Non si fermarono che una volta superato il confine della contea. Darren disse a Randie di entrare nel parcheggio di una sala da bowling a Garrison. Era un poliziotto in fuga dalla legge: si rendeva conto di quanto fosse ridicolo, e la cosa lo indispettiva parecchio. D’altra parte, si rifiutava di dare spiegazioni a uno sceriffo al quale in fin dei conti lui era superiore per rango, e un confronto con le forze dell’ordine locali per questioni di gerarchia avrebbe fatto incazzare il tenente Wilson, fruttando a Darren una nota di biasimo che non poteva permettersi quando aveva appena riavuto indietro il distintivo. Che se la sbrigasse Van Horn con la questione dell’uso irresponsabile di arma da fuoco fuori della birreria di Wally. Darren non intendeva permettere che si mettesse in discussione il suo modo di condurre un’indagine. Specie una della quale lo sceriffo non si stava nemmeno occupando.
Fece scendere Randie. Era ubriaca di paura, tremava come fosse percorsa da scariche elettriche. Dovette dirle due volte di stare lontana dal pick-up mentre lui cambiava la gomma posteriore: un proiettile aveva trapassato lo pneumatico da parte a parte. Steso a terra a trafficare con la ruota di scorta, grattò la spalla destra sul cemento e rimediò un forellino nella camicia. Il sudore gli colava a rivoli lungo la schiena. Randie rabbrividì all’avvicinarsi della sera. Abbandonata la giacca bianca, era in jeans e t-shirt. Darren sbrigò il lavoro in meno di quindici minuti, poi si attaccò al telefono con Wilson. Voleva un mandato per potenziale detenzione di droga ai fini di spaccio, adducendo il collegamento con la Fratellanza come motivo di fondato sospetto. E mentre perquisiva la birreria di Wally avrebbe messo le mani sulla tabella con gli orari di lavoro di Missy. Era un espediente consueto nelle operazioni di polizia. Wilson, però, andò su tutte le furie.
“Ranger, hai meno di dodici ore prima che qualche pennivendolo ficcanaso di Chicago sbarchi in Texas, e tu stai lì a cazzeggiare appresso a qualche cristallo di metanfetamina? Mi hai supplicato di lasciarti indagare sull’omicidio di Michael Wright, ricordi? Sei lì per quello, e nient’altro.”
“Le sto dicendo che c’è una connessione con l’omicidio di Missy Dale.”
“Questo non puoi saperlo.”
Darren illustrò la sua strategia: servirsi della droga come pretesto per entrare, nascondere nel mandato una richiesta del calendario dei turni del personale. Era una potenziale prova utile a collocare le due vittime insieme la notte in cui Michael Wright era stato ucciso. Ma Wilson non voleva saperne.
“Questo non è un caso di droga.”
“Aspetti un attimo,” protestò Darren. “Quando ero nella task force non mi era permesso tirare in ballo delitti razziali, e adesso che sono nel bel mezzo di un delitto razziale, all’improvviso non vuole che tiri in ballo il traffico di droga?” Randie era dall’altra parte del pick-up, appoggiata alla portiera. Aveva sentito ogni parola.
“Non puoi essere certo che sia un delitto razziale,” ribatté Wilson.
“Che cazzo sta dicendo?”
“Occhio, Darren…”
“Perché le è così difficile ammettere l’evidenza? Sono in questo posto che pullula di membri della Aryan Brotherhood, e due di loro stasera hanno cercato di farmi la pelle e appendersela alla cintura come trofeo.”
“Che cosa?”
Darren si zittì. Non aveva informato Wilson della sparatoria; una parte di lui temeva che il corpo dei Rangers non lo avrebbe spalleggiato in quella contingenza. Se avesse detto una sola parola su Ronnie Malvo, con un verdetto del gran giurì ancora pendente, Wilson lo avrebbe rimosso dal caso all’istante, e Randie sarebbe rimasta sola. Anche il tenente si era fatto silenzioso, Darren sentiva soltanto il trillare sommesso dei telefoni sullo sfondo. Pensò alla quiete ovattata del quartier generale, a Houston, ogni suono attutito dalla moquette spessa e sobria. Quanto sembravano civili le indagini sulla corruzione nella pubblica amministrazione e le inchieste nel mondo dei colletti bianchi, mentre stava su quel piazzale di cemento crepato in uno squallido buco al margine di Shelby County, dopo che un membro della ABT gli aveva sparato contro. Disse che stava seguendo alcune piste e chiuse la conversazione il più in fretta possibile, imprecando sottovoce. Randie incrociò le braccia sul petto.
