La segheria industriale dove lavorava Keith Dale era nella zona nord di Timpson, sulla strada per Carthage e Marshall, e occupava quattro ettari di terra lungo la Highway 59. Secondo il caposquadra con il quale Darren aveva parlato al telefono, Keith Dale era a metà del turno, al lavoro nel reparto finitura. Lì, verso il fondo dello stabilimento, il legname arrivava dal reparto lavorazione su un nastro trasportatore già accatastato sui pallet e pronto per essere imballato in fodere di plastica bianca sulle quali era stampata la scritta TIMPSON TIMBER HOLDINGS. Il caposquadra si era offerto di accompagnare il ranger Mathews alla postazione di Keith – “Hanno scoperto chi ha ucciso sua moglie?” – ma lui aveva detto che non era necessario. E adesso stava parcheggiando nel piazzale oltre il grande cancello, con le lettere TTH che gettavano un’ombra sul parabrezza del Chevrolet argento. Trovato. C’era una fila di autoarticolati vicino al capannone dove era diretto, le enormi motrici oziose in attesa che i carrelli elevatori a forche caricassero i pallet di legname lavorato sui pianali dei semirimorchi. Fin dove Darren poteva vedere, non c’era uno spazio aperto in tutta la proprietà che non fosse occupato da pile di legname grezzo messo a stagionare al sole, che dava all’aria l’aroma dolce e cremoso di pino appena tagliato. Aveva lasciato l’ufficio dello sceriffo senza informare Van Horn di dove stesse andando. Lui e Keith avrebbero fatto solo quattro chiacchiere, aveva detto a se stesso; si stava unicamente assicurando di avere il colloquio promesso, che temeva non si sarebbe concretizzato dopo l’arresto di Geneva.
Il capannone era grande circa un terzo di un campo da football, e aperto su due lati. Oltrepassò un muletto fermo, il carrellista in attesa di un segnale da un altro operaio. L’uomo guardò sorpreso Darren – camicia e pantaloni ben stirati, e soprattutto la stella sul petto – camminare tra una dozzina di operai in gilet giallo fluorescente e casco di protezione, gli scarponi antinfortunistici incrostati di segatura e fango. Keith era sul lato opposto, intento a coprire con un telo di plastica della Timpson Timber Holding un pallet largo forse un metro e mezzo, carico di travetti di pino grezzo formato cinque per dieci. Lesioni traumatiche da corpo contundente. Fratture craniche. Fibre di legno conficcate nella pelle. Darren sentì i peli rizzarsi sulle braccia mentre si ritrovava davanti all’uomo che, adesso ne era sicuro, aveva ucciso Michael Wright, massacrandolo di botte prima di gettarlo in una tomba d’acqua. Non era mai stato più certo di qualcosa. E sapeva che il momento richiedeva di scordarsi le regole di Wilson.
“Keith Dale,” chiamò.
Prima di Keith, diversi colleghi si voltarono a guardarlo; lui fu tra gli ultimi ad accorgersi del ranger nero tra loro. E, in quell’istante, un sorriso si allargò a poco a poco sulla sua faccia. Sotto il casco giallo appariva di un pallore malsano, una maschera sinistra in cui il sorriso aveva funzione di pura minaccia. A differenza degli altri operai, i quali contemplavano il visitatore inatteso con un misto di soggezione e perplessità per le molte cose che al primo sguardo non quadravano – Un ranger nero? Qui? – Keith Dale sembrava quasi solleticato da quella che considerava un’assurdità.
“So già che hanno preso quella vecchia per l’assassinio di Missy.”
Due degli uomini più vicini si scambiarono un’occhiata; uno provò a battergli la mano sulla spalla in segno di cordoglio, gesto di solidarietà maschile che Keith si scrollò di dosso.
“E so anche che avevi cercato di addossarmi la colpa.”
“Vorrei che venissi di fuori con me,” disse Darren. Keith sarebbe stato difficile da gestire, davanti a un pubblico bianco che cominciava a farsi numeroso. C’era un solo nero, in disparte, e aveva scelto di continuare il proprio lavoro nonostante la scena che si stava svolgendo poco distante da lui.
