15

Darren prese dalla cucina di Geneva un secchio e una manciata di stracci, riempì l’uno di acqua e candeggina e infilò gli altri sotto il braccio, poi uscì e si mise al lavoro. Alla luce dei fanali che si rifletteva sui vetri della caffetteria, strofinò, lavò e sciacquò il sedile anteriore del pick-up, sostituendo gli stracci quando erano troppo sporchi per fare altro che spandere il sangue tutt’attorno. Rispettoso della proprietà di Geneva, fece attenzione a non creare pozze insanguinate nel parcheggio: non sapeva dove trovare una canna dell’acqua per ripulire. Lavorò in silenzio, l’orecchio teso a qualunque macchina di passaggio sull’autostrada, la Colt sul fianco. Aveva lasciato la porta della caffetteria spalancata, perciò non sentì Faith uscire. Colse un movimento alla periferia del proprio campo visivo, e aveva già la mano sul calcio della pistola quando udì la voce della ragazza. “Sui tappetini dovresti provare con l’ammoniaca. Però non puoi mischiarla con la candeggina, sennò svieni. Comunque, per il sangue l’ammoniaca è meglio.”

“Non dovresti stare qua fuori,” le disse. “Tutto a posto? Randie?”

“Lei e nonna dormono.” Si chinò a raccogliere un paio di stracci sporchi. Per niente schizzinosa, andò a strizzarli al margine del parcheggio, innaffiando l’erba alta di acqua rosata e maleodorante. Mentre glieli consegnava pronti da riutilizzare, lo guardò negli occhi e domandò: “Ti piace?”

“Randie?” tergiversò Darren, ben sapendo di chi parlava.

“Non avevo mai incontrato una vedova così giovane.”

“È terribile quel che le è successo.” Stette sul vago, non del tutto sicuro del significato di quella domanda, o di come dovesse rispondere.

“E non avevo mai conosciuto un ranger, prima d’ora.”

Darren si ritrasse dalla portiera aperta e guardò Faith. Era una ragazza minuta, con lineamenti delicati. Labbra e capelli erano le parti più vistose. Sembrava una bambola. Doveva avere almeno diciotto anni, se stava per sposarsi, ma non li dimostrava. La vide mordicchiare il labbro inferiore, mangiando il residuo di rossetto sella sera prima, come se fosse sul punto di aggiungere qualcos’altro. La ringraziò per avere strizzato gli stracci, e lei disse: “Ci vogliono sale e bicarbonato per togliere il sangue dai vestiti. Posso lavarteli io, se vuoi.”

“Ne sai parecchio di come si pulisce il sangue, signorina,” commentò Darren.

Lo aveva detto in tono scherzoso, cercando uno sprazzo di levità in quella notte buia, ma l’espressione di Faith gli fece rimpiangere quelle parole.

“Ho dovuto pulirne la mia buona dose.”

Non era certo che lei volesse dire di più, né di volere che lo facesse.

Nel dubbio, ripiegò su una domanda generica.

“Tu vivi nella roulotte con tua nonna?”

“Adesso sì. Prima ero al Wiley College, a Marshall.”

Darren conosceva il Wiley, come gran parte dei neri del Texas orientale. Wiley, Prairie View A&M e Texas Southern University erano pilastri dell’istruzione superiore dei neri da generazioni. I suoi zii avevano conseguito la laurea di primo grado alla Prairie View; Duke, il padre di Darren, era stato ammesso alla TSU, a Houston, ma aveva rinviato per prestare servizio in Vietnam, seguendo le orme di suo fratello William.

“Cosa studiavi?”

“Relazioni pubbliche. Non avevo in programma di passare la mia vita in questo posto. Pensavo che sarei andata magari a Dallas, o Houston.”

“Puoi ancora farlo, no?” Darren intanto aveva tolto quasi del tutto il sangue secco dal sedile. Era stata una faticaccia, e mancavano ancora i tappetini. Pensò di buttarli nel cassone così com’erano, in attesa di portare il pick-up all’autolavaggio per una pulizia completa, appena ne avesse avuto tempo. “Con una laurea in relazioni pubbliche puoi trovare lavoro ovunque.”

“Non sono arrivata alla laurea.”

A quel punto, Darren scelse di lasciar cadere il discorso.

