Questa non vuol essere una prefazione ai Promessi Sposi, ma soltanto una riflessione su un aspetto particolare del capolavoro manzoniano. All’origine di queste note stanno da una parte l’oscuro disagio che ci ispirano alcuni caratteri de I Promessi Sposi, dall’altra l’attualità del romanzo nel presente momento storico italiano. Disagio e attualità sono legate da un nesso evidente: i caratteri che destano in noi il disagio sono gli stessi che rendono attuale il Manzoni. Diciamo attuale in senso pratico; l’attualità eterna della poesia I Promessi Sposi l’avranno sempre, quali che siano le situazioni contingenti. E per spiegarci meglio: la critica italiana, dopo il Risorgimento, si trovò nelle condizioni migliori per esaltare la grande arte del Manzoni, giustificando o addirittura passando sotto silenzio l’aspetto che oggi ci rende perplessi. Infatti in Italia, allora, non c’era alcuna probabilità di una restaurazione cattolica, al contrario. Ma oggi le cose non stanno in questo modo; dopo essere stato per quasi cent’anni uno dei grandi libri della nostra letteratura, I Promessi Sposi stanno avviandosi a diventare, in maniera che avrebbe meravigliato lo stesso autore, lo specchio dell’Italia contemporanea. Il romanzo del Manzoni riflette, infatti, un’Italia che, con alcune varianti non essenziali, potrebbe essere quella di oggi: la religione de I Promessi Sposi rassomiglia, per molti aspetti, a quella dell’Italia moderna; la società che vi è descritta non è tanto diversa dalla nostra; i vizi che vi sono condannati e le virtù che vi sono additate sono gli stessi vizi da cui siamo afflitti, le stesse virtù che si crede di doverci consigliare. Diremo di più: il fallimento del Risorgimento, travolto insieme con tante altre cose dalla catastrofe del fascismo, ha fatto cadere molte delle differenze che potevano esserci tra l’Italia moderna e quella de I Promessi Sposi. Naturale, quindi, che gli italiani non siano inclini a porsi di fronte al Manzoni in posizione distaccata: fu sempre difficile giudicare se stessi.
A tutto questo, si aggiunga inoltre il debito di gratitudine che la nostra letteratura ha verso il Manzoni, il quale, insieme con il Verga, è uno dei fondatori della narrativa moderna in Italia, e si capirà facilmente come la questione dell’arte di propaganda manzoniana non sia mai stata veramente sollevata. Si è parlato, è vero, in passato, a proposito de I Promessi Sposi, di arte oratoria; ma sempre in maniera più o meno conforme alla tradizione, cioè distinguendo oratoria da poesia e intendendo la prima nel vecchio e preciso senso umanistico e didascalico. Che poi si sappia, nessuno ha mai visto che l’arte di propaganda manzoniana non ha niente a che fare, così nei mezzi come nei fini, con la vecchia arte oratoria anche intendendo quest’ultima in senso molto generico; e che essa è invece originata da un concetto molto moderno, per dirla in breve: totalitario, il quale non si accontenta dell’oratoria tradizionale, troppo scoperta e limitata per essere efficace, e vuole invece che la propaganda sia fatta proprio con la poesia ossia con la pura rappresentazione e soltanto con questa. In altri termini: l’arte di propaganda del Manzoni anticipa per molti aspetti i modi e i metodi dell’arte di propaganda quale l’intendono i moderni, ossia gli scrittori del realismo socialista. Anche a quest’ultimo l’arte oratoria tradizionale sembrò fin dal primo momento insufficiente; esso non voleva già il cinismo della bella letteratura ma l’autenticità magari rozza ma schietta della poesia, come la sola che potesse garantire così la sincerità dello scrittore come l’infallibilità dell’ideologia. Allo stesso modo anche il totalitarismo moderno non sa che farsene della sottomissione formale che bastava per le vecchie tirannidi ed esige invece la fede, ossia l’identificazione delle coscienze con l’ideologia. Naturalmente il Manzoni non mirò a questo risultato; ma ci pervenne lo stesso in quanto si trovò ad affrontare problemi analoghi sia pure in tempi e condizioni diversi. Così, un secolo prima del realismo socialista, noi abbiamo ne I Promessi Sposi ciò che chiameremo per comodità un tentativo di realismo cattolico. A chi, poi, trovasse troppo ardito l’accostamento, ci basterà ricordare il comune terreno del conservatorismo sociale e politico sul quale crescono così il realismo socialista come il realismo cattolico. In realtà, realismo socialista e realismo cattolico sono il prodotto estetico per eccellenza del conservatorismo. E se il realismo cattolico del Manzoni, come si vedrà, fece, per nostra fortuna, molte concessioni al decadentismo, e il realismo socialista, purtroppo, non ne fa alcuna, questo si deve, almeno in parte, al fatto che il conservatorismo di una società di formazione recente come quella sovietica non può non essere molto più intransigente di quello di una società come quella italiana che dura da secoli. In ambedue i casi, tuttavia, conservatorismo e arte di propaganda si giustificano e si sorreggono a vicenda ai danni della sola forza veramente rivoluzionaria che esista nella letteratura: la poesia.
