E alla fine è scoppiato pure il temporale. Sentiamo l’acqua battere forte sulle tapparelle blindate, che se possibile aumentano il chiasso di quello che sembra un vero e proprio uragano. Siamo tornati giù, nel seminterrato, per sottrarci al baccano, e per avere almeno un po’ di luce naturale: qui le finestre sono solo feritoie in alto, che danno sulla ghiaia del cortile, e hanno le sbarre, non è calata alcuna serranda. Tanto, ormai, bianco sopra, bianco sotto, anche per me fa lo stesso.
A quanto dice la signora Elena, il meccanismo di chiusura è stato predisposto direttamente dalla Digos. Mirko è diventato una persona importante, ce lo ha spiegato, e lavora per il governo. Normale che il suo ufficio abbia un sistema di sicurezza sofisticato.
La chiusura scatta automaticamente se l’allarme viene attivato da un tentativo di effrazione esterna, oppure se viene premuto uno dei due interruttori, uno interno (quello schiacciato dal preside) uno esterno (quello che speriamo azioni prima o poi qualcuno in possesso del codice). Se la chiusura scatta in automatico arriva la Digos, se è stata attivata manualmente, no, perché in quel caso è come chiudere la porta di casa. La attiva Mirko quando vanno via per le vacanze o per i weekend. Chiude tutto come in un caveau e se ne va.
«Non avrei mai pensato che qualcuno avrebbe premuto quel tasto, così nascosto…» bada a ripetere la signora Elena. «Ma di sicuro a breve arriverà Oliviero… E poi ora Mirko dovrebbe essere già sulla strada di casa.»
Quindi anche la parte lesa parteciperà al dibattimento, a breve. Sempre che in realtà Mirko non sia morto in questi trent’anni. E poi da dove arriverebbe? E con che mezzi? Ma non stava sempre chiuso qua dentro al sicuro dal mondo? O gira con uno di quei macchinoni che possono guidare i disabili? Penso a Mirko: poche ore fa lo immaginavo un vegetale, ora lo immagino che scorrazza in Suv per la Val di Chiana. E capisco che devo mettere in pausa il cervello. Rischio di perdere completamente lucidità.
Di certo la vecchia ha ragione. Stavolta è inutile essere in maggioranza: possiamo anche sopraffarla ma non riusciremmo ad andare via. Meglio mettersi seduti e pensare.
Il gioco è chiaro. Non esiste nessun documento da leggere. A quanto pare, in questa casa dovrà emergere la vera storia di quanto è successo quella notte, e nient’altro. Dopo che sarà uscita lei, forse, usciremo noi. E con la verità in tasca, Mirko non dovrà nemmeno temere la denuncia per sequestro di persona, perché a quel punto avremmo da perdere molto più di loro.
Sempre che sia Mirko a condurre il gioco, e non questa vecchia pazza che adesso ci sta presentando la nostra professoressa di lettere. Trent’anni dopo il giorno che ce la portò in classe quell’altro vecchio pazzo che adesso si è seduto sulla panca bianca e batte ritmicamente il bastone per terra, facendolo passare ora al di sopra del piede destro, ora al di sopra del sinistro.
A che starà pensando? Sarà disperato perché ci ha chiuso dentro o sarà soddisfatto perché ha svolto bene il suo compito? Non so neanche se sta pensando a qualcosa, a dire la verità. Dall’espressione non si direbbe.
Neanch’io so più a cosa pensare.
«Comunque è finita» mi ha sussurrato Silvia mentre scendevamo le scale. «La Fratocchi sa tutto.»
«Ma che dici?»
«Sa tutto» ha ripetuto, ed è tornata a occupare il suo posto nel semicerchio di sedie.
Fuori il diluvio è impressionante. Torrenziale, sembra di essere ai tropici. Le finestre sono chiuse ma la condensa sta accumulando piccole gocce d’acqua anche all’interno, mi ritrovo a fissarle ipnotizzato.
