La storia dei manoscritti di Malcolm Lowry, tanto quanto quella della sua vita pubblica e privata, è una storia tormentata, che colpisce ancora di più se – a una scorsa veloce – il profano volesse rendersi conto che, nel profluvio di titoli pubblicati e tradotti nel corso degli anni, in verità Lowry riuscì a vederne uscire solo due. Il primo, Ultramarina (1933), poi rivisto e parzialmente ripudiato, e il secondo, Sotto il vulcano (1947), che svetta sul resto della produzione – sua e altrui – come un inarrivabile capolavoro e un magma ribollente di possibili diramazioni. Il resto è appunto costituito da camini, focolai, crateri e coni secondari, colate laviche, nubi di cenere, lapilli: una bibliografia estesa e articolata dalla quale emerge però che tutti gli altri tentativi precedenti e successivi all’opus magnum, per un motivo o per l’altro, non arrivarono alla pubblicazione prima della sua morte, avvenuta nel 1957.
Qual è il motivo di questa vera e propria dispersione strutturale e poetica (ed esistenziale, come vedremo)? Come mai Lowry, contrariamente a quanto gli capitava con l’alcol (ma anche lì, quanta fatica), non riusciva a reggere, a tenere, il manoscritto e di conseguenza – soprattutto – a imbrigliare in una gabbia editoriale un’ambizione e una prosa straripanti?
Be’, innanzitutto si potrebbe rispondere che questo accadeva perché smarriva i manoscritti.
E non perché perdesse di vista il senso o l’ispirazione o la pagina o la struttura, vittima di chissà quale blocco. No, li perdeva fisicamente. Oggi, vista la quantità di backup e chiavette e stampe eventuali, è difficile immaginarlo, ma a quei tempi il manoscritto emerso dalla macchina da scrivere poteva – in assenza di una copia carbone – restare l’unico, quindi vulnerabilissimo. Per gli sba(n)dati non c’era scampo e Lowry fece parte di questa schiera fin dall’inizio, quando rischiò di perdere – incubo di ogni scrittore – il manoscritto di esordio, ormai già accettato dall’editore Chatto & Windus. L’imprevidente e pasticcione Lowry, come sarebbe accaduto altre volte, non ne aveva fatto una copia e un redattore altrettanto noncurante, arrivato su una Bentley davanti alla casa editrice, entrò lasciando nell’auto la valigetta con il manoscritto: quando uscì, puf, la valigetta era sparita nel caos di Londra. Com’è immaginabile, Lowry sprofondò nel panico, poi asserì di essere in grado (forse) di riscriverlo, poi si arrese all’impossibilità dell’impresa, sicuramente ci bevve sopra. Infine saltò fuori un amico caritatevole, che aveva conservato tutti i fogli e gli scarti e le brutte copie della prima stesura. Fu questo, pare (pare: quasi ogni episodio della vita di Malcolm Lowry si ammanta di leggenda), a dargli la possibilità di riassemblarlo.
Solo parecchio tempo dopo, nel 1952, Lowry dimostrò di aver imparato la lezione scrivendo al suo editor di aver depositato in una cassetta di sicurezza un romanzo (Buio come la tomba dove giace il mio amico, pubblicato comunque postumo), pur non essendogli mai passato per la testa in precedenza di poter fare una cosa del genere, e ripeté ben lieto l’esperienza con altri due abbozzi di libri, The Ordeal of Sigbjørn Wilderness (inedito) e La Mordida (di prossima pubblicazione per Feltrinelli).
Eppure quel primo smarrimento era un segno, uno stigma. Per tutta la vita Lowry rimase afflitto da una delle grandi malattie del Novecento, quella del non finito. Non a caso spesso si riferiva alle opere in corso come a un “bolo” masticato e rimasticato, mai digerito e mai sputato, sempre lì a rammollirsi e arricchirsi in un angolo della bocca e della mente. La direzione che prendeva Lowry era sempre quella dell’amplificazione: ogni manoscritto recava in sé la possibilità del fallimento e dell’inconcludenza, oltre naturalmente a un’ambizione a tal punto smisurata da traboccare verso l’incertezza e l’esuberanza, finché il bolo non diventava ingestibile e il libro veniva abbandonato o accantonato o perfino editato, magari con l’assistenza della moglie. Quasi mai, come abbiamo detto, vedeva la luce e perfino Sotto il vulcano rischiò grosso. In una tardiva, meravigliosa lettera dove manifestava tutta la sua prostrazione, Lowry sosteneva significativamente: “Sono arrivato al punto in cui ogni notte scrivo cinque romanzi con l’immaginazione […] ma non riesco a buttare giù una sola parola”. Favole inconsce, fiato: come trattenerli? Tutto il mondo di Malcolm Lowry era perennemente in fermento intorno al materiale lavico che gli passava per la testa, alla tentazione di scrivere qualcosa e di (non) esistere, alla fatica di trovare una struttura narrativa e sistematizzare il ribollio interiore delle aspirazioni e del talento, ma anche delle velleità e dell’alcol, compagno inseparabile e vera e propria chiave interpretativa di tanti stilemi. Questo tormento, questo corpo a corpo continuo con il materiale narrativo, fu il centro della sua vita: cercare di dar forma a un’idea di letteratura, di salvarsi la vita grazie alla letteratura, di perdersi una buona volta nella letteratura.