“Che c’è adesso?”
Darren le disse la sola verità che conoscesse al momento. “Ho bisogno di bere qualcosa di forte.”
Buttò gli attrezzi sullo stretto sedile posteriore, poi si avviò alla sala da bowling. Randie sembrò confusa, ma lo seguì comunque. Constatato che al bar avevano soltanto birra e vino – e fanculo a quella brodaglia – fecero un rapido dietrofront, salirono sul pick-up e finirono in una bettola con il tetto di lamiera più avanti lungo l’autostrada. Da quella parte del confine di contea, Darren respirava un po’ meglio. Fu accolto dal blues mentre teneva la porta aperta per Randie: una canzone di Koko Taylor che colmava il locale, bar e pista da ballo in un’unica sala. C’era per lo più gente nera, agli sgoccioli della bicchierata pomeridiana. Alcuni uomini in maglietta stavano montando una batteria e predisponendo un impianto audio portatile per una serata di musica dal vivo.
Darren cercò di ricordare che giorno fosse, quanto tempo fosse passato da quando Greg aveva telefonato per parlargli dei due omicidi a Lark. Una parte di lui era consapevole che stare seduto in quel bar rischiava di essere un grosso errore, che l’eccitazione nervosa per lo scontro con Brady e Keith Dale offuscava il suo giudizio. Non erano nemmeno le sei di sera, il sole stava ancora tramontando quando avevano lasciato il parcheggio. Se Randie non avesse preso niente, pensava che si sarebbe potuto limitare a un solo bicchiere. Ma lei rispose al suo bourbon ordinando un vodka martini, che arrivò al tavolo sotto forma di vodka doppia allungata con Sprite e in cui era tuffata una ciliegia al maraschino. Assaggiò, fece una smorfia, poi ne bevve metà. Rimasero seduti in silenzio per un po’. Al tavolo accanto, due uomini sulla sessantina con camicie a scacchi quasi identiche giocavano a domino, il ticchettio dei pezzi sul piano di legno andava a tempo con i giri di blues che si diffondevano dagli altoparlanti. Darren stava pensando a un altro modo per entrare nella birreria, un altro modo per dimostrare dove si trovava Missy mercoledì sera e verificare la storia di Lynn, quando Randie allontanò il bicchiere e incrociò le braccia. Parlò a voce così bassa che lui dovette sporgersi in avanti, appoggiando i gomiti sul piano appiccicoso. Il tavolo traballò, Darren trasalì e il bicchiere di Randie non si rovesciò per un pelo, ma lei non batté ciglio.
“Lo stavo lasciando,” esordì. “Non l’ho mai detto apertamente, ma lui lo sapeva. Lo stavo lasciando libero.” Prese il bicchiere e mandò giù una sorsata. Sembrava schiacciata sotto il peso dell’ammissione, le spalle incurvate, il petto incavato per la vergogna. “Non avrei mai dovuto sposarlo. Non ne ero convinta. L’amore… sì. La vita… no.”
“Non è colpa tua, Randie,” la confortò. “Non sei stata tu a fare questo.” Nella concitazione della fuga dalla birreria, le distanze tra loro si erano accorciate.
Darren aveva ricevuto un addestramento specifico per quella parte delicata del lavoro di polizia: sapeva che, di fronte alla morte improvvisa di una persona cara, le persone tendevano spesso a colpevolizzarsi, anche quando non ce n’era ragione. Lui si era sentito talmente in colpa quando era morto William – sebbene si trovasse ben lontano dall’incrocio dove aveva perso la vita; in un altro stato, perfino – che aveva passato settimane a macerarsi nella depressione per la perdita dello zio preferito, l’uomo che considerava la sua stella polare, la luce che guidava la sua vita. Non dormiva o mangiava con regolarità, e lo studio ne aveva risentito, rendendogli più facile la decisione di lasciare la scuola di giurisprudenza. William era stato ucciso da un delinquente che aveva fermato per il bollo scaduto: si era avvicinato al finestrino, e quello gli aveva sparato due colpi in faccia. Non era giusto, e non era colpa di Darren. Ed entrare nei Texas Rangers non avrebbe riportato William indietro. Tutto questo lo sapeva. Ma, anni dopo, sfoggiava comunque il distintivo.
“È a causa mia che è venuto qui,” disse infine Randie.
