Le ricordava suo figlio.
Niente di definibile: gli anni coincidevano, aspetto e stile di vita no. Ma un nero di quell’età e con un certo modo di fare – una spavalderia moderata da autocontrollo acquisito, una grazia cauta nell’espressione del viso – le dava sempre una stretta al cuore, a prima vista. Anche Darren, disse, l’aveva fatta pensare a suo figlio quando era entrato per la prima volta nella caffetteria. Il mercoledì precedente Geneva era in cucina, aveva messo in ammollo i fagioli rossi e preparato il tacchino in salamoia che poi Dennis avrebbe affumicato.
Verso le cinque del pomeriggio era emersa dalla porta a vento, asciugando le mani nel grembiule. La campanella sulla porta aveva tintinnato nello stesso momento in cui il juke-box si illuminava alle note di un brano di Lightnin’ Hopkins. Have you ever loved a woman, man, more than you did yourself?* Uno dei preferiti di Joe, aveva pensato Geneva, e sorrideva quando alzando gli occhi aveva visto Michael Wright. Era vestito di nero, t-shirt e salopette, e il bagliore del sole rinviato dalla carrozzeria della bella automobile di fronte all’entrata gli creava attorno un caldo alone ambrato. Era l’ultimo giorno della sua vita, ora Geneva lo sapeva, e il momento si era cristallizzato per sempre nel tempo.
Aveva quella chitarra con sé, in una custodia malridotta, il cuoio scadente rovinato da quasi cinquant’anni di usura. Huxley era in fondo alla sala, nell’angolo di Isaac, a chiacchierare con Tim, che si stava facendo dare una spuntatina prima di rimettersi in viaggio. Forse stavano giocando a carte sul bracciolo della poltrona verde da barbiere, non ne era sicura. Michael aveva occupato il posto vacante di Huxley, al bancone, e posato la chitarra di traverso sugli altri due sgabelli.
“Lei suona?” aveva domandato Geneva mettendogli davanti una tovaglietta di carta che fungeva anche da menu. Senza che lui chiedesse, gli aveva versato un bicchierone d’acqua.
“No,” aveva risposto Michael, guardandola come se stesse decidendo sul da farsi.
“Era più o meno del suo stesso colore,” disse Geneva rivolta a Darren. Lui però aveva gli occhi neri, e portava occhiali tondi con la montatura sottile di metallo brunito.
“No, signora,” aveva risposto Michael. “Mai suonato.”
“Cosa posso servirle?”
“Pesce gatto.”
“Contorno?”
Lui aveva abbassato di nuovo lo sguardo al menu. “Oh… Piselli, e okra al pomodoro.”
“Qualcosa da bere, a parte l’acqua?”
“Prenderei volentieri una birra, se c’è.”
Geneva aveva aperto lo sportello del refrigeratore, dove teneva in fresco bottiglie di bibite e birra, e preso una Coors, per poi stapparla con l’apribottiglie appeso alla maniglia. Aveva allungato la birra a Michael e dato una voce a Dennis in cucina. “Mi serve un pesce con piselli e okra.”
Michael aveva portato la bottiglia alle labbra e Geneva aveva notato la fede all’anulare.
Non riusciva a inquadrarlo. Illinois, diceva la targa dell’auto, eppure aveva qualcosa di familiare, un’aura che lo faceva sembrare a casa propria in quella piccola caffetteria nel Texas rurale. O forse, pensandoci a posteriori, era la chitarra che sembrava essere al suo posto. Era tornata allo strumento. “Se non suona, perché se la porta appresso?”
Michael aveva posato la Coors sulla tovaglietta, mancando di qualche centimetro il cerchio lasciato in precedenza dalla condensa sulla bottiglia. Aveva studiato la faccia di Geneva, mentre i secondi scorrevano e Lightnin’ Hopkins continuava a cantare. Have you ever tried to give ’em a good home same time she act like a fool and left?** Aveva battuto la mano sulla custodia della chitarra.
