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Se Chris Wozniak era curioso di sapere perché il ranger che stava indagando sulla morte di Michael Wright fosse uscito dalla camera della vedova alle nove del mattino, lo tenne per sé. Per due volte guardò Randie chiedendo: “Quindi, lei è la moglie?” come dovesse assicurarsene. Le fece le condoglianze e disse che sarebbe stato lieto di poter intervistare anche lei. “Conosce Teresa Martin, stando alla mia caporedattrice.” Randie annuì, ma evitò il suo sguardo.

“Eravamo insieme alla SAIC. School of the Art Institute of Chicago,” aggiunse a beneficio di Darren. Si era messa un paio di pantaloni neri e una t-shirt cremisi, leggera come carta crespa. Darren la vide rabbrividire, le braccia incrociate sul petto per scaldarsi, e fu tentato di tornare dentro a prenderle la giacca bianca; ma quello era l’ottobre texano: ci sarebbero stati ventisei gradi prima di mezzogiorno.

“Conosco la SAIC,” le disse. “Ho vissuto a Chicago per qualche anno.”

Lei lo guardò in modo strano, come se l’informazione stonasse con gli stivali e il distintivo dell’uomo che aveva di fronte. “Davvero?”

Darren fece un cenno di conferma. “Studiavo legge alla University of Chicago.”

Nemmeno questo le quadrava, ma la fece sorridere.

“Anche Michael ha studiato lì.”

“Bene, bene,” gongolò Wozniak. “Voglio approfondire tutto questo. Il retroterra della vittima… Ed è interessante che ci siano punti di contatto tra voi,” disse al ranger, prendendo penna e taccuino dalla borsa per scribacchiare un appunto. Darren era scioccato dal suo cinismo davanti alla vedova di un uomo assassinato. “Sto aspettando una troupe. Sarà qui in giornata, spero,” proseguì il giornalista. “Nel frattempo, vorrei farmi un quadro della situazione e dell’aria che tira qui, per così dire. In redazione gira voce di un bar che pare sia una specie di covo dei suprematisti bianchi della zona.” Lanciò un’occhiata a Randie. Aveva dell’altro in mente, ma non volle accennarvi in sua presenza. “Potremmo andare con la mia macchina.”

Aveva una videocamera digitale nell’auto presa a noleggio; voleva raccogliere un po’ di materiale sulla scena del delitto appena possibile, e contava che Darren lo mettesse al corrente degli sviluppi mentre andavano là. Ma lui voleva tornare alla caffetteria e andare a fondo sugli inaspettati collegamenti appena emersi tra Missy Dale e il mondo di Geneva. Era importante quanto il fatto che Michael, con ogni probabilità, aveva trascorso le sue ultime ore alla birreria di Wally. Quei due locali agli estremi opposti di Lark, separati da quattrocento metri di autostrada, erano poli complementari; impossibile comprendere l’uno senza l’altro. E Van Horn aveva in mano qualche nuovo elemento che riguardava Geneva. Darren non immaginava di che cosa potesse trattarsi.

Non gli piaceva l’idea di lasciare Randie da sola con quel tizio; ma, ora più che mai, sentiva che la fucilata alla caffetteria di Geneva era indirizzata a lui. La Aryan Brotherhood of Texas aveva un nemico a Shelby County, ed era possibile che lei corresse maggiori rischi standogli accanto. Guardò oltre il parcheggio, deserto eccetto per il suo pick-up e le auto a nolo di Randie e Wozniak, fissò il nastro lucido dell’autostrada di fronte al motel, l’acqua piovana ristagnante nelle cunette intasate dalle erbacce, e preparò un piano. Non avrebbe spartito alcun tassello del puzzle con nessun reporter prima di avere capito come di preciso si inserisse nel quadro generale. E al momento ancora non aveva nemmeno il quadro generale. Voleva sapere di più su Missy e Lil’ Joe, il figlio di Geneva. Dalla notte prima, un pensiero stava prendendo forma nella sua testa. Se Keith Dale sapeva di sua moglie e Lil’ Joe, chissà… forse aveva scaricato su Michael Wright la rabbia che non aveva avuto modo di sfogare sull’altro. Questo avrebbe dato una logica alla sequenza dei due omicidi: Keith sorprende Missy e Michael sulla strada di campagna dopo che i due hanno lasciato insieme la birreria, uccide l’uomo che insidia sua moglie, e due giorni dopo ammazza anche lei in un accesso d’ira. Entrambi i corpi vengono trovati nella stessa acqua melmosa. Perché Keith avesse fatto passare due giorni prima di uccidere sua moglie, Darren non avrebbe saputo dirlo. Ma si sarebbe addentrato nella cronologia degli eventi più tardi, seduto di fronte a Keith in una stanza degli interrogatori.

