Devo dire – o meglio, voglio pensare – che a scuola, fosse stato per me, Mirko lo avrei anche lasciato stare. Ma prendersela con lui era il timbro sul passaporto, era il visto per entrare nel mondo che conta. E tra lui e me ho scelto me. Niente di personale.
«Insomma, quella tragedia ha rovinato la nostra vita e ha salvato quella di Mirko. Può consolarci il fatto che, a quanto pare, per una volta la giustizia ha trionfato…» sussurra Margherita, seduta vicino a me.
Stavo bene con lei da ragazzo. Con lei riuscivo sempre a spiegarmi, anche se aveva fama di essere spietata. L’ammiravo profondamente, e a un certo punto qualcosa in più. Lei che aveva i tatuaggi e i piercing quando ancora non erano di moda, con i capelli corti e quegli occhi azzurri, acuti, che sembrava sarebbero potuti diventare dolci da un momento all’altro e non lo diventavano mai, non del tutto. Le ero in qualche misura grato del fatto che lei, una vera leader, si acconciasse a parlare con me. Provo ancora la stessa sensazione.
«Sai cosa mi ricordo dei giorni dopo quella notte?» le chiedo coprendomi la bocca con la mano. «Ricordo lo smarrimento.»
«In che senso?»
«L’idea che il mio solito modo di fare potesse non essere vincente. Che vessare il più debole non fosse la scorciatoia per il successo, ma anzi l’anticamera dell’incubo. Il dubbio che fosse vero quello che dicevano i genitori. Vero quello che dicevano i professori. Vero quello che dicevano i compagni di classe più sfigati: bisognava rispettare il più debole, o addirittura aiutarlo.»
«Capisco cosa vuoi dire» annuisce.
Chissà se senza parlarci abbiamo pensato tutti la stessa cosa. Chissà se abbiamo tutti pensato che noi non eravamo meglio degli altri, eravamo peggio. Il contrario del mondo che ci eravamo costruiti.
No, Silvia non ha l’aria di aver mai pensato una cosa del genere, ad esempio.
«E il bello è che ancora non ho trovato un piano alternativo» mormoro ancora.
«Cioè?»
«La domanda è: se non abbassi gli altri, come innalzi te stesso?»
«Forse volete condividere anche con gli altri le vostre riflessioni?» Eccola, la signora Elena, come un falco sulla preda.
La stessa identica frase che ti dicevano i professori quando ti beccavano a chiacchierare mentre spiegavano. Ha un suono molto ironico, in questo scantinato bianco. Ed è inquietante che mi faccia provare istantaneamente la stessa, identica sensazione di allora. Essere colto in fallo. Impreparato.
Sono un professionista cinquantenne ma è così, non posso farci niente. Anni di vita azzerati. Come la mia salivazione. Guardo la signora Elena e mi sento incapace di parlare, proprio come allora.
Margherita mi lancia uno sguardo di sbieco un po’ intenerito e poi si getta nella breccia.
«Sa, signora Elena? Io faccio volontariato» dice, e gli altri tre si voltano a guardarla come se avesse detto “sono di Marte”. «La sera del sabato, dopo cena, vado in un ospedale. E cerco di aiutare più vite possibile.»
Questa proprio non me l’aspettavo. Margherita la corsara, la vecchia Margherita, avrebbe votato per abbattere il ferito.
«Vai con tua figlia?» le chiede, di tutte le domande che potrebbe farle, la signora. Chissà come fa a sapere che ha una figlia.
«Lei neanche si accorge che esco. Ormai ha sedici anni, sta per conto suo, come ci stavamo noi.»
«Fai una cosa ammirevole» annuisce la signora, ma ha l’aria di non crederci poi molto. «Quindi stavate parlando di volontariato? Ne fa anche lei, avvocato?»
Per carità. Di malati, disabili e sventurati ne ho incrociati molti, in vita mia, come tutti, ma di certo non mi sono dedicato a loro per espiare la colpa, come Margherita. Non sono un superuomo, mi limito a non prenderli in giro. E fino a ieri mi sentivo già abbastanza virtuoso così.
«Manca il tempo, signora…» dico in tono di scusa. «Se dovessi elencare le cose che non faccio perché manca il tempo…»
«Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo» interviene Margherita, e ho l’impressione che voglia di nuovo cavarmi dagli impicci. «Vi ricordate?» punta lo sguardo sugli altri, che la fissano vacui.
Lucio, tanto per cambiare, fa un sorrisetto saccente ma mi sa che la citazione sfugge pure a lui.
«A dir la verità no. Cos’è?» Tanto sono l’unico che lo ammetterà.
«Montale.»
«Ah, certo. Montale» ripeto vacuo. Adesso quei suoi occhi azzurri sono dolci davvero. Ci guardo dentro ed è come se ci fossimo all’improvviso solo lei e io. Abbasso di nuovo la voce: «Sai la verità, Marghe? Ho sempre sperato che nella vita si potesse non fare troppa fatica. Ho sempre sperato che nelle categorie già esistenti ci fosse posto anche per me».
«Capitani coraggiosi!» sfotte Lucio. Le conversazioni private non sono un’opzione, l’ho capito, ma il commento poteva anche risparmiarselo.
«Anche all’epoca ho fatto quel che serviva per rimanere nel nostro gruppo» abbozzo. Non mi riferisco a quella notte, ma ora mi rendo conto che la frase può sembrare un po’ minacciosa. Mi affretto ad allargare il discorso: «E dopo ho continuato a entrare in altri gruppi facendo anche lì quello che serviva, tutto qua. Mi vedi, no?».
«Sì. Sei uguale» dice Lucio con un filo di invidia malissimo nascosta, che mi gratifica più di quanto sarebbe logico.
«Già.» Sorrido. «Sono alto e robusto, sono elegante e faccio sport. Un fisico così andava usato, e infatti mi sono iscritto a un club di canottaggio sul Tevere.»
«Allora hai fatto i soldi» interviene Germano, ossessionato.
«No» mi ricompongo e la butto sullo scherzo, tanto non possono sapere che sto per dire la verità. «Ho una vita al disopra delle mie possibilità economiche, grazie a diversi mutui che ho potuto accendere sulle proprietà di mia moglie.»
«Un borghese piccolo piccolo» commenta Lucio, per riguadagnare terreno. È sempre intelligente come una volta e lo sa che ne ha perso. Ma non siamo più al liceo e posso ribattere anche se la citazione non l’ho capita.
«A te nella borghesia non ti ci vogliono. Serve uno stipendio.»
Lucio sobbalza, credo di non aver mai ribattuto in vita mia ai suoi sfoggi di cultura. Silvia si fa una risatina – vittoria! – ma mi rendo conto che nel profondo cominciamo a cedere, l’unità del nostro gruppo (sempre che sia mai stata più di un’illusione) mostra le prime crepe. Ce la prenderemo l’uno con l’altro finché qualcuno tradirà tutti gli altri per salvarsi?
Quindi basta frecciatine. Devo mantenere il sangue freddo. Torno a rivolgermi a Margherita.
«So come si entra nei gruppi, tutto qua.» Se anche avessi avuto altre potenzialità, quella notte me le ha stroncate, penso.
Margherita mi guarda. Non sa che dire e sta zitta. Mi sembra che non riesca a reggere la situazione.
«E come si entra nei gruppi, avvocato?» chiede la signora Elena, e la sua voce è uno schiaffo. «Forse prendendosela con il più debole?»
La questione è drammaticamente seria.