“Questa apparteneva a Joe Sweet,” le aveva detto, scrutandola per cogliere una reazione al nome. “Joe ‘Petey Pie’ Sweet.” Aveva osservato Geneva uscire da dietro il bancone e aprire la custodia. Era una Les Paul del 1955, una bellezza. Lei aveva sfiorato il legno con le dita, soffermandosi dove la vernice protettiva si era consumata, sulle parti che mostravano i segni del tempo. Michael aveva sorriso, e quasi gli era sfuggito un sospiro di sollievo: non aveva fatto tutta quella strada per niente. “Lei è la moglie?”
“Questa è la chitarra di Joe?”
“Sì, signora. Volevo restituirgliela,” aveva detto. Un piccolo inciampo nella voce. “Insomma, avrei voluto, ma so che purtroppo lui non c’è più. Perciò adesso è sua.”
“Come mai conosce Joe? Non sta per dirmi che è il suo figlio segreto o roba del genere, vero?” Geneva aveva studiato con più attenzione naso e bocca dell’uomo.
“No, signora,” l’aveva rassicurata Michael, divertito. “Lui e mio zio suonavano insieme, una volta. Booker Wright. La mia famiglia viene da Tyler.” Aveva accennato alle finestre, come se Tyler fosse appena oltre gli alberi dall’altra parte dell’autostrada. “Booker è stato il primo a lasciare il Texas. Poi mia mamma ha sposato mio papà, il fratello di Booker, e lo hanno seguito su al Nord. Si sono sistemati a Chicago senza più guardare indietro. E, nel bene o nel male, anch’io mi sono lasciato il Texas alle spalle. Mi dispiace di averci messo così tanto a onorare l’ultimo desiderio di mio zio. Voleva che lei avesse la chitarra.”
“Booker.” Geneva non pronunciava quel nome da anni. Si ricordava bene di lui, ricordava la sua sagoma stagliata nel vano della porta del vecchio Geneva’s, mentre indugiava per dare a Joe una possibilità di ripensarci e saltare sull’Impala con lui e il resto della band. L’amarezza nata in quel momento tra i due uomini si era trascinata per decenni. Joe gli aveva mandato una cartolina o due, ma in tutta Shelby County non se ne trovavano che non mostrassero immagini di stelle solitarie o querce rosse, fiori blu di lupino e scene di prateria con bestiame al pascolo: non proprio l’ideale per spegnere la brace del risentimento di Booker, al quale il Texas rurale aveva portato via il migliore chitarrista che avesse mai conosciuto, un uomo che considerava un fratello e un amico. “Joe gli voleva bene,” aveva detto.
“Lo so.”
Lei aveva sorriso a Michael, beandosi delle parti della sua vita resuscitate dalla rievocazione di Joe Sweet. “Sicuro di non aver mai incontrato Joe?”
“Ho solo sentito dei racconti. Mi sarebbe piaciuto, però. C’era una storia d’amore che Booker ripeteva sempre: quella su lei e Joe, ai tempi del vostro incontro.”
“Joe diceva che un uomo, prima o poi, deve trovare un posto in cui fermarsi.”
La porta della cucina si era aperta e Dennis aveva portato un piatto di filetti di pesce impanati in farina di mais insaporita con sale aromatizzato Lawry’s e un pizzico della miscela di spezie segreta di Geneva. Il cuoco aveva posato il piatto sul bancone davanti a Michael e fatto scivolare verso di lui una bottiglietta di salsa piccante. Geneva l’aveva lasciato mangiare in pace. Aveva portato la custodia con la chitarra a un tavolino libero, posandocela sopra. Proprio sotto il muro dove era esposta adesso. Michael aveva mangiato di gusto, e chiesto una fetta di pane bianco per ripulire il piatto dal sughetto di salsa piccante, grasso e pomodoro rimasto sul fondo. Aveva ordinato una seconda birra e sembrava di buon umore, soddisfatto di un pasto come non ne faceva più da quando era bambino. Si era girato sullo sgabello a guardare Geneva con la chitarra.
