In queste note, ci occuperemo soltanto del Principe e della Mandragola e di alcune opere minori, con esclusione delle Istorie, dei Discorsi, dell’Arte della Guerra. E questo perché, non avendo noi intenzione di scrivere un saggio sull’opera politica di Machiavelli bensì su alcuni caratteri di lui, ci sembra che in quelle opere questi caratteri siano più chiari che altrove. In particolare, poi, ci preme di definire il machiavellismo, quel molto o poco di machiavellismo che è inseparabile da Machiavelli. Intendiamo per machiavellismo non già una teoria politica bensì una passione morale che trovò in Machiavelli un inconsapevole quanto perfetto descrittore. Perciò queste note prenderanno piuttosto figura di ritratto psicologico che di saggio critico.
Si opporrà che il machiavellismo non è altro che una fola calunniosa dei posteri e dei critici meno disinteressati; e che Machiavelli in tutte le sue opere non fece che sviluppare un pensiero rigorosamente coerente. A questo rispondiamo che, infatti, in molti suoi scritti e spesso anche nel Principe, Machiavelli non è più machiavellico di qualsiasi altro pensatore politico. Ma rimangono tuttavia un certo numero di fatti del tutto inspiegabili ove si debba considerare Machiavelli soltanto un saggista alla stessa stregua, poniamo, di un Montaigne o del suo contemporaneo Guicciardini. Fatti, dico, così carichi di compiacenza non soltanto verbale, così eccessivi, così, in fondo, poco pensati, che di fronte ad essi si deve per forza o ignorarli, come fanno la maggior parte degli ammiratori di Machiavelli, oppure denunziarli focosamente, moralisticamente, come hanno sempre usato i suoi nemici. Due atteggiamenti; a ben guardare, altrettanto evasivi e poco impegnati.
La posterità si è sempre ribellata a certe affermazioni e sviluppi della dottrina machiavellica; allo stesso modo che si ribellerà sempre a quegli atteggiamenti o predicazioni o teorie nelle quali, con fiuto istintivo, ravvisa un interesse personale piuttosto che un libero pensiero. In altre parole, un sistema di pensiero, per quanto possa a prima vista sembrare insolito, strano, aberrante persino, non può offendere nessuno appunto perché pensiero e nient’altro che pensiero; e presto o tardi ciò che pareva insolito, strano, aberrante, diventerà accettabile, normale, ovvio. Per esempio, il pensiero cristiano parve a molti antichi un morboso paradosso; ma non erano ancora passati due secoli che esso si rivelava nient’altro che il pensiero stesso dell’umanità intera e informava di sé la vita di tutti gli uomini. Il pensiero di Machiavelli, invece, a distanza di quattro secoli, conserva per il lettore anche più spregiudicato qualcosa di imbarazzante, di singolare, di smodato, e lungi dal diventare normale e di informare di sé la vita degli uomini, sembra restare attaccato alla figura del suo creatore allo stesso modo di un vizio o di altro atteggiamento tutto personale. In altre parole, si rivela in molte parti diverso da un pensiero, qualcosa che sembra pensiero e in realtà non è. L’irritazione della posterità di fronte all’opera di Machiavelli deriva soprattutto dal fatto che mai attitudine personale fu meglio mascherata e sviluppata con il metodo proprio al pensiero. D’altra parte, il giudizio sul machiavellismo è reso difficile proprio dalla presenza di un vero pensiero mescolato con ciò che non è pensiero; dalla scienza politica di Machiavelli messa al servizio di sentimenti e di passioni che poco o nulla hanno a che fare con la scienza medesima.
Esistono infatti nell’opera di Machiavelli una somma ingente di osservazioni esattissime, un rigore logico, una forza costruttiva, un metodo che si impongono all’attenzione e all’ammirazione del lettore anche più sprovveduto. Ma accanto a questi che sono i più solidi fondamenti della gloria di Machiavelli, esiste ancora qualcosa che Machiavelli non poté e non volle nascondere. Perché pochi scrittori sono stati così sinceri quanto Machiavelli; e in verità in questo candore si riconosce la grandezza dell’uomo. È infatti un carattere costante degli uomini grandi di offrirsi aperti e disarmati, come fiduciosi nella loro sola forza e complessità.
Ma è proprio questo candore che ci permette di sceverare il machiavellismo dalla scienza politica di Machiavelli. Un altro che Machiavelli, più avveduto e più prudente, avrebbe saputo smussare certi angoli, dissimulare certe parti, e, insomma, non scrivere affatto il Principe. Con i soli Discorsi la fama di Machiavelli come creatore della scienza politica sarebbe stata egualmente assicurata. Avremmo avuto un Machiavelli non meno profondo, perspicace, esatto, sistematico, nuovo. Un Machiavelli senza machiavellismo; o con così poco machiavellismo da non farne accorgere alcuno. Dobbiamo il Principe alla sincerità di Machiavelli. Libro poetico, il Principe non tanto corona e conclude l’opera di Machiavelli, quanto vi aggiunge con evidenza la nota del machiavellismo. Illuminati dal Principe, gli altri scritti di Machiavelli rivelano a loro volta quel tanto di machiavellismo che contengono.
