2.
Il sabato peggiore della mia vita
Mirta
Si svegliò di buonissimo umore, anche se sapeva che sarebbe stato presto distrutto da quella strega della sua datrice di lavoro.
Odiava tutti i suoi datori di lavoro, in realtà.
E di lavori ne aveva fatti tanti negli anni: era stata la babysitter di bambini indemoniati, aveva fatto ripetizioni, era stata assistente bibliotecaria e aveva fatto la cameriera in un locale che serviva solo colazioni. Di lavori ne aveva fatti, vero, ma nessuno l’aveva preparata per quello che svolgeva, adesso, di sabato…
Mirta non sapeva perché, ma la signora Filomena, venditrice di verdura presso il mercato rionale di Firenze, la detestava: trovava sempre un motivo per darle addosso, per urlarle improperi o per mandarla a cercare cose assurde col solo scopo, una volta tornata a mani vuote, di urlarle contro ancora.
Ma doveva far buon viso a cattivo gioco: lavorare le serviva per aiutare la nonna con le bollette dato che, quest’ultima, le aveva permesso di frequentare l’università a Roma quando suo padre si era rifiutato di pagarle qualsiasi cosa non fosse stata Medicina o Architettura.
Sua nonna non ci aveva pensato due volte: aveva pagato la retta e anche l’affitto di un piccolo bilocale, facendole vivere il suo sogno.
Sogno che si era fermato lì, a Roma perché, una volta tornata a Firenze, la vita si era messa di mezzo, tarpandole le ali.
Non era entrata in nessuna compagnia di ballo.
Non era riuscita a farsi un nome nell’ambito delle scenografie teatrali.
Non era abbastanza brava per fare nulla che non fossero i lavoretti che ancora oggi faceva.
Ma non si recriminava nulla perché, se non altro, tramite i suoi impieghi riusciva a ripagare sua nonna per tutto quello che aveva fatto per lei negli anni precedenti.
Se non fosse per la mia dolce nonnina, ora starei sotto un ponte…
E quella, come se l’avesse chiamata a gran voce, fece capolino dalla porta e sorrise quando la trovò ancora sotto la leggera coperta
di cotone.
Stava poltrendo a letto, come fanno i bambini quando non vogliono andare a scuola.
«Sei ancora lì? Non dovresti prepararti?» le chiese sua nonna, che aveva il profumo del fiore di cui portava il nome, Rosa.
«No, non voglio andare…» disse coprendosi ancora di più.
Era estremamente convinta, sebbene avesse quasi ventisei anni, che se si fosse nascosta abbastanza bene sotto le coperte sarebbe riuscita a scomparire o a materializzarsi in una realtà alternativa, dove magari sarebbe stata tanto ricca da potersi permettere di non fare tre lavori per mantenersi agli studi. Sarebbe
perfetto…
«Mirta…» la riprese sua nonna. «Devi andare! Le signore cercano te, non quell’arpia di Filomena!»
Ed era vero. Tutte le clienti non sopportavano i modi bruschi e quasi brutali che aveva quella donna, ma tornavano ugualmente al loro banco e, se lo facevano, era solo merito suo. Mai, però, avrebbe detto una cosa simile a Filomena, avrebbe rischiato il linciaggio oltre che il licenziamento, e lei aveva bisogno di ogni euro che quel lavoro le fruttava.
«Lo so, lo so…» affermò uscendo dal suo nascondiglio. «Ora mi alzo, se solo avessi…»
«Un caffè?» domandò sua nonna sorridendo. «Eccolo!» disse sparendo dalla sua visuale e tornando poco dopo con un allegro vassoio.
«Ti adoro, nonna…»
«E io ti adorerei di più se mi permettessi di pagare tutte le bollette, così non dovresti fare tutti questi lavori e potresti dormire di più… Hai certe occhiaie!»
«Ne abbiamo già parlato, nonna, non posso acconsentire! Permettimi di aiutarti, okay? Ci sei stata per me e mi sembra logico io ci sia per te…»
«Ma io…»
«Niente ma! E poi, sei stata tu a darmi l’idea!»
