IV

Due osservatori, anche se distanti nel tempo e nello spazio, ognuno sottoposto a diversi linguaggi ed esperienze sociali, intenti a osservare lo stesso gruppo di referenti, sono arrivati a costruire riferimenti molto diversi, eppure in fondo ad avvicinarsi molto in termini di simbolizzazione verbale.

OGDEN E RICHARDS

(a)

Trinity College, D5,

Cambridge, Inghilterra

“Da dove arrivate, Hawthorne? Con quale diritto bevete dal mio boccale della vita? E quando lo porto alle labbra… Guardate un po’, ci trovo le vostre e non le mie, sento che Dio è spezzato come il pane dell’Ultima Cena, e che noi siamo le briciole. Di qui questa sensazione di infinita fraternità.”

A William Erikson, c/o Christiania Bokhandel Forlag, Raadhusgt 199, Oslo, Norvegia

Gentile signore,

non scelgo arbitrariamente queste parole dello scrittore americano Herman Melville come esergo alla mia lettera. Forse voi non lo sapete, su al Nord, lì nel ghiaccio profondo che al tocco umano brucia come lo spirito di quel grande scrittore, quando più tardi trovò la solitaria risolutezza spirituale sul Monte Monadnock, ma il passo proviene da una lettera a Nathaniel Hawthorne, un collega con cui per certi versi si identificava, con meno ragioni delle mie verso di voi. Nathaniel Hawthorne, per quanto console a Rock Ferry sopra l’acqua di Liverpool, non era mai stato per mare. Ma per essere il più concreto possibile:

Mi chiamo Sigbjørn Hansen-Tarnmoor. Nel corso degli ultimi mesi vi ho scritto diverse lettere senza imbucarle, e ho dedicato una buona parte del mio anno all’elucidazione dei motivi che avrei per rivolgermi a voi così. Ho origini norvegesi. Mia madre, che ormai è morta, era norvegese, e io stesso sono nato a Christiansand e ho passato la mia prima infanzia lì e a Christiania, che adesso chiamano Oslo, la città sulla palude!

Quand’ero troppo giovane per averne memoria, abbiamo lasciato il paese e ci siamo sistemati a Liverpool, dove mio padre si è messo a fare l’armatore.

Ma la Norvegia mi ha lasciato una ferita che nessuna estate è riuscita a guarire. Anche da bambino, ogni volta che vedevo una bandiera norvegese ne ero ossessionato. Restavo per ore sul pontile, sperando di intravedere un cargo norvegese. E, quando arrivava, era come se stesse navigando nel mio cuore.

I loro nomi, il Suley in arrivo da Trondhjem, l’Oxenstjerna da Bergen, la città sul prato ai piedi della collina, e, soprattutto, il Direction da Oslo (il cui nome ho scelto per la nave del libro di cui parlerò più avanti), per dirne solo qualcuno, per me erano qualcosa di più di un ricordo e quando riprendevano il mare avevo la sensazione di aver perso un vecchio amico, e diventavo incommensurabilmente triste finché non comparivano di nuovo, cosa che non avveniva per anni. E sognavo sempre d’imbarcarmi su una di quelle navi per tornare al mio luogo di nascita, ma non l’ho mai fatto.

Finalmente, qualche tempo fa, all’età di diciassette anni, mi sono imbarcato, come spalatore di carbone, su un cargo inglese. Il viaggio era verso l’Estremo Oriente e la nave si muoveva lentamente da un porto all’altro lungo la costa cinese e, ne converrete, nella direzione più contrapposta possibile alla Norvegia…

Solo il “viaggio” rimase vero, nel senso dell’appagamento dei miei sogni: il viaggio dentro di me, il viaggio della mia anima verso il proprio retaggio, mentre il mio corpo, straziato e strappato al paese natale, pativa ogni secondo di deprivazione; di modo che, a dispetto delle sue caratteristiche, considero ancora questo viaggio come un ritorno, o forse, per meglio dire, un pellegrinaggio verso uno scopo, o verso un inizio – o verso un modo di pensare! – che in questa vita potrebbe non essere mai raggiunto. O era per mettersi al servizio, deliberatamente, del più aspro apprendistato alla vita che potessi trovare? Per prepararmi a una qualche vocazione diversa dal mare? Alla ricerca della sapienza recondita? O semplicemente alla ricerca della vita, della realtà obiettiva.