Prima voleva parlare con Geneva.

Lanciò a Randie uno sguardo di supplica mentre diceva a Wozniak che era consuetudine dei Rangers dare alla famiglia della vittima la possibilità di parlare con la stampa, prima di rilasciare una dichiarazione ufficiale. Una frottola senza senso. Ma lui era quasi due metri d’uomo corredato di pistola e distintivo, nell’insieme un pacchetto convincente. Wozniak non fece obiezioni. Randie sarebbe rimasta con il giornalista a parlare di Michael e di quel che sapeva – o meglio, non sapeva – del suo viaggio in Texas. Darren non pose restrizioni. Stava a lei decidere cosa raccontare della sua storia. E per lui era tutto tempo guadagnato. Randie gli chiese quando sarebbe tornato e per un momento sembrò smarrita alla prospettiva di stare senza di lui. Darren non accennò al colloquio con Keith Dale davanti al giornalista, ma la guardò e fece una promessa: sarebbe tornato presto.

Wendy era al suo posto fuori della caffetteria quando Darren entrò nel parcheggio ancora affollato. Geneva doveva essere indaffarata come l’aveva lasciata quel mattino andando via con Randie, se non di più. Non sarebbe stato facile trovare un momento per parlare con lei a quattr’occhi di una questione così delicata e privata. A meno che, in fondo, non lo sia. Lark era una cittadina così piccola… Tutti da Geneva’s sembravano sapere che Lil’ Joe bazzicava la birreria, e Lynn, la barista dell’altro locale, aveva alluso a una predilezione di Missy per gli uomini neri. Forse la loro relazione era di dominio pubblico, sebbene se ne parlasse poco.

“Razzola ancora da queste parti?” lo apostrofò Wendy.

Una lattina di birra sulle ginocchia e la .22 arrugginita a portata di mano, sorvegliava la mercanzia del giorno: barattoli di marmellata e vasi di ferro battuto, un portaparrucche di legno, una cassetta gialla e rossa della Coca-Cola vecchia di una trentina d’anni. Roba trovata in giro per casa che, sistemata su una coperta patchwork ai piedi di un’anziana e pittoresca signora, acquisiva sufficiente valore storico per fruttarle qualche soldo. Darren ammirava il suo spirito di iniziativa. “Tanto non le faranno arrestare nessuno per quell’omicidio. Anzi, per nessuno dei due,” gli disse. La pioggia era cessata per il momento. Due nuvole si scostarono l’una dall’altra, lasciando passare uno spiraglio di sole.

Wendy si schermò gli occhi con la mano.

Darren sorrise. “Ragione in più per sentirsi libera di dirmi la verità.” Poi, senza preamboli: “Quindi, quel bambino è di Lil’ Joe, eh?”

“Oh, ma guarda come siamo svegli stamattina.”

“E Geneva lo sa?”

Wendy lo guardò come se fosse scemo.

“Anche Keith?” le domandò.

“Ha dato il suo nome al bambino, ma non ci casca nessuno.”

“Perché mai Van Horn chiede elenchi dei clienti di Geneva’s, gente di passaggio, quando il marito della donna uccisa stava tirando su il figlio di un altro?” Un figlio che Keith, insieme al resto della famiglia, sembrava avere scaricato a Wally e Laura Jefferson, come per un disconoscimento retroattivo di un bambino che non aveva il suo stesso sangue. Wendy gli fece segno di spostarsi alla sua destra, per poterlo guardare senza che il sole l’abbagliasse. Darren andò a mettersi sotto la sporgenza del tetto, e in quel poco d’ombra vide che i suoi occhi erano di un castano più chiaro di quanto gli fosse parso, un caldo color miele. “Lei è un texano nero, lo sa come funziona,” rispose.

Era stato Wally, gli disse, a iniziare a mettere in giro chiacchiere.

“Cova tanto di quel rancore, quell’uomo…”

Wendy era sicura che avesse spinto lo sceriffo nella direzione che conveniva a lui.

