inchino per dichiarare il proprio assenso. «No, signore. Non dobbiamo.» Aspettò che fosse il duca a ribattere, curioso di sapere quale sarebbe stata la mossa successiva.

Il duca agitò una mano. «Suppongo che la duchessa sia assai angustiata per la figlia. Io, ovviamente, mi preoccupo per la nazione. Potremmo trovare un accordo.»

Conroy sollevò lo sguardo. «Riguardo a un’eventuale reggenza, signore?»

Cumberland annuì. «Ovviamente, essendo sua madre, è lei che merita il titolo. Ma non credo che il Parlamento desideri un’altra donna al potere, soprattutto se straniera. Se però la duchessa avesse un co-reggente di sangue reale» disse con un altro dei suoi sorrisi a metà faccia, «non credo possano esserci obiezioni.»

«Sono sicuro che la duchessa accetterebbe, signore» rispose Conroy restituendogli il sorriso.

«Ci servono prove. Voi credete che i suoi recenti comportamenti siano di per sé sufficienti, ma Wellington e Peel sono due tipi maledettamente prudenti.»

«Prove?»

«Qualche evidente manifestazione dei disordini mentali della regina.»

«Capisco, signore.»

«Bene.» Il duca estrasse nuovamente la sua tabacchiera, preparò una presa sulla mano e se la portò al naso. Tre starnuti dopo, guardò Conroy quasi stupito che fosse ancora là. «È tutto. Potete congedarvi.»

Conroy uscì dalla sala senza far rumore. L’arroganza del duca era insostenibile. Se un tempo aveva dubitato delle voci che gli attribuivano l’omicidio di un suo valletto, dopo quell’incontro il misfatto gli pareva perfettamente credibile. Lo aveva messo alla porta come si fa con un domestico, non come avrebbe meritato un alleato di inestimabile valore. Se solo si fosse trovato nella posizione di poter agire da solo… Ma Conroy sapeva che l’unica possibilità per la duchessa di ottenere il potere e l’influenza che le spettavano di diritto, e che spettavano di conseguenza anche a lui, era sottesa all’eventuale aiuto di Cumberland.

Ovviamente, qualora fossero giunti alla decisione auspicata dal duca, Conroy non avrebbe mai appoggiato la co-reggenza. La duchessa aveva già un consigliere. Ma per il momento Cumberland era l’unica persona che avrebbe potuto aprire una simile discussione. L’esercizio della logica infuse profonda calma in Conroy, e nel tempo che impiegò a percorrere il Mall e giungere agli appartamenti della duchessa, la sua serenità fu completamente ristabilita.

Trovò la duchessa che controllava i conti delle sue spese in compagnia della cameriera personale, Frau Drexler. Lo accolse con un sospiro. «Oh, Sir John! Lo sapete che la mia sarta, Madame Rachel, non intende più farmi credito? Presto sarò costretta a vestirmi di stracci. Non è giusto che la madre della regina subisca una simile umiliazione.»

L’irlandese sorrise. «Non credo dovrete preoccuparvi dei vostri conti in futuro. Ho delle notizie che potrebbero interessarvi.»

La duchessa guardò la cameriera e le fece cenno di uscire.

Conroy si sedette sul divano accanto a lei, tenendosi lievemente più vicino di come era appropriato che facesse. Ma sapeva che la sua padrona era una donna sensibile al contatto fisico: più le stava vicino, maggiore era l’influenza che esercitava su di lei.

«Sono appena stato a far visita al duca di Cumberland.»

La duchessa lo guardò stupefatta. «Cumberland! Perché mai? È il mio nemico!»

L’irlandese appoggiò la mano su quella della duchessa, fasciata da un guantino di pizzo. «Lo era in passato. Ma ora avete parecchie cose in comune, più di quanto non crediate.»

«Cosa posso mai avere in comune con quell’uomo detestabile?» replicò lei sollevando i suoi occhi acquosi.

«Il duca è preoccupato quanto noi della regina, e crede che le tensioni insite nella posizione che ricopre siano troppo forti perché la sua mente le tolleri.»

La duchessa scosse la testa. «No, nient’affatto. Drina sarà ostinata e caparbia, ma di sicuro non è pazza.»