Qualsiasi cosa fosse, e nell’eclettismo di queste alternative il suo oggetto deve essere in qualche maniera presente in modo implicito, adesso sono rimasto, come ero tre anni fa, ancora prima di andare per mare, come quasi tutti i miei coetanei, un malato di ἄσκησις, con un’aspirazione invincibile al completamento, a una realizzazione dell’esistenza presente. E sono rimasto fermo al punto in cui diventa necessario ripartire…

(non finita)

(b)

11 St. Eligius St,

Cambridge

A William Erikson,

Gentile signore, ecc.,

ecc. È da molto tempo che penso di scrivervi. Anzi, questo è uno dei vari tentativi. Da dove cominciare? Forse per prima cosa dovrei dire che sono tante e svariate le nevrosi che mi hanno spinto alla crisi attuale, ossia al punto in cui ho la sensazione di dovervi scrivere, e tante e svariate sono anche quelle che mi hanno spinto alla crisi o – perdonate l’espressione! – alla mancanza di crisi a cui sono arrivato qualche anno fa alla vigilia del primo viaggio, di cui vi racconterò più avanti. Ma, così come si assomigliano, differiscono l’una dall’altra in un particolare decisivo. Tre anni fa volevo trovare me stesso, adesso invece voglio perdermi. Allora volevo trovare il mio posto sulla Terra, credendo che fosse quello dello scrittore; adesso so che non troverò mai qualcosa di vero o di stabile nel mio universo privato, o multiverso. Perché? Perché il mio dovere è quella che comunemente viene chiamata “la solidarietà virile del proletariato”. Pur sapendolo, tuttavia, sembro ancora avere caro dentro di me il privilegio di essere consapevole e di non fare nulla al riguardo. Religione, superstizione, scetticismo, esperienza: alla base di tutto c’è questo. Ripeto che, laddove prima mi preoccupavo di capire quale fosse la mia vocazione, con il dolore intimo, con l’affermazione di me in un qualche modo, adesso invece sono ugualmente preoccupato di dimenticarmi del tutto di me stesso, e di dedicare i miei talenti, quali che siano, al comune movimento per il cambiamento. È strano, tuttavia, che in questa lettera paia che io voglia comunque attirare un bel po’ di attenzione su me stesso. Mio fratello…

(non finita)

(c)

Che cosa faremmo senza la nostra infelicità? Avete mai pensato a una generazione che faccia, unanimemente in cerca di aiuto, questa domanda. Adesso sono in un momento di transizione, come se mi trovassi tra un mare e l’altro, uno stato di cui voi siete in parte responsabile, e mi faccio questa domanda, e mi rispondo. Ma mio fratello…

(non finita)

(d)

Trinity College,

Cambridge

A W. Erikson

Gentile signore,

voi non sapete chi sono, vero? Eppure la lettura di questa lettera vi dovrebbe convincere che il suo estensore è come un vecchio amico, il cui messaggio a [omissis] è lo spartito di una canzone rivoluzionaria. La rivoluzione è l’unica soluzione ai problemi esistenti. Senza una sconfitta, la rivoluzione è impossibile. Io creo una sconfitta dell’io.

Il vostro ecc.

(non spedita)

(e)

11 St. Eligius Street,

Cambridge

A William Erikson, c/o Christiania Bokhandel Forlag, Oslo

Gentile signore,

vi ho scritto diverse lettere, nessuna delle quali spedita, quindi forse è fin troppo naturale che questa sembri cominciare a metà. Per essere il più concreto possibile. Ovviamente ho la stessa difficoltà nel rispondere alla domanda “Perché sono andato?” che voi avete avuto nel vostro Skibets reise fra Kristiania nel presentare il protagonista: “Un viso imberbe si fermò sulla banchina, facendo correre lo sguardo sulle navi, Benjamin Wallae, il figlio del sensale marittimo: voleva scoprire com’era il mare prima di andare a lavorare per il padre”. E forse questo è solo tutto ciò che noi due siamo disposti a riconoscere. Ma siamo pronti a metterci in discussione.