Era una cara ragazza, ma le sue vicissitudini provinciali non gli interessavano. Intento a ripulire il pick-up dal sangue nel cuore della notte, non era in vena di chiacchiere. Le chiese qualcosa da mangiare: erano ormai otto ore che non metteva niente nello stomaco, bourbon a parte. Faith andò in cucina e lui la seguì; posò secchio e stracci, poi s’informò su dove potesse trovare del compensato per rattoppare la porta. Lei gli disse di guardare sul retro, cosa che fece. Fuori erano accatastate cassette per la verdura, bottiglie di bibite vuote – soda Nehi gusto uva, Coca-Cola – e pile di giornali infilate in una scatola di cartone umida. Altri scatoloni, ripiegati, erano appoggiati contro il cassonetto. Potevano andare. Darren ne prese alcune, trovò un rotolo di nastro adesivo su una mensola sopra il lavello della cucina e, mentre Faith cuoceva un paio di costolette, improvvisò una copertura per la porta del locale, lasciando la campanella al suo posto, libera di danzare e cantare per i clienti di Geneva. Dalla cucina arrivava l’odore del grasso di maiale che sfrigolava sull’osso, e quando Faith gli posò davanti il piatto, sul bancone, quasi si avventò sulla carne dimenticando le posate. Lei gli versò una Dr. Pepper. Avrebbe preferito una birra, come minimo, ma ora si considerava in servizio e voleva essere lucido. Faith si appoggiò al bancone dall’altro lato, accanto al registratore di cassa, e lo guardò mangiare. Lui finì tutto; aveva ancora fame, ma non voleva dare ulteriore disturbo alla ragazza.

“Mia mamma… Mi ha rovinato la vita, quella donna,” disse Faith di punto in bianco, con una dose sostanziosa di drammaticità e acredine. Sembrava compiaciuta di aver trovato un pubblico passivo. “È per questo che non volevo andare con mia nonna a Gatesville. Nel caso fossi curioso…”

Non lo era.

Bevve un sorso di soda e ruttò.

“Quando al Wiley si è sparsa la voce che aveva sparato a papà, le ragazze della Alpha Kappa Alpha mi hanno cacciata dalla confraternita senza nemmeno lasciarmi spiegare. Ero così a pezzi che non riuscivo più a stare dietro ai corsi né niente. È per questo che mi sono ritirata. Non è che sia stata segata o roba del genere. È solo che mi vergognavo troppo. Mi è pesato dover dire a Rodney che ci sarà soltanto nonna, al matrimonio. Suo padre si è offerto di accompagnarmi all’altare, ma non è una cosa ben fatta.”

Darren lasciò cadere il tovagliolo sopra gli ossi nel piatto e guardò assorto la carta impregnarsi di unto. “Mi dispiace. Cos’è che dicevi di tua mamma?”

“Era sul giornale di Houston,” commentò Faith. Sembrava confusa quando aggiunse: “Pensavo lo sapessi.” Come se un trafiletto nella cronaca locale di un quotidiano di Houston avesse dovuto per forza di cose catturare l’attenzione di Darren.

Qualche anno prima, raccontò, sua madre – Mary Sweet – era entrata in bagno di soppiatto mentre il marito, Joe, era nella vasca. Abitavano in una casetta prefabbricata in legno, dalla struttura a triangolo, a circa ottocento metri dalla caffetteria di Geneva. Una zona giorno sul davanti, due camere da letto e un bagno sul retro. Mary era riuscita a cogliere Lil’ Joe alla sprovvista perché c’era la radio accesa, appoggiata su una sedia accanto alla vasca. Aveva una pistola e un conto da regolare. Lil’ Joe era nudo come un verme, a mollo nell’acqua; lei indossava una sua t-shirt degli Houston Rocket che le faceva da vestito. La ricostruzione dei fatti, da quel punto in avanti, poteva essere attendibile nella misura in cui si era disposti a credere a un’ergastolana. Mary aveva puntato la pistola alla fronte del marito, e allo stesso tempo afferrato la radio per la maniglia. L’aveva tenuta sospesa sull’acqua, accertandosi che la spina fosse ancora nella presa. Pistola in una mano, radio nell’altra, aveva chiesto: “Quale preferisci? Per me fa lo stesso, basta che crepi.”

