Da molto tempo ormai non aveva più una lingua propria con cui parlare e scrivere. Un lavoro svolto unicamente con parole tecniche d’una lingua straniera, in un continente dove non era mai riuscito a capir bene cosa gli altri dicessero, aveva creato il paesaggio definitivo del suo volto e la musica lenta della sua voce. Poiché era rimasto al mondo più a lungo d’una persona che aveva condiviso i suoi viaggi e la sua vita, un giorno s’era deciso a tornare nel proprio continente d’origine, trovandosi a suo agio soprattutto negli aeroporti, dove finalmente gli pareva d’essere in compagnia di altri con le sue stesse mete.
Da molti esperti era considerato anche lui un autorevole esperto in qualcosa. Ma aveva spesso desiderato che qualcuno lo retribuisse, non per le formule specialistiche che insegnava agli altri, bensì per il lavoro oscuro e pratico con cui aveva contribuito a tenere in piedi il lungo imbroglio della sua scienza, orientandosi tra fatti che non erano fatti, prove che non erano prove, spiegazioni che spiegavano soltanto se stesse, e facendo quadrar tutto alla fine solo grazie alla precisione dei termini usati. Quando era nell’altro continente aveva spesso desiderato lo applaudissero per questo, e di potersi inchinare al pubblico come un prestigiatore che ha manipolato le apparenze in modo favoloso, sorridendo tra sé per il proprio imbroglio di bravo scienziato.
Adesso abitava da solo in una vecchia cascina che qualcuno aveva rimodernato prima del suo arrivo. E svegliandosi presto al mattino spesso calcolava lo spazio immenso che aveva attorno, immaginando la distesa piatta delle pianure dove abitava come se la vedesse dall’alto, e ad est la successione di strade e paesaggi fino alla riva del mare. L’abitudine di correr fuori e guardare il cielo appena sveglio aveva fissato da anni il tono delle sue giornate, e col passare degli anni sempre più presto gli veniva voglia di correre fuori a guardare il cielo e le stelle dell’alba sopra i campi. Svegliarsi così presto non gli sembrava una forma di insonnia senile, ma solo desiderio di guardare quelle stelle prima di iniziare la sua giornata; diceva che gli regolavano il respiro e gli permettevano di dedicarsi ai suoi studi senza sentirli troppo inutili.
Col sole alto e la luce che invadeva la casa, ciò che studiava da anni ad un tratto appariva definitivo e scontato, simile a tutti i discorsi definitivi e sistematici che per lui erano soltanto “cattivi esempi”. Diceva che, non appena il sole entrava da una finestra, le piastrelle del pavimento e le sedie e il tavolo della cucina diventavano nient’altro che “suoi oggetti”, e allora tutto gli appariva scontato e definitivo, insopportabile: insopportabili gli stivali di gomma sotto il portico, la macchina non sua parcheggiata da anni davanti alla casa, e anche quegli alberi di fronte che restavano immobili a deriderlo perché lui non era affatto un naturalista (come veniva considerato) e non sapeva neanche il loro nome.
Per questo, appena il sole era alto, doveva abbandonare i suoi studi, uscire di casa e avviarsi in una delle sue camminate da camminatore solitario per le campagne. Ma prima di uscire certi giorni faceva un discorso alle cose, soprattutto alle piastrelle del pavimento in cucina, che sembrava fossero lì solo per confermare un’idea che lui aveva di se stesso. Diceva a quelle piastrelle: “Io non sono il vostro padrone, anche se sono i miei occhi che vi guardano. Ed è inutile che vi presentiate scodinzolando ogni mattina come oggetti familiari, perché le nostre strade sono ben diverse.”
Quasi fuggendo all’aria aperta lasciava dietro di sé quella casa che era diventata il suo ambiente, non fatto di muri e confini ma di immagini che aveva di se stesso, le quali creavano un alone attorno alle cose e l’apparenza d’una vita durevole; allora, il viottolo non asfaltato e poi un terreno aperto, i campi coltivati, un cimitero di campagna in abbandono, erano subito altri luoghi di immagini, la varietà del mondo davanti a cui aveva sempre voglia di prendere appunti. E lì, in vista d’una autostrada che attraversava quelle terre piatte, ritrovava un terreno occupato da popolazioni di erbe infestanti, che si imponevano sempre alla sua attenzione dovunque le vedesse crescere: l’ortica, la romice, lo stoppione, il cardo selvatico, la paperella, il centonchio comune, l’erba cali che viene dalle steppe, in colonie separate assieme a cartoni da imballaggio, frammenti di mattoni, residuati metallici e altri rifiuti.
Quelle erbe secondo lui non si presentavano scodinzolando ai suoi occhi: stanziate nei terreni sconvolti di tutti i continenti, in luoghi dove il suolo e l’aria erano più acidi e tutte le altre cose “oggetti” di qualcuno, gli davano sempre l’idea d’un altro mondo da cui si sentiva escluso.
Neanche le file d’alberi in distanza attraverso la nebbia, le file di pioppi cipressini e gelsi e case su un argine avvolto dalla foschia, gli sembrava si presentassero scodinzolando ai suoi occhi; non lo obbligavano a riconoscerle come un suo mondo d’immagini, di cui aver ricordi o nostalgie.