Non era la sicurezza che cercavo, perché ho chiesto di proposito il compito più pericoloso; non la tranquillità, perché scialacquavo la paga in ogni tipo di follia; nemmeno bramavo l’amore; neppure ero frustrato perché cercavo il potere. No! Oppure potreste imputarmi che, avendo un bisogno inconscio di tutte queste cose, io stessi ancora cercandole inconsciamente. Oppure potete incarnarle tutte in mia madre, e sostenere che io volessi tornare nel suo grembo, alla nascita che era la morte in una nuova vita, all’alfa e omega di cui il mare era il simbolo, il principio e la fine: è l’eternità e l’annichilimento, la A e la Z, ah, l’Atlantico, la zebra dalle strisce pacchiane dell’estremo limite! Potreste dire che la Norvegia non ha nulla a che fare con questo. Potreste dire tutte queste cose e avere comunque torto, o essere distante dalla verità, sempre che quella verità esista.

Ma forse era qualcosa di simile a questa verità sconosciuta che andavo cercando, che stavamo entrambi cercando: cercavamo la conoscenza, il segreto occultato nella Sfinge, il segreto dei vulcani bofonchianti e delle isole tetre velate di neve, il segreto nell’unica parola equivalente a mille anni, ma che abbiamo scelto di leggere invece alla fine, quand’era più transitoria, nella tempesta di ghiaccio dei mari, o all’ombra opprimente dell’albatros solitario.

E ben presto, alla luce di quello che ho provato arteriosamente al largo, ho perso di vista quell’oggetto, sempre che “oggetto” si possa chiamare: sarebbe sufficiente, ho pensato, più che sufficiente, dirgli com’era il mare; questa sarebbe una bella cosa da fare, io ero l’unico a sapere, l’unico al mondo a soffrire. Avrei scritto di tutto questo, sarei stato l’unico scrittore a preservare comunque, pur avendo vissuto i sogni infantili, un’intensità sufficiente e una duttilità della coscienza, a portare a quella vita un’urgenza sufficiente a trovare la bellezza in quella regione, a rendere il racconto tollerabile nel raccontarlo: questo era il mio progetto prima di scoprire che era stato tutto già scritto, ma in modo migliore, più intenso, da voi in Skibets reise fra Kristiania.

Io! Io! Io! Quant’è ironico che il truismo “Niente di nuovo sotto il sole” dovesse prendere una forma del genere. Che perfetto frontespizio, poi, per il nuovo libro della vita, le cui pagine sono state tagliate solo oggi! Il dolore privato, anche quando viene proiettato… che scarsa validità ha! Non sono sicuro di percepire la sua validità definitiva con tale forza quando viene applicata a coloro che in questo momento, in questo mondo, non vivono per niente, il cui dolore non è dolore, ma solo l’angoscia insensata di chi dorme in eterno, e che una volta risvegliati si ritroverebbero in un mondo dove nessuna loro concezione, riguardo al significato del dolore, sarebbe comprensibile. Chi può dire se, un giorno, per qualcuno, tutto questo in qualche modo cambierà.

Ma torniamo a noi. Il vostro libro, quindi, non solo ha fatto sembrare futile il mio, ma ha svuotato il mio viaggio delle ultime vestigia di significato: in un senso definitivo, ha cancellato quel viaggio; mi ha costretto a uscire dal modello del mio destino, di modo che il viaggio dovrà essere affrontato di nuovo, il modello rimesso insieme ancora una volta.

All’epoca in cui stavo scrivendo il mio libro, talvolta il viaggio vero e proprio era sembrato qualcosa rispetto al quale il libro era diventato anteriore, qualcosa che non era ancora accaduto; in altri momenti quel che era scritto sembrava identificarsi con ciò che era successo. Ma adesso chi può dire quale sia la verità? O quali forze i nostri libri possano avere destato o liberato? Chi può dire di chi siano i fantasmi, di chi? E cosa significherebbe tutto ciò, in confronto a coloro le cui vite contengono molti viaggi? Che dire di loro? Voi non vi aspettate che simili viaggi abbiano un significato, non più di quanto ci si aspetta che i propri amici siano dei geni, eppure ho la netta sensazione che sia così, che in quei viaggi un’anima possa tracciare la parabola iniziale della propria vita, ma è precisamente questa parabola che noi non vediamo.

