Nove

Sul molo di Ostenda due giovanotti rabbrividivano sferzati dal pungente vento novembrino. Erano entrambi alti e di bell’aspetto, e c’era un’evidente rassomiglianza nella forma della loro fronte e nella curvatura delle labbra, ma mentre uno dei due aveva le spalle larghe e le movenze spavalde tipiche del soldato, l’altro – benché lievemente più alto – non aveva neppure la parvenza della noncurante libertà del fratello: si muoveva con circospezione, come se volesse calcolare lo sforzo che gli richiedeva ogni passo. Guardò verso il mare grosso con apprensione e si voltò verso il fratello dicendogli: «Il mare è troppo agitato, probabilmente non riusciremo a imbarcarci oggi.»

Suo fratello gli batté la spalla. «Sciocchezze, Alberto. Le navi postali per l’Inghilterra viaggiano in condizioni assai peggiori di queste.» Poi scrutò attentamente il volto pallido del fratello e aggiunse: «Ti sentirai meglio quando sarai là, lo sai bene. Quali sono quei versi di Shakespeare che mi citi sempre… “C’è sempre un flusso della marea negli affari degli uomini…”»

«… “che bisogna seguire al momento giusto.”» Alberto finì la citazione, come suo fratello era certo che avrebbe fatto. «Non so se questo è il giusto destino per me, Ernesto. Vittoria non è una donna seria. Le interessano solo i balli e i gelati. Dubito che potremo andare d’accordo.»

Ernesto sorrise. «Allora è una ragazza che ama godersi la vita. Credo che sia una qualità apprezzabile. Se è un po’ pazzerella sarà anche divertente. E poi Vittoria è affascinante, piccolina e…» Non finì la frase, ma fece un gesto delle mani che simulava delle generose curve femminili.

Alberto lo guardò. «Perché non la sposi tu, allora?»

«Lo zio Leopoldo non ne sarebbe contento.» Ernesto imbronciò le labbra ottenendo un’imitazione convincente del re del Belgio. «“È destino che Alberto sposi Vittoria.”»

«E se invece lei non pensa che sia suo destino sposare me? Non mi pareva di aver fatto colpo su di lei, l’ultima volta che ci siamo visti.»

Ernesto esaminò suo fratello dalla testa ai piedi, soffermandosi sugli occhi blu, sul suo nobile profilo e sulle lunghe gambe con gli stivali profilati di rosso, e gli lanciò un’occhiata di scherzosa approvazione.

«Sei cambiato parecchio negli ultimi tre anni, Alberto. Tu non te ne accorgi, ma tutte le ragazze di Coburgo ti guardano in un modo da far venire invidia a chiunque, se non sapessi per certo che sei la persona più seria dell’intero mondo cristiano. Sarà pure una regina, ma è una giovinetta di diciannove anni, e sarà entusiasta di te quando ti vedrà.»

«Non voglio essere sottoposto alla sua approvazione, come se fossi una statua di cera.»

«Oh, non essere così suscettibile. Vuoi passare il resto dei tuoi giorni a Coburgo a guardarmi mentre mi comporto male, oppure vuoi diventare re d’Inghilterra?»

Alberto scosse la testa. «Anche se la sposassi, sarei solo il marito della regina d’Inghilterra.»

Ernesto si strinse nelle spalle. «Insomma, se ti presenti con una faccia come quella non sposerai proprio nessuna. Ricordati, Alberto, che le donne amano essere corteggiate, non vogliono ascoltare delle conferenze. Quando la vedi devi sorridere e farle dei complimenti. Ci sarà molto tempo per raccontarle le glorie dell’architettura italiana e le meraviglie dei sistemi di drenaggio dei Babilonesi, quando sarete in luna di miele.»

Alberto scosse ancora la testa. «Ma non posso essere una persona che non sono, Ernesto. Non posso fingere.»

Ernesto levò le braccia al cielo fingendo un gesto di disperazione. «Allora, mio caro fratello, suggerisco che ce ne torniamo a Coburgo e che tu sposi Frau Muller, la vedova del sindaco, che possiede un’eccellente biblioteca e uno stagno ricco di carpe. Leggere e pescare, cos’altro mai potrebbe desiderare un uomo? So che le piaci molto, e le vedove… ecco…»

Alberto guardò il mare grigio. «È tutto semplice per te, Ernesto. Ma per me non lo è.»