“In che senso?” All’improvviso ricordò la scena alla caffetteria di Geneva: i momenti di tensione appena prima che lui ricevesse il referto dell’autopsia. “La chitarra,” esclamò, tirando a indovinare. “La stava portando a Lark?”
“Stava inseguendo una storia d’amore.”
“Non capisco.”
“Me l’avrà raccontata una decina di volte,” continuò Randie, mentre un sorriso dolceamaro trovava la strada fino alle sue labbra. “La storia dietro alla chitarra. Lui era cresciuto ascoltandola, e voleva credere fosse lo stesso per tutti e due: un amore che ti trasforma la vita in un solo giorno, un amore che cambia tutto.” Allungò la mano a prendere il bicchiere e scolò quel che restava del suo drink. “Suo zio, Booker, la ripeteva in continuazione.”
“Booker Wright?” Darren ricordava il nome dalla pagina di Wikipedia su Joe Sweet.
Lei annuì e fece scorrere il dito lungo l’orlo del bicchiere, ripetendo il nome: “Booker.”
Era un bassista, e suonava in una band con Joe Sweet. La storia cominciava sempre così, spiegò lei. Intorno al 1967, Booker e Joe erano stati ingaggiati per una serie di concerti con Bobby Bland. Erano partiti da Detroit, Gary e Columbus su al Nord, poi giù attraverso il Missouri, Kansas City e Joplin, e da lì a Little Rock. Stavano andando a Houston quell’estate, avevano alcune date fissate all’Eldorado Room e al Pin-Up Club. Si erano conosciuti a Chicago nei tardi anni cinquanta, Joe e Booker, e avevano fatto squadra per buona parte delle loro carriere, che suonassero come turnisti per etichette locali di rhythm’n’blues o nei locali del Chitlin’ Circuit come musicisti di supporto per Etta James e Wilson Pickett, Johnnie Taylor e O.V. Wright. Una volta erano perfino stati ingaggiati per accompagnare Otis Redding in una serie di concerti ad Atlanta e nelle due Carolina. Erano due vagabondi, sempre in viaggio su un’autostrada o l’altra verso la prossima città, il prossimo ingaggio; dormivano in motel quando ne trovavano uno che dava alloggio ai colored, oppure in macchina, una Impala del 1959 cointestata. Nessuno dei due era sposato e nemmeno ci pensava, anche se Booker aveva ragazze in diverse città. Per loro al primo posto c’era la musica, al secondo l’opportunità di guadagnare qualche dollaro. Avevano imboccato la Highway 59 appena fuori Texarkana, diretti a sud, destinazione Houston, correndo a tutto spiano attraverso i boschi del Texas orientale, dove Booker era cresciuto. Lui e Joe aprivano la strada, dietro venivano altri musicisti della band di Bobby, anche loro all’inseguimento di un sogno. Parecchi telegrammi li avevano preceduti a Houston, indirizzati a Don Robey, il discografico, e si parlava di una scrittura per un varietà che lui stava mettendo in piedi, una cosa stabile. Pensavano che Robey avrebbe potuto perfino far incidere alla band qualcosa su vinile, il disco di esordio dei Joe Sweet Midnight Revelers.
Si prospettava davvero come la loro grande occasione, la possibilità di un contratto con la Peacock Records. Erano state acquistate giacche nuove in tessuto zigrinato, paia di Stacy Adams erano state lustrate sul sedile anteriore dell’Impala, Booker armato di spazzola e lucido da scarpe mentre Joe guidava sulla Highway 59.
A quel punto arrivava la svolta, almeno stando al racconto di Booker. “Joe non arrivò mai a Houston,” diceva a Michael, e lui a sua volta l’aveva ripetuto a Randie, la quale ora lo riferì a Darren, seduta di fronte a lui in un barettino di una sola stanza non lontano da quello dove Joe e Booker erano giunti in una notte di luglio quaranta e rotti anni prima.
Si chiamava Geneva’s, e dall’esterno appariva come un capanno molto ben costruito, pareti rivestite di legno sabbiato e tegole a squame di pesce su un tetto orlato di lucine colorate. Era stato fabbricato a mano, il tipo di posto casereccio che pareva potesse accogliere gente nera in viaggio sulla principale arteria nord-sud, in entrata e uscita dal Texas orientale. Allora non c’era la pompa del gasolio, e la cucina a stento si poteva definire tale: solo una stufa di porcellana verde a quattro fuochi, e fuori, sul retro, un focolare di pietra per il barbecue. Niente personale, com’era prevedibile. Soltanto una donna di nome Geneva che aveva aperto loro la porta alle undici meno un quarto, sebbene avesse già chiuso. Erano in sei, affamati e non dell’idea di proseguire di notte in territorio del Klan, dove la legge urbana incontrava la sua orribile cugina razzista nelle facce di poliziotti di provincia e sceriffi di campagna; non a pancia vuota, almeno. Geneva aveva fatto saltare in padella qualche costoletta di maiale con cipolle e patate a fette sottili, e lasciato che si servissero da soli dal refrigeratore a pozzetto di fuori. Per settantacinque centesimi potevano avere una birra a testa, più un goccetto o due del gin che lei non aveva la licenza per vendere.