(non finita)

(f)

Mecca Café

Liverpool

So benissimo che Goethe ha detto che il rapporto di un autore con il suo protagonista è paragonabile a una corsa contro un’ombra: conosco bene la pièce di von Scholz – era in cartellone a Cambridge non molto tempo fa – e so che l’idea scenica del doppelgänger è un classico; e, più banalmente, si sente spesso di gente che scrive a un autore per dire “Il personaggio di Smith sono io” o “Il personaggio di Jones sono io”. Una volta ho perfino letto, in una recensione, il resoconto di un romanzo, che di proposito per quel motivo ho evitato di leggere, su un tema analogo, di Louis Adamic. E c’è un racconto di A. Huxley. Ma questo è reale, sta proprio accadendo, in questo momento, a me…

(non imbustata)

(g)

Kardomah Café

Liverpool

Ma il vostro libro ha totalmente distrutto la mia esistenza, visto quant’era simile alla mia stessa esperienza, sia nei fatti sia all’interno del mio stesso libro: comincio quasi a credere di poter essere Benjamin Wallae, il vostro personaggio. Ma se è così, mi chiedo dove e chi è X, la proiezione di me stesso nel romanzo che non finirò mai. Dove e chi è lui e chi siete voi?

Ho detto che il vostro libro ha svuotato il mio viaggio delle sue ultime vestigia di significato. Ma quando la vostra arte malvagia ha cresciuto un essere, un’ombra, qui, che potrebbe rispondere al nome di Benjamin Wallae…

(non imbustata)

(h)

Kardomah Café

Liverpool

Gentile signore, ecc.

da molto tempo sento il bisogno di scrivervi. A dire il vero, vi ho scritto diverse volte. Ma più scrivo, paradossalmente, e più complessa diventa la mia posizione in rapporto a voi e più diventa impossibile attestare in modo chiaro la mia condizione. Per uno spirito finito esiste un solo dialogo, sostiene Barrès, quello tra i nostri due ego, l’ego momentaneo che siamo e l’ego ideale a cui ci sforziamo di arrivare. Ma lasciamo correre. Non posso dire davvero che questa identificazione (ossia tra quel che c’è scritto e quel che è successo a me) sia davvero esatta, perché non l’ho trascritta direttamente dall’esperienza che ho avuto. Avrei definito il mio viaggio “vero” come un disastro “spirituale” che mi aveva spezzato il cuore, che mi aveva ucciso per davvero, preparandomi alla mia nuova vita “fisica”, laddove quello che avevo scritto era un disastro “fisico” che mi preparava alla mia nuova vita “spirituale”. Dal vostro libro ho ricavato l’impressione che Benjamin Wallae, che ho preso come una proiezione di voi stesso, fossi in realtà io (in quanto distinto dal mio io proiettato), che mi aggiravo tra i vostri personaggi in Skibets reise fra Kristiania con una minima differenza quanto a documentazione, modo, ecc. – lasciamo perdere la lingua – dal mio romanzo senza titolo. Ma questo è irrilevante…

(non finita)

(i)

Mecca Café

Liverpool

Lasciatemi essere più esplicito e fatemi raccontare come siamo arrivati a questo. Quando sono tornato dal mare, dopo il mio terribile viaggio in Cina e in Giappone, sono venuto a Cambridge per studiare letteratura all’università. Al college ho scoperto che la letteratura in generale, per la quale presumevo da sempre di avere una passione, intendo il flusso della letteratura, sembrava attrarre gli altri con più obiettività di quanto non facesse con me. Sradicato e smarrito, io stesso sono stato costretto a trovare altre persone che avevano sofferto nella letteratura così come nella loro vita, il che voleva dire che non riuscivo a superare la fase dell’“identificazione isterica”, che, parlandone ora con sguardo più maturo – anche se non è per nulla maturo! –, per quanto importante, non è altro che una fase dell’adolescenza di uno scrittore creativo. Dopo essere tornato dal mare, dopo un’esperienza che è stata definita “da crepacuore”, ho scoperto che il mio approccio alla letteratura era sempre stato lo stesso: ero stato devoto più all’idea di Chatterton e di Keats, all’idea della loro morte precoce, e al fatto che quella fosse la cosa più opportuna che potesse fare un giovane scrittore, che alle loro opere; anzi, ho trovato una successiva spiegazione a tutto questo in me stesso quando all’improvviso ho percepito dentro di me il medesimo crescente attaccamento per Rupert Brooke, una passione, più che altro, per la sua morte, per il suo destino, anche se – nonostante come uomo e come critico io lo trovi degno di rispetto – come poeta è per me una specie di patata fredda, o forse si potrebbe dire un fantasma abbandonato da vecchi studenti nella pozza di Byron? Quindi abbasso la guardia, vi offro i miei precetti feriti… Le suicide, est-il une solution? Siamo scesi così in basso, eppure, quando è arrivato al dunque, mio fratello…