Conroy le strinse la mano. «Non proprio pazza, ma piuttosto…» Fece una pausa per scegliere la parola più appropriata. «Sovraccarica. Il duca crede, e io sono d’accordo con lui, che avrebbe solo bisogno di un periodo di tranquillità per starsene lontana da tutto a recuperare le forze.»

La mano della duchessa tremò nonostante la salda stretta di Conroy. «Tranquillità e isolamento?»

«Esatto. Ovviamente per rendere questo possibile bisognerebbe che sia nominato un reggente che si prenda cura delle questioni di governo.»

«Una reggenza. È quello che ho sempre desiderato, per poter essere una guida per mia figlia, anziché farmi sbattere le porte in faccia. Ma non capisco come mai Cumberland sia favorevole a una soluzione del genere.»

«Lui sostiene che potreste aver bisogno di un co-reggente.»

La duchessa scosse i boccoli biondi. «No, Sir John, questo non potrà mai succedere. Non tradirei mai mia figlia per favorire quell’uomo.»

Conroy si biasimò per essere andato troppo in fretta. «L’unica persona che aiutereste sarebbe vostra figlia. Al momento rischia di perdere qualunque credibilità agli occhi del suo popolo. Un periodo di riflessione, al riparo dalla pericolosa influenza di Lord Melbourne, potrebbe esserle di grande beneficio. Ovviamente, se la reggente foste voi, quando si fosse perfettamente rimessa la riportereste sul trono. Se invece si dovesse optare per il duca…» Fece una pausa, guardandola con occhi assai eloquenti. «… Insomma, il duca desidera il trono più di ogni altra cosa al mondo, per cui dubito sarebbe disposto a restituirlo, se mai vi dovesse metter piede.»

Conroy le teneva la mano ben stretta, con le dita intrecciate. Sentendo che lei aveva bisogno di ulteriori rassicurazioni, continuò: «Una reggenza, sia pure di breve durata, sarebbe sufficiente a dimostrare a vostra figlia e all’intera nazione quali sono gli onori che vi spetterebbero in quanto Regina Madre. Otterreste il rispetto che meritate, e ovviamente tutti i vestiti che vi occorrono.»

La duchessa ritrasse la mano. «Credete che io sia disposta a questo in cambio di qualche bell’abito?»

Conroy assunse un’espressione contrita e tese la mano, quasi a supplicarla di restituirgli la sua. Dopo un lungo istante, la duchessa cedette e gli consentì nuovamente di stringerle la mano.

«Voi agireste solo per tutelare gli interessi di vostra figlia, duchessa. Ma sarebbe per me un gran piacere potervi vedere abbigliata nel modo che più si addice al vostro rango. Una donna come voi meriterebbe di apparire sempre al meglio del suo splendore.» Nel pronunciare quelle parole, si portò alle labbra la mano guantata e la baciò.

La duchessa si lasciò sfuggire un profondo sospiro. «Devo parlarne con Drina. Deve sapere cosa rischia se non si comporta in modo ragionevole.»

La voce dell’irlandese era bassa e tradiva una certa urgenza. «Con rispetto parlando, duchessa, non dovreste menzionare il nostro piano a vostra figlia. Credo che non capirebbe che il fine che anima le nostre azioni è del tutto disinteressato, e potrebbe risentirsene. Molto meglio non rivelarle niente e prepararci ad agire, nel caso dovesse manifestarsi qualche altro segno di instabilità mentale.»

La duchessa si alzò e lui la seguì immediatamente. «Non mi fido di Cumberland, Sir John.»

Conroy, ritto dinanzi a lei, la afferrò per i gomiti. «No, duchessa, neppure io. Ma penso sia meglio operare in accordo con lui anziché lasciarlo agire da solo. È l’unico modo che abbiamo per tutelare gli interessi della regina.»

La duchessa lo guardò, con il volto velato da una nube di indecisione. Lui non cedette. «Voglio sentirvi dire, duchessa, che siete d’accordo con me.»

Aspettò che lei annuisse prima di allentare la presa sui gomiti. Con voce tremante, la duchessa concluse: «La proteggeremo insieme.»

Sicuro di aver ottenuto il consenso cui aspirava, Conroy le fece un profondo inchino prima di congedarsi. Una volta fuori dagli appartamenti della duchessa, si soffermò brevemente presso una colonna di marmo e vi appoggiò la fronte per dare sollievo al fuoco che sentiva avvampare dentro di sé.