E, magari, pubblicare un capolavoro.
Ci riuscì solo una volta, come un arciere che centra il bersaglio in un’unica decisiva occasione. Ma uno dei tentativi più travagliati fu quello intorno al romanzo che avete tra le mani.
Nell’estate del 1930, il ventunenne Malcolm Lowry intraprese un viaggio nel Nord Europa, verso il Mar Bianco, per conoscere uno scrittore norvegese di nome Nordahl Grieg. In una delle sue forme più raffinate di paranoia, Lowry era convinto di aver tratto eccessiva ispirazione, nel suo esordio ancora inedito, dal romanzo di Grieg The Ship Sails On (in originale Skibet Gaar Videre). Nume tutelare? Illuminazione? Esempio da seguire? Macché, la paranoia si spingeva molto più in là: Lowry si era identificato nel protagonista del libro a tal punto da avere la sensazione che Grieg gli avesse rubato l’anima e, a posteriori, di averne lui stesso plagiato il romanzo, in uno scambio binario opprimente e fallace.
L’ossessione per il plagio era una delle tante maledizioni di questo scrittore, che pure – all’ombra di Bloom (e cioè Joyce) e Sweeney (e cioè T.S. Eliot) – si sentiva parte di un flusso che faceva della tradizione, di ogni tradizione, una risorsa di intertestualità. Parlava di centoni, prestiti, pastiche, patchwork, comunque tutto era sempre iperbole, palinsesto, riflesso, eco, inarginabilità; il bolo degli altri che diventa tuo e che continua ad arricchirsi senza fine. Nulla si crea e nulla si distrugge. E non sbagliava. Che cosa sarà mai una frase in comune dentro una struttura multiforme? E che senso ha una cosa miserabile come un’idea? Shakespeare prese sì ispirazione da Giovan Battista Giraldi Cinzio, così come da molti altri, ma ci mise la poesia, la sua poesia. Quella di Lowry, invece, fu una contesa eterna, l’ennesima, con la seduzione e l’angoscia del plagio, con la paura di essere un impostore e la propensione a sentirsi capace di qualcosa di unico (una volta agli amici confessò, non senza superbia guascona, di voler “out-Mobying” Melville, ossia superare Melville e Moby Dick in grandezza).
E così partì, a pagare pegno, a cercare riscatto. Il viaggio al Nord fu un azzardo pieno di inciampi, disorganizzato e caotico come viene descritto nelle ultime pagine di questo libro, ma in qualche modo Lowry arrivò a rintracciare Grieg e a instaurare un rapporto con lui. Anzi, riuscì perfino a strappargli il permesso di provare ad adattare per il teatro il suo romanzo (il plagiato che autorizza a plagiare!), ma soprattutto – sempre vigile, quanto alle mille possibilità di un alter ego autobiografico – gli sembrò di essere tornato a casa con il materiale per un nuovo romanzo. Trama: uno scrittore si sente defraudato e derubato dall’opera di un altro autore – diventato Erikson, nella fiction, nome che ha un rintocco sinistro per chi abbia una conoscenza approfondita di Sotto il vulcano: gli echi non finiscono mai – e, scosso da una serie di disgrazie come il suicidio del fratello e un incidente navale di proporzioni tragiche che getta il disonore sulla sua famiglia, parte alla ricerca di questo ghostwriter precognitivo per far quadrare la propria esistenza.
Lowry si mise quindi all’opera, ovviamente in parallelo ad altri progetti, per completare (stavo per scrivere: complicare) questo romanzo di formazione, debitore nei confronti di un libro che amava molto come il Tonio Kröger di Thomas Mann, ma anche di Melville, e arrivò al punto di farne circolare alcune parti tra gli editori. Il titolo era In Ballast to the White Sea e veicolava l’idea di un viaggio su una nave senza carico, quindi zavorrata, un’immagine esistenziale di deriva e costrizione, di spinta alla partenza e di catene costituite dai legami familiari. Il libro avrebbe dovuto collocarsi in una trilogia (leggendaria, ormai, tra i lowryani) dal titolo The Voyage that Never Ends, il viaggio senza fine, parallela alla Divina Commedia, con Sotto il vulcano al posto dell’inferno, Caustico lunare (una novella da espandere) del purgatorio e In Ballast del paradiso, anche se più avanti il Voyage si articolò in ulteriori diramazioni, sempre disposto a inglobare tutto ma quindi restio a trovare forma, in una specie di sortilegio autoimposto verso l’indeterminato. Questa volontà di ricompattare una materia sempre schiumante era anch’essa indicativa delle pulsioni contrastanti nell’animo di Lowry: da una parte strabordare e dall’altra contenere, di qua la physis e di là il nomos, prima lo sprofondamento nella sbornia e poi le allucinazioni “recollected in tranquillity” (si fa per dire). Anche solo le bozze di Sotto il vulcano gli portarono via quattro mesi di vita.