Lil’ Joe – di pelle chiara come Faith, un piccolo spazio tra gli incisivi, i riccioli castano scuro bagnati e appiccicati sul collo sopra la linea dell’acqua – aveva sorriso alla donna con cui era sposato da vent’anni, credendo fosse solo una sceneggiata melodrammatica. Andava a letto con l’altra da più di un anno, e la moglie, a parte qualche borbottio dietro le sue spalle, non aveva mai fatto niente al riguardo. Teneva un cigarillo stretto tra i molari, e non si era disturbato a toglierlo dalla bocca per dire a Mary, con aria strafottente: “Be’, se la metti così, avanti, spara.” Faceva lo spavaldo, ma appena Mary aveva gettato la radio sul tappetino rosa del bagno e tirato indietro il cane della .22, Lil’ Joe era balzato fuori dall’acqua e le aveva dato uno spintone, buttandola a terra, mentre correva verso il davanti della casa. Era quasi alla porta quando lei gli aveva sparato tre colpi alla schiena.

Dopo l’arresto di sua madre, Faith aveva dovuto ripulire la scena del delitto con le proprie mani, piangendo carponi sul pavimento, perché non c’era nessun altro che lo facesse al posto suo. Geneva era talmente sconvolta per la perdita del figlio – così a ridosso dell’uccisione del marito, ucciso durante una rapina alla caffetteria – che aveva chiuso il locale per una settimana. Qualcosa che non aveva fatto nemmeno alla morte di Joe Sweet. La casa comunque andava messa in vendita, ora che Lil’ Joe e Mary non c’erano più. E da quando aveva lasciato il college, Faith viveva nella roulotte con la nonna. “Rodney dice che, dopo il matrimonio, troveremo un posticino tutto per noi.”

“Perché l’ha fatto?”

“Papà aveva una storia con una ragazza bianca,” spiegò Faith. “Andava sempre alla birreria di Wally, quel posto più avanti sull’autostrada, prima che l’aria là dentro diventasse irrespirabile da quanto è piena d’odio. Se ne andavano da lì insieme, parcheggiavano sulla FM 19 e si facevano i cavoli loro.”

Darren ricordò le parole di Huxley. Lil’ Joe andava sempre in quel bar, e guarda cosa gli è successo. E sulla loro scia, il tono di accusa di Lynn a proposito di Missy che parlava con Michael. Certa gente non impara mai.

Le loro voci duettavano in perfetta armonia nella sua mente.

“E la ragazza bianca?” domandò, anche se già immaginava chi fosse.

“Missy Dale.”

Faith prese il piatto di Darren e lo portò in cucina. Lui scese dalla seduta di vinile dello sgabello e girò intorno al bancone per seguirla. La trovò già davanti al lavello, a pulire il suo piatto con una spugnetta ruvida sotto l’acqua corrente. Per un momento, Darren restò a corto di parole. “Si credeva tanto furbo, papà,” disse Faith. “Certe volte gli uomini si comportano come se non sapessero chi gli lava i vestiti.” Mise piatto e posate sullo scolapiatti e aggiunse: “A proposito, togliti quella roba che te la lavo.”

“La conoscevi, Missy?” le domandò.

“No. Avevamo la stessa età, andavamo allo stesso liceo a Timpson, ma non ci siamo mai parlate. I nostri mondi non si sono mai incrociati,” disse, senza cogliere l’ironia dell’affermazione. Si asciugò le mani con uno strofinaccio e ringraziò Darren per avere sistemato la porta.

Lui si era appena reso conto di non avere mai visto una foto di Missy Dale, solo una coda di capelli biondi che spuntava dal telo bianco steso sul cadavere, il giorno del suo arrivo a Lark. “Era una bella ragazza?”

Faith si strinse nelle spalle. “Non devono per forza esserlo.”

Darren non mise insieme più di due ore di sonno, tra una cosa e l’altra. Lui e Dennis si alternarono nei turni di guardia fino al sorgere del sole, e al suo risveglio definitivo trovò i vestiti ancora caldi di ferro da stiro e ben piegati, sul bracciolo del divanetto a due posti foderato di velluto a coste nel soggiorno della roulotte. Le stanze erano silenziose, nessun segno di Geneva o Randie; la sedia di nylon intrecciato davanti alla porta d’ingresso era vuota. Si era alzato pensando al bambino, Keith Jr., che pareva vivesse a casa di Wallace Jefferson. Adesso che sapeva della relazione di suo figlio con Missy Dale, c’erano alcune domande che voleva fare a Geneva. Ma da est si avvicinavano nuvole dense, screziate di un minaccioso grigio carbone: se voleva rilevare le impronte sul pick-up, doveva sbrigarsi. Avrebbe dovuto farlo la notte prima. C’erano parecchie cose di quella notte che avrebbe dovuto fare diversamente. Il bourbon non aveva lasciato strascichi, non avvertiva postumi di sbornia, salvato dal grasso delle costolette di maiale che aveva mangiato come spuntino di mezzanotte, ma c’era una foschia ai margini della sua memoria. Non tanto nel ricordo degli eventi – il sangue, la fucilata e il confronto a casa di Wally – ma piuttosto nel suo accesso a vie non intraprese, modi in cui avrebbe potuto gestirsi meglio.