“Non ci penso proprio,” rispose Keith. Si allontanò dal pallet che stava coprendo e sfilò il guanto destro, poi il sinistro. Li cacciò entrambi nella tasca posteriore dei jeans bisunti. C’era un che di minaccioso in quel gesto, come se si stesse preparando per qualcosa che richiedeva destrezza fisica. Darren fece un passo avanti, mettendo in chiaro che non gli faceva paura.
“Voglio farti qualche domanda, Keith.”
“Non sono tenuto a dirti niente.”
“Temo che questo non sia esatto.”
Keith guardò alcuni dei compagni di lavoro, il suo sorriso si fece ancora più largo. Darren vide denti aguzzi e bianchi, macchiati di tabacco vicino alle gengive. Sembrava che se la stesse godendo. Disse la battuta successiva a voce alta, in modo che anche il nero nell’angolo sentisse.
“Gira il tuo culo di negro e vattene dal mio posto di lavoro.”
Darren mandò giù; non valeva la pena di perdere le staffe per un “negro”. Poteva farselo scivolare addosso, se significava non fargli passare liscio tutto il resto.
Con fermezza, rispose: “Non ci contare. Ho bisogno che tu venga con me all’ufficio dello sceriffo, a Center. È ora di metterci seduti per un colloquio formale.”
“Io non vengo da nessuna parte con te.”
“Preferirei che venissi con le buone, senza fare scene davanti ai tuoi colleghi. Altrimenti, dovrò usare le cattive.”
“Sì, figuriamoci…”
Usare le cattive significava portarlo via in manette, e ne aveva giusto un paio agganciato alla cintura, per ogni evenienza. Ma c’era un’alternativa: se Keith voleva dare spettacolo, lo avrebbe accontentato. “So di tuo figlio,” disse.
Keith s’irrigidì. Gli occhi saettarono a sinistra, poi a destra, cercando di capire se qualcuno degli uomini lì attorno sapesse di cosa Darren stava parlando, se qualcosa sulle loro facce indicasse che avevano sentito delle voci, se i pettegolezzi erano arrivati fin lì.
“Keith Junior non è il tuo junior, giusto?”
“Sta’ zitto.”
“Andiamo, Keith. Possiamo parlarne dallo sceriffo.”
Gli stava offrendo una via di uscita, ma Keith la rifiutò. Si avvicinò di più a Darren. Un compagno bisbigliò il suo nome e lo prese per un braccio, cercando di impedirgli di fare qualche sciocchezza, ma Keith gli disse di togliersi dalle palle. L’altro – sulla trentina, barba rossiccia e una poco virile rosa con le spine tatuata sull’avambraccio – gli diede dello stronzo e lo lasciò perdere.
“Cos’è successo?” lo incalzò Darren. “Avevi paura che Missy facesse la spia, che raccontasse a tutti quel che hai fatto a Michael Wright?”
“Mai visto in vita mia, quel tizio.”
“Sì che lo hai visto. Sulla FM 19, insieme a tua moglie. Hai trovato Missy con un nero, e non importava quale nero fosse: volevi farla pagare a qualcuno per averti messo in ridicolo.”
“No, aspetta un attimo, io non c’entro niente con quello.”
Che Darren avesse tirato in ballo l’omicidio Wright, per il quale al momento nessuno a Shelby County era in stato di arresto, e che diversi altri compagni di lavoro si fossero allontanati da lui fece scattare qualcosa in Keith. Il capannone adesso era silenzioso, eccetto per il rumore monotono del nastro trasportatore che convogliava lì pallet di legname a intervalli di quarantacinque secondi. Cominciavano ad ammassarsi, perché ogni attività era cessata; nessuno stava lavorando. Perfino l’operaio nero si era fermato a guardare lo spettacolo. Darren stava per prendere le manette quando vide Keith afferrare il travetto lamellare più vicino. Lo roteò con forza mentre qualcuno gridava: “Keith!”
Darren si abbassò e il travetto lo colpì alla spalla.
