Ci saranno solo posti in piedi, pensò Melbourne mentre guardava la folla dei consiglieri privati radunarsi nel salone rosso di Kensington Palace. Vide la figura imponente e grifagna del duca di Wellington e il suo robusto compare Robert Peel, capo dei Conservatori, che sgomitavano contendendosi lo spazio con l’arcivescovo di Canterbury. Solo il duca di Cumberland riusciva a ottenere che fossero gli altri rappresentanti del Consiglio ad aprire un varco per lui. La cicatrice sulla guancia destra del duca appariva particolarmente livida quella mattina, forse per via del risentimento che covava. Il Primo Ministro era certo che Cumberland non fosse affatto entusiasta di quella legge di successione che metteva sul trono la nipote diciottenne anziché lui stesso. Hannover, posto a detta di tutti assai tetro e noioso, non valeva granché come premio di consolazione.
Si chiedeva se la regina avrebbe utilizzato il discorso che aveva formulato per lei. Era stata categorica, durante il loro incontro, rispetto al fatto che non voleva alcuna assistenza. Ma durante il tragitto verso casa il visconte aveva deciso che anche se non aveva chiesto aiuto era suo preciso dovere offrirglielo. C’era qualcosa di ammirevole nel suo spirito. Non si aspettava che avesse una personalità così definita. Gli ricordava, in quel suo profilo così nitido, quasi tangibile, la compianta consorte, Caroline. Anche lei aveva diciott’anni quando la conobbe.
Notò un cambio di ritmo nei mormorii che si diffondevano tutt’attorno: da un brontolio di autocompiacimento si passò a un bisbiglio carico di attesa. Melbourne si voltò e vide dall’altro capo della sala che le porte si stavano aprendo. In fondo, incorniciata dal rettangolo della porta, apparve la figura minuta della regina. Un sospiro collettivo invase il salone rosso. Sebbene tutti i presenti fossero lì proprio per incontrare la loro nuova regina, era tuttavia uno spettacolo ancora innaturale vedere una donna, e per giunta così giovane ed esile, occupare il posto che fino a quel momento era appartenuto a una sfilza di uomini anziani e sempre più corpulenti.
Vittoria udì quel sospiro, e si portò immediatamente la mano alla tasca della gonna per verificare che il discorso fosse ancora lì. Guardando quel mare di volti dinanzi a sé, si rese conto di non essersi mai trovata in una stanza insieme a così tanti uomini. Era una cosa assai singolare, ma doveva farci l’abitudine. Tuttavia, ebbe come la sensazione di attraversare una foresta piena di alberi dal tronco nero e dalle foglie d’argento.
Procedette lentamente fino alla piccola pedana che era stata allestita per lei. Non era molto alta, ma in quel modo avrebbe raggiunto la stessa statura dei presenti. Perlustrando la sala con lo sguardo, Vittoria notò che la maggior parte delle persone lì riunite erano a lei sconosciute. Riconobbe solo il volto accigliato dell’arcivescovo e il ghigno contorto di suo zio, e subito dopo abbassò lo sguardo al suolo.
Dopo un profondo respiro, Vittoria estrasse dalla tasca il discorso e cominciò a leggere: «Miei Lord spirituali e temporali, è per me un sommo onore avere ricevuto l’ufficio che mi sottopone alla vostra presenza…»
«Alzate la voce, Maestà. Non vi sento!» Suo zio Cumberland s’era portato una mano all’orecchio per mimare una presunta sordità. Quando scorse il suo volto malevolo, Vittoria sentì una contrazione allo stomaco. Cercò di riprendere il discorso, ma dalla sua bocca non usciva alcun suono. Deglutì e chiuse gli occhi. Quando li riaprì, vide Lord Melbourne che le faceva un piccolo cenno di incoraggiamento con il capo, come a volerla incitare a proseguire.
Vittoria tornò a guardare il foglio. Aveva imparato il discorso a memoria, ma la rassicurava l’idea di avere davanti a sé qualcosa di scritto. Poi riprese a parlare. «Alcuni di voi potranno pensare che il mio sesso mi renda inadeguata alle responsabilità che dovrò affrontare, ma sono qui al vostro cospetto per assicurarvi che dedicherò la mia intera vita al servizio della nazione.»
Guardò nuovamente Melbourne, che replicò con un sorriso: aveva riconosciuto le parole che lui stesso le aveva suggerito. Incoraggiata da quel sorriso, Vittoria continuò, e sentì che l’atmosfera della sala, da ostile e turbolenta che era, si stava facendo più benevola. Non opponevano resistenza. Sembrava che stessero davvero ascoltando il suo discorso.
«Possa Dio Onnipotente avere misericordia di me e del mio popolo.» Quando ebbe finito, Vittoria si sedette sul trono provvisorio, che in realtà era solo una poltrona alquanto scomoda proveniente dagli appartamenti di sua madre. I membri del Consiglio della Corona si disposero lungo una linea ordinata e sfilarono davanti a lei per giurarle fedeltà.
Con suo grande sollievo, Melbourne fu il primo. Mentre si inginocchiava in una formale riverenza, gli bisbigliò: «Vi ringrazio per la lettera, Lord Melbourne.»