«E quando?»
«Quando ti sei presa carico delle mie spese romane senza che io te lo chiedessi!» disse Mirta guardando la nonna negli occhi. «E, adesso, io aiuterò te, senza che tu possa dire nulla…»
«Sei testarda» poi s’interruppe per sospirare. «Ma tutta la nostra famiglia lo è: non sei una Damiani se non fai valere a ogni costo il tuo pensiero»
«Avrò ripreso dal nonno!»
«Sì, sicuramente… Tuo nonno per me rinunciò alla ricchezza, perciò credo proprio di non poterti costringere a cambiare idea».
«Vivo qui e voglio contribuire! Non voglio essere un peso, sai da quando i miei…»
«Smettila! Non dire una parola di più… Che avrei dovuto fare? Dare retta a quello sciagurato di mio figlio e cacciarti?» sua nonna emise quasi un ringhio prima di dire piena di risentimento scuotendo la testa: «Ho cresciuto un babbeo!»
«Ma no, nonna, che dici? È solo colpa mia…» provò a difenderlo lei, ma la donna scosse la testa.
«Cosa sarebbe colpa tua? Il fatto che non ti piace il sangue? Oppure che non ti piacciono i tribunali? Non esistono solo dottori e avvocati al mondo… E poi, se avesse visto quello che fai!» sospirò estasiata. «Non penserebbe tu abbia perso tempo… Mi dispiace soltanto che tu abbia smesso di danzare!»
Mirta sorrise. Oh nonna, se solo sapessi…
Scostò le lenzuola e si sedette sul letto, prese il caffè dal vassoietto che la nonna le stava porgendo e, dopo averlo posato sul comodino, portò la tazza alle labbra e sorseggiò il primo caffè della giornata.
Amava il caffè tanto quanto amava danzare.
Se c’era una cosa a cui non avrebbe mai rinunciato era proprio la danza, ed ecco perché quando suo padre le aveva posto l’ultimatum: danza e ti sbatto fuori di casa o Giurisprudenza e tutti i comfort, lei non aveva avuto dubbi.
Aveva scelto la danza, aveva scelto il Dams. Aveva scelto se stessa e si era ripromessa che avrebbe continuato a farlo anche in futuro. A ogni costo.
«Forza! Vestiti, altrimenti farai tardi!»
Si alzò a fatica, e mentre sentiva entrare in circolo la caffeina, si trascinò verso l’armadio e scelse i vestiti che avrebbe messo di lì a pochi minuti.
«Faccio una doccia. Oggi non riesco a svegliarmi!»
La nonna storse il naso. «Logicamente! In quel pub ti fanno fare
tardi la notte… E la mattina fatichi a carburare! Dovresti farti cambiare i turni e…»
«Non posso, nonna, e lo sai!» affermò prendendo dal cassetto vicino al letto un paio di mutandine e un reggiseno puliti. «I turni…»
«Devi rispettarli, lo so» la interruppe sua nonna mentre iniziava a tirare le lenzuola per riordinare il letto. «Ma non capisco perché l’orario sia così strano…»
Oh nonna, prima o poi ti dirò la verità…
pensò, poi disse a voce alta prima di infilarsi nel bagno: «È un pub! Apre tardi la sera e chiude la mattina presto… Poi lo faccio solo dal giovedì al sabato!» Chiuse la porta dietro di sé e si fermò davanti allo specchio.
L’ombra più scura sotto gli occhi era l’unico segno rimasto del trucco della notte precedente.
Era rientrata a casa alle quattro del mattino e aveva avuto solo la forza di struccarsi e mettersi qualcosa per dormire, prima di buttarsi sul letto e cadere in un sonno tanto ristoratore quanto desiderato dopo tutte quelle ore sui tacchi.
Per fortuna, quel lavoro lo faceva solo tre volte alla settimana e quindi per il resto del tempo andava a dormire a orari più umani. E poi amo quello che faccio, anche se la gente potrebbe pensarla diversamente…
Si tolse il pigiama ed entrò in doccia. S’insaponò il corpo facendo piccoli cerchi concentrici soprattutto sull’addome dove il cerone che aveva messo la sera precedente spariva e il suo tatuaggio piano piano tornava visibile.