Il dolore lo gettò in ginocchio. Keith sollevò di nuovo l’asse, ma prima che potesse sferrare un altro colpo Darren alzò la pistola e sparò al di sopra della sua spalla, mandando in frantumi una lampada a sospensione. Una pioggia di vetri si riversò sul pavimento. Keith sobbalzò e si decise a lasciar cadere il travetto. Girò lo sguardo attorno, di nuovo cercò di valutare come lo considerassero i compagni di lavoro. Molti di loro nemmeno lo guardarono in faccia, e lui – vergognandosi non tanto del proprio comportamento, quanto dei segreti spifferati davanti a tutti – abbassò la testa.
Darren tirò fuori le manette e gliele mise ai polsi.
“Aggressione a pubblico ufficiale,” disse. “Adesso sei costretto a venire con me.”
“Siediti.”
Indicò a Keith, ancora ammanettato, una sedia sul lato opposto alla porta del minuscolo stanzino degli interrogatori, quattro pareti di gesso e un tavolo rotondo a stento grande abbastanza per una partita a carte. Il soffitto era basso. Keith, che superava Darren di un centimetro o due, avrebbe potuto arrivare a toccarlo se avesse avuto le mani libere. Van Horn entrò subito dietro di loro, già cercando le chiavi delle manette nel mazzo appeso alla cintura.
“Che diavolo crede di fare?” sbraitò.
Keith tese i polsi allo sceriffo, certo che lo avrebbe tolto dai guai, confidando nella sua irritazione con Darren per aver effettuato un arresto nella contea senza chiedergli il consenso. Van Horn era stato alle calcagna di Darren dall’istante in cui era entrato nell’edificio, tirandosi appresso Keith attraverso i corridoi senza una parola di spiegazione. Era quasi esploso per la rabbia. Ora armeggiò cercando di aprire con la sua chiave le manette in dotazione ai Rangers.
“Quest’uomo è in arresto,” gli disse Darren.
“Sotto l’autorità di chi?”
“Mia.”
“Questo negro è venuto a cercarmi al lavoro,” disse Keith, i capelli ancora schiacciati sulla testa madida di sudore, nella forma del casco protettivo che Darren gli aveva tolto mentre lo spingeva dentro l’abitacolo del pick-up. “Si è messo a dar aria alla bocca su cose che non sono affaracci suoi, a parlare della mia vita privata. Se l’è cercata, per quel che mi riguarda.”
Van Horn si fece rosso in faccia. “Cosa hai fatto, Keith?”
“Ha cercato di spaccarmi la testa con un pezzo di legno, un travetto cinque per dieci che ricorda molto l’arma con cui Michael Wright è stato ridotto in fin di vita. Gli tolga le manette, sceriffo, e arresto anche lei per avere interferito in un’indagine statale.”
Van Horn sbuffò una debole protesta, poi cedette.
Esasperato, o forse solo esausto per il contraccolpo della scarica di adrenalina, prese una sedia e la collocò con ostentazione a qualche passo dal tavolo, per sottolineare che non stava intralciando proprio niente. Tirò fuori un fazzoletto dalla tasca dei pantaloni e si asciugò la fronte.
“Non ho ucciso quel nero,” dichiarò Keith guardando Van Horn. “Potete dire quel che vi pare, resta il fatto che non sono stato io.”
“Be’, aggredire un ranger non depone molto a tuo favore,” sbuffò lo sceriffo.
Darren disse a Van Horn di lasciar stare. “Me ne occupo io.” Indicò di nuovo la sedia a Keith. “Accomodati.”
“Non facciamola diventare più grossa di quel che è,” borbottò Van Horn, non si capiva se rivolto a Keith o a Darren. Era difficile dire in quale direzione andasse la sua lealtà. “Rispondi alle domande, così ci togliamo il pensiero.”
“La questione è semplice, Keith,” cominciò il ranger. “Da quando è andata via dal Geneva’s a quando è stata trovata il mattino dopo, di Missy si sono perse le tracce. Allora, com’è che non hai chiamato nessuno? Non hai notizie di tua moglie per quasi dodici ore, tu lì a casa con un bambino piccolo, eppure il giorno dopo ti alzi e vai al lavoro come fosse normale che lei sia sparita per tutta la notte.”
Van Horn raddrizzò la schiena, quasi che qualcuno avesse tirato un filo attaccato alla sommità della sua testa. “Un momento,” intervenne. “Ho acconsentito a farle chiedere al ragazzo dell’uomo di Chicago, ma per l’altra faccenda abbiamo già un arresto. Geneva Sweet è in prigione, immatricolata e tutto. Non rimescoliamo le carte.”