La prima osservazione che si deve fare a proposito de I Promessi Sposi è che esso è il libro più ambizioso e più completo che sia stato scritto sulla realtà italiana, dopo la Divina Commedia. Più del Boccaccio al quale non interessava scandagliare il fondo delle cose, più di Machiavelli che era un poeta della politica, non più di Dante, forse, ma non meno, il Manzoni volle rappresentare l’intero mondo italiano dal vertice alla base, dagli umili ai potenti, dalla semplicità del buon senso popolano alle sublimità della religione. Quest’ambizione manzoniana, naturalmente, non è un carattere esteriore: così per la complessità e difficoltà dei problemi che cerca di risolvere come per la varietà dei fatti che vuole rappresentare, essa appare invece il prodotto in certo modo spontaneo e inevitabile di una mente universale. A questo punto, però, bisogna avvertire che mentre i risultati poetici del poema dantesco ne oltrepassano, per così dire, le ambizioni e le annullano, ne I Promessi Sposi i risultati, ancorché notevolissimi, rimangono inferiori alle ambizioni e di conseguenza non ci consentono di ignorarle. I Promessi Sposi, in confronto alla Divina Commedia che sembra tutta ispirata e poetica, anche nelle parti didascaliche, presentano larghe zone nelle quali fa difetto la poesia, senza che per questo si possa dire che quest’ultima sia sostituita dall’oratoria. Parti, cioè, che nell’intenzione del Manzoni avrebbero dovuto essere poetiche non meno delle altre, anzi, forse, anche di più; e nelle quali invece, suo malgrado e senza rendersene conto, egli anticipò quello che già abbiamo definito come un tentativo di realismo cattolico.
Per distinguere le parti ispirate da quelle della propaganda nel capolavoro manzoniano, bisogna, secondo noi, porsi una volta di più la domanda non nuova: perché il Manzoni scrisse un romanzo storico? A nostro parere, il motivo profondo per cui il Manzoni scrisse un romanzo su un episodio del diciassettesimo secolo invece che su un episodio dei suoi tempi, si può facilmente indovinare fermando l’attenzione sull’aspetto più ovvio de I Promessi Sposi: l’importanza preponderante, eccessiva, massiccia, quasi ossessiva che ha nel romanzo la religione. Questo aspetto, come abbiamo detto, è ovvio, specie se guardato con occhi italiani, ma lo è molto meno se confrontiamo I Promessi Sposi con altri capolavori della narrativa ottocentesca, contemporanei o quasi del romanzo manzoniano: Madame Bovary, La Chartreuse de Parme, Guerra e Pace, Pickwick Papers, Vanity Fair, Le Père Goriot, ecc. ecc. Si vedrà allora che, se si potesse misurare il dosaggio dei vari contenuti della narrativa, la religione, non importa se cattolica o altra, non rappresenta più di un cinque per cento del contenuto complessivo dei romanzi succitati; mentre sale invece a un buon novantacinque per cento ne I Promessi Sposi. Eppure gli autori di quei romanzi erano immersi nella stessa realtà politica e sociale del Manzoni, che era poi quella della società europea dopo la Rivoluzione francese. Torniamo a ripetere: l’importanza della religione ne I Promessi Sposi è ipertrofica, ossessiva e per niente corrispondente a una condizione reale della società italiana ed europea dell’Ottocento; e proprio in questa importanza eccessiva sta la spiegazione del ricorso al romanzo storico da parte di uno scrittore come il Manzoni il quale non era un piccolo realista romantico come lo Scott, ma un grande realista morale e sociale come lo Stendhal e avrebbe potuto benissimo, di conseguenza, prendere ad argomento del suo romanzo un episodio di vita contemporanea. Infatti, oltre all’ambizione di rappresentare la totalità della realtà italiana, era presente e anche maggiore nel Manzoni quella di costringere questa realtà, senza sforzature né amputazioni, nel quadro ideologico del cattolicesimo. Ossia, come abbiamo già accennato, un secolo e più prima del realismo socialista, il Manzoni si pose a modo suo il problema di un analogo realismo cattolico, cioè di un’opera narrativa in cui, col solo mezzo della poesia, fosse ottenuta un’identificazione completa della realtà rappresentata con l’ideologia dominante o che si vorrebbe che dominasse.
Adesso supponiamo un momento, per quanto la supposizione possa parere bizzarra, che a un Manzoni sovietico venga in mente di narrare, secondo il metodo del realismo socialista, un episodio che sia avvenuto ai tempi dello zarismo. Necessariamente dovrà ricorrere a tutte le risorse del mestiere letterario per nascondere le difficoltà di una simile operazione consistente nello sforzare la realtà del passato dentro l’ideologia del presente. D’altra parte l’immaginario Manzoni sovietico sa benissimo che non può cavarsela con il solo mestiere letterario, cioè con l’arte oratoria, sa che da lui si aspetta molto di più, nientemeno che la poesia. In altri termini, egli sa che non deve applicare il realismo socialista dall’esterno, ma deve mostrare di averlo trovato nel cuore stesso delle cose, cioè dei fatti avvenuti decenni o anche secoli prima della rivoluzione. Ma come esamina più da vicino questi fatti, li trova ribelli, refrattari, estranei all’ideologia del realismo socialista; e dopo alcuni tentativi infelici, abbandona l’impresa e torna al presente cioè ai consueti ambienti e personaggi dei piani quinquennali.
