V

Quando la sfortuna ha scelto un determinato uomo come preda, lo seguirà in capo al mondo e lui non riuscirà più a sfuggirvi, pur svettando fin sopra le nuvole come un falco o infrattandosi nelle viscere della Terra come un armadillo.

W.H. HUDSON

I due uomini, padre e figlio, scivolavano lenti per la piazza degli Exchange Flagstones, avanti e indietro.

Nell’incredibile subbuglio che era Liverpool tutto intorno a loro – i suoni degli scambi e gli stridori dei locomotori dalla stazione ferroviaria; dai binari elettrici mentre i treni cigolavano sopra e sotto le case; il fracasso lungo i docks e gli strepiti dei tram; le mille voci dal fiume Mersey (mors?); i cento acuti odori mutevoli; un milione di rumori da incubo – c’era qualcosa intorno al capitano Hansen-Tarnmoor e a suo figlio Sigbjørn dell’assolutezza organica che definisce il presente.

Broker, commercianti, tartari, marinai, lavoratori e disoccupati, imbroglioni e gonzi correvano accanto a loro in una direzione; su ogni lato, mentre questa complessa adunanza di facce fluttuava più in là arrivando dal mare (sembrava proprio che queste creature fossero emerse da quell’elemento e procedessero ciecamente da un’eternità all’altra), c’erano furtività e fretta, un’agitazione furente, in mezzo a cui il loro stesso minimo raggio d’azione, eternamente ridefinito, faceva pensare, come era stato suggerito, a qualcosa di fisso e vero nel corso del tempo.

Ed era proprio come se padre e figlio fossero consapevoli di questa assolutezza, come se fosse filtrata, visto quant’erano silenziosi, e diventata parte di loro, come se il passato e il futuro, grazie a rivelazioni troppo spaventose da contemplare, fossero chiusi a chiave in cassaforte insieme ai conti e agli atti della Thorstein e della Brynjarr e alle rette del college di Tor; equazioni che qualcuno avrebbe dovuto far quadrare ma che adesso erano state macchiate di vergogna.

Era da questo e anche da una sorta di straziante considerazione da parte di alcuni suoi impiegati, più difficile da sopportare dell’indignazione più generalmente accusatrice, tranne da chi aveva davvero patito un lutto, visto che i primi tendevano a dare la colpa con troppa veemenza a un solo uomo, quando in questo caso era abbastanza difficile attribuirla al sistema (anche laddove il sistema era sicuramente colpevole), che erano scappati, prima dalla stanza adiacente della società assicuratrice, poi da quella di uno degli avvocati norvegesi, Mr. Tostrup, con la sua scrivania a serrandina e le sue feroci incisioni di Edvard Munch alle pareti, e infine dall’ufficio privato, stranamente inadeguato, del capitano stesso, con l’unico acquerello, in quel momento tragicamente incongruo, di una barca a vela con le vele ammainate, bizzarramente calma, come un gabbiano addormentato sulle onde piatte prima della tempesta.

Fuga? Mica tanto! Perché come assassini la fuga restava circoscritta dalle conseguenze del fatto da cui stavano scappando. Il supplizio non aveva fine. In quel momento sarebbero scappati sulla proverbiale isola deserta, se non si fossero aspettati di trovare testimoni perfino in capo al mondo. Di conseguenza, ammettevano tacitamente che ogni altro allontanamento dal dolore fosse inutile quando nel corso dell’indagine attuale uno sforzo così pietosamente costruttivo, e opportuno, era già stato fatto, e camminavano avanti e indietro lungo la piazza, incessantemente, come in altri tempi avevano passeggiato per il castello di prua, dall’argano al verricello, dal verricello al posto di vedetta.

Ma quel giorno i cavalloni della città si frangevano ai loro piedi.

Il capitano non parlava. Il tempo passava e rallentavano il passo. Si ritrovarono sempre più al centro, sotto la statua di Lord Nelson, in mezzo alla piazza, camminando come prigionieri in una nave le cui catene, tirate senza fine sull’anello a golfare, costringessero i loro passi gravosi a ritirarsi per l’ennesima volta. E ogni occhiata verso di loro conteneva una minaccia di punizione, ogni incontro una possibile diminuzione di quel poco di libertà che gli restava loro.

“Questa è una calamità senza senso,” sbottò infine il capitano. “Se solo fossi stato lì! Se solo potessi riavere quel momento!”

Abbassò lo sguardo sulle scarpe, perfettamente lucide. In effetti era vestito con più cura di quanto Sigbjørn non avesse notato in precedenza, come se si fosse detto, per resistere alla seduzione del dolore: Tu non mi hai ancora sconfitto, Mondo!

In effetti, non fosse stato per una straordinaria irritabilità, che, accentuando la sua calma, assumeva la forma di un sobbalzo a ogni accelerazione del traffico, così come una recluta sobbalza per un colpo d’arma da fuoco, e per uno sguardo di puro terrore che gli si dipingeva in viso ogni volta che quel suono in particolare – esso stesso come uno sferragliare di catene per tutta la città – si protraeva insolitamente a lungo, Sigbjørn gli avrebbe attribuito una notevole insensibilità, e anche così solo in quel momento per la prima volta stava cominciando a tradire, attraverso un pizzico saltuario di sfacelo e disperazione nel tono di voce, l’agonia che aveva sopportato e che continuava a sopportare.

“Il mio obiettivo e la mia prassi sono stati di acconsentire ad accordi che restassero sempre dignitosi,” disse a quel punto, con concisione insolita. “Da fuori potrò anche sembrare pratico, banale, cameratesco. Ma dentro…”

Quell’aria terrorizzata gli si dipinse di nuovo in viso per la combinazione dei meccanismi stridenti e degli ululati elettrici quando, quasi simultaneamente e da entrambi i lati di Tithebarn Street e Dale Street, le luci verdi lampeggiarono contro il mezzogiorno, lasciando sfilare il traffico congestionato.

“Abramo se ne sta sempre lì con un archibugio,” aggiunse con una specie di risata singhiozzante, ma che insieme era un palese ammonimento a un conoscente che si era girato per rivolgergli uno sguardo ostile.

Continuarono a camminare, dando la schiena a tutti; ma Sigbjørn percepiva, per conto del padre, le vocine di quei commercianti dal passo svelto e di tutti gli altri che si avvicinavano di soppiatto: sentì calunnie da fonti ipocrite, la presenza del diavolo, e la sua immaginazione riempì il silenzio che era sceso tra di loro con i mormorii di quella gente: “Ecco i Tarnmoor, lo vedi quel tipo, mi piacerebbe farci a botte, cerca di farsi pagare dall’assicurazione per il naufragio, una vera onta per Liverpool, aveva due figli a Cambridge, ha spinto uno al suicidio, quello è l’altro, un tempo era un personaggio rispettabile…”.

“Padre, sarebbe stato lo stesso,” disse Sigbjørn. “Non avreste potuto dire niente, non avreste potuto fare niente, per cambiare alcunché.”

Si fermarono al centro della zona di scambio, appoggiati contro la balaustra intorno al monumento alla memoria di Lord Nelson. E la normalità di questa scena, ogni volta che Sigbjørn ci faceva caso, serviva anche ad accrescere la sensazione confusa di quel momento; il portico, che correva lungo tre lati del cortile, due dei quali contenevano gli uffici commerciali, e sull’ala orientale la sala degli scambi e delle assicurazioni, che gli suggerivano ancora una volta che nel bel mezzo di tutto ciò che era fluttuante e transitorio – perché questa solidità architettonica dava ostello a diverse bancarotte –, stavano provando qualcosa che in effetti avrebbe potuto davvero, come aveva accennato curiosamente suo padre, essere manifesto in ogni rapporto umano come il sacrificio del figlio Isacco voluto da Abramo.