L’aveva fatto quattro anni prima quando era stata in Spagna per una piccola vacanza, era puramente decorativo, anche se adesso le ricordava quel periodo spensierato prima che i suoi decidessero di buttarla fuori di casa.
Era una rosa blu, con lo stelo che si estendeva dal fianco sinistro fino all’ombelico. La rosa vera e propria era al centro di un intricato gioco di rami e spine, era molto bella e i petali che la componevano erano così realistici da sembrare veri. Forse era proprio per quel motivo che il suo capo, Gilberto Francia, la faceva cancellare ogni notte prima che si esibisse.
In effetti, il punto di forza del Morgana
era proprio quello: l’anonimato.
Finì di insaponarsi i capelli e li risciacquò. Erano di nuovo lunghissimi, li aveva tagliati qualche mese prima, ma sembrava essere passato un secolo. Doveva assolutamente tornare dal parrucchiere per farsi dare una spuntatina.
Uscì dal box doccia e s’infilò l’accappatoio, frizionò bene la pelle e poi indossò l’intimo e gli abiti che aveva scelto per quella che, era sicura, sarebbe stata un’altra sfiancante giornata al mercato.
Asciugò in fretta i capelli rossi e li ordinò in una treccia, perché la signora Filomena li odiava sciolti e lei aveva imparato presto a non fare nulla che la indisponesse, per evitare ripercussioni sulla sua paga. Ricordava benissimo quando quella megera le aveva detratto venti Euro solo perché secondo lei non poteva stare con le scarpe rosa shocking al mercato.
Se ne inventava di tutti i colori per non darle quello che meritava e Mirta ormai cercava di non fornirle motivi per farlo, anche se era difficile visto che quella stronza trovava sempre il modo per denigrarla davanti alle clienti e non concederle quello che le spettava.
Sua nonna bussò alla porta. «Insomma, stai per fare tardi! E meno male che abitiamo a due passi dal mercato!»
Lei sorrise. «Non preoccuparti nonna… Arrivo sempre in anticipo».
«Lo so, bambina, ma sbrigati comunque… Quella donna ti odia».
Mirta aprì la porta e le sorrise. «So anche questo».
«Ecco, prendi, ho messo anche qualcosa da sgranocchiare…» le disse sua nonna porgendole la sua borsa.
«Grazie» cinguettò Mirta sorpassandola e correndo verso la porta urlandole un saluto prima di chiudersela alle spalle e buttarsi giù per le scale.
Uscì e sbadigliò proprio mentre il portiere di casa loro la salutava. «Buongiorno, signorina Damiani!»
«Buongiorno, Filippo!»
«Dove corre?»
«Al mercato…»
«Ma è rientrata tardissimo questa mattina: come fa?»
«Abitudine, immagino. Ora scappo! A dopo!»
Lui la salutò con la mano e lei corse via.
In effetti, aveva dormito solo poche ore, ma non aveva importanza perché sapeva che, di lì a qualche ora, avrebbe finito e sarebbe potuta tornare a dormire.
Camminò sempre più spedita, dopo aver preso due scorciatoie, iniziò a sentire il solito vociare che accompagnava il mercato rionale di Firenze.
Decine e decine di banchi colorati e profumati in cui, se fossi stato abbastanza attento, avresti potuto comprare qualsiasi cosa ti serviva.
Prima ancora di vederla, sentì la signora Filomena urlare improperi contro una cliente.
Mirta chiuse gli occhi. Non sopportava quella donna, ma fu comunque costretta ad aprire gli occhi e a muovere i piedi verso il banco della frutta presso cui lavorava il sabato mattina.
«Buongiorno» la salutò lei, fingendo una cordialità che non provava.