E noi sappiamo benissimo che il machiavellismo è sempre esistito e sempre esisterà. Resta però il fatto della preferenza e vocazione di Machiavelli; che sia stato proprio Machiavelli e non un altro a ritrovarne nella storia le sparse membra e a riunirle insieme in un solo corpo vigoroso e terribile. Anche il sadismo esisteva prima di De Sade; ma è stato De Sade a descriverlo per primo e a dargli un nome. Noi pensiamo che senza quella stessa simpatia per cui il fuoco si appicca volentieri alle cose molto secche e molte unte, Machiavelli mai avrebbe scoperto, eretto a sistema e dato un nome a quella specie di affezione morale che si chiama machiavellismo.
Molti hanno creduto di ravvisare nella Mandragola il capostipite di un supposto teatro italiano che, poi, non si sa perché, non c’è mai stato (Goldoni è tutt’altra cosa e non è teatro italiano). Ma la Mandragola, secondo noi, non è un inizio bensì la più estenuata ed esangue delle fini. Non vogliamo qui alludere alle crudezze, alla corruzione, al cinismo che si notano nella commedia. Diciamo subito che se fossero vere crudezze, vera corruzione, vero cinismo, ossia sentiti dall’autore come tali, la Mandragola sarebbe molto più viva e davvero un principio del teatro italiano. Ma nella Mandragola ci sono cinismo, corruzione e crudezza soltanto perché noi, lettori moderni viventi in tutt’altro mondo e con tutt’altre convenzioni, ve li vediamo, e non perché Machiavelli abbia inteso di metterceli. In altre parole, Machiavelli intese comporre una specie di farsa; e se la farsa gli riuscì aspra e penosa, questo avvenne fuori della sua volontà e, fino ad un certo segno, a sua insaputa. Prova ne sia la mancanza quasi completa di ironia e di distacco che in questo genere di composizioni stabiliscono una distanza e una differenza tra l’autore e le sue creature e testimoniano uno strazio morale che sa contenersi e irrigidirsi per meglio raggiungere gli effetti che si è ripromesso. Nella Mandragola, non c’è ironia o sarcasmo, bensì soltanto una specie di cupo diletto, di arido compiacimento, di spenta sincerità da parte di chi non voleva e, anche se avesse voluto, non poteva vedere molto più in là della melensaggine di Lucrezia, della sciocchezza di Nicia, della corruzione di Timoteo. La serietà della Mandragola, quasi arcigna anche negli effetti più comici, deriva da un estenuato ed esangue fondo etico piuttosto che da una reale indignazione. "Dio sa che io non pensavo a iniurare persona, stavomi nella mia cella, dicevo el mio uffizio, intrattenevo e’ mia devoti; capitommi questo diavolo di Ligurio, che mi fece intingere el dito in uno errore, donde io vi ho messo el braccio e non so ancora dove io m’abbia a capitare. Pure mi conforto che, quando una cosa importi a molti, molti ne hanno a avere cura,” dice Fra Timoteo, dopo essersi lasciato trascinare dal mezzano Ligurio prima a promettergli un aborto e poi l’artifizio della mandragola. Ora tutto questo avrebbe potuto essere satirico oppure addirittura straziante se, come un diamante sopra un vetro, avesse inciso sopra una riprovazione, una sensibilità morale, una fede di Machiavelli; se, cioè, Timoteo nella sua piccolezza e abiezione avesse campeggiato contro lo sfondo di qualche gran fatto che stesse a cuore a Machiavelli. Ma qui non si sente che il vuoto. Machiavelli, per descrivere la trappola atroce in cui si è lasciato attirare il frate, non sa trovare altro che due sentenze di prudenza politica ("mi fece intingere el dito in un errore, donde io vi ho messo el braccio", “quando una cosa importa a molti, molti ne hanno a avere cura"); Machiavelli, in mancanza di rapporti suoi con il personaggio di Timoteo, si limita a copiarlo dal vero, componendolo con gli elementi crudi della realtà; Machiavelli, insomma, non freme scrivendo il monologo di Timoteo, lo scrive davvero sulla carta e non sulla propria carne.
La figura di Timoteo, per tutti questi motivi, risulta arida ed embrionale, senza profondità, più che descritta, quasi graffita malamente sopra una pietra ingrata. E le cose non vanno meglio con gli altri personaggi. Si veda per esempio Lucrezia. Alla religione di Timoteo dovrebbe far riscontro l’innocenza di Lucrezia. E se le ragioni storiche possono giustificare l’irreligiosità di Machiavelli, non sappiamo davvero quali ragioni si possono addurre per motivare la sua mortale indifferenza per l’innocenza oltraggiata della moglie di Nicia. La quale, invero, ci è descritta per bocca di Callimaco come “onestissima e al tutto aliena dalle cose d’amore", ma poi, a guardar bene, si rivela soltanto sciocca. Sciocchezza, insipienza, melensaggine, sono questi i tratti che fanno la spia all’estenuato senso etico di Machiavelli. Anche le donne del Boccaccio ci sono spesso presentate come “onestissime” e poi si palesano soltanto stupide, per non dir peggio; ma si veda come questa stupidità che si cambia in corruzione è descritta argutamente; con quanta gioia, quanto spirito, quanto distacco, quanto gusto. Boccaccio, oltre che maggiore artista, ha una sensibilità morale più fresca, più intatta. Lucrezia invece è sciocca perché Machiavelli l’ha voluta fare virtuosa; è sciocca non per colpa sua ma per colpa di Machiavelli; è sciocca per deficienza di rappresentazione e di sentimento. Essa non ha coscienza né sentire morale, pende meccanicamente dalle labbra del suo confessore, accetta una condizione inverosimile con uno sgomento di bestia condotta al macello, e, una volta a letto con Callimaco, perde ad un tratto tutta la sua famosa onestà e si rivela non meno insensibile del suo amante e degli altri personaggi.