“Mi dispiace di avere aspettato così tanto,” si era scusato ancora.
Geneva, senza staccare gli occhi dallo strumento, aveva fatto segno di non pensarci.
“Ha una moglie, la sua vita da vivere.” Aveva accennato all’anello. A quel punto, Michael si era irrigidito. Aveva distolto lo sguardo e si era voltato di nuovo verso il bancone, sorseggiando la seconda birra. Geneva aveva avvertito il cambiamento d’umore, più che vederlo, come se una nuvola avesse coperto il sole. Aveva lasciato la chitarra dov’era ed era tornata al suo posto dietro il bancone. Aveva guadagnato un po’ di tempo sparecchiando il coperto di Michael e pulendo il piano di formica. “Ho delle fried pies, se vuole.”
“No, grazie, signora.”
Michael aveva guardato l’orologio. L’incanto del momento si era spezzato.
“Ha figli?” aveva domandato Geneva.
“No.”
“Da quanto è sposato?”
“Sei anni.”
“Sono tanti sei anni senza nessun piccolino intorno.”
“Mia moglie viaggia parecchio.” Aveva sollevato la bottiglia di birra vuota, a indicare che ne voleva un’altra, ma poi aveva cambiato idea e l’aveva posata davanti a sé, prendendo a tormentare un angolo dell’etichetta con l’unghia del pollice. “Per lavoro,” si era sentito in dovere di spiegare. “Ha un successo incredibile, e non le rimprovero l’impegno nella sua professione. E io non mi sogno nemmeno di lasciare il mio lavoro per seguirla in giro per il mondo, quindi sarebbe scorretto chiederle di rinunciare al suo per me. Ma mi dica lei, signora: forse ho sbagliato tutto. Credevo fossero gli uomini i vagabondi.”
“Ognuno fa quel che crede; uomo, donna, poco importa.”
C’era una condanna velata nelle sue parole, e Michael si era messo sulla difensiva.
“È una brava donna, e anch’io non sono stato certo un marito modello. Ho avuto delle avventure. Non so se la tradivo perché non era mai a casa o se lei non era mai a casa perché la tradivo. So soltanto che abbiamo incasinato tutto, e non riesco a capire bene come. Ci amavamo, una volta. Io l’amo ancora.”
Darren, ascoltando, sentì un peso nel petto. Michael e Randie sembravano lui e Lisa, a ruoli invertiti. Nel suo matrimonio era lui quello che non voleva sentirsi imbrigliato, che non sapeva dare stabilità. Ognuno fa quel che crede; uomo, donna, poco importa. Forse lui e Randie sapevano quel che volevano più di quanto fossero disposti ad ammettere?
Michael aveva lasciato perdere la bottiglia di birra e chiesto a Geneva se c’era un posto lì attorno dove bere qualcosa di più forte. Lo aveva messo a disagio, e ora cercava una via di fuga. Lei gli aveva detto che c’era una birreria, più avanti, ma che avrebbe fatto bene a starne alla larga. Nella sua voce era risuonato un astio ferale che l’aveva sorpreso. “Non le conviene mettere piede nel bar di Wally,” aveva confermato Huxley, che si era avvicinato al bancone per farsi riempire la tazza di caffè poi era tornato alla sua partita a carte. Michael aveva provato a mettere da parte le proprie emozioni chiedendo a Geneva della sua vita. “Lei e Joe avete avuto figli?”
“Solo uno. Un maschio. Abbiamo provato ad averne un altro, ma non arrivavo mai a termine. Così ci siamo messi il cuore in pace e abbiamo amato la famiglia che Dio ci ha voluto dare.”
“Joe è morto in una rapina?”