“Vede, la famiglia di Wallace Jefferson ha costruito questa città,” iniziò a raccontare.

Lark in origine era una piantagione, sorta oltre centosettanta anni prima. Quella dall’altra parte dell’autostrada, spiegò Wendy indicando la cupola di Monticello, era la vecchia casa padronale. I Jefferson si vantavano di una qualche discendenza alla lontana dal terzo presidente degli Stati Uniti, si ritenevano eredi diretti della storia americana. E allo stesso modo del vecchio Thomas, avevano prosperato come proprietari di schiavi, ricchi sfondati e senza alcun rimorso di coscienza. Il 19 giugno 1865 – quando le truppe unioniste erano entrate a Galveston, Texas, e avevano imposto la liberazione degli schiavi in base al Proclama di emancipazione promulgato da Abraham Lincoln – s’era creato un po’ di scompiglio, ma non più di tanto; c’era sempre un nuovo modo per fare soldi. La maggior parte della gente nera di Lark proveniva da famiglie di mezzadri: braccianti sfruttati nelle piantagioni degli ex padroni, non più formalmente in schiavitù ma vincolati ai proprietari terrieri dai debiti, non potendo pagare le ingenti spese di conduzione del fondo imposte dal contratto agrario. Erano passati dalla padella alla brace, dalla certezza dell’inferno alla lenta, sfibrante tortura della speranza.

Le casse dei Jefferson si erano rimpinguate quando lo stato aveva deciso di costruire una nuova autostrada che passava proprio attraverso il centro della cittadina. Wendy pensava fosse solo il buon fiuto di famiglia per gli affari a permettere, una generazione più tardi, a Wally di esibire automobili di lusso e anelli di diamanti. E certo, anche il fatto che fosse il proprietario di quasi il novanta percento dei terreni in quel piccolo angolo della contea. Escluso il pezzetto di terra di Geneva. Darren chiese come una giovane donna nera e sola fosse riuscita a comprare una proprietà lungo l’autostrada negli anni sessanta. “Ci sto arrivando, se mi lascia parlare,” gli disse Wendy.

Geneva Marie Meeks non era andata oltre la terza liceo. Quell’anno suo padre si era ammalato, e non aveva più potuto occuparsi dei loro quattro ettari coltivati a cotone. Sua madre e i fratelli si erano rimboccati le maniche, ma si erano presto trovati comunque in difficoltà; abbastanza per decidere che anche Geneva doveva lavorare. Ci sapeva fare ai fornelli, aveva cucinato per la sua famiglia di sei persone da quando arrivava a stento all’ultimo ripiano della credenza, così era stata presa a servizio dai Jefferson: per sei giorni alla settimana aveva preparato loro colazione, pranzo e cena, oltre al pranzo al sacco da portare a scuola per il giovane Wallace Jefferson III, che andava al liceo a Timpson e aveva una piccola Ford Fairlane comprata dal papà perché potesse sfrecciare spensierato e con stile avanti e indietro da scuola lungo la 59. Wally era sempre stato un po’ troppo viziato, indotto a credersi più speciale di quanto fosse. Ma aveva un’autentica adorazione per il padre e tutto quel che lo riguardava, dal modo in cui stringeva i calzoni intorno alla vita con una cintura dalla fibbia d’argento ai suoi modi distinti in città, dove teneva la porta aperta alle signore e non diceva mai la parola “negro” in presenza di persone di colore. Wallace Jefferson II, in confidenza detto “Jeff”, allora era al secondo matrimonio. Dopo la morte improvvisa della prima moglie, la madre di Wally, aveva preso ad andare a feste parrocchiali fino a Marshall e Dallas, in cerca di una brava ragazza da sposare perché la sua dimora tornasse a essere una vera casa. Ma la seconda signora Jefferson, Phillys Slatterly di Longview, non aveva resistito a lungo, avendo sopravvalutato parecchio le gioie di vivere in una piantagione nel ventesimo secolo. Presto aveva cominciato ad annoiarsi in una cittadina di appena duecento persone, molte delle quali troppo nere e troppo povere per dare il giusto riconoscimento alla sua posizione sociale, come riteneva che l’altisonante cognome acquisito meritasse. Inoltre, doveva sobbarcarsi il viaggio in macchina di quasi trecento chilometri fino a Dallas per spendere il denaro di Jeff in una maniera per lei soddisfacente. Non era durata che diciotto mesi, poi era scappata e aveva ottenuto l’annullamento del matrimonio dal tribunale della sua città natale. Jeff l’aveva lasciata andare e si era dedicato a tirare su da solo i due figli, Wally e il fratello minore Trent, morto in un incidente d’auto durante il primo anno di università alla Texas A&M. Si era rassegnato alla vita da scapolo e aveva rinunciato all’amore. Per questo non era preparato alla presenza di Geneva in casa sua.