Da tale sciocchezza e insipienza, dopo il frate e Lucrezia, non si salvano neppure le altre figure della Mandragola. Nicia è sciocco oltre perché sciocco di natura anche perché, mi sia permesso il bisticcio, la sua sciocchezza è sciocca, cioè meccanica, verbale, eccessiva; sciocco è Ligurio, specie di Jago senza tragedia, senza calore, senz’altri moventi che quelli del lucro; ultimamente, anche l’amore di Callimaco si tinge di sciocchezza. Di tali amori, è pieno il Boccaccio; ma si veda di quanta leggiadria e freschezza siano ammantati; come la sordità morale sia bene dissimulata sotto i colori brillanti della giovinezza. Invece qui, allo stesso modo che l’innocenza di Lucrezia è cosa fisiologica e materiale, così l’amore di Callimaco appare nient’altro che libidine. "Perché da ogni parte mi assalta tanto desio di essere una volta con costei che io mi sento dalle piante de’ pie al capo tutto alterare: le gambe tremono, le viscere commuovono, il core mi si sbarba dal petto, le braccia si abbandonano, la lingua diventa muta, gli occhi abbarbagliano, el cervello mi gira...” Lungo catalogo, proprio da anatomico, lontano del tutto dal sentimento d’amore. Al De Sanctis questa descrizione pare “amor naturale coi colori suoi", diverso così dall’amore petrarchesco come dalla “cinica volgarità". Ma nello stesso Ariosto, contemporaneo di Machiavelli e non meno di lui nutrito dei succhi della Rinascenza, l’amore è tutt’altra cosa. In realtà, l’amore, nell’esaurimento etico di Machiavelli, si riduce ad una mera manifestazione fisica. Machiavelli è, insomma, un materialista per deficienza di vitalità piuttosto che per convinzione, ossia piuttosto a sua insaputa che consapevolmente. Con ogni probabilità, egli pensava in buona fede di aver rappresentato il mondo com’è non “come dovrebbe essere"; di aver raffigurato in Lucrezia l’innocenza, in Callimaco l’amore, in Timoteo la religione. Ma in realtà ci aveva dato un’innocenza fisiologica fatta di passività e di ignoranza, un amore libidinoso che si esprime in indolenzimenti e smanie fisiche, una religione pratica e meccanica, limitata a devozioni convenzionali. Sull’innocenza, sull’amore, sulla religione, il sapiente, intelligentissimo Machiavelli non la pensava diversamente dalla gente comune del suo secolo e purtroppo anche del nostro. Perché quegli effetti e quella mentalità perdurano e perdureranno un pezzo.
Abbiamo detto che la Mandragola è lo specchio di un animo profondamente inaridito quanto agli effetti privati, alla religione e alla coscienza etica. Il Principe e le altre opere politiche sono un tentativo magnificamente riuscito di galvanizzare questo animo per mezzo della sola passione che ormai vi albergava: la passione politica.
Potremmo accettare la passione politica di Machiavelli come un dato di fatto ovvio. Machiavelli era nelle faccende politiche, nutriva ambizioni politiche, non si occupava altro che di politica; che meraviglia che ne avesse la passione? Ma ci sembra che il fatto non sia così semplice. Anche il Guicciardini era un uomo politico di professione al pari di Machiavelli; eppure quella passione in lui non esiste o comunque, dato che esista, è subordinata ad una chiaroveggenza serena e triste. Il problema della passione politica di Machiavelli è in fondo lo stesso della sua scienza politica: ove sia legittimo subordinare alla politica ogni altro valore e affetto; perché questo avvenga; e, quando avvenga, fino a che punto la politica possa sopperire alle deficienze che questa sua supremazia sottintende. Per chiarire questo punto, il paragone con Guicciardini ci torna utile. Il Guicciardini era di tempra assai diversa da Machiavelli. Ingegno meno veemente, meno immaginoso, meno artistico, aveva tuttavia, forse per questo, una personalità morale più integra, una coscienza più acuta, un’intelligenza più equilibrata. Quella sua stessa adorazione del “particulare” attesta in fondo un rispetto della libertà umana che sarebbe impossibile ritrovare in Machiavelli. È vero che il “particulare" non sembra essere altro che l’insieme degli interessi materiali dell’individuo; ma nulla vieta di pensare che in condizioni più favorevoli, il “particulare” possa significare gli sviluppi della personalità morale. Il ripiegamento del Guicciardini sulla felicità individuale è in fondo un atto di ottimismo; il “particulare” a prima vista può apparire niente altro che un egoista; ma, dopo esame, si vede che è tuttavia un uomo, mentre il suddito del principe non è uomo bensì inerte materia. E per questo, mentre dal suddito non ci si può aspettare nulla, dal “particulare", ove i tempi lo permettano e quella sua schiva coltivazione dei propri privati interessi abbia dato i suoi frutti, ci si può aspettare un rinnovamento profondo che di rimbalzo rinnovi tutta la nazione. "A Cesare quel che è di Cesare” sembra voler dire il Guicciardini; ma non è questa anche la risposta del