Lui rispose con uno sguardo. Il Primo Ministro era un uomo straordinariamente attraente, pensò Vittoria, considerato che era vecchio abbastanza da poter essere suo padre. «Sono lieto che l’abbiate trovata utile, Maestà.»
Si fece da parte, e fu rimpiazzato da un consigliere anziano, mai visto prima, che a giudicare dalle chiazze sul viso doveva indulgere senza parsimonia al vino rosso. Si inchinò a fatica e le baciò la mano con un entusiasmo alquanto sgradevole. Vittoria si aspettava che si spostasse, ma lui restava là, vacillando per via della posizione scomoda e precaria.
A quel punto la regina capì con sgomento che stava aspettando che lei lo salutasse per nome. Chiaramente quell’uomo si sentiva abbastanza importante da dover essere riconosciuto dalla sua nuova sovrana. Nella sala cominciò a diffondersi un mormorio. Vittoria sentì il sangue affluirle alle guance: non poteva certo chiedere a quell’uomo chi fosse, peggiorando ulteriormente la situazione. Ma in quell’istante, con stupore e sollievo, sentì una voce bisbigliarle in un orecchio: «Visconte di Falkland, Maestà.»
«Visconte di Falkland» ripeté, l’uomo si rimise in piedi e con passo malfermo si ritirò. Vittoria lanciò un’occhiata a Melbourne, che ora era in piedi al suo fianco. Una vera fortuna che avesse intuito il suo imbarazzo. Fallire così visibilmente alla prima uscita pubblica sarebbe stato assai indecoroso.
I consiglieri continuarono a sfilare dinanzi a lei e a baciarle la mano, con Melbourne che si chinava a bisbigliarle i nomi all’orecchio quando capiva che aveva bisogno di un suggerimento. Si domandò come avesse fatto lo zio Guglielmo, che a stento ricordava come si chiamasse la moglie, a cavarsela in una tale prodezza. Forse, pensò, nessuno lo avrebbe messo in croce se avesse dimenticato un nome. Ma con lei non avrebbero dimostrato la stessa indulgenza.
«Credo che per questo consigliere non vi occorra una presentazione, Maestà.» La coda stava giungendo al termine, e Vittoria si trovò ad affrontare suo zio, il duca di Cumberland. In un primo momento il duca non tentò in alcun modo di dissimulare il proprio disprezzo, ma poi si chinò su un ginocchio calibrando accuratamente il suo gesto e prese la mano protesa della regina come se fosse d’una materia incandescente. Borbottò tra i denti le parole «Vostra Maestà» come se facesse troppa fatica ad articolarle.
Vittoria ritirò la mano e si costrinse a guardare lo zio dritto negli occhi. «Anch’io devo congratularmi con voi, caro zio. Quando partirete per il vostro nuovo regno?»
Cumberland agitò la mano come a voler scacciare quella imminente realtà. «Non ho fretta. Il mio primo dovere è nei confronti del trono britannico.»
Nella sua voce c’era un’inequivocabile nota di minaccia. Melbourne sembrava irrequieto.
«Sono certa che il popolo di Hannover si rattristerebbe a sentirvi dire questo» replicò Vittoria nel tono più caustico che le riuscisse di assumere.
La palpebra sfregiata di Cumberland si chiuse per metà. «Dovranno prepararsi all’attesa. Ci sono ancora tante cose di cui devo occuparmi qui in Inghilterra.»
Mentre Vittoria rifletteva sul modo migliore per ribattere a quella frase, la voce di Melbourne la ammonì: «Maestà, è da stamane che la folla è radunata, a dispetto del tempo inclemente. Credo che sia giunto il momento di leggere il proclama.»
Vittoria si alzò in piedi e, senza staccare gli occhi di dosso a Cumberland, disse: «Certamente. Non voglio che il mio popolo resti in attesa.» Fu il duca a dover distogliere lo sguardo per primo.
I membri del Consiglio aprirono un varco per lasciarla passare, e Vittoria, seguita da Melbourne, fece per uscire sul balcone centrale del palazzo. Il boato della folla le fece quasi venir voglia di arretrare verso la sala. Il Lord Ciambellano era in piedi al suo fianco con il proclama che l’avrebbe dichiarata regina d’Inghilterra al cospetto della popolazione. Melbourne era poco dietro di lei.
Mentre il Lord Ciambellano si preparava all’annuncio ufficiale, lei si voltò verso Melbourne. Doveva consultarlo su una questione della massima importanza, e lui avrebbe sicuramente capito. «Sul proclama vengo chiamata “Alexandrina Victoria”, suppongo.»
«Sì, Maestà.»
«Da ora in poi voglio essere chiamata solo Vittoria.»
Melbourne annuì.
«Vittoria» ripeté lentamente il visconte come se stesse assaporando per la prima volta il suono rotondo di quel nome. «La regina Vittoria.» E sorrise.
Varcando la soglia del balcone, Vittoria udì il fragore della folla che si faceva sempre più rimbombante, e finalmente una donna gridò: «Dio salvi la regina!»
Vittoria passò in rassegna con lo sguardo quelle innumerevoli facce sollevate e salutò i suoi sudditi con un gesto della mano.