Per questo diceva che, nelle giornate di nebbia, trovandosi piantato su un argine riusciva a pensare cose che non aveva mai potuto pensare facendo il suo mestiere. La solitudine del suo corpo in quel punto, mentre gli permetteva di dimenticare le sue varie incapacità di cavarsela come si dovrebbe con gli altri uomini, gli consentiva di immaginare tutto quanto esisteva là fuori, cose, fenomeni, popolazioni, come collegato da operazioni finemente intessute dal pensiero, da infinite minuzie, infinite storie scambiate e non scambiate, che gli sembrava tenessero in piedi una trama ininterrotta nel vuoto del pianeta.
Con queste idee in testa, chiuso in una nuvola di brume, in certi momenti era preso dall’euforia. Perché allora gli sembrava che esser là su quell’argine fosse come essere dovunque; la trama ininterrotta di cui anche lui faceva parte era sempre con lui, semplicemente nel suo corpo e nel suo pensiero.
Diceva che, da quando l’avevano operato al naso per togliergli un polipo, aveva perso l’olfatto ed era diventato più razionale; negli ultimi anni era diventato anche un po’ sordo e anche questo aveva contribuito a renderlo più razionale. Forse solo perdendo alcune forme di sensibilità si diventa più razionali, diceva. Ad esempio solo adesso che era senza olfatto aveva cominciato a pensare agli odori delle stagioni, e ad immaginarli come un buon orientamento nel mondo, migliore della bussola.
Diceva che non era mai stato capace di vedere niente dentro di sé come fuori di sé; troppo nervoso per tutta la sua gioventù e l’età matura, voglia continua di passare ad altro senza riconoscere i suoi limiti. Adesso vedeva che i suoi limiti erano diventati la sua strada, tracciata soltanto dalle sue infinite incapacità di fare altre cose. Aveva vissuto per più di trent’anni tra Stati Uniti e Canada senza imparare mai un accento preciso in inglese, e senza imparare mai bene quella lingua; gli accenti gli piacevano perché lo facevano sempre sorridere, ma dal suo accento chiunque avrebbe capito che lui era un uomo senza nessun luogo d’appartenenza nel mondo.
Era sempre incantato dalle stelle. Nelle stelle lontane c’era per lui una costanza e insieme un’incostanza che superavano ogni nostro pensiero. Tutti i nomi dati dagli uomini alle cose, ai luoghi, alle erbe, ai modi di vivere e di sentire, tutto ciò che per lui rappresentava la Triste Storia, era nient’altro che una piccolissima incostanza; e ridicoli i piccoli falsari come lui, falsari scientifici “moderni”, che cercavano una piccola costanza fantastica attraverso l’astrazione dei nomi dati alle cose: i nomi “nuovi”, i nomi “tecnici”, i nomi dei luoghi che tutti citano come se fossero qualcosa di preciso, gli aggettivi, gli avverbi. Solo i verbi gli sembravano abbastanza rigorosi, anche pensando alle stelle.
Da quando era un po’ sordo il sistema dei nomi dati alle cose gli appariva una grande farneticazione astratta, come i principi della sua scienza, come l’astrazione del Dio unico planetario, come l’astrazione del denaro, come molte altre astrazioni. Invece gli accenti e le intonazioni nel parlare, che sentiva nei bar o nei negozi dove andava a far la spesa, adesso nella sua sordità erano per lui un richiamo: un canto delle situazioni, mutevole secondo le ore e i luoghi e le persone, che spesso lo faceva indugiare, contento d’essere con altri ad aspettare che passi il tempo.
Nei negozi e nei bar non poteva partecipare a quel canto, perché non aveva più una lingua propria con cui parlare. Tuttavia quando rispondeva a una domanda era grato che gliela avessero fatta, perché così poteva restare con gli altri un momento di più.
Svegliandosi al mattino presto gli sembrava spesso d’essere molto a nord, in un paese ghiacciato; aveva freddo ai piedi ed era come se fosse in un bivacco tra le nevi, da solo, e non riuscisse a decidersi ad uscire dal sacco a pelo, a correre fuori per guardare il cielo nell’alba. Devo essermi ammalato, pensava allora.
Ma dopo, pisciando contro quegli alberi davanti alla casa e rispondendo così alla loro perpetua derisione, pensava che forse era soltanto rimasto al mondo troppo a lungo. E avviandosi nelle sue camminate da camminatore solitario, in certe mattine d’autunno raggiungeva un punto sopraelevato su quelle terre piatte, dove a volte riusciva a immaginare d’essere ai confini del pianeta e di avviarsi verso un momento in cui la sua esperienza si sarebbe fatta silenziosa.
Diceva che lasciando l’altro continente s’era sentito a casa sua soprattutto negli aeroporti. Vedendo attraverso un vetro gli altri passeggeri avviarsi in fila su una pista verso un aereo, ogni volta gli era parso fossero sfollati che si decidevano ad affrontare il viaggio solo perché da quest’altra parte del vetro non restava loro più niente da fare o da dire, come a lui, e come lui già sottomessi al loro destino di viaggiatori o turisti perpetui.