RICORDO DE GLI INDIFFERENTI

“La Nuova Europa” mi chiede di raccontare in che modo scrissi il mio romanzo Gli Indifferenti. Non mi sembra facile soddisfare una tale richiesta, soprattutto perché le ragioni di un libro sono affidate al libro stesso, nella sua stesura definitiva. Ossia un libro si spiega e si giustifica da sé come ogni organismo vivente, come un fiore o un animale. Cercare il perché e il come di un libro può essere interessante, soprattutto se fatto da un critico e non dall’autore, ma alla fine è un’indagine che riguarda il libro soltanto in minima parte. Il fallimento di tanta critica psicanalitica, moralistica, sociale, etc. etc., dimostra, se non altro, che ridurre il fatto artistico ad una mera questione di contenuto è così poco probante come ridurlo ad una mera faccenda di forma. In realtà la creazione artistica comporta da parte dell’artista uno sforzo estremo e senza residui in cui viene impegnata la totalità dei suoi interessi e dei suoi mezzi. Per questo l’indagine su un libro ove oltrepassi i limiti del libro stesso, conduce necessariamente a frugare nella vita e nel carattere dello scrittore; così che in pratica parlare della propria opera sarebbe come confessarsi. Ma non sono favorevole alle confessioni, e un artista non può confessarsi che sulla pagina. Con la quale proposizione si torna al punto di partenza ossia che le ragioni di un libro sono affidate al libro stesso.

Tuttavia si può parlare dei propri libri; anzi gli autori, a dire il vero, lo fanno spesso e lo fanno molto volentieri. Questo non è il mio caso: parlare dei miei libri mi annoia; soprattutto de Gli Indifferenti per il quale, a forza di vederlo citato insieme con il mio nome, ho concepito una specie di antipatia. Comunque cercherò di discorrerne con semplicità, come discorrerei di qualsiasi mia esperienza con qualcuno che me ne chiedesse un esatto ragguaglio.

Ho cominciato a scrivere Gli Indifferenti nell’ottobre del 1925 e l’ho finito nel marzo del 1928. Prima de Gli Indifferenti avevo scritto parecchio ma senza aver mai la certezza di incontrare me stesso sotto la penna. Avevo scritto molte poesie, novelle e persino un paio di romanzi. Si trattava nella grande maggioranza di imitazioni da questo. o quest’altro autore di cui via via mi infatuavo. Con Gli Indifferenti, per la prima volta in vita mia, mi parve di mettere i piedi sopra un terreno solido. Dalla buona volontà sentii ad un tratto che passavo alla spontaneità. Auguro a tutti coloro che hanno l’ambizione di scrivere di avvertire una volta nella vita questo passaggio così importante. È il passaggio dalla letteratura, disperante mestiere, all’espressione letteraria come mezzo di conoscenza. Non dico che questo passaggio comporti necessariamente la creazione di opere di poesia. Ma almeno si esce dal limbo della volontà vuota e delle parole senz’animo.

Cominciai Gli Indifferenti senza alcun piano preciso né sul significato e i fini dell’opera che intendevo scrivere, né sulla trama, né sui personaggi, né sull’ambiente. Cominciai e poi proseguii perché per la prima volta presi gusto a scrivere. Fino ad allora non avevo che faticato. Mi parve ad un tratto di trovare il bandolo di una grossa matassa, tirai e quasi con stupore vidi che la matassa si svolgeva. In altre parole, all’inizio del lavoro, fui spinto a continuare non da una volontà pratica, bensì da un senso di ritmo che per la prima volta si inseriva nelle parole e ne regolava la disposizione. Del resto scrivevo pochissimo ogni giorno e talvolta mi bastava di fissare un particolare, una frase.

Ero partito senza idee contenutistiche ma non senza alcuni schemi letterari. Durante molti anni avevo letto moltissimi romanzi e opere teatrali. Mi ero convinto che l’apice dell’arte fosse la tragedia. D’altra parte mi sentivo più attirato dalla composizione romanzesca che da quella teatrale. Così mi ero messo in mente di scrivere un romanzo che avesse al tempo stesso le qualità di un’opera narrativa e quelle di un dramma. Un romanzo con pochi personaggi, con pochissimi luoghi, con un’azione svolta in poco tempo. Un romanzo in cui non ci fossero che il dialogo e gli sfondi e nel quale tutti i commenti, le analisi e gli interventi dell’autore fossero accuratamente aboliti in una perfetta oggettività.