In quel momento suo padre, con un’accentuazione stranamente sensibile d’interesse verso la statua, come se essa fosse in qualche modo simbolica di quello che stava accadendo, leggeva le parole iscritte alla base…

“Posta quivi nel 1813 su progetto di Matthew Charles Wyatt Esq., fusa e modellata in bronzo da R. Westmacott Esq.,” lesse ad alta voce il capitano.

“Secondo me è proprio brutta.”

“Vediamo un po’: le quattro figure intorno al piedistallo dovrebbero rappresentare, credo, le quattro vittorie.”

“O i Quattro angeli di Melville ivi convenuti,” disse Sigbjørn.

“Be’, la figura di Nelson è quella principale. E la Vittoria sta coronando la spada dell’eroe con un’altra conquista.”

“Mentre la Morte… Non è la Morte, quella?… La si vede muoversi furtivamente tra le pieghe della bandiera del nemico toccandosi il cuore, sì, nientemeno che il cuore, con il palmo della mano.”

“Già, capisco. Una manina casta e classica,” disse il capitano. “E intanto Britannia, quella è sicuramente Britannia, piange il destino del figliolo, mentre lì vediamo un marinaio impavido, il bel marinaio dei libri, senz’ombra di dubbio, che balza in avanti con tutta la gagliardia della giovinezza per sferrare un colpo mortale. È molto ironico, converrai: ‘L’Inghilterra si aspetta che ogni uomo compia il proprio dovere’.”

“Sotto la bandiera abbassata, nasconde la mano perduta,” disse Sigbjørn.

“Oh mio Dio, se solo…” Senza preavviso, il capitano Tarnmoor si lasciò cadere sulla panchina di ferro. “Non avresti potuto fare qualcosa per aiutare? Non avresti potuto impedirlo in qualche modo? In qualsiasi modo?”

Era diventato così pallido, da quando s’era chinato, che sembrava sul punto di svenire, proprio come il capitano spagnolo Benito Cereno era svenuto tra le braccia del suo servo negro. Le parole successive arrivarono fiacche:

“Ma io non sono Sir Arthur Henderson, o Currie, o Booth… E poi verso quale stella puoi mai dirigere la tua vita? La stella Assenzio?”… Le sue ginocchia tremavano in modo allarmante, anzi tutto il corpo tremava mentre Sigbjørn lo aiutava a ritrovare una postura eretta. Il capitano si passò una mano sul viso, guardando disperatamente i tanti facchini sfaccendati arrivati lì per dare un’occhiata e che ora battevano in ritirata, con il vuoto negli occhi.

“Dio, piuttosto che quello che ho passato, preferirei…” Il capitano contemplò lentamente e confusamente la statua.

“Qualcuno sarà morto di crepacuore…”

Sigbjørn gli stava accanto in silenzio.

“La battaglia di Copenaghen è stata tra quelle di Nelson,” disse il capitano, riprendendosi un po’. “Ma non tornare lì, lassù al Nord, dalle popolazioni bionde, come Tonio Kröger, altrimenti ti chiuderanno a chiave nella biblioteca pubblica o in gattabuia, se ti trovano ubriaco. Non ricordo nemmeno che cosa gli hanno fatto.”

“Voglio tornare,” disse Sigbjørn. “Non è per cattiveria, per voi farei qualsiasi cosa, ma voglio tornare lì.”

“Torni lì? Che hai detto? Già, vuoi tornare. Ma tornare dove? In che senso?”

“Voglio riprendere il mare. Chi lo sa, potrei anche tornare dai biondi.”

Distolse lo sguardo, mentre un gemito strascicato arrivava dal fiume, come se volesse commentare ironicamente la sua decisione. Quando si girò di nuovo verso suo padre, rimase sorpreso nel vedere che si stava accendendo un sigaro.

“In noi tutti c’è qualcosa di Micawber,” disse il capitano, esalando uno sbuffo d’aria grigia. “Il problema è che non ho chiuso occhio. Ma cercherò di tornare in me, almeno per il momento.”

E quasi subito buttò via il sigaro. Si alzò, afferrando Sigbjørn per un braccio, e s’incamminarono verso Dale Street.

“Odio attraversare lentamente questa piazza, a qualsiasi ora,” disse. “Vedi, la Thorstein era…”

Esitò, pasticciando con le parole, e a Sigbjørn sembrò un uomo in preda a un vero tormento fisico il cui strazio centrale era stato di nuovo sollecitato, un uomo che lottava con tutte le sue forze. Il figlio aveva concluso che ci fossero certe quote di colpa, di errore, imputazioni per cause sbagliate e giustificazioni corrette, evasività e forse ogni tanto un guardare in faccia la verità che suo padre aveva provato, ma che si riferivano sempre a questioni un po’ precedenti o un po’ successive al fatto. Era come se al centro ci fosse un nucleo di orrore circondato da un’infiammazione dolorosa quasi del tutto immedicabile. Intanto, però, era ancora preparato a valutare la forza delle altre parti coinvolte. Ma, essendo contaminato l’intero sistema, era impossibile evitare di scoprire punti dolenti in ogni dove, così come evitare di richiamarvi l’attenzione.

In quel momento, come una scena in un cartone animato fantastico, nella quale un’automobile in un vicolo cieco mette le ali, continuò al di là delle terre scabre, sull’altro lato.

“Eppure ero pronto ad assumermi il peso della colpa. Avrei pagato qualsiasi pena per quelle vite. Mi sono tormentato se dovessi o no uccidermi e ho deciso… Entriamo qui, in questa Bodega,” e spinse Sigbjørn per le porte scorrevoli, “…ho deciso che un capitano sicuro di aver compiuto il proprio dovere non affonda con la nave; quanto all’armatore, ha delle responsabilità da scaricare su chi resta. Ammesso che resti qualcuno. O potrebbe avere dei figli… un figlio, un figlio rimasto.” Il capitano ordinò due sherry.

Quando vennero serviti, il capitano rimase a fissare il liquido dorato senza bere, come se bastasse il pensiero a dargli malessere.

“Non riesco a bere. Non riesco a mangiare. Eppure mi piace ancora stare in mezzo alla gente che mangia e beve.” Sorrise. “Mi sento stranamente incline a ridere di certe sciocchezze.” E scosse il capo con aria volubile verso alcuni conoscenti in fondo al bar che lo guardavano strabuzzando gli occhi con un misto di orrore e stupore.

“Ma non c’è nessuna spiegazione per questo, nessuna. Non riesco a capirlo. Ora, se la tua nave stesse andando a sud e tu volessi virare a est, che cosa faresti, Barney?”

“Io andrei a dritta… No, barra a sinistra.”

“Stanotte il timone è durissimo,” disse lentamente il capitano. Poi si girò verso il figlio, con l’ambivalenza di un dubbio cosmico che gli spaccava la mente in due tracce distinte, come la scia di due navi. “Pensi che io sia responsabile, Tor?… Cioè, Barney? Dimmi, pensi che io sia responsabile? L’inchiesta ha detto che il timoniere era pazzo.”

Si avvicinarono come due cospiratori.

“È assurdo che tu non ci creda,” continuò. “Tocca quel legno, è altrettanto duro. Quel boccale, è altrettanto freddo. E vi si scorgono i nostri riflessi: noi sappiamo dove siamo, ma non associamo simili sventure a noi.”