Forse vogliono farci impazzire. In questo caso, il più avvantaggiato è Germano, che un cervello da giocarsi non ce l’ha in partenza. Mi accorgo che sta fissando la Fratocchi come se fosse il messia e mi ricordo solo ora che lei, a un certo punto, aveva cercato di redimerlo.
Se adesso ha qualcosa più di sessant’anni, la prof all’epoca doveva averne trenta, trentacinque. Più giovane di me adesso, incredibile.
Me la ricordo come una donna intelligente. A noi insegnava italiano e latino, all’università credo fosse assistente di un filosofo. Era, come dicono gli studenti, severa ma giusta (come se le due cose fossero in contraddizione: in realtà esiste una qualità senza l’altra?). Era autorevole. La stavamo a sentire perché ci conosceva bene. Non come studenti, ma come esseri umani.
Stravedeva per Margherita, perché ne apprezzava quella che chiamava “intelligenza emotiva”, superiore alla norma. Da questo giudizio probabilmente traeva beneficio anche Silvia, che dalla sua compagna di banco non si staccava mai; se pensava qualcosa di me, immagino fosse un apprezzamento generico, perché a mio modo ero serio e volenteroso. Ma la cosa più incredibile è che era riuscita a stabilire un rapporto quasi umano con Germano.
Era veramente difficile prendersi a cuore il Kapo. Il suo comportamento non aveva neanche scusanti classiche, di tipo sociale, del genere famiglia divisa o padre ubriacone. I suoi credo avessero un negozio, e lui aveva una normalissima casa in cui tornare. Pare gli fosse morto in un incidente un cugino al quale teneva tantissimo, ma il fatto era che la sua vita era girata così, punto e basta. Era finito in comitive detestabili, non aveva un quoziente intellettivo abbastanza alto da difendersene, e ora il mondo si divideva tra chi lo seguiva in modo acritico e chi in modo altrettanto acritico lo temeva. La peggiore delle situazioni possibili.
La Fratocchi invece no, lei non apparteneva a nessuna delle due categorie.
Il suo indiscutibile carisma le permetteva di avere a che fare con il Kapo in maniera diversa dagli altri docenti. Lei non lo trattava come un caso irrecuperabile, gli parlava in maniera chiara, gli spiegava i brutti voti e pretendeva da lui un comportamento diverso, come se davvero lui potesse comportarsi in maniera diversa. Lui forse vedeva nel suo atteggiamento un germe di ciò che sarebbe potuto essere, era attratto da quella visione di se stesso come si è attratti dalle illusioni gratificanti, e la rispettava. Nel tentativo di recuperarlo, la professoressa gli affidava incarichi anche di una certa responsabilità, tipo gestire la biblioteca di classe. Ma lui si vendette i libri per pagarsi la trasferta al seguito della Roma.
Una volta che lei era rimasta bloccata con la sua Cinquecento aragosta in un mucchio di neve accumulatasi nel parcheggio della scuola, lui aveva risolto il problema afferrando il paraurti e sollevando la macchina con lei dentro: limitarsi a spingerla sarebbe stato banale. Probabilmente l’unica buona azione di Germano in tutta la sua vita.
Ma il sodalizio della Fratocchi con Germano era meno inspiegabile della sua avversione per Lucio. Con lui si arrese subito. Lo considerò immediatamente pericoloso e irrecuperabile e si preoccupò più che altro di salvare gli altri da lui, Germano in primis. Non gli concedeva nulla. Lo teneva sul 6, 6 e mezzo, e rimaneva impassibile davanti ai suoi tentativi di stupirla.