Geneva aveva annuito. “L’unica notte che l’ho lasciato solo. Io, mio figlio Lil’ Joe e sua moglie Mary eravamo andati a Dallas con mia nipote, a comprarle un vestito per il ballo di fine anno. Poco dopo mezzanotte sono entrati tre uomini, hanno rubato l’incasso di una settimana e hanno sparato a mio marito a sangue freddo.” Aveva piegato lo straccio che aveva usato per pulire il bancone e l’aveva rimesso al suo posto. Le costava parlare di quel ricordo traumatico, aveva i muscoli delle spalle e del dorso contratti per la tensione.
“È terribile quel che è successo,” aveva commentato Huxley. Solo allora Geneva e Michael si erano accorti che tutti stavano ascoltando. Isaac si era fermato con il tagliacapelli elettrico a mezz’aria, vicino alla testa di Tim.
“Isaac ha visto tutto,” aveva detto quest’ultimo.
Il barbiere si era schiarito la voce e aveva spento il rasoio. “Ero sul retro a mettere fuori la spazzatura quando sono entrati.” Geneva teneva la testa bassa, ma Isaac – disinteressato ai sentimenti della donna, o incapace di coglierli – aveva continuato a parlare. Eccitato dal ricordo, aveva calcato sulla pericolosità della situazione e l’epica del suo coinvolgimento. “Ho sentito uno sparo. Pam! Come un tuono, o una fucilata. Quando sono arrivato dalla cucina ho fatto giusto in tempo a vedere quei tre che scappavano in macchina.” Aveva puntato il dito verso la finestra, indicando la pompa del gasolio al di là della BMW nera di Michael, e l’autostrada ancora oltre.
Michael si era voltato a seguire il suo sguardo.
“Erano tre bianchi. Il signor Joe era steso là, in una pozza di sangue,” aveva proseguito Isaac, indicando un punto dietro il bancone vicino al registratore di cassa, poco distante da dove Michael era seduto. “Sono stato io a chiamare la polizia.”
Michael aveva spostato lo sguardo dal pavimento alla finestra e infine a Isaac. “Come si è accorto che gli assassini erano bianchi?”
“Cosa?” Isaac aveva riacceso la macchinetta elettrica e detto a Tim di chinare la testa per potergli sistemare la nuca.
“Era notte, esatto?” Michael aveva guardato Geneva per avere conferma. “E lei li ha visti scappare in macchina. Allora, come faceva a sapere che erano bianchi?”
Era la stessa domanda che aveva fatto Darren. Avevano incespicato nello stesso punto sconnesso della storia, ma Geneva liquidò i dubbi di entrambi dicendo che lo sceriffo era stato lì e aveva fatto tutte le verifiche. E comunque che importava, oramai, quando i suoi due uomini erano sotto terra?
Appena entrarono nel parcheggio della caffetteria, Darren vide due veicoli familiari: l’auto a nolo blu di Randie e l’enorme pick-up Ford di Wally, i cui paraurti cromati splendevano al sole, mandando un riverbero così forte da abbagliarlo. Insistette per aiutare Geneva a scendere, rifiutando di dare ascolto alle sue proteste, e la sostenne con gentilezza per il gomito mentre l’accompagnava all’entrata del locale. Passando accanto alla piccola Ford blu che Randie aveva guidato per giorni, diede una sbirciata all’interno; non sapeva cosa avrebbe voluto vedervi, ma di certo non quel che scorse: il borsone di pelle pronto sul sedile anteriore, la borsa nera dell’attrezzatura fotografica poggiata sopra. Il momento era arrivato. Stava per partire. Presto se ne sarebbe andato anche Darren, probabilmente in giornata. Il mistero di quanto accaduto a Michael Wright – un uomo che Darren sentiva ormai di conoscere e capire, un uomo che come lui aveva radici nel Texas orientale – gli era sfuggito tra le dita. In qualche modo non era riuscito a mantenere l’impegno preso nei suoi confronti; continuava ad avere la sensazione confusa e molesta che avessero preso una cantonata, tutti quanti.