Ora, allo stesso modo che il Manzoni sovietico non può costringere senza evidente sforzatura la realtà del passato negli schemi ideologici del presente, analogamente il Manzoni vero non poteva costringere senza la stessa sforzatura la realtà del presente negli schemi ideologici del passato. Abbiamo già accennato alla differenza, meglio all’abisso che separa I Promessi Sposi dalla narrativa dell’Ottocento; un abisso simile separava il Manzoni, cattolico convinto, dal presente in quanto il presente non gli consentiva di scrivere un romanzo che fosse al tempo stesso cattolico e universale. Ma il Manzoni voleva tuttavia scrivere questo romanzo, nel quale cattolicesimo e realtà si identificassero, e le forze avverse al cattolicesimo non potessero aspirare a una positività storica ed estetica, e la propaganda fosse poesia e la poesia propaganda. Bisognava perciò rinunziare al proprio tempo e indietreggiare nel passato, fino a un’epoca storica più propizia. Quale? Con sicuro istinto, il Manzoni non cercò quest’epoca nel Medioevo a cui pure si era ispirato per l’Adelchi, come troppo remoto e diverso dall’età moderna; e scelse il diciassettesimo secolo, durante il quale il cattolicesimo aveva raggiunto per l’ultima volta, con la Controriforma, una sembianza di universalità. Oltre tutto il diciassettesimo secolo non era troppo lontano, almeno in certi ambienti più conservatori della vecchia Milano, come si può vedere nelle poesie del Porta che, lui, non avendo ambizioni propagandistiche, si limitava a descrivere il proprio tempo; ambientare il romanzo nel diciassettesimo secolo voleva dire, dunque, non tanto inventare di sana pianta, come lo Scott e gli altri romanzieri “storici", personaggi e situazioni quanto risalire da personaggi e situazioni del presente ad altre analoghe, ma meno decrepite e superate, del passato. Dunque, riassumendo: il Manzoni scelse il passato per gli stessi motivi per cui gli scrittori sovietici, oggi, si tengono al presente; e nel passato scelse il diciassettesimo secolo perché allora, per l’ultima volta, il cattolicesimo aveva informato di sé la vita italiana, da capo a fondo, così come oggi il comunismo informa la vita sovietica.
A questo punto qualcuno si domanderà perché mai il Manzoni non fu lo scrittore che avrebbe potuto essere soltanto che avesse accettato se stesso e il proprio tempo come erano realmente e non come, secondo la Chiesa, avrebbero dovuto essere. Cioè cattolico, sì, ma non più cattolico di quanto fosse nella realtà; non più cattolico, d’altra parte, di un Boccaccio, di un Petrarca, di un Ariosto, persino di un Dante; e comunque così sicuro del proprio cattolicesimo da non sentire il bisogno di sbandierarlo. Uno scrittore, insomma, al quale la formulazione del realismo cattolico ossia dell’arte di propaganda non apparisse come una necessità e un dovere e che si limitasse a rappresentare la realtà dei propri tempi com’era e non come avrebbe voluto che fosse. Ma chi si pone questa domanda, dimentica che il realismo cattolico del Manzoni, come del resto, oggi, il realismo socialista dei sovietici, nacque e si affermò in contrapposto ad altri modi di sensibilità e di rappresentazione altrettanto se non più convincenti. Il Manzoni costruì pezzo per pezzo il suo realismo cattolico in contrapposizione all’illuminismo che era in lui e tutt’intorno a lui. Se non ci fosse stato questo nemico contro il quale difendersi, e il mondo nel quale il Manzoni si era trovato a vivere fosse stato, come quello dell’Alighieri, cattolico da capo a fondo, senza incrinature né eccezioni, il realismo cattolico non sarebbe mai nato. Il Manzoni, come Dante, sarebbe stato uno scrittore del suo tempo, senz’altri attributi. Invece noi diciamo che il Manzoni è scrittore cattolico; mentre non ci verrebbe in mente di dire lo stesso dell’Alighieri. Dunque, nel caso del Manzoni, la parola cattolico indica, appunto, la limitazione artistica e perciò anche storica propria ad ogni arte di propaganda. Il realismo cattolico, come il realismo socialista, nasce da un’ambizione di universalità che la realtà smentisce; da una velleità totalitaria che i fatti non confermano.
S’è detto dell’importanza massiccia, eccessiva, ossessiva della religione nel capolavoro manzoniano. Quest’importanza è rivelata non soltanto dal gran numero di personaggi de I Promessi Sposi che appartengono al clero, cioè dal carattere clericale che il Manzoni volle dare alla società lombarda del diciassettesimo secolo, carattere certamente esagerato rispetto all’effettiva realtà; ma anche, all’esame stilistico, dal linguaggio dei personaggi il quale, ogni volta che è possibile e talvolta anche quando non è possibile, è un continuo intercalare di invocazioni pie così da far pensare che questi italiani del secolo decimosettimo siano invece degli ebrei dell’età del bronzo. Né questa fittezza di riferimenti religiosi è dovuta a esposizioni sistematiche della dottrina cristiana come avviene in Dante, cioè si presenta come qualche cosa di organico, di necessario, di inseparabile dagli avvenimenti. Al contrario, con l’eccezione delle prediche concettualmente assai modeste del Cardinale Borromeo, di Padre Felice e di Padre Cristoforo, quella fittezza, all’esame stilistico, specie nei dialoghi, si rivela tutta esclamativa, priva affatto di necessità drammatica o anche caratteristica; dovuta, si direbbe, anzi che alla tranquilla fede del cristiano il quale sa di non aver bisogno di sbandierarla, all’ansia del convertito timoroso di non saper convincere se stesso e i propri lettori che niente avviene se non sotto il segno della Provvidenza; quasi che ogni accadimento il quale non sembri in qualche modo collegato con quella, possa parere che la smentisca; il che, in senso psicologico, è propriamente una preoccupazione totalitaria. Insomma, l’importanza della religione ne I Promessi Sposi è eccessiva appunto perché malsicura e tradisce piuttosto l’insufficienza che la sovrabbondanza di un’intima persuasione. Non che il Manzoni non fosse uno spirito religioso; lo era, al contrario, come vedremo, in maniera spiccata e autentica; ma probabilmente non era religioso al modo del realismo cattolico, cioè al modo, tanto per fare un esempio noto, di un Papini, ossia al modo che ci voleva per fare dell’arte di propaganda. E questo, crediamo, è il maggiore elogio che possiamo fare della religione del Manzoni.