A dire il vero la mia preferenza per la tragedia non era il frutto di una riflessione fredda e critica, bensì quello di un’inclinazione sentimentale molto profonda. Oggi mi riesce difficile rievocare il mio stato d’animo d’allora. Basti dire che io, prima ancora di scriverne, desideravo vivere la tragedia. Tutto ciò che era delitto, contrasto sanguinoso e insanabile, passione spinta al grado estremo, violenza, mi attraeva infinitamente. Ciò che si chiama vita normale non mi piaceva, mi annoiava e mi pareva privo di sapore. Con ogni probabilità in quel tempo scrivere per me fu un surrogato delle esperienze che non avevo fatto e non riuscivo a fare.

D’altra parte mi ero convinto che non mettesse conto di scrivere se lo scrittore non rivaleggiava col Creatore nell’invenzione di personaggi indipendenti, dotati di vita autonoma; l’idea che l’arte potesse essere altra cosa che creazione di personaggi non mi sfiorava neppure la mente. Fin da principio mi trovai perciò di fronte a molteplici durissime difficoltà dovute quasi tutte a queste mie convinzioni dalle quali non volevo scostarmi per nessuna ragione.

Io avevo indubbiamente molte cose da dire. Ma non volevo assolutamente dir nulla fuori dei canali obbligati dei personaggi. Ora il guaio si era che non avevo che scarsissima conoscenza degli uomini; e ancor meno delle esperienze umane.

Soprattutto la maggiore, difficoltà la incontravo nello stabilire dei rapporti tra me e i miei personaggi. Sentivo che mi sarebbe stato relativamente facile fare dei personaggi semplici portavoci dei miei sentimenti e delle mie idee; ma non era questo il fine che mi proponevo. A questa volontà di marcare la distanza tra me e i miei personaggi si deve certamente quel molto o poco di moralismo e di mancanza di libertà poetica che i critici hanno notato nel libro. Io non ero mai abbastanza sicuro di aver caratterizzato e resi ben distinti i personaggi. Anche molto del verismo del libro viene da questa insicurezza e non da una mia inclinazione al verismo. In realtà io sono lo scrittore meno verista che si possa immaginare. Ancora adesso mi riesce molto difficile di piegare la mia attenzione ad una rappresentazione veristica della realtà.

La particolare struttura de Gli Indifferenti però non fu voluta né prestabilita. Io avevo pensato che il romanzo dovesse svolgersi in due giorni lontani l’uno dall’altro, come in due atti drammatici. Mi accorsi però scrivendo che non c’era alcun motivo di diluire la vicenda in un lungo periodo di tempo. Naturalmente e quasi mio malgrado saldai il primo giorno al secondo. Ciò contribuì ancor di più a dare al romanzo quella fisionomia teatrale che era una delle mie ambizioni originarie.

Ristretta la vicenda a due giorni, venne come conseguenza ,che dovevo descrivere oltre allo svolgimento delle passioni dei miei personaggi anche tutto ciò che facevano all’infuori di queste passioni. Ne seguirono tutte quelle descrizioni di pranzi, di cene e di scene di genere che riempiono il romanzo. Così senza volerlo né propormelo come fine, diedi una pittura completa e veritiera della vita quotidiana di una famiglia borghese romana di quegli anni. Hanno detto che questa pittura è acre e crudele. In realtà essa rispecchia molto fedelmente quel sentimento di noia e di insofferenza che, come ho accennato più sopra, destava allora nel mio animo la vita normale.

Mi sarebbe pressoché impossibile dire nei particolari come giunsi all’idea dell’indifferenza, chiave del libro. Grossolanamente posso dir questo: mi ero proposto, come ho spiegato, di scrivere una tragedia in forma di romanzo; ma scrivendo, mi accorsi che i motivi tradizionali della tragedia e insomma di ogni fatto veramente tragico mi sfuggivano proprio nel momento in cui cercavo di formularli. In altre parole dato l’ambiente e i personaggi, la tragedia non era possibile; e se avessi cambiato ambienti e personaggi, avrei voltato le spalle alla realtà e fatto opera di artificio. Mi si chiariva insomma l’impossibilità della tragedia in un mondo nel quale i valori non materiali parevano non aver diritto di esistenza e la coscienza morale si era incallita fin al punto in cui gli uomini, muovendosi per solo appetito, tendono sempre più a rassomigliare ad automi. Così la tragedia mi si spostava dai dati esteriori (seduzione di una figlia ad opera dell’amante della madre) a quelli interiori di Michele, personaggio impotente e rivoltato che partecipa dell’insensibilità generale ma conserva abbastanza consapevolezza per soffrire di questa partecipazione. Tutto questo oggi può sembrare semplice, ingenuo e perfino grossolano, ma allora era tutt’altro che chiaro e quei pochi motivi che sono poi emersi si presentavano indissolubilmente confusi con moltissimi altri che via via ho lasciato cadere. Comunque non si trattava mai di idee bensì di sentimenti più o meno ben riordinati e illuminati dalla ragione.