Dentro la caffetteria, Wally era dietro al bancone a servirsi una birra dall’espositore refrigerato. Fece saltare via il tappo con l’apribottiglie di plastica appeso alla maniglia, bevve un sorso e salutò Geneva e Darren come fossero due ospiti accaldati che stava accogliendo nel soggiorno di casa, con bibite fresche e cordialità. Gesticolò con la bottiglia di birra in direzione della porta, dove la campanella batteva sulla toppa di cartone macchiato che ne smorzava il tintinnio. “Ho chiamato qualcuno per aggiustarla, verrà domattina presto,” annunciò a Geneva. Era a malapena ora di pranzo e aveva alzato parecchio il gomito, a giudicare dal naso rosa acceso e dall’euforia alcolica che gli alterava il volto.
“Quella porta verrà riparata quando lo dirò io.”
Geneva era calma, non c’era sdegno o rimprovero in lei. Si limitò a prendere atto della situazione e attendere che Wally trovasse il buon senso di sloggiare dal suo spazio riservato davanti al registratore di cassa. Fu sufficiente dirglielo una sola volta: lui uscì da dietro il bancone e lei si avviò a riprendere il posto che le spettava al timone del proprio mondo, accanto alla porta della cucina e rivolta verso la Highway 59. Quando si incrociarono, Wally la prese per un braccio. C’era un senso di possesso nel gesto, e negli occhi una muta supplica, qualcosa che l’uomo voleva disperatamente da lei. Tra i due passò uno sguardo che surriscaldò l’aria nel locale. Darren lo colse, assieme all’espressione che balenò sulla faccia di Geneva; un colpo d’avvertimento, mentre strattonava via il braccio dalla presa e passava oltre. Wally restò immobile a fissarla per un minuto buono, prima di andare ad appollaiarsi su uno degli sgabelli rossi, a un posto di distanza da Huxley, seduto come al solito davanti a una tazza di caffè e un giornale. Wendy era al tavolo vicino alla finestra, sotto la Les Paul di Joe, impegnata in un complicato solitario di sua invenzione che richiedeva l’impiego di pedine della dama oltre a due mazzi di carte. Iniziò a scivolare lungo la panca per alzarsi a salutare Geneva come si conveniva, ma lei le disse di non scomodarsi. Non intendeva toccare nessuno prima di aver passato almeno un quarto d’ora sotto una doccia calda. Aveva una mano sull’anta della porta della cucina quando Wally parlò di nuovo. “Lark dormirà bene stanotte, sapendo che uno spietato assassino è dietro le sbarre.”
“Siamo chiusi, Wally,” disse Geneva per troncare il discorso.
E quando lui si guardò attorno – la gente che mangiava, il cibo esposto, ogni angolo della caffetteria brulicante di attività – aggiunse in tono asciutto: “L’ho appena deciso.”
Lui sorrise, come se quella donna riuscisse sempre a divertirlo.
Bevve un altro sorso di birra: un tonico contro qualunque debolezza lo avesse tradito poco prima, portandolo a scoprire la propria brama, qualcosa di cui aveva bisogno e che lei si ostinava a negargli. Giocherellò con il diamante dell’anello nuziale, si girò di lato sullo sgabello per poter incrociare le gambe, mettendo in mostra gli stivali di alligatore che spuntavano dai Wrangler neri. “Spero non ci sia nessun rancore tra noi.”
Geneva, ferma alla porta della cucina, lo guardò con diffidenza.
Wally scrollò le spalle, come a dire che non era il caso di prendersela per così poco. “Ero tenuto a informare lo sceriffo di quel che ho visto: Missy che veniva qui, la notte in cui è stata uccisa.”
Darren gli si avvicinò. “Lo ha detto a Van Horn?”
“Potrei avergli accennato qualcosa all’inizio, quando Parker stava raccogliendo informazioni e chiunque era sospettabile.”