Darren lo ignorò.
“A meno che lei sia tornata a casa.”
Scrutò la faccia impassibile di Keith. Sembrava accaldato, ma la sua espressione non tradiva nulla; guardò Van Horn, il suo presunto alleato.
“Adesso basta, ranger,” disse lo sceriffo. “Questo è ancora il mio dipartimento.”
“Geneva Sweet giura di aver accompagnato Missy a casa la notte in cui è morta,” continuò Darren. “Dice che il tuo pick-up era sul vialetto. Il che significa che sei stato tu l’ultimo a vedere tua moglie viva.”
“Smetti di parlare, Keith,” s’intromise Van Horn. Era la prima volta che Darren sentiva un poliziotto pronunciare quelle parole durante un interrogatorio. Lo sconcertava il suo impulso reiterato a proteggere quel giovane uomo.
“Geneva ti ha visto, Keith,” disse.
“Stai mentendo.”
Vero.
Stava provando a farlo inciampare.
“E dice che anche tu l’hai vista.”
“Pensavo che fosse qui per cercare di scoprire chi ha ucciso Michael Wright,” lo interruppe Van Horn. Mise una mano sul tavolo in direzione di Keith, un segnale che Darren non riuscì a decifrare. Ma colse qualcosa di cospiratorio nel gesto, una rassicurazione della sua autorità assoluta lì dentro.
“È quel che sto cercando di fare, infatti,” replicò. “Ma voglio anche accertarmi che Geneva non venga incastrata per qualcosa che non ha fatto.”
“Lo sapevo che era una qualche stronzata tra neri,” commentò Keith. “Visto come si spalleggiano tra loro?”
“Missy le piaceva, Keith,” gli disse Darren. “E amava tuo figlio. Non credo che avrebbe mai potuto portargli via la madre.” Lasciò la frase sospesa nell’aria appesantita dal sudore che trapelava dal corpo dell’uomo e chiazzava sotto le ascelle il suo camiciotto da lavoro in denim sotto. Vide la linea della mandibola indurirsi alla menzione del figlio. Avrebbe potuto contare le vene che gli percorrevano la fronte come ruscelletti. Keith sorrise, dando a intendere che non lo aveva scalfito.
“Senta, sappiamo della relazione tra Missy e Joe Junior, e del bambino che ne è nato,” disse Van Horn. “Per quel che riguarda il mio dipartimento, questo costituisce un potenziale movente per la signora Sweet: può aver commesso il delitto mossa dal rancore per la morte di suo figlio.”
Aveva esposto quella teoria con l’attitudine di un procuratore a intagliare una storia in qualsiasi vecchio ceppo. Darren fu svelto a obiettare: “Non è stata Missy a sparare a Lil’ Joe.”
“No, ma se avesse tenuto le gambe chiuse, lui sarebbe ancora vivo,” disse Keith.
Il sorriso era svanito, sostituito da un’espressione di puro disprezzo che si accompagnava a una rabbia trattenuta a stento, come un toro in un recinto arrugginito. Il suo calore corporeo aveva alzato di qualche grado la temperatura nella stanza. Van Horn era paonazzo.
“Questo vale anche per Michael Wright?” lo pungolò Darren. “Se Missy non gli avesse dato spago, anche lui sarebbe…”
“Non ho ucciso quell’uomo!”
“Ma lo hai massacrato di botte.”
Era un tiro alla cieca. Darren stette a vedere se sarebbe andato a segno.
Keith tacque per un lungo momento. Nella stanza non si sentiva che il ronzio della lampada fluorescente, sul soffitto, e il respiro di Van Horn, affannoso sotto la pressione della pancia che con l’avanzare dell’età aveva affermato il proprio dominio. Lo sceriffo era quasi ansante. A bruciapelo, Darren domandò a Keith: “Hai visto tua moglie e Michael sulla FM 19, mercoledì notte?”
L’altro non batté ciglio. Non sembrava più turbato che se gli avesse chiesto quale fosse la strada migliore per Dallas. “Che differenza fa?”