Sappiamo che questo è un punto delicato e cerchiamo di spiegarci con una metafora. Si potrebbe dunque paragonare il capolavoro manzoniano a una stratificazione geologica. Il primo strato, il più vistoso ma anche, secondo noi, il più superficiale, è quello dell’arte di propaganda, alimentata da una strenua volontà conformistica di adesione al modo cattolico di intendere la vita. Su questo strato cresce e lussureggia la vegetazione del realismo cattolico, paragonabile a una pianta dalle fogli enormi e dalle radici esigue. Il secondo strato è quello della sensibilità politica e sociale del Manzoni, addirittura fenomenale questa e sicuramente unica in tutta la storia della letteratura italiana. A questo strato appartengono tutte le scene di genere, sempre felici e sempre percorse da un sottile umorismo, nelle quali il Manzoni illustra la società del tempo: dialoghi come quelli tra il Conte Zio e il Padre provinciale, scene d’insieme come il pranzo in casa di Don Rodrigo, descrizioni di cerimonie come quella del ricevimento in onore di Gertrude o quello in cui Cristoforo si presenta al fratello dell’ucciso. A una profondità, infine, ancora più remota sta il terzo strato, quello dei sentimenti genuini anche se spesso oscuri, religiosi e non religiosi, del Manzoni reale, del Manzoni poeta, del Manzoni, cioè, che oltre a essere un grande scrittore, era anche quel determinato uomo appartenente a quella determinata società in quel determinato momento storico. Quest’ultimo strato, così all’ingrosso e per non andare per le lunghe, lo chiameremo con formula riassuntiva quello del Manzoni decadente, dando a quest’ultima parola il significato di moderno e attribuendo al decadentismo il valore di un atteggiamento psicologico, morale e sociale prima ancora che letterario. Al decadentismo del Manzoni dobbiamo la poesia de I Promessi Sposi. Va notato che questo Manzoni decadente è il contrario giusto del Manzoni del realismo cattolico; o meglio ne è l’altra faccia e ne spiega e giustifica, appunto, lo zelo propagandistico.
Ci troviamo così di fronte a un romanzo composito, la cui perfezione formale non riesce a dissimulare la coesistenza di due parti, l’una di propaganda che non è poesia o lo è raramente e l’altra poetica che non è di propaganda o lo è meno di quanto l’autore vorrebbe. Cominciando dalla prima notiamo che la spia alla scarsa ispirazione e al procedimento tutto di testa lo fa proprio la relativa incapacità del Manzoni di assolvere il principale impegno del realismo cattolico che è quello di creare, per fini didascalici e propagandistici, personaggi assolutamente negativi o assolutamente positivi e di descrivere la trasformazione dei primi nei secondi. In altre parole, adoperando la terminologia manzoniana, di creare dei veri “birboni” e dei veri “santi” e di descrivere la trasformazione, tramite la conversione religiosa, dei birboni in santi. Questa incapacità, che ci accingiamo a esaminare nei particolari, è veramente singolare in un autore come il Manzoni così ossessionato dalla religione ossia dalla santità, nonché convertito, ossia edotto, per diretta esperienza, dei modi con i quali l’indifferente e il peccatore possono trasformarsi nel loro contrario. La conversione religiosa, infatti, cioè la trasmutazione dei valori, è al centro della vita del Manzoni ed è la molla non troppo segreta dell’intera sua opera. Ora, per una strana contraddizione, proprio la conversione è il punto debole de I Promessi Sposi, il luogo cioè in cui l’intimità dell’ispirazione è sostituita dalla praticità del realismo cattolico. Così che, se vorremo capire che cosa sia una conversione, in che modo e perché avvenga, andremo piuttosto a rileggerci altri libri, per esempio le Confessioni di Sant’Agostino; e cercheremo altrove la poesia manzoniana.
Abbiamo detto che il realismo cattolico, come del resto il realismo socialista, è basato principalmente sul contrasto tra personaggi negativi e personaggi positivi e sulla conversione dei primi nei secondi. I personaggi negativi de I Promessi Sposi sono, in ordine d’importanza: Don Rodrigo, l’Innominato fino alla conversione, Cristoforo anche lui fino alla conversione, Attilio, Egidio, nonché il Griso, il Nibbio e gli altri bravi. Non mettiamo tra i personaggi negativi Gertrude e Don Abbondio perché, come vedremo, essi non fanno parte del realismo cattolico, neppure indirettamente. La prima osservazione che vien fatto di formulare è che i personaggi negativi manzoniani appartengono tutti alla categoria dei potenti, alla classe dirigente, si direbbe oggi; la seconda osservazione, che la loro non è reale malvagità (salvo quella di Egidio di cui parleremo in seguito) bensì sciocchezza o vuota e ingiustificata violenza; e lo è non già perché il Manzoni l’abbia voluta così, quanto suo malgrado, ossia per deficienza di rappresentazione. La malvagità dei personaggi negativi del Manzoni ha, insomma, qualche cosa di astratto ossia di detto e non rappresentato, di affermato e non dimostrato che, a ben guardare, deriva direttamente dalle pregiudiziali conservatrici del realismo cattolico. Si riporta, infatti, l’impressione che se il Manzoni invece che del criterio religioso si fosse servito di altro più moderno criterio basato sulla considerazione del fatto sociale per definire e giudicare i suoi malvagi, questi, come d’incanto, avrebbero trovato una giustificazione non esterna alla loro condotta. Ma il Manzoni non poteva spostare il suo giudizio dal piano religioso a quello sociale, a causa appunto del suo conservatorismo, ossia per appartenere lui stesso proprio a quella classe donde uscivano i "birboni” che poneva sotto accusa. Così si contentò di indicare il male ma non l’origine del male. Fece a un dipresso quello che fanno i nostri conservatori di fronte alla mafia siciliana: ne pongono sotto accusa gli esecutori, ma si guardano bene dal denunziarne i mandanti.