Huxley scese in fretta dallo sgabello, come se la slealtà fosse contagiosa, e mise qualche passo di distanza tra sé e Wally andando a sedere di fronte a Wendy.
Darren prese il suo posto al bancone e guardò Wally dritto in faccia. Scosse la testa, come cercando di smuovere un pensiero, un sassolino di dubbio su quegli omicidi rimasto incastrato in un angolo buio della sua mente.
“No,” disse. “È stata l’autopsia…”
“Quella l’ha confermato, certo. Il cibo e tutto il resto.”
Wally guardò Geneva, alzando uno scudo di stizzoso risentimento per difendersi dalla sua reazione alla scoperta che aveva fatto la spia su di lei. “Senti, che potevo fare? Parker sa benissimo che vivo qua di fronte da quasi cinquant’anni, e vedo dalla finestra ogni maledetta cosa che succede qua dentro.”
“Ho detto che il locale è chiuso,” ribadì Geneva. Poi diede una spinta irosa alla porta e scomparve in cucina, gridando: “Dov’è Faith?” L’anta sbatacchiò dietro di lei, portando l’eco delle sue parole in una ventata di aria calda odorosa di alloro e aglio. Wally sembrò compiaciuto di com’era andato l’incontro: non gli aveva tirato addosso niente, né proibito di mettere ancora piede nel locale. Di buon umore, scolò il resto della birra e fece un rutto prima di rivolgere la propria attenzione a Darren.
“Be’, diamine, alla fine si è risolto tutto,” gli disse. “Ha preso Keith per due omicidi, e adesso può lasciare questo posto proprio come c’è arrivato.”
Si alzò ergendosi in tutto il suo metro e novanta scarso, un buon taglio di capelli meno di Darren, batté le nocche sul piano di formica, poi girò i tacchi e uscì dalla caffetteria.
Darren lo guardò andarsene.
Ruotò sullo sgabello e seguì ogni sua mossa, osservandolo mentre saliva sul massiccio pick-up Ford, usciva dal posteggio in retromarcia e imboccava la Highway 59, attraversando l’autostrada per il breve tragitto da Geneva’s alla porta di casa. Cos’aveva detto Wally? Che viveva di fronte a Geneva da cinquant’anni, e poteva vedere dalla finestra tutto quel che succedeva nel suo locale. Il ranger si rivolse ai clienti fissi della caffetteria, Huxley e Wendy. “Hanno mai scoperto chi è stato?”
“Parla di Keith?” Wendy aggrottò la fronte, confusa.
“No. Degli uomini che hanno ucciso Joe Sweet.”
Huxley e Wendy si scambiarono un’occhiata ed entrambi fecero scena muta; lo richiedeva un implicito codice di decoro. Fu Wendy a rompere il silenzio; non con parole, ma con un fischio: una triste blue note che rimase sospesa nell’aria, un richiamo che esigeva risposta. “Quindi?” domandò Darren, spostando lo sguardo dall’una all’altro.
Wendy scosse la testa. “No. Non hanno mai preso nessuno.”
“Ecco, è qualcosa che non ha mai quadrato molto,” disse Huxley un po’ sfiatato, ansioso, a un tratto impaziente di parlare di un argomento tabù.
“Tutta la faccenda non ha mai quadrato,” aggiunse Wendy. “Ma abbiamo uno sceriffo soltanto, e ha archiviato il caso prima ancora che Geneva seppellisse Joe.”
“La storia di Isaac non regge,” osservò Darren.
“No, per niente,” concordò Huxley.
Darren lanciò un’occhiata alla poltrona da barbiere: la postazione di Isaac era deserta. Si rese conto di non averlo più visto dalla notte in cui lo sparo aveva centrato la porta. “Pensa che abbia mentito?”
“Oh, Isaac non distingue la merda dal lucido da scarpe,” rispose Huxley. “Chissà da dove l’ha tirata fuori la storia dei tre uomini bianchi.”