“Keith…” Van Horn pronunciò il nome a voce bassa, un’ammonizione o una supplica.
“Hai visto quell’uomo, un altro nero, con tua moglie, e l’hai pestato.”
“Non l’ho ucciso.”
“Ma l’hai pestato, quindi?”
“Non è quel che ho detto.”
“Non ti ho ancora sentito negare niente di tutto questo,” disse Van Horn. Era un suggerimento, un’invisibile sagola di salvataggio lanciata a un giovane uomo che rischiava di essere rovinato da un momento all’altro dal proprio temperamento collerico. Keith si spinse lontano dal tavolo, in modo così brusco che le gambe anteriori della sedia si sollevarono dal pavimento di linoleum. Ricaddero giù con abbastanza forza da fargli battere le arcate dentali una contro l’altra, come se stesse masticando sassi. Guardò oltre Darren, all’altro uomo bianco nella stanza. “Lei cosa avrebbe fatto, sceriffo?” Incrociò le braccia, i muscoli definiti contratti per la tensione nervosa. Darren cercò qualche tatuaggio, il simbolo delle SS o la sagoma dello stato del Texas marchiata con le iniziali della Aryan Brotherhood, e fu sorpreso di vedere soltanto alcune lentiggini solari e qualche neo sulla sua pelle liscia.
Van Horn, irritato per l’ostinazione di Keith a non affidarsi alla sua guida, lo lasciò alla deriva.
“Non saprei, ragazzo mio,” rispose. “Non ho una moglie che va in giro di notte a farsi gli affari suoi.”
Gli equilibri di forza nella stanza erano cambiati.
Keith se ne accorse prima di Darren.
“Sceriffo, lo sa che io non c’entro niente con tutto questo.”
“Se il procuratore distrettuale ti metterà sul banco dei testimoni, quando questa storia arriverà al processo, e la difesa chiederà dov’eri la notte che tua moglie è scomparsa, o perché non hai chiamato me o i genitori di Missy, tu che dirai, figliolo?” domandò Van Horn.
“Sta lasciando che questo schifoso scarafaggio la metta contro di me?”
“Il fatto è,” rispose Van Horn, “che ho due omicidi per le mani, e il tuo nome pare collegato un po’ troppo da vicino a tutt’e due.”
“Ti sarà bruciato parecchio,” osservò Darren. “Aver dato il tuo nome al figlio di un altro, un bambino che crescendo sarà più simile a me di quanto tu possa sopportare.”
“Non hai capito niente. Keith Junior è mio figlio. Io amo quel bambino. Punto.”
“Scommetto che i tuoi amici alla birreria non sono d’accordo. Dici che ti accetteranno nella ABT, sapendo che stai tirando su un meticcio? O Missy ti ha portato via anche questa occasione?”
Era il primo accenno formale alla Fratellanza, e da come Van Horn scattò in piedi si sarebbe detto che avesse scoperto un nido di formiche rosse sotto la sedia. “Ah no. Non erano questi i patti. È un crimine locale, riguarda solo la mia contea. Non stenderemo il tappeto rosso a un’indagine statale, né lasceremo che qualche task force governativa si metta in mezzo entrando dalla porta di servizio.” Guardò Keith con una certa severità; a Darren ricordò un allenatore di football alle prese con un running back che non riusciva a tenere in riga. “Non dire niente su questo, Keith.”
Ma Keith non lo stava ascoltando. Aveva abbassato un poco la testa e la scuoteva facendo segno di no. “Non c’entrava niente con Keith Junior,” disse con voce aspra.
“Che cosa?” pressò Darren. “Cos’è che non c’entrava con il bambino?”
Keith non rispose. Chiese a Van Horn una sigaretta e una Coca, come se avesse appena capito che sarebbe stato lì per un pezzo. Ma lo sceriffo non aveva intenzione di lasciarli soli, quindi niente da fare per la Coca; quanto alla sigaretta, Darren gliene offrì una dal pacchetto che teneva in tasca. Gettò sul tavolo anche dei fiammiferi, una confezione omaggio della birreria. Keith strinse la sigaretta tra le labbra riarse e l’accese.
“So che hai lasciato il bambino a casa di Wallace Jefferson.”