Era troppo giovane per lui, questo lo sapeva. E non gli sfuggivano gli sguardi che suo figlio Wally lanciava a Geneva quando passava per la stessa stanza nella quale era lui, o le volte in cui le portava una Coca fredda da Timpson e le chiedeva di fare una pausa per sedersi con lui sulle scale dell’entrata posteriore. Erano vicini per età, Wally e Geneva, ma non certo per temperamento. Già a diciotto anni lui era un pallone gonfiato, un ragazzo immaturo che faceva il grande vantandosi di una ricchezza che non aveva guadagnato. Geneva era una ragazza tranquilla, sveglia, divertente se la trovavi dell’umore giusto, e sapeva cosa fosse il lavoro duro. Due o tre sere ogni settimana si fermava più a lungo per preparare il cibo per il giorno dopo, così poteva arrivare un po’ più tardi al mattino e avere il tempo di cucinare per la sua famiglia.

Era così che avevano cominciato a parlare, lei e Jefferson padre. A tarda sera, Jeff, sorseggiando un whiskey al tavolo di cucina, guardava Geneva lavorare con le dita l’impasto per gli gnocchi di farina o lavare foglie di cavolo a una a una per essere certa di eliminare tutte le larve di cavolaia. Qualche volta si offriva di aiutarla, ma lei gli diceva di stare seduto, e lui così faceva.

Parlavano della scuola. Le mancava? .

Parlavano di suo papà. Stava un po’ meglio? No.

Parlavano della prima moglie di Jeff, e lui ammetteva di piangere ancora, ogni tanto.

Certe sere si scambiavano storie e tradizioni di famiglia, gli antenati di lui contro quelli di lei.

Lui avrebbe lasciato perdere, ma accidenti, era così bella…

“E anche lei,” disse Wendy, “anche lei si era innamorata.”

Jeff aveva preso ad accompagnarla a casa le sere in cui lavorava fino a tardi. Abitava a nemmeno due chilometri di distanza, ma cominciava a fargli un effetto strano lasciarla andare via da sola dopo mezzanotte. E c’erano anche altri effetti strani che Geneva aveva su di lui. Una vampata di calore al collo quando lo guardava. Una tensione sotto la vita quando gli stava troppo vicino. E un desiderio struggente di toccarla dappertutto, di sapere che sensazione avrebbero dato quei riccioli avvolti intorno alle sue dita.

Una sera Geneva aveva detto a sua madre che i Jefferson le avevano chiesto di fermarsi a lavorare tutta la notte, e quando Jeff aveva preso il pick-up per accompagnarla a casa come al solito, lei gli aveva proposto invece di parcheggiare da qualche parte. Sapendo quel che stava per succedere, lui si era rosicchiato le unghie mentre guidava verso il limite del terreno sul quale sorgeva la villa. Non era mai stato che con donne bianche, e quando aveva assaggiato Geneva per la prima volta – un bacio durato un’ora, o poco ci mancava – non avrebbe saputo dire se fosse la pelle nera o lei ad avere un sapore così dolce.

Per Geneva era la prima volta, e Jeff si era ripromesso di andarci piano.

Ma non aveva potuto evitare quel che sarebbe accaduto. Presto il veicolo prese a sussultare in mezzo a quel campo, lui con una mano premuta contro il finestrino umido sul lato del passeggero e l’altra sul fianco sinistro di Geneva. Si erano travolti a vicenda, Geneva aveva gridato e gli aveva morso il lobo dell’orecchio, rivolgendo al cielo una preghiera di gratitudine. Era tutto finito in meno di dieci minuti, poi erano rimasti abbracciati sul sedile del pick-up fino al sorgere del sole.