“Dio santissimo!” esplose all’improvviso. “Non posso restare depresso per tutta questa faccenda. So che tua madre avrebbe… Solo non deve sussistere alcun dubbio. Non bisogna lasciare niente di ambiguo. Come se fosse possibile! Il verdetto dell’inchiesta…”

“Calma,” si ammonì, abbassando la voce. “…Il verdetto dell’inchiesta, tanto quanto la tua spiegazione, è stato ambiguo. Dimmi tutto quello che sai. Io accetto che Tor fosse sempre terribilmente infelice. Per certi versi potrei rallegrarmi che lui si sia levato il peso della vita, a meno che non stia fronteggiando qualcosa di peggio. Ma non bisogna lasciare niente di ambiguo indietro… come se ci fosse qualcos’altro al di là del dubbio…” Spinse lo sherry intatto verso Sigbjørn, che scosse il capo… “Tutto questo mi ha messo in una condizione comicamente malsana, non so più quello che dico. Crollare! Sì, crollare! Sprofondare!”

Sigbjørn, tremando, cercò di controllarsi, di riprendersi a sufficienza per escogitare una qualche risposta. Si guardò in giro, reggendo l’ampolla di sherry, contemplò le facce ostili intorno a loro, i barilotti enormi, San Lucar, Pasto, Pale Dry, e la pubblicità del porto innescò un ritornello idiota nella sua mente: old port, leggero, delicato, il meglio di Cockburn… Ma non riuscì a dire niente, mentre continuava a guardare impotente i barilotti.

Si alzarono per andarsene, facendosi strada fino a sbucare all’aria fredda della mattina, in un azzurro moderato, azzurro… azzurro come gli occhi marini di Nina…

“L’ho ucciso!”

Per un attimo, il capitano Hansen-Tarnmoor arretrò contro la finestra della Bodega, come un uomo colpito da un fulmine. E Sigbjørn, lì accanto, in piedi, in apparente eterna attesa del suo crollo, vide con l’immaginazione l’equivalente elementare di questo colpo apoplettico, il lampo che brilla all’improvviso come un avvertimento da un faro in una tersa notte estiva, il cui avvertimento è anche un invito alla tempesta; Icaro che cade lentamente in lontananza mentre i contadini arano i campi; i manici bruciati sotto il sole ora all’ombra si trasformano in ali nere.

Ma come un fuochista, provato dopo le bevute in porto, riesce a superare l’ultima mezz’ora nel primo turno di veglia in mare, mezzo suonato ma sorretto da qualche eroismo interiore, come se il ferro dei suoi stessi strumenti roventi gli fosse entrato nell’anima, il capitano lentamente, con infinita dolorosa determinazione, sembrò raccogliere le forze per evitare di crollare. Poi disse chiaramente, come se la sofferenza l’avesse reso chiaroveggente, o come se – per qualche altro essere nella cui anima era entrato in qualche altra “regione”, dove era scesa la notte – questo stesso lampo avesse solo illuminato tutto ciò che un attimo prima era sprofondato nel buio:

“Quello che dici non è del tutto vero. Io non ti credo”.

Erano lì a guardare la strada che scendeva ripida verso il Mersey e Sigbjørn si ricordò di come lui e Tor avessero contemplato Cambridge dalla collina delle impiccagioni, immersi in un mondo invernale.

“Potete essere considerato responsabile solo nella misura in cui avete messo al mondo il suo assassino,” disse Sigbjørn. “Ma difficile aspettarsi che voi ne aveste idea.”

“No, non ti credo,” disse di nuovo suo padre.

Adesso stavano camminando con passi lenti e affranti per una strada buia vicina ai moli: i magazzini ammassati, le saracinesche, i tetti, i cavi impilati sul pontile sembravano stupidamente voler parlare con loro: la verità non è questo né quello, sembravano dire, voi siete dalla parte della ragione, non potete farci niente, solo la causa ha torto.

“Mi ricordo dei vecchi capitani, qui, bruciati dal sole: che andavano e venivano, parlando di Valparaíso.”

Alzarono lo sguardo verso le nuvole in viaggio, cariche di ricordi passati: una sola nuvola era rimasta indietro: Nave bianca in un viaggio fallimentare.

Adesso il padre prese il figlio per un braccio.

“Non l’hai fatto, lo so. So come va il mondo, ragazzo mio. Ho fatto i miei turni al timone. Hai mai governato un timone difettoso, tu?… Ho fatto avanti e indietro sul castello di prua, ragazzo mio.”

“Come se lo stessimo facendo adesso!”

“Sì, ho parlato con gli uomini. Conosco i marinai tanto quanto te. Ho sgobbato duro insieme a loro, posso fare un paranchetto volante, molti capitani erano miei amici. Anch’io sono stato capitano, ho attraversato l’Atlantico diverse volte per – come dire? – affari… Mi sembra di parlare a vanvera. Il dolore è una specie di delirio, non badare a me. Ma i folli vivono a lungo. Barney, lo sai quant’ero sconvolto quando ti ho visto partire per la prima volta? Eppure non ci crederai ma ero felice che partissi! Come si fa a parlare così? Ma noi non associamo simili sventure a noi stessi, Barney, no? Queste cose non succedono quasi a nessuno. E a quelli a cui succedono, a quelli a cui succedono, non è permesso di…”

“Di cosa?”

“Di avere accesso ai misteri, diciamo così?”

“Che cosa diavolo vorreste dire?”

“Qualcosa si sta scatenando… Sì, qualcosa si sta scatenando. Sai, è un mistero come la prima causa di tutte le cose, eppure… Hai mai letto Moby Dick?”

“Diverse volte,” disse Sigbjørn.

“Bene! Allora forse avrai un’idea, un sentore, della forza cieca e malvagia – apparentemente duplice – che esiste al mondo, trascendente… Ce l’avrai, eppure non sei superstizioso, vero? A proposito, Melville è passato di qui, gironzolava proprio in questa zona. A Liverpool. Già, ed è stato qui che deve aver parlato con Hawthorne. Melville pensava davvero di aver trovato in Hawthorne un alleato spirituale! Melville pensava davvero che Hawthorne avesse scritto i suoi stessi libri, ma meglio di lui! Non mi hai detto di aver scoperto un qualche norvegese che aveva scritto il tuo libro meglio di te?”

“William Erikson!”

Per la prima volta Sigbjørn estese il suo hyrkontrakt.

“Spero di vederlo in Norvegia,” disse. “Peccato che per quanto ne so io la mia nave debba andare ad Archangel’sk.”

“La tua nave! Come si chiama la tua nave?”

Unsgaard.”

Aasgaard! Il vecchio mito norreno ci dice che Aasgaard stesso alla fine sarà consumato e che gli dèi verranno distrutti.”

Unsgaard, ho detto.”

Il capitano prese in una mano il libretto marittimo verde ritirato da Sigbjørn quella mattina al Konsulat norvegese, e con l’altra inforcò gli occhiali.

“Sì, vedo. D/S Unsgaard, Sigbjørn Tarnmoor Stivatore di carbone,” lesse. “Skibets reise fra Prester til Archangel’sk/Leningrado.”

Il capitano gli ripassò con calma il libro, come se solo a quel punto avesse accettato il viaggio.

“Bene! In Norvegia ormai la caccia alle balene è finita. Ho venduto una delle mie navi alle Larvik Fisheries, la Sequancia. Be’, ormai Moby Dick è finita lì.”

“Ed è lì che sto andando.”

“Già, Oslo è la nuova Nantucket, Larvik il suo ’Sconset. È da lì che comincia la caccia a Moby Dick o comincia qui, dove il suo grande creatore ha passeggiato? Ahimè, Liverpool stessa un tempo è stata un sogno nella sua mente,” disse il capitano Tarnmoor, “ma il Baltimore Clipper lo deluse. L’Hotel Riddough, dove era stato suo padre, e che lui non riusciva a trovare – ma dov’è, poi? – fu l’amarezza successiva? La donna macilenta nel magazzino del cotone? Ma perché continuare?”