Si veda, invece, in un artista nient’affatto rivoluzionario ma molto più libero del Manzoni, quale il Flaubert, come il malvagio, ossia Homais, che rappresenta il filisteismo piccolo-borghese, sia veramente un malvagio e non uno sciocco come Don Rodrigo. E questo perché nella scala di valori instaurata nel suo libro dal Flaubert, il filisteismo borghese è davvero il male, intimamente e poeticamente sentito come tale dallo scrittore. Del resto non è affatto difficile creare personaggi negativi e positivi: ci riescono perfino gli autori dei libri gialli. Ma per far ciò bisogna essere armati di un criterio morale poeticamente valido, il che non è possibile nell’arte di propaganda la quale, al bene e al male reali, ossia quali lo scrittore li sentirebbe se li lasciasse andare al proprio temperamento, sostituisce il bene e il male esterni e precettistici di una determinata società o credenza. Col risultato abbastanza curioso di additare come positivi personaggi che all’occhio del semplice buon senso appaiono come negativi e viceversa; come, per esempio, avviene nel realismo socialista sovietico i cui personaggi positivi risultano spesso odiosi a furia di essere esemplari e i cui personaggi negativi, invece, appunto perché sembrano sottrarsi al conformismo, destano la nostra simpatia.
Esaminando da vicino i personaggi negativi de I Promessi Sposi, si vede, poi, che sono insoddisfacenti soprattutto perché il Manzoni non si cura di dirci come e perché sono diventati malvagi. Don Rodrigo si incapriccia di Lucia, a quanto pare, per quella particolare forma di lussuria, diciamo così, feudale che nasce dall’ozio e dal privilegio; ma di questa passione così caratteristica e così frequente non soltanto nella società italiana del secolo decimosettimo ma anche in quella dell’Ottocento, il Manzoni non ci dice proprio niente. Sentiamo invece parlare per la prima volta di Don Rodrigo da Lucia allorché riferisce la frase “scommettiamo" detta dal prepotente signore al cugino Attilio; ossia allorché il Manzoni ha già sostituito al primo verosimile movente della lussuria quello dello spagnolesco punto d’onore e ne ha fatto il pernio di una gigantesca macchinazione che, in mancanza di una giustificazione più profonda, risulta alla fine sproporzionata allo scopo. Ora non avremmo certo voluto la rappresentazione diretta ed esplicita della passione di Don Rodrigo per Lucia, che, oltre tutto, nell’ atmosfera de I Promessi Sposi, sarebbe sconveniente; ci sarebbe bastata una allusione del genere di quella che, in poche parole, dipinge l’analoga passione di Gertrude. In mancanza di quest’allusione, Don Rodrigo non risulta un malvagio e neppure un uomo che abbia un senso d’onore sviato, bensì, secondo la definizione affettuosa del Conte Zio, soltanto un ragazzaccio. Il Manzoni certo non condivideva questo giudizio indulgente ma, non avendo voluto o saputo risalire dalla malvagità alle sue cause reali, finisce per sottoscriverlo suo malgrado. Confermando quanto abbiamo già detto circa l’insufficienza del criterio religioso di fronte a personaggi e situazioni del mondo moderno.
Non sapremo mai come e perché Don Rodrigo sia diventato malvagio. Parimenti il Manzoni ci lascia all’oscuro circa il modo e i motivi per cui l’Innominato sia sceso nell’abisso di iniquità in cui lo troviamo allorché Don Rodrigo ricorre a lui per aiuto. È vero che, al contrario della malvagità di Don Rodrigo la quale ci viene presentata come un dato di fatto inoppugnabile, quella dell’Innominato gode di un trattamento più diffuso; ma basterà paragonare i due capitoli in cui è raccontata la storia di Gertrude con le poche pagine dedicate all’Innominato per rendersi conto che il Manzoni, in realtà, non ha voluto dirci niente sul truce personaggio. In quelle poche pagine non c’è un fatto preciso, non un tratto caratteristico, tanto meno lo sviluppo di un’inclinazione o di una passione; tutto vi è oltremodo generico e vago. Il Manzoni, che in altri luoghi ha spinto l’analisi dell’animo umano a profondità straordinarie, si muove qui in superficie, con una circospezione e un impaccio singolari. Persino la felice invenzione del nome del personaggio: 1 innominato, sembra andare al di là di un tenebroso tratto di colore e alludere quasi all’impossibilità di una definizione. Perché Innominato? Per colpa di Francesco Rivola e di Giuseppe Ripamonti che avevano delle buone ragioni pratiche per non fare quel nome o per colpa del Manzoni che non nomina il personaggio perché non è riuscito a creargli un volto riconoscibile? È comunque sintomatico che le citazioni dei due suddetti cronachisti sono riportate dal Manzoni senza commenti né ironici né seri, come avviene per le gride o per le citazioni sugli untori, proprio come testimonianze che possono tenere il luogo dell’analisi particolareggiata e realistica che, data l’importanza del personaggio, si aveva il diritto di aspettarsi. Si riporta, insomma, l’impressione che il Manzoni ci dica: “Era un malvagio, lo affermano anche i suoi contemporanei, di più non posso dirvi.” Mentre appare evidente che la malvagità dell’Innominato, come quella di Don Rodrigo, è il prodotto diretto e tipico di una determinata società e come tale andava definita. Sbrigatosi, dunque, in maniera frettolosa, degli antefatti dell’Innominato, il Manzoni passa subito alla conversione, cioè al racconto di un evento che avrebbe invece richiesto una preparazione approfondita a causa dell’importanza enorme che esso ha nell’economia del romanzo.