cristianesimo a tutti coloro che vorrebbero risolvere la cosa pubblica prima di quella privata? Il “particulare” non ha passioni e meno che mai passioni politiche; egli deve anzitutto salvarsi; l’uomo di Machiavelli non ha più nulla da salvare, e la passione politica, in mancanza di interessi appunto particolari, è la sua sola àncora di salvezza. Non essendo libero in se stesso per corruttela o impoverimento, deve per forza far consistere la libertà in una sua illusoria partecipazione agli affari politici. Insomma, così l’uomo di Guicciardini come quello di Machiavelli sono lontani da quell’ideale che sarebbe il contemperamento della vita privata con quella pubblica: il primo sacrifica al “particulare” ogni altro valore, il secondo alla politica. Ma il primo, almeno, come dice Voltaire alla fine di Candido, “coltiva il suo giardino”
Ne deriva che per Machiavelli, così disseccato ed esaurito, così spento e traballante, la politica era molto più che una semplice occupazione e un dovere; molto più che uno svago intellettuale; era un puntello e una ragione di vita; un mezzo artificioso per sentirsi vivo moralmente. Questo disperato aggrapparsi dell’uomo alla vita politica, spenta ormai quella morale e religiosa, spiega anzitutto l’astrazione machiavellica, non nutrita da alcun profondo sentire etico; e poi la particolare forma a cui Machiavelli dovette ricorrere per esprimerla.
Si pensi: Machiavelli era un repubblicano, ancor più, Machiavelli, come lo dimostrano ad ogni passo i Discorsi e il Principe stesso, aveva un concetto molto chiaro, assolutamente fermo e irriducibile, di quel che fosse la libertà, dei vantaggi di essa, dei funesti effetti che potessero derivare da una soppressione della libertà. Ove questo non bastasse, la tortura a cui era stato sottoposto in occasione della congiura di Boscoli e Capponi doveva aver rinfocolato in lui, con argomenti fisici indimenticabili, questo suo convinto e ragionato apprezzamento del vivere libero. E tuttavia, è proprio questo stesso Machiavelli, estimatore della libertà e difensore del regime repubblicano, ad offrire i suoi servizi ai Medici subito dopo il loro ritorno a Firenze e, da ultimo, a scrivere il più perfetto trattato in favore dell’autocrazia che si conosca. Tutto questo sembra in sommo grado contraddittorio; ma si tratta, in realtà, di una contraddizione soltanto apparente.
Nella più famosa delle sue lettere familiari, quella indirizzata a Francesco Vettori in data 10 dicembre 1513, Machiavelli fa una descrizione molto vivace della sua vita in campagna. Questa lettera ci fa vedere Machiavelli che va a caccia, litiga con i borghigiani per poche cataste di legna, se ne sta sulla strada a interrogare i passanti, gioca per ore a tric-trac con un mugnaio, un beccaio e due fornaciai. Venuta la sera Machiavelli si spoglia della veste quotidiana, piena di fango e di loto, si mette panni curiali e reali, entra nelle corti antiche degli uomini antichi e con loro discorre, ossia, come annunzia a Vettori più sotto, scrive il Principe. La lettera è molto bella, soprattutto per il contrasto, energicamente espresso, tra i grandi pensieri e la dignità di Machiavelli e il mondo incivile e grossolano che lo circonda. Ma questo contrasto non va senza una specie di compiacimento crudele e amaro. Come di uomo che per rendersi pienamente conto del proprio valore abbia in certo modo bisogno di vedersi misconosciuto e vilipeso. “Così mi rinvolto entro questi pidocchi, traggo el cervello di muffa e sfogo questa malignità di questa mia sorte, sendo contento mi calpesti per questa via, per vedere se la se ne vergognasse.” Non è certamente il tono di un uomo che sapendo quel che vale e vedendosi incompreso si ritira fiero in villa e vi fa la vita dell’umanista. Vi si sente semmai quasi una voluttà di abbassamento che, si noti bene, agisce da stimolo; come di una molla che acquista tutta la sua forza soltanto se è compressa. “Sendo contento mi calpesti...” La frase è assai significativa di una infelicità torbida e ritorta. Machiavelli sente la sventura come una specie di tonico. Il suo esaurimento etico non gli consente la tranquilla indipendenza dell’animo libero e vittorioso; gli rende necessari questi disperati reagenti. Ma sono rimedi pericolosi; e una volta che la sensibilità vi si abitui, non ne può più fare a meno. L’invocazione ai Medici che almeno gli facciano “voltolare un sasso" appartiene allo stesso ordine di idee che gli detta la frase sulla sorte che lo calpesta. Nella prima c’è quasi un compiacimento dell’abbassamento, allo scopo di non adattarvisi e di risentirlo come tale; nella seconda c’è un’aspirazione ad una funzione qualsiasi, anche umiliante, pur di sentirsi esistere. In ambedue Machiavelli cerca di stimolare una sensibilità altrimenti pigra e inerte. Anche il Principe, in un piano più alto, non è che una leva per sollevare il peso mortale di questa apatia.