«Buongiorno? Buongiorno?» le urlò quella strega, squadrandola come se le fossero spuntate ali enormi e nere dietro la sua schiena. «Sei in ritardo! Guarda che casino qui!» continuò a sbraitare indicando tutt’intorno. «C’è così tanto da fare…»
Non era vero e Mirta lo sapeva, ma fu costretta ad annuire. «Mi scusi, signora Filomena…»
La donna sorrise in modo macabro. «Ah, ci faccio poco con le tue scuse, credo proprio che oggi la tua paga ne risentirà…»
Lo sapevo!
Avrebbe potuto arrabbiarsi, urlarle dietro qualcosa, ma Mirta preferì il silenzio, prese uno dei coltelli sul ripiano dietro la cassa e iniziò a tagliare le verdure per la Ratatouille.
Patate. Zucchine. Peperoni.
Era a metà delle verdure, quando la signora Filomena infilò una mano dentro i dadini di zucchine, ne tirò su una manciata e poi le lasciò cadere, a una a una, di nuovo nella ciotola.
«Ma io dico: che ti pago a fare? Sei un’incapace!» le urlò a un centimetro dalla faccia.
Mirta non fece in tempo né a notare le vene del collo della donna pulsare a un ritmo forsennato né a schivare la ciotola, che le fu scagliata contro.
«Una diversa dall’altra! Come pensi che io possa vendere una cosa così sciatta?» gridò di nuovo quella, facendo voltare più teste. «Ma, d’altronde, cosa posso aspettarmi da una nullità come te?»
«Signora Filomena, io non…»
«Che fai, Mirta, balbetti? Io ne ho abbastanza di te e della tua incompetenza! Piccola, stupida e…»
«Ora basta!» esclamò qualcuno dietro di loro. «La smetta di urlare con quella ragazza!»
Entrambe si voltarono verso la voce e Mirta rimase folgorata, perché davanti ai suoi occhi c’erano quasi due metri di splendido uomo.
Capelli corvini pettinati all’indietro, occhi tanto azzurri quanto intensi e una bocca carnosa che ora era imbronciata.
L’uomo, che si stagliava davanti al banco, aveva le mani in tasca in una posizione rilassata, ma tutto in lui denotava una certa forza, come se sapesse di valere più di chiunque altro nei paraggi.
«E perché dovrei?» ribatté Filomena, fissandolo con astio. «Lei è una mia dipendente!»
E fu in quel momento che Mirta si alzò in piedi per fronteggiarla. «Non più!»
«Non mi sembra di averti licenziata…»
«Infatti, sono io che me ne vado! Non sono così disperata da aver bisogno di un lavoro in cui vengo maltrattata ripetutamente!»
Si tolse il grembiule e lo posò sul tavolo insieme al coltello con cui aveva tagliato le verdure.
«Non puoi!»
«Oh, sì che posso! Non mi hai mai assunta, venivo solo il sabato e sinceramente non mi mancherà lavorare qui! Mi dispiace soltanto di lasciare le signore che incontravo…» e poi uscì da dietro il bancone, ma prima che potesse fare un altro passo, una delle donne a cui si riferiva, che aveva assistito alla scena, cominciò ad applaudire, presto imitata da alcune altre.
«Ben fatto! Non ti merita!» urlò una di quelle altre. «Io venivo qui solo per te, Mirta! Da sabato prossimo cercherò un altro banco della frutta!»
Mirta sorrise e poi iniziò a camminare, perché voleva uscire di lì per tornarsene a letto a dormire.
Una mano su un braccio fermò la sua andatura e quando si voltò rimase sconcertata nel trovarsi davanti l’uomo di poco prima.
«Mi dispiace per poco fa: non volevo finisse così…»
Lei scosse la testa. «Non dispiacerti, davvero. Stavo pensando di licenziarmi da tempo…»
«Beh, siccome mi sento in colpa» disse guardandola negli occhi e tirando fuori un biglietto da visita dalla tasca «Ecco, prendi questo e vieni al mio ristorante. Stasera, alle otto. Chiedi di Philippe, che poi sarei io…»
Mirta annuì e poi lo guardò allontanarsi da lei.