L’autopsia di Missy Dale era un punto d’orgoglio per Van Horn, adesso che aveva ottenuto un arresto. Fu fin troppo lieto di condividerne gli esiti con Darren; potendo glieli avrebbe offerti in confezione regalo, tanto era compiaciuto di quella svolta degli eventi, fiero di aver chiuso almeno uno dei due casi di omicidio. Anche se significava arrestare una donna di quasi settant’anni con motivazioni che a Darren non sembravano avere un briciolo di senso.
Gli uffici dello sceriffo erano freddi e tetri, o almeno lo era la stanza dove Van Horn lo aveva parcheggiato. Boiserie scura, moquette grigia usurata dai tacchi degli stivali nei punti di maggiore passaggio. Alle pareti erano esposte fotografie di una squadra giovanile di football sponsorizzata dal dipartimento dello sceriffo di Shelby County – i giocatori via via più grandi nella successione di immagini, da bambinetti a adolescenti – oltre a un calendario illustrato con fiori tipici del Texas, la pagina di ottobre un tripudio di corolle gialle e rosse di gaillardia. Darren sedette sotto il calendario, a un tavolo sul quale una segretaria aveva messo un centrino accanto alla macchina per l’espresso Mr. Coffee, a fare da vassoio a bicchierini di polistirene e zucchero in zollette. Darren spinse il tutto da parte e aprì il fascicolo davanti a sé.
Le immagini erano meno raccapriccianti di quelle di Michael Wright; meno cruente, se non altro. Mentre Michael era trasfigurato, la faccia di Missy appariva com’era in vita, tonda con cicatrici d’acne sul mento; una ragazza carina, tutto sommato, il tipo che poteva perfino passare per una bellezza nella provincia texana. Già il biondo di per sé riscuoteva successo da quelle parti, e Missy aveva folti capelli dorati, senza accenno di ricrescita scura. Non c’era alcun segno di violenza su di lei al di sopra del collo. Gli occhi erano chiusi, come se stesse dormendo, al limitare di un sogno che si era appena trasformato in incubo. Era la zona sotto la mandibola a raccontare la vera storia. C’erano graffi verticali ai lati della gola, lasciati dalle sue unghie mentre lottava per liberarsi dalla stretta dell’assalitore. Si vedevano le impronte delle dita che l’avevano strangolata. Lividi color vinaccia e blu notte, la pelle circostante screziata da un reticolo di capillari rotti. Secondo il medico legale, Missy era rimasta meno a lungo di Michael nell’acqua acida del bayou. Non c’era traccia dell’Attoyac nei polmoni – né acqua né limo – il che significava che vi era entrata già morta. La causa del decesso era indicata come asfissia per strangolamento. L’osso ioide era fratturato in due punti. Modalità della morte: omicidio.
Il bayou era stato solo un allestimento teatrale, pensò Darren: una messinscena studiata per suggerire un collegamento tra l’assassinio di Missy e quello di Michael Wright, per paventare una consequenzialità che forse non c’era. Un trucco astuto. Van Horn non si era basato appunto su quel presupposto, il secondo omicidio quale ritorsione per il primo? Ma come tutto questo avesse a che fare con Geneva, non riusciva a capirlo. Finché non arrivò alla penultima pagina. Nelle poche righe in fondo, sotto il dato relativo alla quantità di alcol nel sangue, zero percento, il contenuto dello stomaco di Missy rivelava un segreto su come aveva trascorso le ultime ore di vita.
“Van Horn ha una gran faccia tosta,” disse Geneva quando Darren venne finalmente fatto entrare a parlarle. Era già stata sottoposta alla procedura di registrazione presso il carcere annesso al palazzo di giustizia della contea; aveva dovuto consegnare il grembiule e la fede nuziale. Teneva un orologino da polso placcato oro nella tasca, perché le maglie del bracciale non s’incrostassero di farina e unto, e le avevano portato via anche quello. Il suo legale era un bianco corpulento con una zazzera canuta che recedeva dalla fronte e s’impennava verso il soffitto. Aveva lo stile inconfondibile degli avvocati difensori, con un accenno sartoriale a un’inclinazione antiautoritaria. Dalle parti di Austin, lo zio di Darren, Clayton, era noto per la sua collezione di calze estrose – scozzesi, a pois, a strisce – che aveva il vezzo di spaiare e ricombinare negli abbinamenti più improbabili. Frederick Hodge, difensore di fiducia della signora Sweet, sfoggiava una camicia western con i bottoni di madreperla sotto la giacca del completo, e un paio di stivali dalla punta squadrata che non trovavano collocazione in un contesto professionale. Aveva fatto di tutto per impedire che la sua assistita parlasse con ulteriori esponenti delle forze dell’ordine, ma a Van Horn piaceva l’idea di dare briglia sciolta a Darren con Geneva; tanto più che i colloqui con i detenuti erano strettamente monitorati, a meno che si esibisse un tesserino dell’ordine degli avvocati.