Quanto a Cristoforo, prima della conversione, il Manzoni vorrebbe darcelo per un violento per natura. Purtroppo, però, più che un violento, Cristoforo ci appare come un impulsivo che è tutt’altra cosa: la violenza è una passione incoercibile dell’animo, l’impulsività appena una sfumatura dell’agire. La vera passione di Cristoforo, quale risulta sulla pagina, è invece di specie sociale, oggi si chiamerebbe complesso di inferiorità. Si rese conto il Manzoni che Cristoforo sembra convertirsi non tanto per un travaglio spirituale quanto per una specie di inversione orgogliosa del complesso di inferiorità il quale, dopo averlo spinto a primeggiare con la violenza, gli suggerisce di fare lo stesso con l’umiltà? Non si direbbe, l’intenzione sembra essere di dipingerci un uomo fondamentalmente buono ma violento e fuorviato. Da questo non risolto rapporto tra l’autore e il personaggio, nasce l’insoddisfazione che ci ispira la figura di Cristoforo prima e dopo la conversione.
Date queste premesse, ossia data la insufficiente motivazione e ricostruzione della malvagità dell’Innominato e della violenza di Cristoforo, non è sorprendente che le conversioni di questi due personaggi ossia la trasformazione dei due “birboni” in “santi” non siano del tutto convincenti. Tra le due conversioni, la più accettabile, benché scarsamente ispirata da sensi veramente religiosi, ci sembra quella di Cristoforo. Essa ci è descritta dal Manzoni come un fatto piuttosto sociale che spirituale: la sua stessa repentinità appare motivata non tanto da un’illuminazione improvvisa quanto dalla pratica necessità in cui si trova Cristoforo di uscire al più presto dal vicolo cieco nel quale si è cacciato. Questa conversione di Cristoforo, insomma, pur con il suo carattere controriformistico e barocco appare plausibile se non ammirevole. E la scena della volontaria umiliazione di Cristoforo di fronte ai parenti dell’ucciso è un’assai bella pittura di maniera nello stile di analoghe scene secentiste dell’episodio della Monaca di Monza.
La conversione dell’Innominato, invece, è, a parer nostro, il punto debole di tutto il romanzo, tanto più debole in quanto, come abbiamo già accennato, avrebbe dovuto essere il punto forte, ossia in quanto la conversione del “birbone" in “santo” non può non essere il massimo cimento e al tempo stesso il centro focale del realismo cattolico. Si pensi un momento: qual è il fine di ogni arte di propaganda? Convertire gli increduli. E in che modo? Mostrando loro perché e come ci si deve convertire. Ora la lettura delle Confessioni di Sant’Agostino, per citare un libro nel quale il tema della conversione è trattato con semplicità e chiarezza in modo da renderlo accessibile anche al più sprovveduto dei lettori, certamente ci comunica un senso quasi contagioso dell’irresistibilità della conversione; ma la lettura dell’episodio dell’Innominato non ci fa né caldo né freddo. L’Innominato, dopo essere rimasto innominato ossia indefinito nella malvagità, lo è anche nella santità. Personaggio senza volto, esso passa da una malvagità generica a una santità didascalica. È veramente strano che ciò che è stata chiamata la notte dell’Innominato sia sembrata a molti critici una delle pagine più alte del Manzoni; certo, questo giudizio testimonia, se non altro, un’assai scarsa esperienza del fatto religioso. In realtà la crisi dell’Innominato non ubbidisce a una logica intima, propria al personaggio e soltanto a esso, la quale non potrebbe esserci perché, come abbiamo detto, la situazione psicologica preesistente alla crisi non è stata approfondita; la crisi dell’Innominato ubbidisce invece, punto per punto, alle norme del realismo cattolico. Il Manzoni butta deliberatamente a mare la sua preziosa esperienza di convertito che pure avrebbe potuto essergli molto utile per descrivere una situazione per alcuni aspetti analoga; e si tiene con molta logica ma scarsa penetrazione alla rappresentazione dell’ideale conversione di un “birbone" esemplare in un “santo” non meno esemplare. Già la scena tra l’Innominato e Lucia, scena di per sé molto forte, è sorprendentemente fiacca, ossia priva del tutto di quei chiaroscuri e di quei contrasti che stanno a indicare la presenza di due psicologie e di due modi di intendere la vita diversi e opposti. In questa scena il vero debole è l’Innominato nonostante la sua grinta da teatro dei burattini; ma è debole perché non è davvero malvagio, non perché la malvagità è di per sé debolezza; la vera forte è Lucia, ma è forza che cade nel vuoto appunto perché la malvagità dell’Innominato non c’è. Quindi, una volta l’Innominato rimasto solo, la conversione è freddamente e abilmente graduata fino alla tentazione del suicidio che rappresenta il punto più basso della crisi. Di qui, a partire dal ricordo della frase di Lucia: “Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia," frase molto precisa nella quale, insieme con il prezzo, è indicato il guadagno della conversione imminente, l’Innominato comincia a risalire la china su su fino all’incontro con il Cardinale Borromeo. Abbiamo detto che la conversione è graduata freddamente e abilmente; aggiungiamo che è proprio questa accorta e impersonale gradualità a rivelarne il carattere edificante e didascalico. Non è infatti la conversione di un determinato personaggio che, del resto, non potrebbe esservi perché l’Innominato stesso non esiste; è la conversione tipica, la conversione di tutti e di nessuno, la conversione, insomma, del realismo cattolico. Essa è tutta propaganda, tutto mestiere, tutta letteratura, senza un solo momento di autenticità: e sì che era proprio questo il luogo nel quale il Manzoni avrebbe potuto facilmente commuoverci solo che l’avesse voluto. Tuttavia, vogliamo affermarlo una volta di più, anche qui non si può parlare propriamente di arte oratoria in quanto il Manzoni, come appunto gli scrittori del realismo socialista, non intese fare della propaganda bensì della poesia; cioè intese darci una realtà poetica effettivamente ispirata dal cattolicesimo. Non ci riuscì; dovette ricorrere alle risorse del suo mirabile mestiere letterario; non importa: egli è poeta qui come altrove, anche se altrove è riuscito nel suo intento e qui è fallito.