“Cos’abbia visto davvero quella notte non si sa, ma deve avergli messo addosso una paura del diavolo,” commentò Wendy. “E dopo il funerale di Joe, era come se l’intera faccenda fosse stata seppellita con lui.”
“Nessuno osava più parlarne… poi è arrivato qui quell’uomo.”
“Michael?”
Darren sentì un rullio nel petto, una vibrazione che prendeva velocità, come una locomotiva in corsa, la sensazione che quel treno di pensieri lo stesse portando a qualcosa di concreto.
Huxley annuì.
“Geneva non ha mai voluto parlarne,” disse Wendy.
“E ancora non vuole” risuonò la voce di Geneva mentre la porta della cucina si apriva di colpo.
La donna aveva indosso gli stessi vestiti della notte in cella. “Quella ragazza era là dietro a cercarla,” annunciò in tono spiccio. “Immagino ve ne andrete presto.” Sembrava intenzionata a star lì finché non l’avesse visto con i suoi occhi.
“Cosa le ha detto Van Horn su quanto successo a Joe?”
“Che lo rivanga a fare, adesso?”
“Qualcosa non torna nella storia di Isaac, vero?”
“Ci conviviamo da sei anni ormai. Fu una rapina.”
La stessa versione propinata a Randie su suo marito, quando era arrivata a Shelby County.
“E non trova strano,” chiese Darren, “che sia successo nell’unica notte in cui ha lasciato Joe al locale da solo?”
“Non vedo che importanza abbia. O sta forse suggerendo che in qualche modo è stata colpa mia?” chiese Geneva. “Be’, se pensa che non mi porti questo peso addosso da allora, non solo è cattivo come il demonio, ma pure stupido.”
“Sto dicendo: tutto farebbe pensare che qualcuno sapesse quando colpire. Qualcuno che vede quel che succede qui dalla finestra del suo salotto.”
Geneva afferrò al volo, Darren glielo vide scritto in faccia, ma respinse l’insinuazione al mittente con rabbia. “Lasci stare, ha capito?” Era furiosa, però c’era anche qualcos’altro dietro, una paura incistata sotto la superficie.
“Cos’è che la spaventa tanto?”
“Non sono spaventata,” disse Geneva. E forse non lo era davvero, almeno non nel senso che lui intendeva. Forse la zaffata di ansia che emanava era piuttosto un’allarmata cautela, il timore di urtare contro il filo spinato che il tempo aveva avvolto intorno al suo cuore, recintando la speranza al suo interno. “È solo che vivo in Texas da un po’ più tempo di lei, e so come funziona la legge per gente come me.”
Aveva rinunciato alla verità, proprio come Randie.
Lo rattristava e al contempo lo faceva infuriare che il suo distintivo non significasse niente per nessuna delle due, che giustizia e disillusione fossero intrecciate in modo così inestricabile, tanto da pensare che non valesse la pena cercare l’una esponendosi all’altra.
“Fagli vedere il biglietto da visita che ti ha dato,” disse Huxley di punto in bianco.
Geneva fece segno di lasciar perdere.
Huxley la guardò; era consapevole che si stava arrischiando su un terreno infido, ma andò avanti comunque. “L’avvocato, Michael. Ha lasciato a Geneva il biglietto da visita di un’agenzia che si occupa di vecchi casi, gente che conosceva a Chicago.”
“Lo ha ancora?” chiese Darren a Geneva.
Lei scrollò le spalle, ma Huxley andò dietro al bancone e sfilò un cartoncino da sotto un angolo del registratore di cassa. Lo porse a Darren, il quale fissò assorto la scritta stampata in rilievo. LENNON & PELKIN SERVIZI INVESTIGATIVI. Guardò Geneva, e lei tirò un pesante sospiro.
* “Hai mai amato una donna, amico, più di quanto amassi te stesso?” (N.d.T.)
** “Hai mai cercato di darle una buona casa mentre lei faceva la matta e se ne andava?” (N.d.T.)