“Ci parli pure,” gli aveva detto.
La stanza era piccola, l’aria stantia e permeata di un vago odore di muffa. C’erano chiazze di umido sul soffitto, aloni bruni che parevano nuvole funeste. “Proprio una gran faccia tosta, lo sceriffo,” ripeté Geneva torcendosi le mani.
“Faccia tosta? O indizi sufficienti?”
Geneva socchiuse gli occhi guardando oltre le spalle di Darren. Due vicesceriffi li osservavano da dietro un riquadro di vetro sporco incassato nella parete di gesso, seguendo lo scambio. Darren stava pesando le parole, ma sentiva di essere al limite della fiducia che poteva concedere a quella donna. Una donna che in fondo non conosceva. Lei lo faceva sentire a casa, come quelle tra le quali era cresciuto a Camilla, incarnazioni della figura materna che mancava nella sua vita, e temeva di aver lasciato che questo offuscasse il suo giudizio. Di avere scambiato un’apparenza rassicurante per una coscienza pulita.
“La situazione è seria, Geneva.”
“L’avvocato ha detto che non possono trattenermi ancora a lungo. Hanno solo indizi circostanziali. Stanno facendo baccano perché dopo tre giorni ancora non hanno scoperto chi è stato o cosa è successo, ma lui dice che non…”
“Il suo avvocato non ha ancora visto l’autopsia.” Darren accostò l’altra sedia al tavolo e si piazzò dritto di fronte a lei, per poterla guardare in faccia mentre elencava il cibo parzialmente digerito prelevato da stomaco e intestino tenue di Missy Dale: carne e grasso di manzo, in proporzioni tali da far pensare a coda di bue; semi della leguminosa conosciuta come fagiolo dall’occhio; pomodori verdi crudi; aceto; impasto dolciario fritto; conserva di pesche e sciroppo di zucchero di canna. Dessert a parte, era quel che lui stesso aveva mangiato da Geneva’s il primo giorno, e proprio quella mattina il corpo di Missy Dale era stato scoperto a un centinaio di metri dalla caffetteria.
“Comunque indizi circostanziali,” affermò lei con enfasi.
Dopo due casi di omicidio in famiglia, credeva di saperne qualcosina di responsabilità penale. Darren notò che si era fatta più calma e risoluta da quando era stata messa sul sedile posteriore di un’auto della polizia. Qualcosa di nuovo si era insediato tra la ragnatela di rughe attorno agli occhi, nella piega delle labbra secche e fessurate. Pura indignazione. Lo fece infuriare che lei non volesse capire la gravità della propria posizione. “Mi ha mentito,” l’accusò.
“No. Semplicemente non le ho riferito cose che non la riguardavano.”
“Ma ha visto Missy la notte in cui è morta.”
“E anche se fosse?”
“Non le è venuto in mente che doveva dirlo a qualcuno?”
“Anche lei si tiene stretti i suoi dannati segreti.” Incrociò le braccia, i gomiti aguzzi premuti sul tavolo. “Prima mi stava tra i piedi senza dire che era un ranger, poi si è ben guardato dal dire che era stato sospeso.”
E così, Wally e Geneva avevano parlato. Per quanto ci provasse, non riusciva a capire il loro rapporto. C’era un aperto antagonismo, ma anche una strana familiarità nel modo in cui si tolleravano a vicenda, e perfino si accettavano. Che quei due si piacessero o no, c’era poco da fare: erano una famiglia.
“Sto cercando di aiutarla,” le disse.
“Non credo proprio, con quel distintivo addosso.”
“Non sono Van Horn, Geneva.”
Lei ci pensò su, ma non era per niente convinta.
“So di suo nipote.”
“Allora dovrebbe sapere che è per questo che è stata uccisa.”
“Keith?”
“E chi altri?”
“Diranno che lei è stata l’ultima a vederla.”
“Ne avevo ogni diritto,” sbottò Geneva, e pestò il pugno sul tavolo. Darren si era sbagliato: non era indignazione quella che irradiava dal suo corpo esile, era rabbia. Spinse indietro la sedia allontanandosi dal piano del tavolo, il cui legno era messo a nudo in qualche punto dove la gommalacca si era scrostata, e quasi la rovesciò alzandosi. “Avevo ogni diritto di vedere mio nipote. E Missy avrà sempre il mio rispetto per questo: faceva quanto poteva per lasciarmelo vedere senza sbatterlo sul muso a Keith. Veniva alla mia roulotte, ogni tanto, di solito quando pensava che Keith sarebbe tornato tardi dalla segheria a Timpson. Lui faceva gli straordinari alcune volte al mese.”
“Di cosa avete parlato, lei e Missy?”