(non finita)

(j)

Kardomah Café,

Liverpool

Il mio supervisore, un critico amichevole delle mie opere, mi ha concesso di saltare le lezioni e le presenze in mensa per terminare il mio romanzo sul mare. Ma poi, quando durante le vacanze natalizie ho trovato in una libreria di Liverpool una traduzione del vostro romanzo Skibets reise fra Kristiania, venduto a metà prezzo, e perfino in una traduzione pubblicata sette anni prima, io… E questo libro mi ha…

(non finita)

(k)

Mecca Café,

Liverpool

A W. Erikson

Gentile signore, ecc.,

…ecc. Se, per concludere, una situazione così congegnata sembra escogitata apposta da qualche sorte infernale per spingermi ancora verso la fine dove per qualche malefico sortilegio l’identità della mia coscienza – immagino – sparirà del tutto, non riesco a non pensare tuttavia che la mia brutta insolita situazione sia meno singolare delle conclusioni generali che se ne possono trarre; ma non appena io comincio a trarre queste conclusioni esse cessano di essere vere o piuttosto diventano relative ad altre riflessioni molto più complesse che a loro volta ne suggeriscono altre e così via, dall’impalpabile all’imponderabile, arrivando infine a, forse, diciamo… “il tradimento del partito”…

(non finita)

(l)

(brutta copia)

Nel mio romanzo ancora senza titolo non ho tratto ispirazione dalla mia esperienza fisica ma piuttosto, se mi è concesso di metterla così, sempre che esista una cosa del genere, da quella metafisica. Il personaggio che ho scelto, X, come eroe tragico, era un norvegese (vale a dire: me) e il romanzo parlava di un processo dolorosamente convulso di aggiustamento che comunicava un’esperienza reale, vissuta dall’interno, insieme ad altri membri dell’equipaggio che io personificavo in W, il fuochista mezzo irlandese e mezzo di Liverpool (i nomi non li avevo ancora scelti).

(Ma avevo deciso il nome della nave: era il piroscafo Direction, chiamato così perché avevo visto una nave con quel nome a Liverpool. Ma la nave dove mi ero imbarcato in realtà si chiamava Oedipus Tyrannus.)

Tutti i personaggi erano segnati da questo processo, il caos interiore di X che si esprimeva in modo elementare, estroflesso, portando a un disastro fisico che coinvolgeva l’intero equipaggio.

Allo stesso modo, nel vostro Skibets reise fra Kristiania, la disastrosa mossa del marinaio Aalesund è solo equivalente a quella del vostro personaggio Wallae, Benjamin Wallae, che potrebbe essere il mio X, che potrebbe essere me, che potrebbe essere voi, nel firmare per entrare a far parte dell’equipaggio della nave, qualsiasi sia il suo nome, e dopo quella mossa o quelle mosse, come nel mio romanzo senza titolo, la distruzione ha il jolly in mano. A dire il vero Benjamin Wallae ha dovuto identificarsi, leggere la situazione, il fatto di essere, Aalesund, il bruto, il mostro, prima di ambientarsi nell’equipaggio, allo stesso modo in cui il mio personaggio X doveva conquistare Y per essere, per così dire, X più Y, prima che per lui divenisse possibile una simile sistemazione con l’equipaggio e la vita a bordo. E lo stesso con quell’ombra di ombre che sono io! Ma chi è io? Dal vostro piede scivola il sandalo che sono io? Che cosa deduciamo da tutto questo? Semplicemente nada… O che abbiamo avuto esperienze simili, e che ne abbiamo fatto un uso stranamente simile. Ma laddove il mio libro si preoccupa fino alla fine del prezioso destino di X, voi fate sparire completamente i personaggi nella massa, verso il futuro. Se muoiono è per qualcosa in cui credono. Il pellegrinaggio dei vostri personaggi è un processo di assestamento con il proletariato: il mio personaggio è solo un altro pellegrinaggio introspettivo nella regione dell’anima, dove anche l’uomo cessa di essere l’artefice di se stesso. Nel mio libro la massa è importante solo perché permette a un uomo di migliorarsi; nel vostro il miglioramento personale è importante, giustamente, ma solo perché rafforza sensibilmente la massa…

(non finita)

(m)