“Se lui avesse visto Liverpool oggi, forse ne sarebbe rimasto più amareggiato?”

“La seconda volta che venne a Liverpool, partì da qui per la Terra Santa. Forse oggi, come te, sarebbe andato in Russia. O forse sarebbe rimasto a Liverpool a vivisezionare il suo speciale eroismo, i suoi stessi naufragi affrontati eroicamente!”

“L’idea della Russia come Terra Santa è sicuramente falsa!”

“Ma a parte tutto questo, che cosa hai scoperto? Che non eri per nulla uno scrittore?” Il capitano Tarnmoor fece una digressione. “Be’, forse, questa è la scoperta più soddisfacente di tutte, che tu non sei quello che credi di essere, che i tuoi ipotetici colleghi non sono tuoi per nulla… Ma perché continuare? Dopotutto, forse hai ragione: cambia il mondo, uccidi il tuo vecchio padre, ma per carità non scrivere di te stesso.”

Sigbjørn fece una smorfia.

“Ti ho dato fastidio?” continuò il padre. “Non mi ascoltare. Sono io che sto male, e basta. Spero che i tuoi libri abbiano tutto il successo del mondo. Devi trovare il tuo posto sulla Terra, santo cielo.”

Sigbjørn rise, non per divertimento, fu più una di quelle risate che si diceva si concedesse de L’Isle-Adam quando era colmo di un eccesso di giovialità bizzarra e sovreccitata, risate che, ribadite dalle eco notturne, facevano ululare i cani o rigirare nella tomba il suddetto. Alzò lo sguardo verso le nuvole: c’era una flotta di nuvole eternamente in partenza.

“Dimmi,” cominciò suo padre, “adesso me lo puoi dire. Cos’è successo quella mattina. Il resto lo so.”

“Sono uscito presto,” disse Sigbjørn, come se recitasse una parte provata a lungo da solo. “Non credevo davvero che l’avesse fatto. Il vento soffiava sulle paludi. Eppure, allo stesso tempo, in qualche modo sapevo che era morto. Per tutta la notte avevo sentito il suo cuore che mi batteva nell’orecchio.”

“Che vuoi dire?”

“Come un orologio che ticchetta in una stanza vuota. E verso le sei mi è sembrato che smettesse. L’orologio del St. Mary faceva le sei. C’era un vento fresco, pulito e forte, come un giro di vento intorno a un promontorio. Avevo la strana sensazione di aver rimandato un SOS impellente.”

“Allora? Me lo puoi dire.”

“All’improvviso mi ha preso il desiderio di fare del bene, di alleviare le sofferenze…”

“Sì. Continua…”

“Non c’è nient’altro da dire. Nessuno può fare del bene a uno studente morto stecchito su una branda.”

“Chi lo sa?”

“Ma il futuro!…”

Sigbjørn rivide l’oceano, i frangenti grigi che si rompevano lentamente, gli uccelli delle tempeste di Wilson sparsi qui e là, una nera nave carboniera che affondava nelle onde, tutto grigio, grigio, grigio…

Ah, amata nave, tremante in ogni albero: partirò…

“Barney, ascolta. Uno di noi deve restare sano di mente o entrambi avremo un esaurimento. I fatti mi sono chiari. Ormai so quello che non hai detto e quello che hai detto all’inchiesta. Il fatto che tu non sia riuscito a dissuaderlo e così via. Ma, accantonando tutto il mio dolore, dobbiamo smetterla di parlare a vanvera come pazzi, Barney. Dobbiamo essere lucidi, anche se non facciamo che vedere carneficine e morti improvvise. Primo, dubito che ci siano molti suicidi di quel genere, nati da un impulso improvviso. Sì, senza saperlo mi accorgo adesso di come Tor si fosse portato la morte dietro per anni. Di come fosse circondato da una strana fatalità che gli nasceva dentro, di come il suo suicidio, a dirla tutta, divenne l’unico obiettivo della sua vita. Dici che la sua targhetta con il nome nell’androne era sparita! Davvero, non devi buttarti la croce addosso, perché era come se lui avesse smesso di esistere. No, in definitiva, sono sempre io a essere colpevole, per un migliaio di circostanze nelle quali avrei potuto dimostrare più comprensione, un moto di complicità, è come se a ogni passo l’avessi rifiutato, tradito…”

E le mani, come uccelli frenetici nella tempesta, che guizzavano sulle maniglie del timone, mentre la Thorstein finiva sugli scogli…

“Che cosa faremo? Dove possiamo andare? Perché ci succedono queste cose?”

“Come possiamo pensare a Tor? Come facciamo anche solo a pensare a lui dopo che abbiamo perso così tante vite? Ognuna con le sue paure e le sue speranze, tremante nel buio, adesso solo voci che gridano chissà dove, che gridano nel buio in cerca d’aiuto: le sento tutta la notte… prigioniere di invisibili procelle! Mio Dio, è assurdo!”

Sopra di loro un aeroplano stava virando lentamente, incredibilmente lentamente… virando contro il vento impetuoso, poi il motore si spense, dando la sensazione che planasse come un gabbiano sulle ali; poi, scendendo di nuovo in picchiata, il motore riprese vigore con un ruggito possente: lenta virata di Immelmann.

Attenzione: arcata bassa.

È più tardi di quanto tu non creda.

S’incamminarono a passo lento lungo la strada che seguiva i docks, ma non avevano una meta, e non sembrava che sapessero dove stavano andando, mentre tagliavano per le traverse puzzolenti e i magazzini aperti dove si scaricava, e rimasero a guardare in giù verso le enormi cantine, come se fissassero un vuoto dentro se stessi, e una decina di volte si misero perfino a chiacchierare del più e del meno. Perché l’orrore stava in rapporto con quella scena come l’irrealtà voluta sul palco sta a una certa commedia stilizzata, in cui quello che conta non è la realtà secondo la vita ma secondo la realtà singolare del teatro: la scenografia e l’illusione sono soddisfacenti solo nel momento in cui ricreano per il pubblico la sua stessa fantasia. Ed era come se il capitano e Sigbjørn fossero spettatori del naufragio delle loro vite in una commedia che pareva infinita, nella quale la fantasia che prendeva piede era sempre a tal punto poco convincente da diventare negletta sia dalla coscienza che dalla sensibilità.

Chiusero gli occhi, provando quella specie di noioso dolore che segue la sazietà fisica. Era curioso, ma erano vittime di un’attenzione svogliata verso il loro stesso dramma, anzi per lunghi periodi riuscivano perfino a dimenticarlo, finché con uno shock la voluta illusorietà del teatro non tornava a far parte della loro vita, come in una commedia alla quale partecipa anche il pubblico. E adesso, mentre camminavano, spesso dimenticavano “il fatto”, così come ci si dimentica della prima causa di tutto, del peccato originale e di tutti i misteri in centinaia di vessazioni minori che in sé portano solo allusioni a queste cose.

Senza rendersene conto, stavano compiendo un ampio giro della città che li avrebbe riportati al punto di partenza, all’Exchange Flags, e di nuovo, tra l’altro, alle domande che li tormentavano e che non avrebbero mai avuto risposta. La loro tragica camminata tracciò nella città un enorme punto di domanda. Sostarono a un semaforo in silenzio. Quando arrivò il verde, insieme alle automobili, ripartì tra di loro un flusso di chiacchiere accumulate, parole che riprendevano vecchi discorsi: qualsiasi cosa pur di evitare il tarlo che li divorava. Fecero una salita, godendo di uno strano piacere anche solo in questo, che per un momento, per quanto breve, fossero liberi di salire al di sopra dell’elemento al quale discendono inevitabilmente tutte le salite, all’acqua, al mare. Eppure, anche mentre salivano, per la decima volta il padre stava dicendo:

“E quindi vuoi riprendere il mare?”.