Nella mente di Darren echeggiò la voce dello zio Clayton. Cerca una falla nella sequenza temporale, figliolo. Nell’estate dopo il primo anno alla scuola di giurisprudenza aveva lavorato in uno studio legale che offriva patrocinio gratuito, ed era solito fare lunghe telefonate notturne a Clayton per dissezionare insieme alcuni dei casi più complicati in cui si era imbattuto. Non erano mai stati tanto uniti come allora – i tempi in cui studiava legge – e adesso sentiva di aver bisogno dell’influenza di Clayton più di quella di William. L’autopsia indicava la digestione del contenuto dello stomaco di Missy come “in fase avanzata”; parte del cibo aveva già raggiunto l’intestino tenue. Si stimava che avesse mangiato quattro ore prima della morte. Quindi, a meno che lei e Geneva fossero state sedute a parlare per ore nella roulotte, e poi Geneva a un bel momento si fosse alzata per strangolarla, era possibile e probabile che Missy dopo la visita fosse andata da qualche altra parte.
Geneva sospirò. “Sapeva che non le restava molto tempo.”
Ancora in piedi, sembrò che le ginocchia stentassero a reggerla mentre parlava di Missy e del bambino. “A vederlo così biondo non si direbbe, ma il suo vero colore sta cominciando a venir fuori. Missy era in ansia già da un po’ per quello. Quest’estate l’ha fatto stare con le maniche lunghe, con il caldo che faceva; diverse volte han dovuto portarlo di corsa dal pediatra a Timpson, per dei mezzi colpi di calore. Le avevo detto di smetterla, che avrebbe finito per farlo soffocare. Gli avevo anche comprato dei pagliaccetti, così che avesse gambe e braccia libere. Le ho detto di dare la colpa al sole, come si fa da cent’anni. Non ci avrebbe badato nessuno, a parte Keith. E lui aveva già dato il suo nome al bambino, perciò non doveva preoccuparsi. A volte discutevamo, lo ammetto, ma per lo più Missy mi lasciava tranquilla con il piccolo. Guardava la TV mentre io e lui ci rifacevamo del tempo perso.” Geneva si illuminò al pensiero. “Lo faccio ballare sulle mie ginocchia, come facevo con Lil’ Joe. Gli piace tanto… E gli piacciono anche i miei frollini.” Sospirò e si lasciò ricadere sulla sedia. “Adesso che Missy non c’è più, non so se me lo faranno vedere ancora.”
“Sta a casa di Wally.”
“Lo so.”
Questo sembrava disturbarla quasi quanto l’idea di non rivederlo. Non le andava giù che Wally avesse tutto per sé suo nipote. “Sarà contento di immaginarmi a marcire qua dentro.”
“Mi dia qualcosa per smontare la loro versione.” Darren accennò con il capo agli uomini di Van Horn che li sorvegliavano dalla stanza attigua. “A che ora ha lasciato la roulotte, Missy? Ha detto qualcosa che possa darle un’idea di dove era diretta quando è andata via?”
“So dov’è andata.” La voce di Geneva era così atona che Darren non era sicuro di avere capito bene, o che lei sapesse davvero cosa stava dicendo. “L’ho portata a casa.”
“A casa?”
“A casa.”
“E Keith era là?” domandò, pensando a come i suoi sospetti iniziali concordassero con la teoria di Geneva sul perché Missy era stata uccisa.
“La macchina c’era.”
“Allora è stato lui l’ultimo a vederla?”
“Di questo non ho nessuna prova. Non è che l’ho accompagnata alla porta, ho suonato il campanello e sono stata invitata a entrare. Non ho mai messo piede in quella casa. Solo, mi piace assicurarmi che lei e il piccolo arrivino sani e salvi. Apposta ho cominciato a tenere un seggiolino per l’auto nel bagagliaio. È sul sedile di dietro della mia macchina, in questo momento.”
“Perché diavolo non ha detto niente?”
“Keith non mi ha vista. Sarebbe la mia parola contro la sua.”
“Ma se Van Horn l’avesse saputo, come prima cosa avrebbe interrogato Keith.”
“Lei è qui da abbastanza tempo per sapere che non è affatto detto.”
Geneva abbassò gli occhi a guardarsi le mani posate sul grembo. Spilluzzicò un pallino di lana sull’orlo del maglione troppo grande per lei. “E poi,” aggiunse, “Missy credeva davvero che nessuno sapesse che il bambino non era di Keith. Per lei era molto importante tenere il segreto. Non volevo certo mettere in piazza i fatti suoi subito dopo la sua morte.”
C’erano di mezzo regole di decoro che non aveva voluto sovvertire sull’onda della tragedia; non pensava che stesse a lei scoprire gli altarini di Missy quando la ragazza non aveva più modo di dire la sua. Aveva promesso di mantenere il segreto quando era viva, e poi cercato di onorarne la memoria – la gentilezza che le aveva mostrato permettendole di vedere suo nipote – non dicendo una parola a nessuno dopo la sua morte. Ma in questo modo aveva finito per proteggere Keith; un prezzo che ora stava pagando. Darren, però, non era cresciuto a Lark, non conosceva quella gente. Fanculo il decoro. Van Horn aveva arrestato la persona sbagliata, e lui non intendeva lasciare le cose come stavano.