«Studia, Rinaldi, non inventare» gli diceva secca mentre lui infarciva l’interrogazione di voli pindarici. Lui si fermava, stirava un sorrisino ironico e si guardava intorno. Noi facevamo immediatamente nostra la tesi che lei non lo lasciasse parlare perché lo temeva, e l’interrogazione andava avanti. L’ultimo anno, davanti all’ennesimo 6 in letteratura, lui la provocò: «Ma lei lo ha letto Proust?». Lei, serena, di rimando: «Non solo l’ho letto, ma l’ho anche capito».
Tra la Fratocchi e Lucio era una lotta continua, la forza della realtà contro le malattie dell’immaginazione. Germano era il fazzoletto legato al centro della fune, e da un capo e dall’altro si sfidavano il cattivo maestro e la giovane professoressa, ognuno sforzandosi di portarlo dalla propria parte. Ovviamente non c’era partita, a Lucio bastava una mano sola. Lui con Germano usciva per notti brave da cui ero escluso ma che sospettavo includessero prostitute e droghe. Insieme partivano per spedizioni punitive organizzate da piccoli branchi pseudopoliticizzati e tornavano carichi di gloria e di bugie (all’epoca, chi distingueva l’una dalle altre?). La Fratocchi partiva decisamente svantaggiata.
La prof chiedeva al Kapo di sacrificarsi nella costruzione di un banalissimo futuro, Lucio gli offriva un presente di potere, nobilitato persino da una struttura ideologica. Il Kapo faceva le cose, Lucio Rinaldi gli spiegava perché le aveva fatte, o perché ne doveva fare altre.
La drammatica vicenda di Mirko Caiati interruppe comunque il tentativo di salvataggio della Fratocchi, che era la prof che ci aveva accompagnato in gita.
Dopo non provò nemmeno più a salvare né a osteggiare nessuno di noi. Avremmo dovuto capire, e non capimmo, che non era un buon segno.
«Come vedete mancava un’invitata alla nostra riunione… Almeno una invitata, sarebbe meglio dire.» La signora Elena non sembra più contrita né confusa, è di nuovo la perfetta padrona di casa. «Ho chiesto anche alla professoressa Fratocchi di raggiungerci…»
«Scusate il ritardo, ma ho perso il pullman» ripete lei per la settecentesima volta.
«… perché Mirko ha insistito tanto, voleva che ci fosse anche lei» conclude l’altra senza darle retta.
«Si nasconde ancora dietro Mirko» mi sussurra Margherita tra i denti. «Ma a questo punto è possibile anche che suo figlio in realtà sia morto. Magari ha orchestrato tutto da sola, e ci vuole solo fare a pezzi.»
Un horror?
«Aspettiamo, Marghe… vediamo che succede. Dice Silvia che la Fratocchi sa tutto.» Non so se ho scelto le parole giuste per tranquillizzarla.
«Tutto? Oddio…»
«Aspettiamo, Marghe…» ripeto. «Vediamo che succede.»
«Avrete riconosciuto la vostra professoressa di italiano, ragazzi.»
«Buonasera a tutti.» La nuova arrivata si siede nel posto centrale, la postazione del testimone. La signora Elena va a mettersi accanto al preside, sulla panca appoggiata alla parete.
Il banco della giuria?
«Da quant’è che non vedeva i ragazzi?» La voce del preside, sembra quasi abbia un interesse professionale.
«Eh… diversi anni! Ma vi trovo tutti molto in forma!»
Incredibile. Siamo prigionieri di una vecchia pazza, che ci accusa ormai più o meno esplicitamente di aver buttato il figlio giù da un ponte (cosa che abbiamo effettivamente fatto), e ancora c’è spazio per i convenevoli.
«Professoressa, allora, lei cosa ricorda di quella notte?» La voce della signora Elena, la frase di un inquirente.
La Fratocchi, a quanto pare preparata alla domanda, si concentra. Prima ci fissa uno a uno come se stesse valutando l’opportunità di dire o non dire qualcosa. Poi abbassa lo sguardo sulle sue ginocchia, prende fiato e spara: «Io vi ho visti, ragazzi».