E per la decima volta, Sigbjørn stava rispondendo:

“Sì, devo andarmene, ritornare sui miei vecchi passi, all’origine della mia stirpe”.

“Ossia, a tua madre, alla Norvegia.”

“Be’… Su una nave norvegese. Ma deve proseguire fino ad Archangel’sk per caricare del legname. Non so nemmeno se toccherò le sponde della Norvegia.”

“E allora Erikson?”

“Se non arriverò in Norvegia, allora non lo incontrerò. Ma sarò in grado di adattare quel libro per il teatro fra un turno e l’altro. E vedrò la Russia, dove il futuro viene forgiato a colpi di martello…”

All’improvviso – svoltando un angolo vicino a Gladstone Place dove c’era il Sailor’s Institute e marinai e fuochisti nullafacenti ciondolavano a gruppetti, gli occhi rivolti all’oceano perduto, così come gli uomini in mare sfaccendati fissano la grigia malinconica distesa d’acqua pensando a casa, dove forse non faranno più ritorno – si ritrovarono in mezzo a una piccola folla. Un odore pesante di tela, tiepidamente umido, come l’interno di una lavanderia, arrivava alle loro narici. Tutto a un tratto, le grida, l’eco degli zoccoli, il caos.

Non riuscivano a vedere niente, le braccia erano impotenti e le facce erano schiacciate contro la tela grezza. Erano sprofondati in una selva oscura di esseri umani. Passarci attraverso era impossibile, tanto quanto spostare i tronchi degli alberi. Poi qualche alberello più elastico cedette. Per un attimo Sigbjørn ebbe il timore che li avessero riconosciuti e fosse in corso una dimostrazione contro suo padre. Ma si resero subito conto che si trattava di un corteo di lavoratori che stava per venire disperso dalla polizia. Per qualche minuto furono trasportati dal torrente rabbioso che sembrava gonfiarsi allo stesso tempo da nord, sud, est e ovest. Da parte a parte strideva la sirena di un’ambulanza. Tre poliziotti piombarono a cavallo davanti a loro, li costrinsero a deviare.

Adesso tutto era tornato calmo, erano in Post Office Road, come navi tirate in secca in fretta e furia al sicuro dalla tempesta, mentre più sotto le onde trascorse si ritiravano verso le loro rabbiose seguaci, le cui predecessori, a loro volta, stavano sparendo oltre il promontorio. Poco più in là non si poteva vedere già più niente di quel che era successo così in fretta. Non arrivava quasi nemmeno l’eco dei tumulti in corso al di là della loro consapevolezza e – chi lo sa? – rivolta al futuro. Forse non c’era stato nessun tumulto. Forse era solo un qualche fenomeno chimico che rifletteva il loro turbamento. Qualsiasi cosa fosse, non era riuscita a liberarli dalla disgustosa fissazione verso ciò che sembrava triviale. Si poteva solo dire, forse, che il caos precedente aveva riepilogato in quel forsennato movimento un po’ della confusione che albergava nella mente del capitano.

“Allora il tuo obiettivo, o la tua assenza di obiettivi, è duplice,” disse il capitano, mentre camminavano per Post Office Road. “Ti senti di dover partire a bordo di una nave norvegese, e per certi versi sei già a casa. E soprattutto, a casa senza neanche toccare la Norvegia, che non sei nemmeno sicuro di raggiungere! Nemmeno di voler incontrare Erikson sei sicuro! Anzi, aspetta… forse potresti incontrarlo, ma senza rendertene conto, perché così come sei già a casa, in un certo senso, su quella nave norvegese, la Unsgaard, così potresti anche conoscere Erikson, scambiarlo per un membro dell’equipaggio. In breve, conoscere te stesso. Solo un nuovo io. Oppure… Ma dov’è diretta la Aasgaard dopo ­Archangel’sk?”

“La Unsgaard? Deve tornare a Preston con il legname. E mettiamo che a me non importi niente di dove mi conduce! Voi che cosa ne direste? Perché di questi tempi qualsiasi cosa sembra meglio che portarsi il proprio intero orizzonte in tasca…”

Attraversando, erano finiti al centro commercial, dove le madri si affannavano dentro e fuori dai grandi magazzini con i figli in divisa scolastica e ovunque aleggiava un forte aroma di caffè. Qualche ricordo amaramente distillato del passato spinse padre e figlio ad accelerare ancora di più il passo. Sopra di loro, le ombre delle nuvole correvano sulle travature, spazzavano gli alti edifici dove tessuti morbidi baluginavano dalle finestre più alte. I tram arrancavano verso Calderstones, l’Old Swan, London Road, Islington, Mossley Hill, Aintree.

“Sei fortunato ad avere una qualsiasi cosa da portarti in giro in tasca,” disse il capitano; aggiungendo, come se fosse costretto: “Be’, ti do la mia parola. Hai ventun anni e, se vuoi andare all’inferno, devi farlo a spese tue”. Cambiò subito l’orientamento delle sue osservazioni. “Ma perché, perché, arrendersi alla volgarità del viaggio? Se entri nell’equipaggio di una nave norvegese, be’, questo non estingue la necessità interiore di un tuo ritorno in Norvegia? Perché invece, come Huysmans, non dare il viaggio per scontato? Dopotutto, la tua gravitazione spirituale verso la Norvegia contiene in sé il suo compimento. Soprattutto se, come è stato detto, la rivoluzione è la soluzione ai problemi del presente, allora in questo momento faresti meglio a non scappare ma a tornare a casa con me: per certi versi ho bisogno della tua cooperazione, percepisco già la stimolazione fisica e la fatica morale di un uomo che torna a casa dopo un viaggio pericoloso.”

“Non sto scappando. E poi a che vi servo, io?”

“D’accordo, un fratello – o un figlio, se è per questo – è ‘più inespugnabile di una città forte e le sue intenzioni sono come le sbarre di un castello…’ Potrei riempire la tua camera di pubblicità di compagnie che battono le rotte del Sud America e così via. E pubblicità per La Paz e Buenos Aires e Batavia. E poi…” A quel punto il capitano cominciò a tossire e cambiò di nuovo argomento. “E poi non hai già fatto questo tipo di esperienze a sufficienza? La Cina, il Borneo, il Giappone: che altro vai cercando? Quei posti non ti hanno regalato lo spettacolo di montagne più belle, di scenari più incantevoli?”

Sigbjørn sembrava parlare da solo mentre borbottava, guardando dritto davanti a sé mentre accelerava il passo accanto al capitano:

“Devo andare… Devo! Devo vedere Erikson… È come se mi avesse rubato il diritto di nascita. Eppure non provo nessuna invidia: è solo che sento di essere un suo personaggio. No, non quello, io sono Erikson…”.

Quando rispose, il capitano non aveva più fiato:

“Senti, coincidenze del genere, spesso fallaci e immaginarie, ma a volte piuttosto reali, si verificano in tutte le grandi invenzioni dell’uomo. Maeterlinck lo mette in chiaro abbastanza volgarmente più o meno con queste parole. Fluttuano, per così dire! È come se un pugno di individui privilegiati, più sensibili o più perspicaci degli altri, cogliesse simultaneamente un avvertimento dall’aldilà e attingesse al segreto pozzo spirituale che la natura di tanto in tanto apre”.

“Non è questo il caso.”

Nel punto più ripido di Lord Street, che ora stavano salendo, il capitano annaspò:

“Be’, la gravitazione stessa è un bel mistero… Idem dicasi per la matematica superiore. Che cosa sappiamo?”.