Se poi si volesse andare più nel profondo, posso dire che ciò che presiedette soprattutto alla composizione de Gli Indifferenti fu uno stato d’animo tutto particolare, dovuto alle mie esperienze di quegli anni e degli anni antecedenti. Senza entrare in merito a quelle esperienze, dirò che tale stato d’animo aveva un forte carattere romantico e pur essendo il risultato di fatti extra artistici era al tempo stesso perfettamente intonato a tutta la letteratura decadente e realistica dell’ultimo quarto di secolo. Insomma, per un lungo periodo, ogni diaframma critico tra la letteratura e la vita per me non esistette. Può darsi che ancora oggi non esista.

A questo punto qualcuno vorrà sapere perché non parlo degli intenti sociali e larvatamente politici di critica antiborghese che molti attribuiscono al romanzo. Rispondo che non ne parlo perché non c’erano. Se per critica antiborghese si intende un chiaro concetto classista, niente era più lontano dal mio animo in quel tempo. Essendo nato e facendo parte di una società borghese ed essendo allora borghese io stesso (almeno per quanto riguardava il modo di vivere) Gli Indifferenti furono tutt’al più un mezzo per rendermi consapevole di questa mia condizione. D’altra parte se avessi avuto quel chiaro concetto classista che ho detto non avrei scritto Gli Indifferenti. Non mi pare possibile scrivere un romanzo contro qualche cosa. L’arte è interiorità non esteriorità. Ho scritto Gli Indifferenti perché stavo dentro la borghesia e non fuori. Se ne fossi stato fuori, come alcuni sembrano pensare attribuendomi intenti di critica sociale, avrei scritto un altro libro dal di dentro di quella qualsiasi altra società o classe à cui avessi appartenuto. Che poi Gli Indifferenti sia risultato un libro antiborghese questa è tutta un’altra faccenda. La colpa o il merito è soprattutto della borghesia, specie quella italiana in cui ben poco o nulla è suscettibile di ispirare non dico ammirazione ma neppure la più lontana simpatia.

Tutto questo è tanto vero che soltanto molto tempo dopo aver pubblicato Gli Indifferenti mi accorsi della reale portata del libro e cominciai a sentire ripugnanza per il modo di vivere borghese nel suo complesso. Debbo avvertire però che questo modo di vivere mi apparve sempre più come un fatto morale piuttosto che materiale. L’agiatezza è preferibile sempre alla povertà e conosco molti fieri antiborghesi che risolte le angustie materiali in cui si dibattono non saprebbero più esserlo con sufficiente sincerità e profondità di motivi. Essi sono antiborghesi perché sono poveri, allo stesso modo che molti borghesi sono antiproletari perché sono ricchi. Tali determinazioni, a mio parere, se sono utilissime per la lotta politica, tolgono tuttavia qualsiasi interesse a questi atteggiamenti. In questo senso penso che si potrà essere validamente antiborghesi soltanto sopra un piano più vasto che annulli ogni distinzione sociale e miri a costruire un mondo fatto per tutti gli uomini.

Tornando a Gli Indifferenti fu notato che la punteggiatura del libro lascia molto a desiderare. Ciò dipende dal fatto che mentre lo scrivevo non usavo alcuna punteggiatura, limitandomi a separare l’un periodo dall’altro con una lineetta o uno spazio bianco. E questo perché sebbene scrivessi in prosa, ogni frase mi veniva fuori con la proprietà ritmica e solitaria di un verso. Poi, a composizione finita, distribuii un po’ a caso la punteggiatura. Ma in molti luoghi il periodo era così fatto che nessuna punteggiatura ragionevole mi fu possibile. Ora mi accorgo troppo tardi che forse non avrei dovuto mettere alcuna punteggiatura e presentare il libro così come mi era venuto fatto di scriverlo.

 

(1945)