In realtà Machiavelli aveva bisogno di vivere; aveva bisogno di sentirsi vivo. È noto che questo bisogno non occorre agli uomini veramente vitali, in cui tutte le attività siano equilibrate ed egualmente vivaci. Questi uomini, in caso disperato, possono sempre rifugiarsi nel loro “particulare" che, oltre agli interessi privati, come abbiamo già detto, può essere la retta e tranquilla coscienza, il gusto per l’indipendenza, il senso del mistero. Invece l’uomo esaurito, insufficiente, sente il bisogno di frustare a sangue la propria sensibilità, ritorcendo i propri sentimenti, come si fa con le corde, per renderli più forti. Nascono così varie contraddizioni. Si giunge al Marchese De Sade che per amare aveva bisogno di simulare i gesti dell’odio più sanguinario. In tutt’altro ordine di idee, questo è anche il caso di Machiavelli. Uomo normale, ordinato, equilibrato, Machiavelli non avrebbe scritto il Principe bensì i Ricordi civili. Non avrebbe cercato di servire i Medici ma si sarebbe ritirato, contento, in campagna. La necessità di non affogare nell’apatia, nell’indifferenza, nella noia di una vita senza passioni né occupazioni, lo spinge a ferirsi a morte pur di sentirsi vivere; a servire pur di avere una funzione. Così da uno spasmodico desiderio di vita espresso in consapevole crudeltà nasce il Principe, questo elogio dell’autocrazia in bocca ad un repubblicano.
Perciò, quello che non era riuscito a fare per la religione con Fra Timoteo, per l’innocenza con Lucrezia, per l’amore con Callimaco, riesce finalmente a Machiavelli per la libertà con questo suo ultimo personaggio, il Principe. Gli è che mentre la corruzione di Timoteo, la rovina di Lucrezia, la libidine di Callimaco non incidevano su alcun suo ideale né contraddicevano ad alcuna sua aspirazione ed erano in tutto conformi a quello che egli riteneva fosse la realtà ovvia e giornaliera, il Principe, in ognuna delle sue azioni e dei suoi precetti, ferisce e la sanguinare quel po’ di carne viva che gli è rimasta nella paralisi di tutte le sue facoltà. C’è nel Principe tutta la tensione, il rigore, la crudeltà e la conseguenza strenua di un ragionamento che si raddoppia di sofferenza. Ma questa duplicità mal si accorda con l’equilibrio e la vera chiarezza e coerenza di un intelletto libero da ogni determinazione. È proprio di ogni voluttà, sia pure essa triste o crudele, di prolungarsi oltre i limiti ragionevoli e sani. A questa passione, che si ritorce su se medesima per meglio sentirsi vivere noi dobbiamo quel tanto di unilateralità, di sproporzionatezza, di mostruosità, insomma, della presunta scienza politica del Principe. Chiamare scienza politica i precetti del Principe sarebbe come chiamare ars amandi i consigli non disinteressati del Marchese De Sade. In ambedue i casi, un particolare dell’intera funzione viene eretto a legge e ciò per l’incapacità in ambedue i casi di sentirsi vivere contemperando l’attività preferita con tutte le altre che sono proprie allo spirito; per l’incapacità di amare o di fare la politica rispettando l’indipendenza e l’esistenza di tutti gli altri valori.
E non si vuoi qui negare che scrivendo il Principe Machiavelli abbia avuto in mente di comporre un’opera puramente politica ossia dipingere, secondo i modelli forniti dalle grandi monarchie oltramontane e dagli stessi principati italiani, un’ideale figura di statista capace di cacciare i barbari e unificare l’Italia. Del patriottismo di Machiavelli qui non si dubita; come, del resto, di tutte le altre qualità e di tutti gli altri meriti che gli sono stati via via attribuiti in maniera molto convincente dalla critica di questi ultimi decenni. Quello che a noi preme di dimostrare non è tanto che queste qualità e questi meriti non ci siano quanto che essi non bastano a bilanciare certi caratteri psicologici ad essi preesistenti, dai quali derivano tutte le contraddizioni e gli eccessi del cosiddetto machiavellismo. In altre parole, per noi la macchina grandiosa della dottrina machiavellica è mossa da un motore che nulla ha che fare con la politica. Donde il carattere esplosivo, lirico, perentorio del Principe; proprio come se, dopo aver montato la macchina e prestabilito ogni cosa, il motore si fosse messo a girare per conto suo, in maniera imprevista e violenta, mettendo in pericolo l’intera costruzione.