Presto avevano tirato fuori i loro strumenti per una jam session estemporanea, dopo essersi assicurati che a Geneva non desse fastidio. Lei aveva compiuto ventun anni da pochi mesi, e non le dispiaceva certo un po’ di musica e allegria. Aveva lei stessa qualche disco di blues, ma non era mai andata più in là di Timpson, mai stata in un posto dove si suonava dal vivo, perciò quello era un evento. Joe era stato il primo a prendere la chitarra, la Gibson Les Paul attorno alla quale nel tempo avrebbe ruotato il destino di tante persone: Joe, poi Michael, e ora Randie e Darren. Geneva era restata di sasso quando l’aveva sentito suonare.
Joe andava per i trenta, la pelle scura in risalto contro la camicia di cotone celeste con le maniche arrotolate fino ai gomiti, i muscoli flessuosi degli avambracci che danzavano a ogni nota strappata alle corde. Stava suonando una strofa di un brano di Lightnin’ Hopkins. Better make it up in your mind, baby… Little girl, do you know you traveling a little too slow…* Aveva scrutato Geneva con intensità quando si era avvicinata a posargli davanti un piatto fumante, i suoi occhi quasi neri fissi in quelli di lei, grandi e ovali, accesi di riflessi dorati dalle lampade a gas che pendevano dal soffitto. Mentre Joe le cantava quelle parole, Booker osservava. Aveva avvertito un fremito elettrico nell’aria attorno a loro, la stanza si era fatta calda e umida per il respiro di sette persone stipate in così poco spazio in una notte d’estate. Cinque di troppo, a giudicare dall’espressione sulle facce di Joe e Geneva. Mai in vita sua Booker aveva visto scattare un’attrazione simile. Fin da quando Joe era entrato, Geneva non era riuscita a staccargli gli occhi di dosso, e lui aveva seguito ogni suo movimento mentre cucinava, osservando come dondolava la testa a ritmo di musica intanto che girava la carne e soffriggeva le cipolle in grasso di maiale. Pizzicava le corde di quella chitarra e guardava i suoi fianchi oscillare nel vestito di chambray umido. Tommy e Bones, transfughi della band di Bobby, avevano suonato qualcosa dopo di lui, e Booker si era ubriacato scolandosi le birre lasciate intatte da Joe e la fiaschetta che tenevano nel cassetto del cruscotto dell’Impala, mentre Houston sfumava a poco a poco.
Non ricordava di aver perso di vista Joe, ma a un certo punto il cibo era finito e i piatti erano ancora in tavola. Bones, Tommy e Amon Richmond, un altro dei musicisti di Bobby, stavano parlando di rimettersi in viaggio; pensavano che avrebbero potuto raggiungere Houston per l’alba, a meno che la ragazza avesse dato loro un posto dove passare la notte. Sbronzo com’era, Booker non riusciva a ricordare se lo avessero mandato fuori per chiedere a Geneva il permesso di accamparsi sul pavimento del locale o per dire a Joe che era ora di andare. Non ricordava nemmeno come sapesse che erano là fuori – ma del resto, dove altro potevano essere? – e comunque doveva fare una pisciata epica. Stava aprendo la patta dei pantaloni quando aveva visto i due appoggiati contro il tronco di una quercia, la camicia celeste appiccicata alla schiena di Joe e il collo di Geneva lucido di sudore mentre lui faceva scorrere una mano sotto il suo vestito di cotone leggero. Booker si era sentito in imbarazzo a star lì con l’uccello in mano di fronte a quella scena, e si era affrettato a rimetterlo nei pantaloni. Joe era tornato dentro qualche minuto dopo, annunciando che non sarebbe andato a Houston. Se volevano, loro potevano sistemarsi lì per la notte – Geneva aveva annuito, già comportandosi come se la decisione fosse stata tanto sua quanto di Joe – ma poi lui sarebbe rimasto a Lark.