Un ricordo di Tor baluginò per un attimo in Sigbjørn e poi svanì.

“Ogni anima conosce il proprio Getsemani. È più o meno tutto quello che possiamo dire.”

Avevano svoltato in Mount Pleasant, una di quelle strade che, insieme a Great Homer Street e altre che convergono sui canali principali verso l’estremità del pontile, erano come affluenti minori del Mersey stesso. Le insegne di un cinema, costruito in discesa, attirarono la loro attenzione.

Century Theatre, la Casa dei film insoliti, La fine di Pietroburgo di Pudovkin.

Entrarono di slancio, come se avessero fatto tutta quella strada solo per trovare rifugio lì. Ma una volta dentro restarono quasi smarriti. Come ciechi, arrivarono a tentoni fino al loro posto. Stavano proiettando il film principale. Gente in marcia da qualche parte, pensò Sigbjørn, qualcuno stremato che strisciava sul ciglio della strada. Che Dio mi aiuti… Il governo Kerenskij è solo la solita solfa ammantata di nuovo. Nessun compromesso!

Dietro di loro – e sentendoli Sigbjørn si girò di scatto – un uomo mormorava qualcosa a una ragazza, forse una studentessa universitaria.

“Lo vedi che questi operai non complicano più le cose con l’anima?” stava bisbigliando lo studente. “Non hanno il tempo per le nevrosi, per parlare di se stessi, hanno ben altro da fare, sono pronti a prendere il potere…”

Lì vicino un’altra voce dal buio li ammonì: “Ssh! Ssh!”, e quelli smisero di parlare.

Padre e figlio rimasero lì in silenzio, sporgendosi in avanti con impazienza, quasi con l’aria di voler saltare dalla sua poltroncina nel cinema dentro quel mondo, non meno tragico del loro, ma dove la speranza rimpiazzava la sterilità, e il coraggio la disperazione; perché anche se questo film non celebrava il raggiungimento – il successo, che dir si voglia – di una repubblica dei lavoratori, tuttavia era proprio l’invocazione di qualcosa che non era ancora arrivato a trapelare, e l’idea di muoversi e darsi da fare verso un fatto, una soluzione, che li trasfigurava, anche quando l’oggetto in questione serviva solo a ricordare loro che, come due naufraghi, adesso potevano chiamare ogni nave di passaggio lungo la costa della loro vita sempre con scarsissime speranze di essere soccorsi. Ma lì, in quel dramma, le cui ombre erano almeno più reali per loro dei loro stessi conoscenti, la speranza e una soluzione che non lasciasse indietro nessuno erano implicite, e loro potevano trarne conforto.

Dietro di loro le voci ricominciarono.

“Che Dio ci aiuti, ha detto la moglie di quell’operaio a un contadino,” stava notando la ragazza alle loro spalle. “Eppure loro Dio l’hanno distrutto. Lì non c’è più nessuna anima. Oppure è vero che sono stati i preti a distruggere Dio e che solo il governo insisteva affinché loro si rendessero utili?”

“Dio soccorra quelli che credono a questo, continuando a credere in Dio,” rispose il ragazzo.

“Ssh! Ssh!” li ammonì di nuovo la voce nel buio, e tornò il silenzio.

Il Palazzo d’Inverno venne espugnato davanti ai loro occhi. San Pietroburgo diventò Leningrado. Lentamente, una fila di operai irruppe nel palazzo, con dietro la moglie del capo degli scioperanti, un secchio di patate in braccio. Vedendo lei e poi il contadino, gli operai si aprirono in un lento sorriso. All’improvviso lo schermo divenne più luminoso, le luci si accesero. Era la fine dello spettacolo, che non ricominciava subito. Non ci sarebbe stata un’altra proiezione prima delle otto e mezzo, così si alzarono per uscire. C’era solo una manciata di persone nel cinema e nelle ultime file, dove si erano seduti loro, solo tre persone in tutto: i due studenti, che sembravano fidanzati e che se ne andarono a braccetto, e il vecchio che li aveva zittiti.

Sigbjørn non li rivide più.

Sulla porta il gestore si stava scusando.

“Mi spiace che non facciamo più proiezioni. Pubblico scarso… A quanto pare questi film attirano solo spettatori raffinati.”

Padre e figlio scesero Mount Pleasant verso l’Hotel Adelphi. Il capitano lanciò un grugnito. Se per qualche istante erano riusciti a mitigare il dolore, eccolo lì in attesa, simile alla coscienza – nel buio dei nervi – della prossima opportunità per ghermirli.

“Il comunismo non sta soltanto prendendosela con i vecchi,” disse il capitano, “per aver trascurato la tua preziosa educazione sessuale”, e Sigbjørn annuì, “se mi passi quest’affermazione delfica,” aggiunse il capitano, pensosamente, mentre arrivavano davanti alla facciata dell’albergo. Un po’ più giù, si fermarono di fronte a un manifesto del film che avevano appena visto. E mentre fissavano la locandina sgargiante con il povero contadino che volgeva lo sguardo alla città come un pellegrino, un lento doloroso cammino alla ricerca di una vita migliore, Sigbjørn vide il proprio viso riflesso lì, un’altra anima che voleva rinascere, che forse cercava Dio proprio nei luoghi dove Dio era stato annichilito.

Recuperò di nuovo dalla tasca interna il suo hyrkontrakt e lo rilesse tra sé e sé: Tarnmoor, Stivatore di carbone D/S Unsgaard, skibets reise fra Prester til Archangel’sk/Leningrad.

Non disse niente, ma di nuovo ebbe la strana impressione che quel contadino ignorante, ossessionato da Dio, arrancante sotto il peso della sua vecchia vita, rivolto alle eroiche masse sofferenti, fosse lui stesso. Padre e figlio camminavano uno accanto all’altro, individui che né la vita né i libri potevano spiegare.

“Forse pensi che noi non lottiamo. Ti voglio dire una cosa, ho visto tanto eroismo qui, a modo suo, nel cotone, nella navigazione, quanto tu non ne vedrai mai in… Ma a che serve parlare? Le reazioni sono sempre eccessive… Nel mondo odierno sembra assolutamente fatale avere un’intelligenza acuta: non voglio dire solo essere svegli o brillanti… che cosa sto dicendo?… ma conoscere, avere una risposta a tutto. È fatale, quindi, se non usi i tuoi doni, e fatale a tutti quelli che hai intorno… Il punto è sempre non sapere.”

“Non sono sicuro di aver capito, ma chi lo sa…” disse Sigbjørn, già con la testa altrove. “Io sono ignorante come quel contadino, forse anche di più, perché io per sostenermi ho solo nozioni inutili, avanzi di citazioni, epigrammi di chissà chi, paragrafi copiati. Ad ogni modo quel contadino, per quanto spinto dalla fame, avrà pur sempre qualche residuo della cultura, della terra, della verità che si trova nel cuore delle cose. Io non ho nessuna cultura. Sono sicuro di non aver imparato mai niente, se non le inutili bugie di Cambridge. Intanto la radio mi dice chi sono, cosa dovrei fare, qual è il mio posto… e invece eccomi qua…” e si ritrovò a ripetere quello che aveva detto Tor, “…‘a camminare per la strada in un pellegrinaggio molto diverso…’ Ce ne sono centinaia così. E Benjamin Wallae era così.”