Prese il kit che teneva nella cabina del pick-up e iniziò ad applicare la polvere sulla portiera del guidatore, concentrandosi in particolare sulla maniglia e l’area attorno alla serratura, che era stata sbloccata con notevole perizia. Prelevò alcune impronte latenti che potevano appartenere a Randie o a qualche soggetto ancora ignoto, appiccicando i pezzetti di nastro sulla carta di supporto, e stava per passare alla portiera sul lato passeggero quando cominciarono a cadere le prime gocce. Mise al sicuro nell’abitacolo il kit e le impronte raccolte, poi corse attraverso il parcheggio fino alla porta del Geneva’s. Il rattoppo di cartone era umido, ma reggeva al riparo della sporgenza del tetto. Il locale era gremito: c’erano facce conosciute – Huxley, e Tim di ritorno da Chicago – e tante altre che non aveva mai visto. Tutti i tavolini erano occupati; l’unico posto libero che Randie aveva trovato era la poltrona da barbiere. Isaac non era al suo solito posto, e nemmeno Faith era in vista. Darren chiese di lei a Geneva, attraverso il bancone, contando di portare il discorso sulla conversazione della notte prima con la ragazza e su quel che aveva saputo di suo figlio e Missy.

“Dorme,” rispose Geneva, sbrigativa. Era indaffarata a servire le comande che arrivavano dalla cucina a getto continuo, e a parte un accenno di sfuggita al rattoppo alla porta – “L’ho apprezzato, figliolo” – non gli prestò alcuna attenzione. Non c’era modo di prenderla in disparte per parlare di un argomento così delicato, salvo ricorrere all’autorità che gli conferiva il suo distintivo. Ma Darren preferiva accostarla come un amico, qualcuno a cui lei scegliesse di confidare gli affari personali di suo figlio. E comunque, appena Randie si accorse del suo arrivo, saltò via dalla poltrona da barbiere e lo raggiunse, chiedendo di accompagnarla al motel per fare una doccia e cambiarsi i vestiti. La chiacchierata con Geneva su Lil’ Joe e Missy avrebbe dovuto aspettare.

Una volta sul pick-up, ancora puzzolente di candeggina, Randie agganciò la cintura di sicurezza e chiese: “È stato reale?” Aveva due ombre a mezzaluna sotto gli occhi. “Qualcosa della notte scorsa è successo davvero?”

“Tutto quanto,” confermò Darren.

Le lasciò la precedenza per la doccia. All’occorrenza, lui poteva farsi bastare una lavata alla faccia con l’acqua fredda e un po’ di dentifricio passato sui denti con il dito. C’era uno spazzolino fornito dal motel e ancora sigillato nell’astuccio di plastica, ma poteva servire a Randie. Mentre lavava mani e faccia con una saponetta rosa nel lavabo accanto al bagno, attraverso la porta socchiusa sentì lo scroscio dell’acqua dietro la tenda della doccia. Il vapore pervase il poco spazio che lo separava dalla donna. Provò sensazioni di cui non andava fiero: un calore sotto lo sterno, un sommovimento più tenero che sordido. Giusto o sbagliato, lo imbarazzava il suo affetto per lei. Sentiva un intenso impulso a proteggerla, pari alla volontà di vendicare la morte del marito. Voleva dimostrarle che si sbagliava sul Texas, che non era un posto dove si uccidevano neri facendola franca. Tamponò la faccia con un asciugamano ruvido e lo rimise a posto ben piegato, perché potesse usarlo anche Randie.

Il suo telefono suonava sull’orlo del letto a una piazza e mezza.

Era Wilson.

Aveva da comunicargli un orario e un luogo per l’incontro con Dale – alle due presso l’ufficio dello sceriffo a Center, come da espressa richiesta di Darren – e precise istruzioni al riguardo. Darren doveva svolgere il proprio lavoro con scrupolo, ma sempre con il debito riguardo verso le autorità locali; il che significava non impuntarsi su domande che Van Horn disapprovava. L’omicidio di Missy Dale restava di competenza esclusiva dello sceriffo, almeno finché non fossero emerse adeguate evidenze di un collegamento con quello di Michael Wright. “Sarà difficile che le trovi, se non posso parlare con quell’uomo,” obiettò Darren.