Machiavelli, nel Principe, discorre parecchio dei vari modi per conquistare e tenere il principato e dei casi che intervengono in queste faccende. Nell’enumerazione dei diversi generi di principati, cita anche i principati ecclesiastici. Ed abbiamo qui il celebre e ironico brano sugli Stati della Chiesa: “Costoro soli hanno stati e non li defendano; sudditi e non li governano; e li stati per essere indifesi, non sono loro tolti; e li sudditi per non esser governati, non se ne curano. Solo adunque questi principati sono sicuri e felici. Ma essendo quelli retti da cagioni superiori, alle quali la mente umana non aggiunge, lascerò di parlarne; perché sendo esaltati e mantenuti da Dio, sarebbe offizio di uomo presuntuoso e temerario discorrerne.” Ora in questo brano, oltre all’antipatia e al rancore di Machiavelli per la Chiesa e la sua politica italiana e mondiale, si deve ravvisare un’ultima condanna definitiva della politica medievale, indivisibile proprio da quelle “cagioni superiori alle quali mente umana non aggiunge". Voglio dire che, in forma negativa, vi si rispecchia la distinzione tra politica e morale, tra politica e religione, tra politica e ideale, che è il più solido fondamento della gloria di Machiavelli e della sua scienza politica. Osserviamo di passaggio che il giudizio di Machiavelli sugli Stati della Chiesa benché brillante e giustificato dalla lunga costrizione medievale, è storicamente infondato perché egli considera quegli stati proprio nel momento in cui tutte le ragioni storiche, psicologiche, morali, politiche, culturali erano ’venute meno e la politica papale, cosi nella pratica come nei fini, non si discostava gran che da quella di tutti gli altri principati italiani. Machiavelli lo stesso ragionamento non avrebbe potuto farlo sulla Chiesa e sulla sua politica, poniamo, al tempo di Ildebrando o anche di Bonifazio. Ma andiamo avanti.
Vogliamo dire che la separazione violenta della politica dalla morale, della politica dall’ideologia, della politica dalla religione, non porta già alla creazione di una scienza politica quanto a quella di una tecnica politica. Perché, mentre è più che dubbio che la scienza possa svincolarsi o comunque ignorare i valori etici, la tecnica, come quella che si occupa soltanto dell’esecuzione e non si impaccia di quello che viene prima e dopo di essa, è per natura indifferente e astratta. La tecnica, insomma, non è che un momento del processo scientifico e nemmeno il più importante. Ora ricordando come, attraverso l’esame della Mandragola e delle opere minori, abbiamo definito Machiavelli non già immorale ma esausto moralmente, ci spieghiamo come egli abbia potuto operare quella separazione e dare tanta importanza alla tecnica della politica. La tecnica, valida certamente ove si parli della costruzione di una macchina o dell’imbrigliamento di un fiume, non ha a parer nostro altro valore che quello meramente negativo di una costrizione e di una falsificazione se applicata alle cose che siamo costretti a chiamare le cose dello spirito. Ma chi sono coloro che più volentieri applicano la tecnica alle attività che con la tecnica nulla hanno da fare? Proprio quegli uomini in cui la coscienza morale o è in via di spegnersi o deve ancora nascere, in cui l’inerzia spirituale si trova affiancata da un’intelligenza acuta e capziosa, in cui le forze dell’intelletto, squilibrate dalla carenza di altre forze più profonde, si fanno arbitrarie e gratuite. La tecnica, questa chiave che apre tutte le porte fuorché quelle dello spirito, è la divinità soprattutto degli uomini e delle nazioni esauste o barbare, di coloro cioè in cui, sia per stanchezza sia per primitività, la vita morale è quasi spenta o ancora da venire; ma gli uomini e le nazioni di civiltà intera si servono della tecnica non la mettono sugli altari. La tecnica, d’altra parte, in questi uomini e nazioni o esauste o primitive, lusinga l’orgoglio che crede per mezzo di essa di scavalcare lo spirito e raggiungere meccanicamente gli stessi risultati da altri ottenuti per le vie lente e segrete della cultura e delle virtù dell’animo. In senso largo, questi uomini e questi popoli sono profondamente irreligiosi: dando alla parola irreligione il significato di uno scetticismo completo o anche di una completa ignoranza.
Il Guicciardini, a cui bisogna per forza rifarsi parlando di Machiavelli, ha una crudele sentenza a proposito di coloro che adducono frequentemente l’esempio di Roma. "Quanto si ingannano coloro che ad ogni parola allegano e’ romani. Bisognerebbe avere una città condizionata come era la loro e poi governarsi secondo quello esemplo: il quale a chi ha le qualità disproporzionate è tanto disproporzionato, quanto sarebbe volere che un asino facesse il corso di un cavallo.” Ora, secondo noi, il difetto di Machiavelli sarebbe stato non tanto di allegare ad ogni parola i romani, quanto di allegarli in maniera esteriore e, insomma, retorica, ripiegando sopra la supposta tecnica politica di quel grande popolo, soltanto perché non era in grado di vedere quali altri forze, ben più valide e profonde di quelle meramente politiche e militari avevano contribuito a fondare quella grandezza. Forze, per dirla in una parola, religiose e non soltanto tecniche. Proprio quelle forze che avevano fatto grande il papato da Machiavelli deriso; quelle forze che vengono appunto dal considerare come si dovrebbe vivere e non come si vive, dal lasciare quello che si fa per quello che si dovrebbe fare.