Poteva darsi che Wally non avesse notato niente di strano quando, al mattino, era sceso per colazione e Geneva era “arrivata” al lavoro con gli stessi vestiti del giorno prima. Invece aveva di certo notato che poco dopo quella fatidica notte suo padre, senza dargli alcuna spiegazione, aveva preso a costruire un capanno sull’altro lato dell’autostrada, proprio di fronte alla casa. L’aveva tirato su con le sue mani, pagando Isaac – che si occupava dei lavori di manovalanza nella tenuta – cinque dollari extra alla settimana per segare il legname. Isaac allora era un ragazzino di dodici anni, zuccone come adesso, a detta di Wendy. Wally all’inizio aveva pensato che la costruzione fosse una casa per Geneva, il che era già abbastanza irritante, ma una caffetteria sui terreni di famiglia era stato un vero affronto. Suo padre aveva messo su un’attività per la ragazza che amava. Jeff stesso aveva dipinto il nome di Geneva sull’insegna, ma era stata lei ad avere l’idea di appendere la fila di lucine lungo la linea di gronda: voleva rendere il posto allegro e invitante. Era l’unico locale pubblico per colored nel raggio di miglia, a quei tempi; lei e Jeff ne avevano tratto buoni profitti, abbastanza perché la famiglia di Geneva potesse affrancarsi dalla mezzadria. Quando infine il cancro s’era preso suo padre, lei l’aveva deposto in una cassa foderata di raso; aveva soldi a sufficienza per una lapide di marmo e un mare di fiori. Gigli, i preferiti di sua madre. Erano una sorta di strana famiglia, con Jeff che si fermava a mangiare alla caffetteria, seduto a tavola con la famiglia colored che un tempo lavorava per lui, e Wally che rifiutava di unirsi a lui.

Chiunque avrebbe detto che erano felici, Geneva e Jeff.

Poi era arrivato Joe.

La sera in cui Geneva aveva detto a Jeff del musicista, Joe stava già da due giorni nella stanza sul retro della caffetteria. Quei due si erano innamorati e giurati fedeltà dal primo momento, Joe non voleva più nascondersi.

La donna aveva fatto sedere Jeff al tavolo migliore e gli aveva portato una fetta di meringata al limone e un bicchiere di whiskey, ma lui non aveva toccato né l’una né l’altro. Vedendola assieme all’uomo molto più giovane e molto più nero di lui, aveva fatto una sola domanda: “È questo che vuoi, Neva?” Quando lei aveva risposto di sì, si era alzato dal tavolo.

“Bene, allora.”

Quelle erano state le ultime parole che le aveva detto in vita sua.

Joe aveva rilevato il locale con il denaro guadagnato come musicista; Jeff, pace all’anima sua, era morto nel giro di un anno. E Geneva era ancora lì. Ancora ricavava profitti dalla proprietà di Wally, per come la vedeva lui. Gliel’aveva rubata, e da decenni le stava addosso perché gliela vendesse, solo per poter abbattere quella costruzione. “Per lui è una questione di principio, capisce?”

“Quanto tempo dopo l’arrivo di Joe è nato Lil’ Joe?”

Darren non avrebbe saputo porre la questione con più delicatezza di così.

“Figlio mio, non posso sapere tutte le date,” replicò Wendy. “Se però sta chiedendo se Lil’ Joe aveva il sangue di Joe, la risposta è no. Ma non aveva molta importanza. Joe amava quel bambino come se fosse suo. Non ne fanno più di uomini come Joe.”

“Allora Wally e Lil’ Joe erano fratelli?”

“Ah, c’è arrivato?” chiese Wendy, facendo l’occhiolino.

“Quel bambino… mio Dio, il figlio di Missy è anche nipote di Wally. Lui lo sa?” Si era preso in casa Keith Jr. dal giorno dell’omicidio.

“Non so cosa sappia.”

Una donna nera e robusta uscì da Geneva’s intenta ad armeggiare in bocca con uno stuzzicadenti rosso. Diede un’occhiata alla merce di Wendy esposta vicino alla porta, si sporse a guardare meglio, poi ci ripensò e proseguì ciabattando verso una Honda Civic bordeaux. L’automobile si inclinò sulla sinistra sotto il suo peso quando salì al posto di guida, e Wendy disse: “Ho una pancera in macchina. Scommetto che quella l’avrebbe comprata.”