“Nessuno sta dicendo che non puoi parlarci. Va dato atto a Van Horn di non averti ostacolato su questo, e tu gli devi qualcosa in cambio. Tieni presente che quando questa cosa sarà conclusa dovremo continuare a lavorare con le varie forze di polizia locali. I Rangers non possono permettersi di inimicarsele. E, se devo battermi per te con i grandi capi al quartier generale di Austin, ho bisogno di poter dire che hai seguito le regole, che non sei una mina vagante.”

“Dovrebbe conoscermi.”

“Ti conosco, infatti. E ti sto dicendo di tenerti entro i limiti. La faccenda della ragazza è delicata. Stamattina sono arrivati dall’ufficio del medico legale alcuni risultati dell’esame preliminare, e cambiano un po’ le cose.”

“Vale a dire?”

“Non ho la libertà di parlarne.”

“Ma sa di che si tratta?”

“Quando e se sarà il momento, Van Horn ha promesso di condividere le informazioni.”

“Lei lo ha visto? Il referto dell’autopsia, intendo.”

Wilson si fece silenzioso. Nel bagno, lo scroscio d’acqua cessò, si udì il cigolio di un rubinetto duro: Randie stava uscendo dalla doccia.

“C’è qualche preoccupazione per la tua vicinanza alla donna che gestisce il locale per neri a Lark. Ginny o Genevieve, qualcosa del genere. Una signora anziana, di colore…”

“Geneva. Che c’entra con lei l’autopsia di Missy?”

“Quando e se sarà il momento,” ripeté Wilson. “Van Horn ha dato la sua parola.”

Darren chiuse la comunicazione proprio mentre Randie allungava il braccio oltre la porta a prendere l’asciugamano dal bordo del lavabo e svelta se lo avvolgeva attorno prima di uscire. Lui voltò la testa dall’altra parte e borbottò: “Scusa.” Randie disse che poteva vestirsi in bagno, ma le rispose che non ce n’era bisogno: uscì dalla camera e guardò la pioggia, che adesso cadeva a grosse gocce; scolava dalla gronda in cordoni ritorti, batteva sull’asfalto di fronte al posto auto dov’era parcheggiato il pick-up e macchiettava d’acqua le punte dei suoi stivali. Chiamò Greg, selezionando il numero del suo interno al Bureau, e ascoltò il tono di libero.

Fu allora che notò l’altra macchina nel parcheggio. Una berlina Buick grigia, con un uomo seduto al posto di guida. Bianco, sulla trentina, capelli castano scuro tagliati corti. Si era fermato vicino alla ricezione, ma il muso dell’auto era puntato verso la porta davanti alla quale stava Darren. Lo aveva visto uscire dalla camera di Randie, e ora aprì la portiera. Il ranger portò la mano al calcio della Colt e gli intimò di fermarsi, ma l’altro o non lo sentì o se ne fregò, perché continuò a camminare. Camicia button-down scozzese sotto una giacca sportiva marrone, un paio di Rockport ai piedi. Portava gli occhiali, ma forse era ora di cambiarli: soltanto quando fu a pochi passi dal ranger sembrò accorgersi della pistola e del distintivo sul suo petto. Si fermò di colpo, lasciando cadere una borsa di cuoio sformata sull’asfalto bagnato. Era più giovane di quanto Darren avesse creduto sulle prime. Impossibile che quel ragazzo avesse vissuto tre decenni.

Portò una mano dietro la schiena a prendere qualcosa, e Darren sentì tutto il sangue del suo corpo affluire al dito sul grilletto mentre gli montava dentro l’ebbrezza dello sparatore, un senso di potere che alterava la mente, acuendo la vista e l’udito mentre la ragione recedeva in un distante grigiore. Eseguì una scansione rapida: la borsa da postino, i calzoni kaki informi… Abbassò la pistola nello stesso istante in cui l’altro estraeva un portafoglio di pelle dalla tasca posteriore. Tirò il fiato – non si era nemmeno reso conto di averlo trattenuto – e gli si allargò il cuore per il sollievo. L’uomo aveva soltanto anticipato la sua richiesta di mostrargli i documenti. Quando Randie, qualche minuto più tardi, uscì dalla camera, Darren le presentò Chris Wozniak, del Chicago Tribune. Il mondo là fuori era arrivato a Lark, e aveva domande da fare.