Sopra di loro, mentre camminavano per Lime Street, le pubblicità li fissavano con un sorriso, ogni faccia dotata di una smorfia mostruosa e della posa grottesca di un apostolo depresso dell’individualismo più rude. Per i nervi, prendi la fosforina! Damaroids per il cervello! Le pilloline di Carter per il fegato! Con quanta sicurezza ti accalappiavano, pensò Sigbjørn. Quanto assomigliavano ai filosofi! E infine lo stesso identico apostolo con la sua vivace salute li invitava a bere quel certo whisky. Allo scopo, probabilmente, di predisporre i fegati alle pilloline solubili, mentre migliaia di disoccupati marcivano nel fango sottostante. Il circolo vizioso del capitalismo!

Allo stesso tempo, Sigbjørn si chiedeva come gli uomini che tolleravano una civiltà simile trovassero il tempo per fare una qualsiasi altra cosa a parte bere. Quello era certo un alibi per la cecità dell’Inghilterra.

Mentre si spostavano da Lime Street oltre il Washington Hotel fino all’istmo di Manchester Street, nella sua immaginazione Leningrado era ancora sovrapposta a Liverpool.

Suo padre camminava in silenzio accanto a lui, perso nei suoi pensieri.

Sigbjørn scrutò le facce di quelli che scendevano verso l’estremità del pontile. Davvero morte tanta n’ha disfatta? Da nessuna parte segnali di vita, un barlume, una scintilla di entusiasmo… Perfino mentre camminavano, lui partorì l’immagine selvaggia dei nervi esauriti di questi individui, dei loro cervelli che cedevano, laddove, mentre questo disfacimento continuava, gli ingannevoli antidoti a quei problemi, che loro non potevano permettersi, li guardavano con aria beffarda. Questi uomini camminavano verso il mare con il passo incerto di chi era stato mostruosamente ingannato. Chi li aveva ingannati? Dove si dirigeva il vuoto grigio negli occhi dei disoccupati? Da dove arrivavano quegli uomini pallidi come il corso di un fiume riarso, che scivolavano verso il Mersey, così sembrava, con il vento? Era orribile: non ne aveva mai colto prima l’orrore, lo spavento, la tragedia. E nemmeno in quel momento coglieva tutto: quella visione spuntava più dall’intuizione di questo declino che dall’immediatezza dell’esperienza. Forse si sbagliava.

Ma a quel punto vide qualcos’altro:

Tutti, fin dove arrivava lo sguardo in Dale Street, lungo la quale adesso camminavano, tutti zoppicavano. Assomigliava a una processione di zoppi, storpi e sciancati a Lourdes. E all’improvviso ebbe la percezione che questa fosse la camminata incerta del vecchio mondo, mostruosamente ribadita. Il vecchio mondo, chiaroveggente negli ultimi istanti di vita, che forse sarebbe stato distrutto, insieme a tutti i suoi miracoli.

“Avete sentito la mia ghiera d’ottone? State per fare un lungo viaggio.”

E all’improvviso sentì che Tor ormai ne era fuori.

“Sì, Barney,” stava dicendo il capitano, “la situazione è tragica. Semplicemente, estremamente tragica. Tragica perché non posso fare niente. Sono in una posizione simile a quella di un sottufficiale, non a quella di un nostromo, diciamo… O di un addetto alle lampade a olio… un tempo li chiamavamo meschini Giuda, che sfruttano il castello di prua ma che sono a loro volta sfruttati dal ponte. Lo capisci bene: quali che siano le mie idee, mi troverei in una situazione difficile, viste le mie posizioni politiche ed economiche. Se sfrutto la gente il più possibile e pagandola il meno possibile, non è per fare una fortuna. Al contrario, io stesso sono praticamente andato in rovina. Ormai ho denaro sufficiente a malapena per tirare avanti.”

La parola “lampade” riecheggiò in testa a Sigbjørn. Che cosa era successo? Di nuovo, che cosa era successo? Che cosa voleva dire tutto questo? Suo padre aveva deliberatamente…? Ma chiaramente era impossibile!

“Quel che succede a quelli come me è che le grandi linee riducono i miei guadagni lordi sfruttando tattiche di taglio del prezzo e così via. È una vecchia storia: la legge della giungla… E poi i lavoratori stessi, scioperando, mi creano un mucchio di problemi. Non solo quelli imbarcati, ma anche quelli a terra. Si alzano le spese, e poi c’è lo stimolo dell’economia.”

“Be’, nessuno potrebbe asserire che non ho lavorato come un matto per mandarvi a Cambridge e altrove. Perfino ora, che – anche se lotto con tutte le mie forze – sono sull’orlo di un esaurimento nervoso… per nulla migliorato dal fatto che ne conosco le cause. Eppure non riesco a fare i passi necessari per uscirne guarito!”

Un guizzo di empatia attraversò Sigbjørn, come una luce che sia lì lì per fondere. Quali erano le implicazioni della cosa? Stavano in qualche modo liberandosi delle navi per fregare l’assicurazione e poi cavarsi d’impaccio, dando la colpa a un pugno di ufficiali navali? Il ritardo nel mandare l’SOS da parte della Thorstein, che era costato la vita a centocinquanta persone, era forse direttamente collegabile alla policy della compagnia navale per ritardare simili chiamate al fine di ridurre le spese di salvataggio per gli azionisti?

Ma nemmeno questo spiegava tutto. Sigbjørn continuò a rimuginarci su.

Aveva sentito che ogni prova fornita dai sopravvissuti e dai membri dell’equipaggio della Thorstein era stata ignorata dal rapporto ufficiale. Forse ciò sarebbe stato vero anche per la Brynjarr. Quindi questo rendeva suo padre una specie di strumento, uno strumento nelle mani del sistema. E per la prima volta Sigbjørn capì il vero significato della parola “borghese”. Ma certo suo padre non si sarebbe mai prestato a una simile infamia! Non di proposito, non scientemente. No. L’aveva fatto per lui, per Tor; per tenerli a Cambridge? Anche questo sembrava impossibile. A meno che…?

A dispetto di quanto aveva appena detto, non era possibile, si domandò Sigbjørn mentre continuavano a camminare in silenzio, che suo padre si fosse rifugiato in speculazioni complesse e rovinose, non solo per motivi finanziari, ma dapprima a estrema compensazione per qualcos’altro in cui aveva fallito? Che la sua vita fosse un esempio di alopecuria, fare di necessità virtù.

Qual era stato di preciso, si domandò Sigbjørn, il primo fallimento? Quale perdita sinistra aveva dovuto sopportare? Quale vergogna aveva patito? Forse la risposta era sepolta con sua madre in Norvegia. Non l’avrebbe mai saputo.

Ma, mentre cercava di riflettere, stranamente l’intera vita di un uomo semplice, non di suo padre, si dischiuse di colpo davanti a lui. Vide quest’uomo, forse uno scrittore, che cresceva man mano che aumentava la vergogna della propria semplicità, invidioso delle apparentemente enormi conclusioni dei suoi contemporanei, scegliendo alla fine di rifugiarsi nelle loro astrazioni per nascondere un cuore ingenuo che prima aveva gridato in modo troppo funesto, ma con sincerità, quella sincerità che l’aveva spinto a vergognarsi, a rivolgersi a un Dio dopo qualsiasi segno di sofferenza o ingiustizia. E poi Sigbjørn vide queste frontiere diventare troppo ingannevoli per lui, vi­de dove finiva il suo scantonamento, lì dove finiscono quasi tutti i tentativi poco convinti di oltrepassare i confini della conoscenza umana: nella follia e nella disperazione.

Adesso si stavano avvicinando a un semaforo, c’era un traffico intenso, ben presto avrebbero dovuto fermarsi. Suo padre procedeva sempre in silenzio. Sigbjørn aveva mille pensieri. Avrebbe potuto, ovviamente, solidarizzare con lo sfruttamento, ma per la malvagità che lo imbeveva, sempre che fosse una malvagità spiegabile, non c’era comprensione possibile. Se suo padre era entrato nella cosa con spirito d’invidia o di compensazione o solo per fare una specie di gioco, adesso era tutto disastrosamente finito.