Bath Hotel

Cambridge, 21:30

…E nuove mani strisciano per recuperare gli avanzi lasciati dalle vecchie: questo lo diamo per scontato, solo Wallae e X rimangono continuamente a fuoco, continuamente e visibilmente diretti verso uno scopo; gli altri, invece, dentro un simbolo fisso e unificato, si trovano in un flusso. Che poi noi si debba giustificarli tutti, dice qualcosa di noi come artisti. Tutti? No, c’è Gustav in Skibets reise fra Kristiania, e nel mio libro un personaggio (senza nome) ingiustificato. Questo rappresenta l’imperfezione, la sfumatura ferita, che nella mia mente rende ancora più perfetto un disegno del destino, perché non possiamo vedere tutto, e la comunicazione tra le due dimensioni è impossibile, tra la concezione divina su un piano e l’esecuzione subumana sull’altro, e questa imperfezione a me sembra il riconoscimento da parte dell’artista che…

(non finita)

(n)

Ma qual è il nome della nave su cui voi davvero vi siete imbarcato? Oppure Skibets reise fra Kristiania sarebbe un’opera totalmente di fantasia?

(abbozzo)

(o)

Pseudodostoevskijano!

(p)

Ufficio postale centrale,

Cambridge

confidenziale

A W. Erikson, Oslo

Gentile signore,

ho trovato il vostro libro, Skibets reise fra Kristiania, molto interessante e visto che c’è spazio in Inghilterra per le traduzioni dal norvegese vi invio questa cartolina per chiedervi se avete pubblicato altre opere in questo paese. In caso contrario, sebbene non ricordi benissimo il norvegese, potrei esservi d’aiuto. Il processo attraverso il quale un marinaio, un superuomo coraggioso ed esuberante nel suo elemento naturale si trasforma in un bambino malaticcio quando è in permesso a terra non è mai stato svelato con più verità dolente di quanto accada nel suo capolavoro.

Cordialmente,

(non spedita)

(q)

A J. Trygvesen & Co. Ltd., 105 Charlotte Street, Londra


Gentile signore,

potreste farmi sapere l’indirizzo privato (oltre a quello del suo editore norvegese) di William Erikson, uno dei vostri autori, che ha scritto Un viaggio da Oslo (1926), tradotto da S.H. Retach, per me un capolavoro?

Cordialmente ecc.

Sigbjørn Tarnmoor

(r)

A Mr. S. Tarnmoor, Trinity College D5, Cambridge

Gentile signore,

ci dispiace non potervi dare l’indirizzo di casa di William Erikson, ma saremo felici di inoltrargli qualsiasi lettera voi vogliate inviare a questo ufficio.

Cordialmente,

A.E. Smith (per J. Trygvesen)

(s)

William Erikson

c/o J. Trygvesen & Co. Ltd

105 Charlotte Street

Londra

Pregasi inoltrare.

(nessuna lettera allegata)

(t)

(da Sigbjørn Tarnmoor, Liverpool)

Benjamin Wallace, Esq.

Trinity College

Cambridge

(nessuna lettera allegata)

(u)

Trinity College

D5

A…

Da dove sei spuntato Benjamin? Con quale diritto ti abbeveri alla caraffa della mia vita? E quando la porto alle labbra… guarda un po’, le labbra sono le tue, e non le mie. Ho la sensazione che Dio si sia frantumato come il pane della cena, e che noi siamo le briciole. Di qui questa continua affinità emotiva.

(non imbustata)

(v)

Che cosa hai tu uomo che tu possa definire tuo?

Che cosa c’è in te uomo che si possa conoscere?

Flusso oscuro del tutto inafferrabile con il pensiero,

un fantasma vago di passato e futuro intrecciati,

Sorella vanitosa del verme…

(w)

Trinity

Caino non dovrà…

Abele non dovrà…

Giuda non dovrà…

Oggi è peggio per Giuda tradire Abele.

Oggi Caino non dovrà uccidere Gesù.

(non completata)

(x)

Conclusioni finali. Ecco qui il segreto intero della nostra intera vita, della vita del mondo, se solo potessi capirlo: antiche creazioni cancellate da nuove vite reali. Una creazione ha un significato e un’esistenza fisici, così come noi riceviamo la nostra esistenza da dio – in mancanza di una parola più azzeccata –, che si muove egli stesso come uno scrittore nel suo oscuro manoscritto. E tu Plotino Plinlimmon!

(non imbustata)

(y)

Caro William

(non continuata)

(z)

Caro Benjamin

(non scritta)