Non è forse un caso che il personaggio assolutamente positivo de I Promessi Sposi, cioè il Cardinale Borromeo, si trovi nel romanzo a ridosso del personaggio assolutamente negativo, cioè l’Innominato. Non è un caso, ripetiamo, perché l’Innominato, come abbiamo detto, è un personaggio del realismo cattolico e per accogliere la sua conversione non ci voleva meno di un santo come il Cardinale, ossia fatto della stessa materia propagandistica. Che dire di questo personaggio? Esso campeggia nel mezzo del romanzo come una statua barocca sotto un baldacchino dorato e marmoreo nel mezzo di una chiesa della Controriforma; oppure come la figura di un pittore manierista, tutta occhi al cielo, mani giunte, aureola ed estasi, ritta su uno sfondo di nuvole temporalesche e di spade di luce. È una grande pittura di maniera, ammirevole nella sua completa, perfetta letterarietà, divertente e interessante se considerata come un puro prodotto dell’ingegno, senza tener conto del significato che vuole attribuirle il Manzoni. Certamente il Cardinale parla molto bene; persino il Manzoni se ne accorge e avverte all’inizio del capitolo XXVI: “...anche noi, dico, sentiamo una certa ripugnanza a proseguire: troviamo un non so che di strano in questo mettere in campo, con così poca fatica, tanti bei precetti di fortezza e di carità, di premura operosa per gli altri, di sacrifizio illimitato di sé. Ma pensando che quelle cose erano dette da uno che poi le faceva, tiriamo avanti con coraggio.” Ma l’avvertimento, mentre conferma la consapevolezza artistica del Manzoni, non può, e come potrebbe?, modificare il carattere fondamentalmente propagandistico del Cardinale. E anzi, a proposito della celebre ironia manzoniana che traspare anche nel brano succitato, vorremmo notare a questo punto che mentre essa è sempre seducente e profonda nelle parti veramente realistiche del romanzo, appare invece insufficiente quando addirittura non scompare in quelle del realismo cattolico. I personaggi assolutamente negativi come Don Rodrigo e l’Innominato sono visti altrettanto seriosamente che quelli assolutamente positivi come il Cardinale Borromeo e Padre Cristoforo. E questo perché l’ironia del Manzoni sta sempre a indicare un dominio perfetto della materia, è indivisibile dalla poesia. Là dove essa manca o si rivela inadeguata, si indovina che il Manzoni si muove nella più o meno bella letteratura la quale, infatti, è per sua natura refrattaria all’ironia.
Altro personaggio di specie positiva del realismo cattolico è Cristoforo dopo la conversione: abbiamo dovuto spezzarlo in due figure distinte per comodità della nostra dimostrazione. Esso rassomiglia molto al Cardinale Borromeo tanto è vero che ci viene mostrato in situazioni molto simili a quelle del Cardinale (dialogo tra Padre Cristoforo e Don Rodrigo, dialogo tra il Cardinale Borromeo e Don Abbondio), e che si potrebbero facilmente mettere in bocca al Cardinale le prediche del frate e viceversa; ma gli è inferiore come riuscita artistica proprio perché la sua azione, estendendosi a tutto il libro, ne rivela l’immobilità oratoria, mentre quella del Cardinale è limitata a un breve e circoscritto episodio. Padre Cristoforo è il personaggio nel quale il realismo cattolico del Manzoni fa la sua prova meno felice. Il paragone con il quale incomincia il capitolo VII: "Il padre Cristoforo arrivava nell’attitudine d’un buon capitano che, perduta, senza sua colpa, una battaglia importante, afflitto ma non scoraggiato, sopra pensiero ma non sbalordito, di corsa e non in fuga, si porta dove il bisogno lo chiede, a premunire i luoghi minacciati, a raccoglier le truppe, a dar nuovi ordini,” brutto e quasi ridicolo, in maniera rara in un autore come il Manzoni il quale è forse secondo soltanto a Dante per la bellezza, originalità e appropriatezza delle immagini, dà la misura dell’esteriorità agghiacciante nella quale cade il creatore di figure vivissime come Don Abbondio o Gertrude allorché applica le norme del realismo cattolico. Padre Cristoforo sarebbe forse stato diverso, senza il realismo cattolico? No, non sarebbe stato diverso, sarebbe semplicemente scomparso dal romanzo in quanto Padre Cristoforo deve le sua esistenza a una specie di sottrazione operata dal Manzoni, per i motivi del realismo cattolico, ai danni del personaggio di Renzo. In altri termini: Padre Cristoforo o fa delle prediche, cioè non fa niente, oppure fa le cose che dovrebbe fare Renzo se quest’ultimo fosse stato sviluppato fino in fondo: si erge contro Don Rodrigo in luogo di Renzo; muove a Renzo i rimproveri cristiani che Renzo dovrebbe muovere a se stesso; prende sulle sue spalle una parte delle persecuzioni destinate in realtà a Renzo. Esso è un intermediario in saio, superfluo come tutti gli intermediari, il quale permette al Manzoni di non lasciar niente all’iniziativa personale del protagonista e di correggerne la condotta in senso precettistico ogni volta che si renda necessario. È la coscienza di Renzo, confiscata a favore della Chiesa e incarnata in un personaggio della Chiesa. E non neghiamo affatto che nel secolo decimosettimo, in Lombardia, si verificassero situazioni simili, con due innocenti perseguitati che si mettono sotto la protezione di un frate; diciamo che il personaggio di Padre Cristoforo rivela piuttosto la levigatezza della propaganda che la rugosità della realtà.