Ad ogni modo il nuovo romanzo, un progetto a cui teneva molto, subì una battuta d’arresto clamorosa quattordici anni dopo, nel 1944, per l’esattezza il 7 giugno, quando ancora non era terminato. In quel periodo lui e la seconda moglie Margerie, la dedicataria di Sotto il vulcano, si erano trasferiti a Dollarton, nella Columbia Britannica, dove vivevano come squatter in una capanna in riva al mare: fu uno dei rari momenti idilliaci della vita di Lowry, per quanto punteggiato, come gli altri, di piccoli incidenti e cattivi presagi (dall’altra parte della baia c’era un petrolchimico della Shell con un’enorme insegna luminosa dalla quale la prima lettera era svanita, lasciando a lampeggiare ogni sera l’enorme scritta hell).
Quella mattina, al risveglio, Lowry sentì odore di bruciato, uscì dalla capanna dove vivevano e vide che il tetto era in fiamme. Non disponevano né di una pompa né di un idrante e in quel momento c’era la bassa marea. Si precipitò in paese a chiamare i vigili del fuoco, ma dopo aver attraversato il bosco di corsa si rese conto che disponevano di attrezzature antiquate che avrebbero potuto a malapena estinguere un falò. Nel frattempo Margerie era riuscita a mettere in salvo il manoscritto di Sotto il vulcano e alcune poesie; stava per lanciarsi di nuovo dentro per salvare In Ballast quando venne fermata da un gruppetto di astanti. Nessuno tuttavia riuscì a bloccare Lowry, che lasciò perdere solo dopo essersi fiondato nel locale pericolante ed essere stato colpito da una trave. La capanna venne rasa al suolo dall’incendio e il romanzo andò perduto, insieme a quasi tutti i loro averi.
A quanto sembra, quando Lowry morì era ancora convinto che di In Ballast fossero rimaste solo un paio di pagine bruciacchiate. Va detto, tra l’altro, che – nella solita inquietante coincidenza offerta dalla realtà allo sguardo stravolto di un romanziere alcolista – Lowry scoprì che poche settimane dopo l’incendio della baracca era morto anche Grieg, lo scrittore che aveva ispirato il libro, anzi che compariva nel libro: involontario autodafé, voodoo letterario (d’altro canto anche il padre di Lowry morì di cirrosi epatica ed era astemio: negromanzia dello scrittore debosciato). Ad ogni modo non ricordava, o forse fingeva di non ricordare, di aver lasciato una copia carbone del libro alla prima suocera, la madre di Jan Gabrial, colei che alla fine del primo travagliatissimo matrimonio costellato di sbornie e infedeltà era stata di ispirazione per Yvonne, l’ex moglie del console in Sotto il vulcano. Una prima stesura parziale era quindi stata conservata e poi ribattuta e editata proprio da Jan. Dopo anni, il relitto – incrostato di correzioni e variazioni come cirripedi – è riemerso dagli abissi del tempo ed è stato pulito e restaurato da Patrick A. McCarthy.
Questo volume è il tentativo di riedizione filologica di un grande libro incompiuto. Ambientato negli anni trenta, narra la storia di un giovane ambizioso e infatuato del talento altrui, alle prese con un suicidio concettuale e una famiglia allo sbando, con una ragazza amata e contesa e distante, sullo sfondo di una Cambridge ideologica e gelida e di una Liverpool industriosa e cupissima. Ci sono molti temi lowryani, come quelli del fatalismo, del conflitto tra azione e nichilismo, della foresta di simboli cupi che siamo costretti di continuo a decifrare e a equivocare, dell’amore irrisolto e inattingibile. Uno degli assilli del libro – quello appunto del suicidio – viene dritto dritto da uno degli episodi autobiografici che più ossessionarono Lowry, quello di un compagno di università il cui suicidio forse venne sottovalutato, per non dire scherzosamente incoraggiato, da Lowry stesso. Un tema forte che attraversa – come ogni suo tema – diversi scritti. Qui lo stile è ampio, solenne, digressivo, cupo, densissimo, citazionista, pieno di giochi di parole e osservazioni sardoniche. Puro Lowry, a tratti. Lui non smise mai di lamentarne lo smarrimento, e chissà, forse vi si crogiolava come su certi progetti mai concretizzati. Non c’è niente di più seducente per la mente di uno scrittore del fumo di un’idea possibile ma forse irraggiungibile, sicuramente migliore di tutte quelle messe per iscritto non solo da lui stesso ma dagli scrittori di ogni tempo. Un libro è prima di tutto una chimera e poi una sconfitta, per quanto vittoriosa. “Ogni romanzo è il relitto di un’idea perfetta,” affermava Iris Murdoch, e In Ballast to the White Sea rimase nel mondo vagheggiato delle idee e dei rimpianti, tanto caro a un temperamento fragile e nostalgico come quello del suo autore.
Malcolm Lowry pubblicò il suo primo scritto nel 1925. Era un racconto e si intitolava La luce che non si spense. A quasi cento anni di distanza, quella luce – il farolito che chiama la tempesta – brucia ancora.