«Gliel’ho detto io di farlo.»
Lucio ha finito la frase. E se la logica mi porta a seguire ogni singola parola per vedere in quali spazi inserirmi e trovare vie di fuga, lo stomaco accusa il colpo. Gliel’ho detto io? Cosa significa?
«Volevo sistemare Mirko, una volta per sempre. Quel mostro subnormale, quello scherzo della natura doveva essere eliminato. Andai dal più forte, che era anche il più debole, Germano, e gli parlai. Gli parlai a lungo, davvero a lungo.» E qui nella sua voce si sente un sorriso, uno dei suoi peggiori sorrisi. «Credo che gli stesse per uscire il sangue dal naso a gestire tutte quelle parole, tutte insieme. Gli dissi che Mirko si era presentato a casa di Margherita, e che ci aveva provato. Gli ricordai che si era pure messo a fare le cose con Silvia, a lezione, in sfregio a tutti noi. Che non ero stato preso in giro io, ma noi, lui per primo. Che se permettevamo a uno sgorbio del genere di comandare a casa nostra, cosa avremmo mai sperato di ottenere dalla vita? Se un handicappato ci rubava le donne, se un idiota aveva il diritto di prenderci in giro, cosa valevamo noi?»
Germano è immobile, al centro del salone, con le braccia che gli scendono lungo i fianchi. Sembra un quarto di bue appeso.
«Gli dissi anche: molti nemici, molto onore. Soprattutto se i nemici li schiacci» aggiunge Lucio. «Naturalmente lo convinsi. Scegliemmo il giorno, l’ultimo della gita. Il luogo, il ponticello tra i due edifici. E la punizione: il volo.»
«Lo avete gettato di proposito?» chiede la signora Elena, che non sembra affatto sorpresa.
«Pensavamo sarebbe potuto atterrare su un albero poco più in là, per questo Germano lo faceva ondeggiare. Invece ci ha solo rimbalzato» spiega Lucio con orrenda precisione. «Comunque sì, lo abbiamo gettato di proposito.»
«Vuoi dire che avevate premeditato tutto?» Questo è il giudice.
«Sì.» La faccia è sempre contro la parete.
Il Kapo è immobile.
Io non riesco quasi a respirare. Ma cosa dicono? Mi giro verso Margherita, d’istinto.
«Margherita… ma cosa dice?»
«Sì, Stefano. È così. Lo sapevo io, lo sapeva anche Silvia.» La voce di Margherita mi apre il baratro sotto ai piedi.
«Queste due si volevano divertire, avvocato» interviene Lucio, sempre appoggiato alla parete. «Come tutte le ragazze.»
Girls Just Want to Have Fun.
«Lo volevamo punire, Stefano» continua Margherita. «Per quello che era e per quello che era successo a causa sua. Tu non dovevi esserci, ma ci seguisti, come sempre.»
«Certo che doveva esserci» sibila Lucio, stavolta voltandosi verso di noi. «Lo sai bene perché doveva esserci. Volevi dirgli la verità, Margherita? E allora digliela.»
Io non voglio capire. E insisto: «Ma… era un gioco nato per caso… lui era d’accordo… poi Germano non ha tenuto la presa…» sto confessando. Confessando una verità che a quanto pare è un falso. Un falso che ho protetto dentro di me per trent’anni.
«Lo pensavi tu, Stefano» mi dice dolce Margherita. «E forse lo pensava anche Mirko.»
«Noi, allo scemo» conclude Lucio, «lo volevamo buttare giù.»
Guardo le ragazze e le rivedo come le vedevo allora, a diciotto anni. Silvia bellissima, che non alza lo sguardo da terra e tira un’altra boccata di sigaretta. Margherita con gli occhi azzurri e duri che sanno sempre una cosa più di me ma che tiene fissi sulla finestra chiusa mentre mormora: «Mi dispiace, Stefano… Mi dispiace anche per te».
Gli unici due sguardi terrorizzati che incrocio sono quelli del preside e della Fratocchi, che non avrebbero mai immaginato un epilogo così drammatico. Lei soprattutto capisce adesso di aver coperto un tentato omicidio. La signora Elena lo aveva compreso da tempo, com’erano andate le cose. Non ho dubbi. Chissà se gliel’ha detto Mirko.
Dov’è Mirko?
È vivo?
Gli occhi di Liscassi sono due palle nere, come quelli di uno squalo.
E io sto qua. In piedi, in mezzo a loro.
Certo che doveva esserci, ha detto Lucio.
E a questo punto ci arrivo anche da solo, al perché.
Mi hanno usato. Hanno cavalcato la mia convinzione, la mia superficialità, e mi ci hanno lasciato affogare una vita intera.
Non ero dei loro: mi portavano, a volte, con loro. E io mi sentivo uno dell’élite, senza esserlo. Magari gli ero simpatico, di sicuro permettevo al loro gruppo di allentare le tensioni, ma non mi cercavano. Ero io a cercarli. Non conoscevo le loro dinamiche, servivo a compensarle. Ero il loro giullare, il loro antistress. Un po’ di normalità serve in un gruppo di eccezionali.
E anche quella notte servivo a uno scopo.
Ero il piano B. Il testimone da utilizzare se fosse uscita fuori la verità. Avrei testimoniato il falso, credendolo vero. Avrei detto che Mirko era d’accordo, e che stavamo giocando, e che era stato un incidente.
Quello che ripeto da tutto un pomeriggio. E che ho ripetuto, a me stesso, per ventisette anni.
Più adatto a un college, diceva la Fratocchi.
Sì, forse là sono più semplici. Più adatti loro, a me. Magari anche i cattivi sarebbero più alla mia portata.
Solo che questi non erano “i cattivi”. Erano i miei amici, immaginari. Persone con cui mi sono convinto di aver condiviso anni cruciali della mia vita, anni finiti male, per di più. Certo, che la vita non li avesse migliorati l’ho capito appena entrato in questo maledetto casale. Quello che ho capito solo ora è che erano già così all’inizio.
Secondo la Fratocchi siamo stati tenuti insieme esclusivamente da un interesse ben preciso: prima era essere migliori degli altri, dopo è stato non essere scoperti dagli altri. L’interesse non bastava come collante, a quanto pare, e la diga ha ceduto. E ha ceduto male. Perché sono proprio le dinamiche non risolte di quegli anni ad averla squarciata. Forze che, se avessi mai studiato la fisica, saprei descrivere meglio, in ogni caso la potenza di qualcosa che si comprime per decenni e poi si decomprime all’improvviso.
Tipo molla. Tipo serramanico.