Aveva spezzato il cuore di Booker; lui stesso per anni non sarebbe riuscito a spiegarselo perché l’abbandono di Joe lo avesse ferito a quel modo. Certo, era in primo luogo un tradimento: niente più Joe Sweet Midnight Revelers, ormai. Ma aveva anche fatto emergere una lacuna che Booker avvertiva nella propria vita: di tutte le donne che si era portato a letto, contro le quali si era premuto di notte, non ce n’era una che avrebbe voluto ritrovarsi accanto il mattino dopo. Sperava che Joe non si svegliasse con qualche rimpianto, ma in ogni caso Booker non sarebbe stato lì a vederlo; non aveva nessuna voglia di guardarlo negli occhi alla luce del giorno. Joe aveva lasciato che si tenesse la macchina, e nella fretta di caricare l’Impala – uomini adulti che evitavano qualunque momento di silenzio, per paura che venisse colmato da qualche discorso su sentimenti feriti – la Les Paul di Joe era finita di nuovo sul sedile posteriore. Booker era a circa quindici chilometri da Houston quando se n’era accorto.
C’erano stati buoni propositi nel corso degli anni, progetti di riportargliela, ma per il resto della sua carriera, che fosse intenzionale o meno, Booker non si era più trovato a viaggiare sulla Highway 59; non per addentrarsi nel Texas orientale, almeno. Di fatto, nessuno dei Wright era più tornato in Texas. C’era sempre un’altra strada per Chicago, la città di adozione di Booker; il cuore trova sempre una scappatoia. Joe Sweet era come un fratello per lui, e quella perdita l’aveva tormentato per anni; di più ancora dopo aver saputo che era morto senza che si fossero rappacificati. Quando gli era stato diagnosticato un cancro ai polmoni al quarto stadio aveva affidato la chitarra al nipote, insieme a un biglietto con le indicazioni per trovare una donna graziosa dalla pelle marrone che viveva nel Texas orientale, alla quale apparteneva di diritto.
“È una bella storia,” commentò Darren.
Randie scrollò le spalle. Era al secondo drink, mentre lui sorseggiava il terzo, in bilico tra un momento piacevole e un errore. “Troppo bella per essere vera,” replicò, ma Darren non si lasciò ingannare dal suo cinismo. Joe e Geneva erano rimasti insieme più di quarant’anni; quel sentimento era reale, lo sapevano entrambi, per quanto non ritrovassero la stessa amorevole dedizione nelle rispettive vite.
“Non sei una romantica, quindi?” Grattò sotto la superficie del tono scettico, cercando di scoprire che cosa portasse una donna a voltare le spalle a una storia come quella.
“Mi irrita, tutto qui.”
“Perché?”
“Michael si serviva di quel racconto per accusarmi di non amarlo abbastanza da rinunciare ai miei continui viaggi di lavoro per lui. Era qualcosa di manipolatorio e ingiusto.”
Darren si trovò a prendere le difese di Michael, senza rendersi conto – finché non le ebbe pronunciate – che le sue parole riecheggiavano quelle di Lisa. “Forse era semplicemente amore. Forse voleva solo averti a casa con lui il più possibile.”
Almeno, voleva credere che fosse quello l’intento di Lisa. Sua moglie aveva accettato l’idea che lui fosse un ranger dietro una scrivania, ma con l’ingresso nella task force, l’insistenza a lavorare di più sul campo, qualcosa era cambiato tra loro. Gli stivali e il pick-up, la lucente stella a cinque punte: tutto questo era parte della mistica del cavaliere solitario, una figura rude in stridente contrasto con il giovane studente di giurisprudenza che lei aveva sposato, e l’uomo che la vita gli imponeva di diventare. Lo terrorizzava pensare che il loro matrimonio potesse basarsi su condizioni scritte in piccolo che lui non si era mai preoccupato di leggere con la debita attenzione; pretese che sua moglie aveva nascosto sotto un migliaio di baci, un migliaio di “ti amo”. “Forse non voleva costringerti a scegliere tra lui e il lavoro,” disse, con un’espressione speranzosa e malinconica che tradiva il suo disagio sull’argomento della lealtà coniugale. Guardò Randie attraverso il tavolo e le rivolse un sorriso a labbra strette, cercando senza successo di alleggerire l’atmosfera. Intanto la band aveva cominciato a suonare: era un brano lento di Sam Cooke, che parlava di fermare un momento nel tempo. To say it’s time to go, and she says, yes, I know, but just stay one minute more**.
