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Rimase per altri due giorni, il tempo di terminare il lavoro. Wally fu arrestato; l’accusa di omicidio di primo grado per la morte di Joe Sweet fu solo una tra le tante che gli piovvero addosso appena qualcuno si prese la briga di guardare meglio. Le impronte che Darren aveva prelevato dal pick-up la notte della volpe sgozzata erano di Wallace Jefferson III. Non si poteva dimostrare che fosse stato lui a sparare contro il locale di Geneva, ma a ogni buon conto Van Horn – il quale aveva molto di cui rispondere, considerato che il tutto era successo sotto il suo naso – gli attribuì anche quello. Ciò che convinse i Texas Rangers a reintegrare Darren in servizio fu però l’accusa federale di detenzione di sostanze stupefacenti ai fini di spaccio, basata su quanto rinvenuto nel corso della perquisizione alla birreria: un piccolo laboratorio per la produzione di metanfetamina allestito in cucina, bilancini e buste di crystal meth a profusione. Se Isaac restava in attesa di giudizio dietro le sbarre della prigione di contea, il nome di Wally stava per aggiungersi alla lista dei sospettati della task force federale che investigava sulla ABT. Darren ci aveva visto giusto sulla droga e sulla Aryan Brotherhood che agiva indisturbata a Lark, ma si era sbagliato su tutto il resto. Gli omicidi di Michael e Missy erano delitti razziali, sì, ma più che altro per via di quanto e in quanti modi la razza definiva la realtà di Lark, soprattutto in termini di amore – inaspettato – e dei legami familiari che creava. Aveva dimenticato che l’istinto più elementare nella natura umana era non l’odio, ma l’amore, e come il primo si avviluppasse all’altro, fino a diventarne inscindibile. Isaac aveva ucciso Michael per non perdere l’affetto di Geneva, un posto al suo focolare. Wally aveva ucciso Joe perché non poteva accettare – forse nemmeno capire – quel che lui stesso provava per Geneva, né riusciva a sopportare che tutti loro fossero imparentati. Geneva, Lil’ Joe, Keith Jr. e Wally erano una sola, grande famiglia.

Era stato lo stesso per Keith, che suo malgrado amava un figlio nelle cui vene scorreva il sangue di un nero. Era un legame eterno che costituiva motivo di imbarazzo, ma che non poteva cancellare, per quanti tatuaggi della Fratellanza si fosse fatto una volta tornato a The Walls per l’assassinio di Missy, per quanta distanza avesse cercato di mettere tra la sua pelle bianca e quella scura di Geneva. Le vite di Wally e Keith ruotavano intorno alla gente nera che proclamavano di odiare, ma dalla quale non sapevano staccarsi. Era – avrebbe detto suo zio Clayton – un’ossessione che li aveva resi deboli, poi furiosi, e infine schiavi di emozioni che erano incapaci di gestire.

Il mattino del funerale di Missy Dale, la madre di Darren chiamò due volte, ed entrambe le volte lui lasciò che scattasse la segreteria: Dobbiamo parlare, figliolo. Non un vezzeggiativo né la constatazione di un dato di fatto, ma una tattica, un trucco per estorcergli attenzione e affetto. Quando caricò il pick-up per lasciare Lark, Darren aveva il brutto presentimento che a casa lo aspettassero guai.

Geneva aveva chiesto più volte se avesse fame; poi, di propria iniziativa, gli aveva preparato un pasto da asporto per il viaggio. Era il suo modo laconico di esprimere gratitudine, insieme a un abbraccio appena più prolungato del necessario. Era di buon umore, nonostante fosse un giorno così cupo, perché Laura le aveva portato il bambino.

“Non credo sappia cosa sta succedendo oggi,” aveva detto la signora Jefferson consegnando Keith Jr. alla nonna. “La famiglia di Missy lo ha affidato a me, e non mi sembra il caso di portarlo al funerale.” Aveva giocherellato con il collo arricciato del vestito nero. “Perché non lo tiene lei?”

Geneva – il bambino in braccio, sgambettante contro il fianco – stette sulla porta della caffetteria a guardare Darren e Randie partire. Mentre usciva dal parcheggio, lui la vide nello specchietto retrovisore e sentì un groppo in gola. Ripensò a sua madre con un velo di nostalgia; qualcosa che, lo sapeva, lo avrebbe solo fatto soffrire. Aveva preso accordi con l’autonoleggio perché provvedessero a ritirare sul posto la macchina di Randie, così da accompagnarla lui stesso a Dallas. Voleva un lungo commiato e la possibilità di dire addio a Michael; di rendere omaggio, nel suo piccolo, a un uomo verso la cui moglie era arrivato a provare sentimenti di tenerezza, un uomo per il quale si era sforzato di ottenere giustizia e la cui morte gli aveva ricordato il senso del giuramento prestato come ranger. Lungo il viaggio parlarono dei progetti di Randie. Pensava di prendersi una pausa dal lavoro, starsene tranquilla per un po’, da qualche parte. C’era un paesino fuori Vancouver del quale si era innamorata alcuni anni prima. Forse quella era la sua occasione per ricominciare daccapo. Non era sicura di voler restare a Chicago, di volerne ancora sapere dell’intera nazione, una volta data sepoltura a Michael. Avrebbe dovuto provvedere a tutto lei stessa, trasporto della salma e servizio funebre. “Lo farai seppellire lassù?” domandò Darren. “A Chicago?”

“E dove se no?”

Lui scrutò il paesaggio texano, le colline basse e le foreste di pini.

Erano a circa sessantacinque chilometri da Tyler.

Randie si fece taciturna. “Tu pensaci,” le disse.

Entrarono a Dallas in silenzio. Poi, quando Darren ebbe parcheggiato davanti all’istituto di medicina legale, Randie allungò il braccio attraverso il sedile di pelle a prendergli la mano. “Mi sbagliavo,” ammise. “Su tante cose.” Contava eccome che lui portasse il distintivo. Quelle furono le ultime parole che gli disse, nel corridoio fuori della stanza in cui giaceva il corpo di suo marito, subito dopo aver sussurrato: “Grazie.”