E veniamo ora al più famoso e disputato capitolo del Principe, vogliamo dire al capitolo ultimo, dove, in maniera apparentemente inaspettata, Machiavelli pianta in asso il “Principe” e il “lione e la golpe", e scrive l’esortazione a scacciare i barbari dall’Italia. In generale, oltre alla schiera di coloro che non ne tengono alcun conto, si notano intorno a questo capitolo due tesi: l’una che il capitolo è in contraddizione pura e semplice con quanto lo precede, la seconda che tutto il Principe è stato scritto in funzione di quest’ultimo capitolo, e che, insomma, Machiavelli vi profeta la liberazione e l’unità d’Italia. A nostro parere le due tesi sono egualmente errate. In realtà, l’ultimo capitolo non forma alcuna contraddizione con quanto lo precede; né, tuttavia, il Principe è stato scritto in funzione di esso.
L’ultimo capitolo è una veemente esortazione a cacciare 1 barbari dall’Italia e a ricostituire la patria. Ma tutto il Principe altro non è che un’opera di distruzione di tutti gli elementi appunto che compongono la patria. Patria non è un concetto astratto né una mera espressione geografica: oltre la terra e gli uomini, è la cultura, la tradizione, la religione, i costumi, le arti, gli affetti, la libertà. Quando tutti questi elementi siano o inesistenti, o corrotti, o compressi, o distrutti, ben poco rimane della patria, proprio una astrazione dietro la quale si nascondono forze con fini e natura diverse, ad esempio gli interessi di una classe o di una casata. Ora il Principe di Machiavelli tutti quegli elementi che abbiamo enumerato deve per forza distruggerli prima per conquistare il potere, poi per conservarlo. Ove veramente Machiavelli avesse inteso il Principe in questo modo, egli avrebbe fatto a un dipresso lo stesso dei gesuiti e degli altri casuisti della Controriforma che mettevano alla fine dei loro sistemi di prudenza sofistica e calcolatrice, distruttori di ogni vera religiosità, proprio la gloria di Dio. Con in peggio questa differenza: che mentre gli uomini della Controriforma tentavano di restaurare un ordine invecchiato e sconfitto e però avevano la scusante di essere alla fine e non al principio di un lungo e irrevocabile processo storico, Machiavelli, a detta di tutti, è un antesignano, un precursore delle monarchie assolute, oltre che un patriota fautore di un’Italia unita. Ora questo sarebbe per lo meno curioso: che Machiavelli, il quale giudicava l’Italia del suo tempo il paese più corrotto del mondo e che nel Principe e in tante altre sue opere aveva dato una pittura indimenticabile di questa corruzione, poi, per redimere l’Italia, non trovasse di meglio che la borgesca figura del suo Principe, con quei mezzi che direttamente nascevano da quella corruzione. Per tutti questi motivi, ci rifiutiamo di credere che Machiavelli, altrove così acuto valutatore della buona e della cattiva politica, abbia inteso esplicitamente scrivere il Principe in funzione dell’ultimo capitolo. Ossia che lo stesso patriottismo e la stessa indignazione contro i barbari che innegabilmente anima l’ultimo capitolo, regga anche l’impalcatura degli altri venticinque. Noi crediamo in verità che l’ultimo capitolo sia effettivamente quello che vuol parere, un’esortazione a liberare e unificare l’Italia; e che tutto il resto del Principe sia invece una specie di logico e conseguentissimo e crudele sfogo della passione morale di Machiavelli; ma che lungi dall’esserci contraddizione, queste due parti, così diverse nell’ispirazione e nella sostanza, siano tra loro legate da un vincolo soprattutto psicologico.
Il vincolo, secondo noi, va ricercato nell’animo di Machiavelli. Ossia nella debolezza intrinseca dell’uomo, esausto, come abbiamo detto, per quanto riguardava i valori etici e tuttavia incapace di riconoscere questo esaurimento; riconoscimento che sarebbe stata una forza e che, in personaggi come il Valentino, doveva tradursi immediatamente in azione. A Machiavelli, con tutto il suo senso realistico, faceva in certo modo difetto l’orgoglio della propria anormalità. Probabilmente, c’era in lui un residuo di coscienza cristiana che non gli permetteva, una volta formulate certe teorie, di giungere fino alle estreme conseguenze. Un Machiavelli, veramente degno dell’accusa di machiavellismo, avrebbe terminato il Principe sul capitolo venticinque, dandoci così un libro bello piuttosto che sapiente, perfetto piuttosto che utile, vissuto e agito piuttosto che pensato, vera testa di Medusa che avrebbe affascinato e confuso per i secoli i lettori incomprensivi. Un Machiavelli poeta, non pensatore pratico, si sarebbe contentato di tratteggiare in prosa indistruttibile la figura fantastica del Principe. Ma Machiavelli aveva scritto il Principe non per consapevole machiavellismo ossia per la consapevole volontà di condensare in un libro tutto quanto aveva osservato e praticato durante i suoi anni di attività politica; non per istinto di poeta che vagheggi e accarezzi in un’aria tutta estetica una figura terribile; ma, come abbiamo già detto, per trarsi dalla gora dell’indifferenza, per dimostrare a se stesso di essere vivo, per ferirsi e sentirsi ferito. Ad un tale Machiavelli minato da questo autobiografismo, ci voleva, dopo essersi quasi voluttuosamente avvoltolato nella propria sincerità, una catarsi. Una catarsi qualsiasi che lo sciogliesse dall’atroce individualismo anarchico in cui la propria coerenza lo piombava, e lo riammettesse al calore dell’umanità. Una catarsi, insomma, che mettesse a tacere il senso di eccesso e di smodatezza che non poteva non aver suscitato in lui l’opera del Principe. Questa catarsi non poteva, con tali premesse, essere religiosa. Un Machiavelli che alla fine del Principe avesse auspicato, al modo di Savonarola, l’avvento di un nuovo cristianesimo che purificasse a fondo gli Italiani, sarebbe stato oltre che inconcepibile, veramente inconseguente. La catarsi la trovò invece nel patriottismo. Con caratteristica metamorfosi del suo decadentismo in retorica, Machiavelli cercò di operare la impossibile trasmutazione di una somma ingente di valori negativi in uno solo ma positivo: la patria.