Ernesto mise una mano sulla spalla del fratello e disse, cambiando tono: «Sei un uomo di grande valore. Vittoria sarà fortunata ad averti come marito. Non dev’essere facile affrontare simili responsabilità quando si è così giovani. Ha proprio bisogno di uno come te che la aiuti.»

Alberto lo guardò e sorrise per la prima volta. Ernesto pensò che la cugina, per quanto testarda potesse essere diventata, non avrebbe resistito al sorriso di suo fratello. Benché gli affiorasse di rado alle labbra, quel sorriso conferiva al volto di Alberto una radiosità infantile che dava la sensazione, a chi lo riceveva, che fosse spuntato il sole. Se solo Alberto avesse avuto la possibilità di sorridere a Vittoria, tutto sarebbe andato a meraviglia.

Un’onda poderosa si abbatté contro il molo, schizzando spuma sui loro volti. Alberto si asciugò guardando i traghetti che dondolavano pericolosamente sul mare agitato. «Per prima cosa dobbiamo arrivarci» disse.

A Buckingham Palace Vittoria si stava dilettando, mentre aspettava Melbourne per l’incontro del mattino, a copiare uno dei ritratti di Elisabetta appeso nella Quadreria. La Regina Vergine appariva in quel ritratto più giovane di com’era nella miniatura che le aveva regalato Lehzen. Più giovane, e più vulnerabile. Se fosse stata in lei, pensò Vittoria, non avrebbe mai esposto un simile ritratto: il quadro rendeva visibile la donna che si celava sotto la scorza di “Gloriana”. Era possibile, si chiese mentre dipingeva i boccoli color ruggine della regina Tudor, essere tutte e due le cose? Si poteva essere al tempo stesso una donna e una monarca? Nessuna delle regine che l’avevano preceduta aveva mai dato vita a una famiglia. Maria Tudor si era sposata troppo tardi e non aveva messo al mondo figli; Elisabetta non aveva preso marito; e le regine Stuart – Maria e Anna – si erano entrambe sposate ma nessuna delle due era riuscita a dare alla luce un erede che fosse sopravvissuto a loro stesse. Maria di Scozia si era sposata tre volte e aveva avuto un figlio, ma il suo regno era terminato nel più disastroso dei modi. Vittoria non aveva una conoscenza capillare della storia, ma da quello che ne sapeva l’unica regina d’Europa che era riuscita a essere anche madre e moglie era stata Isabella di Castiglia; e naturalmente aveva sposato il re della porta accanto. Sebbene Vittoria fosse stata tentata di incoraggiare le avances del granduca, l’idea di governare congiuntamente l’Inghilterra e la Russia era geograficamente impossibile.

No, se passava in rassegna le sovrane del passato, l’unica realmente apprezzata era stata Elisabetta, che aveva governato da sola. Naturalmente Carlotta, la defunta cugina la cui morte aveva reso possibile la sua stessa esistenza, aveva sposato lo zio Leopoldo, ma era stato proprio il matrimonio a ucciderla. Il matrimonio era una faccenda pericolosa.

Vittoria cominciò a dipingere le perle del corsetto di Elisabetta. Aveva deciso di serbare per un altro momento la gorgiera, il cui merletto complicato sembrava assai difficile da copiare. In quell’istante, però, sentì un colpo di tosse e vide Melbourne in piedi alle sue spalle. «Immagino vi giunga gradita la notizia che i Cartisti di Newport sono in viaggio verso l’Australia, Maestà.»

«Ne sono felice, Lord M.»

Melbourne girò attorno a una sedia posta dietro di lei e Vittoria gli fece cenno di accomodarsi. «Anche se non è detto che quei disgraziati vi saranno mai grati di averli spediti laggiù.»

«Le loro famiglie saranno senz’altro contente» disse Vittoria.

«Può darsi» replicò lui. Poi, rendendosi conto del proprio ingiustificato cinismo, il visconte passò a esaminare accuratamente lo schizzo di Vittoria. «Elisabetta è diventata la vostra favorita, mi pare.»