“E che altro dovevo fare? I genitori di Missy non lo prendono, i miei stanno troppo lontano, a Montgomery. Laura, la signora Jefferson, si è offerta di tenerlo per un po’, e non avevo nessun altro a darmi una mano, perciò…”
“E la nonna? Geneva?”
“Quella era una cosa di Missy. Io non volevo che il bambino stesse con quel tipo di gente.”
“Intendi la sua famiglia?”
“Intendo i negri,” disse. Poi si rese conto che doveva ringraziare uno dei suddetti negri per la sua dose di nicotina, e borbottò: “Senza offesa.”
“Cos’è successo, Keith?” domandò Van Horn. “Eri a casa quando è tornata dalla caffetteria? Se si è trattato di un litigio che è sfuggito di mano, possiamo trovare una soluzione, dimostrare che non volevi ucciderla…” Rivolse a Darren uno sguardo d’intesa, da sbirro a sbirro; un messaggio per chiedere di lasciar fare a lui. A lei non lo direbbe mai.
“Stavamo insieme dalla terza liceo, e in tanti anni non ho mai torto un capello a quella ragazza. Ma lei non voleva smetterla. Andava avanti, avanti…”
“Avanti con cosa?”
“Non potevo tornare là. Non ci sarei tornato per niente al mondo.”
“Dov’è che non volevi tornare?”
“A The Walls,” disse Keith. Il carcere di Huntsville.
“Allora dacci qualcosa per aiutarti, Keith. Qualcosa per tenere bassa la pena, per non farti finire con un ago nel braccio. Se è stato un incidente in tutti e due i casi – il nero, poi Missy – allora forse possiamo…”
“Io non l’ho ucciso!” Keith spense la sigaretta sul piano del tavolo. Il fumo salì a spirale e si dissolse sopra la sua testa. Si passò le dita tra i capelli unti. “Per questo avevo bisogno che Missy tenesse chiusa quella dannata bocca.” Lo avevano portato al limite, e adesso nessuno di loro due fiatò. Darren non osava muoversi per paura di infrangere il momento.
Keith mise le mani sul tavolo. Secche, callose, rigate di sottili linee rosse sul dorso. Graffi di unghie, pensò Darren. Quelli erano i segni di Missy che lottava per la propria vita. Keith vi passò sopra le dita, assorto. “L’amavo. Ma non la smetteva, continuava a dire che saremmo andati in galera tutti e due perché avevo picchiato il nero sbagliato. E hai ragione,” aggiunse rivolto a Van Horn, “ho perso il controllo, tutto qui. Non avevo intenzione di uccidere nessuno, volevo solo che stesse zitta.”
Poi guardò il ranger nero. “Ma giuro che quell’uomo l’ho lasciato lì sulla strada, vivo. L’ho tirato giù dalla macchina, è volato qualche pugno… E sì, qualche brutto pensiero l’ho avuto. Ho preso un travetto dal pick-up, è vero. Ma Missy si è messa a urlare come una pazza, e mi è scattato qualcosa, come una voce nella mia testa che diceva ‘Fermati.’ E l’ho fatto, mi sono fermato. Ho buttato a terra quel legno, siamo risaliti sul pick-up e ce ne siamo andati.”
Van Horn emise un sospiro che suonò come un sibilo di freni difettosi davanti a quella svolta inaspettata. Nello sguardo torvo che rivolse a Keith c’era un’accusa di tradimento.
“Non capisco,” disse Darren. “Se non hai ucciso Michael Wright, perché avevi tanta paura di essere arrestato?”
“Per la macchina.”
Darren ebbe un attimo di stordimento.
“La macchina,” mormorò. Il particolare che lo aveva disturbato dall’inizio, il pezzo che non combaciava. Se non si trattava di una rapina, dov’era la macchina?
“Missy voleva a tutti i costi tornare là a vedere se quel tizio stava bene. Appena entrati in casa ha attaccato a darmi il tormentone. Alla fine, giusto per farla star zitta, siamo risaliti in auto, con Keith Junior in mezzo a noi, e siamo tornati sulla FM 19. E – com’è vero che sono seduto qui – se n’era andato. Non era neanche mezz’ora che lo avevamo lasciato lì, e non c’erano più né lui né la macchina.”