Darren sentì qualcosa di doloroso insediarsi nelle viscere, vide con chiarezza quel che prima non era stato in grado di affrontare, come se la verità si fosse seduta al tavolo offrendo il giro successivo. Un leggero velo di lacrime confuse le insegne al neon di marchi di birra, alle pareti, in un caleidoscopio di colore liquido. Gli sembrava di essere su una barca con il mare grosso, e si aggrappò al bicchiere di bourbon mezzo pieno.
Randie accennò all’anello sulla sua mano sinistra. “E che mi dici di te?”
Gli stava aprendo una porta; era un invito a parlare, se lo voleva. La mano di Randie si avvicinò di un nonnulla attraverso il tavolo, e per un attimo Darren ebbe paura che lo avrebbe toccato; temeva che al minimo gesto di gentilezza sarebbe crollato, e avrebbe detto ad alta voce cose che ancora non voleva credere. Lui e Lisa… non era sicuro che ce l’avrebbero fatta. Si ritrasse contro la spalliera della sedia e riportò il discorso all’indagine, usando le macerie del matrimonio di un altro per erigere una diga a contenimento delle emozioni che minacciavano di straripare.
“C’è qualcosa che devo dirti.”
Randie lasciò che il blues occupasse una breve parentesi di silenzio prima di parlare.
“La ragazza bianca.” Si strinse nelle spalle con aria rassegnata.
“Non so se sia successo qualcosa,” precisò Darren, cauto.
“Non sarebbe stata la prima volta,” replicò lei.
All’improvviso gli tornarono alla mente le parole di Lynn, sul retro della birreria. Certa gente non impara mai.
“Donne bianche?” domandò.
“Fa qualche differenza?”
“Da queste parti, sì.”
Randie sospirò e distolse lo sguardo. Di profilo sembrava più giovane, notò Darren. Alla luce del giorno le aveva dato trentacinque, trentasei anni, ma nella penombra del bar, tinta di ambra e rosa dalle insegne al neon, la pelle del viso era così liscia, i lineamenti così minuti che pareva una ragazzina. Impressione che si rafforzò quando lei alzò il bicchiere verso la barista grassottella, sulla ventina, impegnata a parlare in un telefono mentre chattava su un altro. Darren mise una mano sul braccio di Randie per fermarla. Non poteva rispondere di se stesso dopo il quarto drink, ma nemmeno resistere a berlo se glielo avessero messo davanti. Ancora le toccava il braccio quando Randie disse: “C’erano altre donne. Nere, bianche: chi lo sa? Né so quante. Lui non l’ha mai detto, io non ho mai chiesto.” Tacque per un lungo momento, lo sguardo rivolto verso il chitarrista sul palco, un settantenne in giacca grigia a bavero largo. “Ero spesso via.”
“Niente di tutto questo è colpa tua, Randie.”
“Mai detto che lo sia.”
“Non volevo ferirti.” Però aveva cercato di deflettere il proprio dolore. “Mi sembrava giusto farti sapere che potrebbe esserci una qualche connessione tra tuo marito e un’altra donna.”
“Sapevo che era una possibilità quando sono salita sull’aereo. E sono ancora qui.”
A ogni buon conto ordinò un altro drink, e lui si associò mentre le esponeva il sospetto che Michael fosse andato via dal bar con Missy, e Keith li avesse trovati sulla strada di campagna. Che tutto fosse partito da lì.
Eppure qualcosa non quadrava in quella ricostruzione.
Lo percepiva come un arto fantasma, una parte mancante del corpo che prudeva ma non poteva grattare. Il bourbon e la musica, il calore emanato dai corpi danzanti al ritmo della canzone di Jackie Wilson che la band stava suonando… Tutto gli girava attorno, non riusciva a mettere insieme i pensieri.
A un certo punto Randie disse qualcosa, ma il pulsare del basso copriva la sua voce e le si dovette avvicinare al punto che i suoi capelli gli sfiorarono la guancia. Lei girò la testa e, le labbra appiccicose per il cocktail dolciastro, gli bisbigliò nell’orecchio.
“Sono stata una moglie di merda.”
Darren le mise una mano sulla schiena. Lei porse l’orecchio al suo bisbiglio di risposta. “Ci sono sufficienti prove che io sia stato un marito di merda.”
* “Sarà meglio che ti decida, piccola… Ragazzina, sai, viaggi un po’ troppo piano…” (N.d.T.)
** “Dire che è ora di andare, e lei dice, sì, lo so, ma resta ancora un minuto soltanto.” (N.d.T.)