Lei lo guardò prima di rispondere. «Ho deciso di seguire il suo esempio e di regnare da sola.» Inclinò lievemente la testa, sorridendo. «Magari avrò dei compagni.» Se Elisabetta aveva potuto avere Leicester, di sicuro lei avrebbe avuto Melbourne.

Lui non ricambiò il sorriso. «Dite sul serio, Maestà? L’avete comunicato ai vostri cugini di Coburgo? Saranno qui da un momento all’altro.»

Vittoria si alzò, brandendo il pennello come fosse una spada. «I miei cugini Alberto ed Ernesto? Ma io non li ho invitati.»

Il visconte schivò il pennello. «Tuttavia sono in arrivo.»

«Deve averli mandati a chiamare lo zio Leopoldo, contro la mia volontà» disse lei cominciando a passeggiare nervosamente avanti e indietro. «Ma perché non vuole capirlo che sono felice così?»

Guardò Melbourne per trovare conferma alle sue parole, ma lui distolse lo sguardo. «Io non sarò il vostro Primo Ministro per sempre, Maestà.»

Vittoria si fermò davanti a lui, costringendolo a guardarla. «Non dite così, Lord M.»

Lui la fissò in quei suoi occhi azzurri sdegnati. «È la verità. Se non mi elimineranno i Conservatori, lo faranno i miei acciacchi.»

Vittoria rise, sollevata dal fatto che avesse ripreso a scherzare. «Ma quali acciacchi! L’avete sempre detto, le malattie sono fatte per le persone che non hanno niente di meglio da fare.»

Melbourne non si unì a lei nella risata, ma scosse la testa e disse: «Lasciate che i Coburgo vengano, Maestà. Forse il principe Alberto vi sorprenderà.»

Lei lo guardò esterrefatta. Non era la risposta che si aspettava. «Non avevate detto che i miei sudditi non approverebbero un marito tedesco?»

Un muscolo si contrasse all’angolo della bocca di Melbourne. «Sono certo che i tedeschi siano mariti esemplari.»

Vittoria si sedette di scatto, e con un filo di voce ribatté: «Io non voglio che le cose cambino.»

Il Primo Ministro la guardò con un’espressione severa. «Lo so, Maestà. Ma credo che non potrete essere felice da sola, neppure se avrete dei “compagni”. Avete bisogno di un marito che possa amarvi e apprezzarvi.»

Nel dirle quelle parole, Melbourne le sfiorò lievemente una spalla. Vittoria rabbrividì quando ebbe la percezione del rapido contatto. «Non c’è nessuno che mi interessi» protestò lei, anche se i suoi occhi esprimevano emozioni differenti.

«Perdonatemi, Maestà, ma credo che non abbiate cercato a sufficienza» disse lui in tono ironico.

Vittoria si coprì gli occhi con le mani, come a voler evitare di guardare dinanzi a sé. Poi fece un profondo sospiro e disse: «Ero così felice… prima.»

«La felicità può essere sempre ricordata nei momenti di tranquillità.»

Vittoria si scostò le mani dal viso e lo guardò, cercando i suoi occhi. «Anche voi eravate felice?»

Quando Melbourne parlò, non lo fece con la sua voce cordiale da Primo Ministro, bensì con quella di un uomo di età avanzata che sta affrontando la perdita dell’unica cosa che era in grado di procurargli gioia. «Sapete bene che lo ero.»

Il silenzio che seguì era denso di tutti i loro sentimenti inespressi. Melbourne vide che il labbro di Vittoria stava tremando, e dovette stringere i pugni per costringersi a non prenderla tra le braccia. Se in quel momento lei si fosse messa a piangere, lui non sarebbe riuscito a resistere alla tentazione di non asciugare quelle lacrime con i suoi baci. Si affondò le unghie nei palmi e disse a se stesso che l’unico modo in cui avrebbe potuto servire la sua regina sarebbe stato trovarle un marito che potesse renderla felice.

Con un sorriso coraggioso che per poco non spezzò il cuore a Melbourne, Vittoria sollevò il mento e disse: «Io non mi sposerò soltanto per compiacervi, Lord M.»

Il Primo Ministro tentò di ricambiare il suo sorriso. «No davvero, Maestà. Dovete compiacere solo voi stessa.»

Poi le prese la mano, la sua piccola e bianca mano, e la baciò.