Forse molto sarebbe rimasto oscuro anche una volta che tutto fosse apparso spiegato: il ragno poteva anche venire vivisezionato, ma la ragnatela restava un mistero.

“Chissà…” stava dicendo suo padre mentre aspettavano che scattasse il semaforo, “potrei essere consapevole delle implicazioni della lotta di classe, del marciume intrinseco degli stessi giornali che leggo. Ma forse sono troppo stremato dalle battaglie con quelle tremende schiaccianti organizzazioni – e ti assicuro che con me sono tremende – per non essere divertito da quegli stessi giornali. Forse, forse, chi lo sa? È tanto strano che io cerchi di giustificare le mie azioni? Non riuscirei nemmeno a oppormi ai tuoi slanci verso le masse, lo sa Dio. Al contrario, la Scandinavia è sempre stata suggestionabile da ogni idea di emancipazione. La Norvegia non ha sempre seguito con speciale attenzione i grandi eventi, perfino le minime oscillazioni, quella vibrazione, anche solo in superficie, dei maggiori paesi? Non dimenticare il grande Herman Bang che lasciò un fantasma in un vagone ferroviario nello Utah.”

Il fantasma di Herman Bang, seduto rigido in un vagone ferroviario a Salt Lake City, disse, con la voce di Sigbjørn:

“Non c’è soluzione, cari signori e care generazioni disperate del presente, solo nell’inesorabile conclusione del decadimento capitalista e nella vittoria della classe operaia…”.

“È carino pensarla così,” disse il capitano. “Ma dovessi mai sottintendere che una forma o l’altra di esoterismo sia una fuga dalla realtà più che una fuga verso la realtà, mi sottostimerei. E di questo per favore non ridere!”

“Non lo davo per scontato! Non ho riso. Che volete dire?”

“No, allora è stato Tor. Lui…”

Scattò il verde. Superarono i tram fermi in Dale Street da Islington, Everton, Scotland Road diretti lungo il pontile verso il mare. Sigbjørn non sentì il resto della risposta del padre, sommersa dal rombo del traffico nell’altra direzione.

“E poi era una compagnia fasulla,” stava dicendo il capitano, ancora più misteriosamente, mentre svoltavano in Exchange Street West.

“Se in parte è possibile incolpare il sistema,” continuò, “ci si è messo anche il destino. Ma che tu mi debba parlare della Russia è la goccia che fa traboccare il vaso,” divagò ancora una volta il capitano, “come se fosse l’Assoluto! Perché ti garantisco fin d’ora che non è nulla del genere. E poi mi sorprenderebbe, ammesso e non concesso che tu ci arrivi, se ti lasciassero superare il pontile.”

Il giorno stava morendo. A ovest, mentre ripercorrevano la strada verso la piazza, c’era un cielo rosso vermiglio, ma sopra di loro le nuvole bianche del pomeriggio, accumulate dalla sera, continuavano a correre, incessantemente.

“Ti toccherà rimanertene seduto nel castello di prua mentre la nave se ne sta all’ancora, a giocare a fan-tan come un vecchio cinese su un Blue Piper. Quello che dici è una scemenza, perdonami. Dovresti restare qui. Ovviamente se l’ultimo grido a Cambridge non fosse, come ormai dev’essere, vista la moda imperante, Abbasso la psicologia, potrei farti qualche osservazione, e forse lo farò anche, su basi solidamente psicologiche. Dopotutto la psicologia è una materia molto trascurata.”

I due restarono fermi immobili per la strada. Non che volessero prolungare quel momento insieme, forse a bloccarli era solo la paura di affrontare di nuovo il mondo da soli, cosa che avrebbero dovuto fare una volta tornati al punto di partenza.

“Ma forse puoi sbrogliare i tuoi conflitti tanto quanto me, dopo che ti ho notificato una cosa: da quando sei tornato da Cambridge, hai ascritto i motivi per cui vorresti prendere il mare a più di una decina di cause diverse. Certo non vorrai partire per tutte!”

“Il motivo per cui parto sarebbe altrettanto importante del fatto in sé?”

“Sì, certo. Il punto è questo… se quello che intendi fare non è semplicemente infantile. Non puoi prendere le distanze da me con quella purezza, con l’intangibilità distaccata dell’adolescenza! Non questa volta! Perché è assurdo che tu voglia andare in Russia se il tuo scopo è vedere Erikson, che probabilmente è in Norvegia. E se vuoi andare in Norvegia, la culla dei nostri antenati, come la metti tu, mi pare assurdo salire a bordo di una nave diretta in Russia.”

Sigbjørn ci pensò su e quando rispose fu come se fosse Tor a parlare.

“In qualche modo Erikson mi collega al futuro.”

“Ma, ripeto, perché andare? Prendi…”

Stava passando un aeroplano, rigido, ferro su acciaio blu. I due ripresero lentamente a camminare, alzando lo sguardo al velivolo.

“Chi sorvola l’Atlantico? Ci sono così tanti preparativi, incertezze, interferenze della stampa, e scocciature di questo o quel tipo quando il pilota si appresta a farlo davvero, che gli sembrerà di averlo già attraversato mille volte. Perché andare? Fossi più giovane, saresti scusabile. Adesso, soprattutto adesso, mi pare una regressione. Non andare…”

All’improvviso capì che lo stava implorando, ed ebbe un’esitazione, poi continuò:

“Senti, ma a che serve? Qualche anno fa i giovanotti come te erano esteti, adesso sono comunisti”.

“A che serve cosa…”

Attenzione! Arcata bassa.

È più tardi di quanto tu non creda.

Sopra di loro, l’aeroplano descrisse un cerchio. Per la prima volta Sigbjørn si accorse che pubblicizzava qualcosa: Dewar’s Whisky. Era il mene tekel diretto a loro, sul muro del cielo, mentre piegavano il collo all’indietro. Adesso restava solo la prima parola. Davanti ai loro occhi la D e la E sparirono. E da quell’evanescenza nel cielo emerse solo una parola: War, guerra.

A quel punto l’aeroplano si allontanò di nuovo con una virata, tracciando lenti ricami di sofferenza.

“Ah be’, ma se proprio ami tanto il tuo dolore…” Il capitano tirò fuori l’orologio, lo guardò e lo confrontò con quello sull’Exchange.

“Quell’orologio va troppo veloce,” disse.

Rimasero fermi, l’uno davanti all’altro, perché ancora una volta la frenesia della città li aveva avvolti, lì nella piazzetta, l’Exchange Flags. Ma adesso un’infinita, densa processione si affrettava nella direzione opposta, verso il mare, verso le voci nere del sottosuolo.

“E parli della morte del dolore intimo.”

Sotto l’anestetico del pomeriggio, si erano aperte nuove ferite. Adesso ne erano totalmente consapevoli, ma non riuscivano a guardarsi per il troppo dolore. Il capitano rimise via l’orologio.

“Be’, è arrivato il momento di mettere fine a questa conversazione più o meno inappropriata.”

Dietro di lui incombeva la statua annerita di Lord Nelson, cupamente profonda nella sua perfetta insignificanza, malvagia con il suo occhio ciclopico rivolto verso il segnale a cui milioni di angeli vigili si sarebbero contrapposti.

L’aeroplano discese, si tuffò giù nel cielo a nord; una regata di nuvole bianche gli corse dietro, sulle ali del vento.

“Ho un appuntamento con uno dei nostri avvocati al Mecca Café.”

“Bene, signore! Voi alla Mecca, io ad Archangel’sk.”