Per tutti questi motivi, crediamo che nella lirica esortazione dell’ultimo capitolo, non sia da vedersi né una conclusione premeditata, né un atto politico, bensì soltanto l’anelito alla liberazione e alla redenzione di un uomo che si era costretto per tutto il libro alla più ferrea e insopportabile conseguenza. Sotto quest’aspetto, cadono certo le accuse di immoralità che in tutti i tempi sono state mosse a Machiavelli. L’ultimo capitolo, insomma, non è altro che l’accasciarsi di un corridore esausto alla fine di una corsa, una specie di richiesta di pietà e di riposo.
Di riposo, soprattutto. Ché Machiavelli non si era accorto, come abbiamo già detto, di aver creato col Principe una figura altrettanto bella e letteraria che, poniamo, quella di Jago; e, scambiando i propri pensieri troppo intrisi di sangue, per azioni, doveva aver sentito l’impossibilità di concludere il libro allo stesso modo col quale l’aveva cominciato. Insomma, l’accusa di immoralità che i posteri hanno poi rivolto a Machiavelli, Machiavelli stesso, con comprensibile scrupolo, se la rivolse prima di tutto a se stesso. Tutto questo forse non fu del tutto consapevole; non toglie che, di fronte all’ultimo capitolo, sia legittimo pensare che le cose andarono proprio in questo modo. Ma l’operazione era psicologica e non poteva essere politica; o meglio, attuata in politica non poteva che fallire. Si pensi: il Principe di Machiavelli, con quello scetticismo, quelle efferatezze, quelle ambizioni, e quei mezzi che conosciamo il quale, tutto ad un tratto, come stanco e pieno di ripugnanza per l’esser suo, decide di sublimare questo assieme di qualità negative nella qualità positiva dell’amor di patria. È lecito immaginare che questa volontà di sublimazione resterà allo stato intenzionale; e piuttosto di sfogarsi in azione, si esprimerà in retorica.
Si tocca qui uno dei punti più segreti e delicati della personalità di Machiavelli: il dissidio tra l’energico, realistico, ed esatto osservatore della cosa politica e l’umanista retorico e letterario di certe parti dei Discorsi e del Principe. Noi sappiamo che Machiavelli non era un retore né un letterato vuoto e formale come tanti suoi contemporanei; e tuttavia la retorica, senza che egli se ne renda conto, gonfia e svuota più di una sua pagina. Ora la retorica, quell’allegare, come dice il Guicciardini, ad ogni parola i Romani, viene dall’insufficiente e incompleta sublimemente del decadentismo di Machiavelli, dalla sua vana aspirazione ad una catarsi che lo rinnovi e purifichi. Se il Machiavelli fosse stato, come il Guicciardini, un uomo mediocre e perfettamente consapevole dei propri limiti e dentro questi limiti ordinato ed equilibrato, non avrebbe allegato i Romani; né li avrebbe allegati se, mi si consenta il bisticcio, fosse stato lui stesso così romano da non sentire la necessità di allegarli. Invece Machiavelli non ha quella mediocrità né questa grandezza. Non accetta la propria condizione di esaurimento e tuttavia non ha la forza, e come potrebbe averla? di cambiarla in uno stato positivo e veramente energico. Donde, il molto di umanistico e di letterario dei suoi toni più alti. Come, per adoperare le parole stesse di Machiavelli, di qualcosa che vorrebbe essere e non è.
Ma tuttavia vorrebbe. La serietà della retorica umanistica di Machiavelli è in questa strenua aspirazione al servizio della quale, disperatamente, egli mette quanto ha di vivo e di meglio. Umanesimo, dunque, tragico, sopra un fondo psicologico rivoltato e ansioso. Ciò distingue Machiavelli così dai pensatori politici freddi e gesuitici come dai letterati veramente retorici che lo seguirono. Ma anche spiega la sua contraddizione; e al tempo stesso fornisce una prova dello scarso disinteresse del suo pensiero, e giustifica l’ostinata diffidenza di quanti, pur senza rendersi conto dei motivi, dubitano così della fondatezza delle teorie del Principe come della validità del capitolo che conclude il libro.
(1950)