Mentre la Honda usciva in retromarcia dallo stallo e lasciava il parcheggio, Darren vide una scena curiosa. Un’auto con le insegne dello sceriffo di Shelby County stava uscendo dall’autostrada; il lampeggiante acceso proiettava fasci di luce blu e bianca, ma la sirena era spenta. Darren avvertì una disconnessione tra suono e velocità che gli diede un senso di spaesamento, come se il mondo attorno a lui andasse al rallentatore. Una seconda auto dello sceriffo arrivò dietro la prima ed entrambe si fermarono al margine del parcheggio di Geneva’s. Quando Van Horn scese dalla prima volante, Wendy fischiò una nota bassa. Darren sentì qualcosa sprofondare nel petto, un sasso di speranza perduto in un pozzo, la forza di gravità che attuava il suo gioco inesorabile. Non era scontato dall’inizio che si sarebbe arrivati a questo? Che qualcuno da Geneva’s avrebbe dovuto pagare per l’omicidio di Missy? Alzò una mano prima che Van Horn potesse arrivare alla porta. “Che sta succedendo?” domandò, guardando due vice scendere dalla seconda automobile. Che cosa poteva mai richiedere un tale spiegamento di forze? Van Horn gli disse di non immischiarsi, non era affar suo, poi entrò nel locale seguito dai due vice, che andarono a mettersi a ridosso della parete accanto al juke-box, armi in pugno, mentre entrava anche Darren. Dietro il bancone, Geneva alzò lo sguardo e sembrò confusa vedendo nello stesso momento il ranger e la polizia di contea, come se fossero arrivati insieme, come se fosse un’operazione coordinata.

“Geneva,” disse Van Horn. “Vediamo di non complicare le cose, intesi?”

Le chiese di uscire da dietro il bancone con le mani in avanti, poi rivolse un cenno a uno dei suoi uomini, più giovane e più grasso di lui. Il vicesceriffo sganciò un paio di manette dalla cintura e attese paziente che Geneva venisse avanti. Lei fissò la scena di fronte a sé come se fosse stata allestita per vivacizzare l’ambiente, come se quegli uomini fossero pessimi attori che recitavano un copione mal scritto.

“Parker, che cavolo di stronzata è questa?”

“Geneva, non parli,” disse Darren. “Non dica niente.”

“È in arresto per l’omicidio di Missy.”

Huxley si girò di scatto sullo sgabello. Tim scattò in piedi e protestò: “Ma siete matti? Che motivo avete di credere che Geneva ha ammazzato Missy?”

“Abbiamo prove che indicano che la signora Sweet è stata l’ultima a vederla viva.”

“Ma che… E l’ho stuprata, anche?” sbottò Geneva.

Il vice con le manette disse: “Non crediamo più che ci sia stato stupro.”

“Basta così.” Van Horn lo riprese in tono aspro per avere parlato a sproposito e gli ordinò di ammanettarla subito. Huxley e Tim cercarono di bloccare il passaggio al tutore dell’ordine. “Ho posto in auto per tutti e tre,” minacciò lo sceriffo, ed entrambi indietreggiarono. Il vice raggiunse Geneva dietro il bancone e – con una certa gentilezza, notò Darren – chiuse i suoi polsi esili nei due bracciali di metallo. La porta della cucina si aprì e ne uscì Faith, che mandò un urlo.

“Che state facendo a mia nonna?”

Darren spostò lo sguardo da lei a Huxley e Tim, e infine a Geneva, che gli stava passando davanti con i polsi ammanettati dietro la schiena, la mano del vicesceriffo ben salda sulla spalla. Darren li seguì fuori e stette a osservare mentre l’agente la faceva salire in macchina, accompagnandola con una mano sulla testa perché non battesse contro la cornice della portiera. Dentro a metà, lei si fermò a guardare indietro, verso il suo locale, il posto attorno al quale ruotava tutta la sua vita.

“Huxley,” disse. Era uscito anche lui, insieme a Tim e a qualche altro cliente. “Chiudi qua e chiama l’avvocato a Timpson, quello che è venuto quando hanno sparato a Joe.” Poi fissò Darren. Lui notò un tremolio del labbro inferiore, la prima crepa che scorgeva nella sua corazza, il primo segno visibile che era terrorizzata. “Non parli, per nessun motivo,” le disse, attingendo alle sue nozioni di diritto penale. E fece una promessa che non era sicuro di poter mantenere. “La tirerò fuori.” Geneva annuì e si infilò sul sedile posteriore dietro la griglia divisoria.