Abbiamo sinora descritto il realismo cattolico del Manzoni, ossia abbiamo cercato di spiegare come e perché sia fallita la propaganda della religione intesa dal Manzoni in senso tutto moderno ossia non come oratoria ma come poesia, anzi la sola poesia possibile. Abbiamo detto, tra l’altro, che la spia all’astrattezza del realismo cattolico la fanno soprattutto le conversioni di Cristoforo e dell’Innominato, ossia le trasformazioni, tramite la religione, dei personaggi negativi in positivi. Ora diciamo che il Manzoni eccelle invece nella rappresentazione della corruzione e dei personaggi corrotti. Che cos’è la corruzione? È il contrario giusto della conversione: in questa il personaggio va dal male al bene, in quella dal bene al male. È la trasformazione di un personaggio positivo, o che almeno potrebbe esserlo, in personaggio negativo. Che cosa sono i personaggi corrotti? Sono, appunto, i personaggi nei quali avviene questa trasformazione, ossia il passaggio dal bene al male, dall’innocenza alla perversità, dall’integrità alla corruzione. Altresì il Manzoni eccelle nelle rappresentazioni di quella che chiameremo la corruzione pubblica. Che cos’è la corruzione pubblica? È il contrario della rivoluzione, se è vero, come è vero, che quest’ultima sta a indicare l’equivalente pubblico della conversione, ossia del passaggio dal male al bene. È il passaggio, cioè, in una società, da uno stato di normalità a uno di anormalità, da uno stato di ordine a uno di disordine, da uno stato di prosperità a uno di miseria. Anzi, a proposito di rivoluzione, va notato che mentre il Manzoni puntò tutti i suoi sforzi sulla rappresentazione della conversione, ossia sul passaggio dal male al bene nell’ambito individuale, non trattò mai l’equivalente pubblico della conversione, ossia la rivoluzione. O meglio, lo trattò nell’episodio dei tumulti per la carestia, nel quale così la folla come Renzo sono animati da sentimenti che si possono senz’altro chiamare rivoluzionari; ma è caratteristico del conservatorismo manzoniano che tutto l’episodio sia interpretato in chiave del suo contrario, ossia come un episodio di corruzione di uno stato antecedente che era positivo soltanto perché era lo status quo.
Venendo, dunque, all’eccellenza raggiunta dal Manzoni nella rappresentazione di casi di corruzione privata e pubblica, pensiamo che sia appena necessario sottolineare la compiuta felicità del personaggio di Don Abbondio nonché il suo carattere di uomo lentamente e profondamente corrotto dalla paura. Chi è Don Abbondio? Se è vero che la Provvidenza è la protagonista de I Promessi Sposi, Don Abbondio è il contrario della Provvidenza, è colui che non soltanto non fa miracoli ma neppure fa quello che dovrebbe o potrebbe fare, come tutti gli altri uomini. In tal modo, oltre che l’antagonista della Provvidenza, ne è, al pari di tutti coloro che non fanno il loro dovere, la maggiore giustificazione: Don Abbondio rifiuta, per paura, di sposare Renzo e Lucia; la Provvidenza interviene attraverso la pulce che, avendo morso un topo malato di peste, trasmette il morbo a Don Rodrigo. Don Abbondio, del resto, non crede a niente, neppure alla Provvidenza; tanto è vero che non accetta di celebrare il matrimonio se non quando è matematicamente sicuro che la peste, oltre a qualche centinaio di migliaia di milanesi, si è portata via anche Don Rodrigo. Eppure, in maniera significativa, né Renzo, né Lucia lo disapprovano veramente per questa sua tenacissima, quasi mostruosa viltà. Gli è che Don Abbondio non è un malvagio ma un corrotto; e la corruzione, in una società corrotta, è guardata con indulgenza anche da coloro che non vi partecipano. Come i ladri nell’Erewhon di Butler, egli è una specie di malato, degno più di compassione che di odio.
E infatti: Don Abbondio al principio del romanzo ci è presentato come un uomo consapevole di quel che sia il bene, inclinato persino a fare il bene. Nonché integro, tratto importante; ossia Don Abbondio sinora non ha mai fatto soperchierie. Il Manzoni ci presenta questa condizione, diciamo così, positiva di Don Abbondio con un forte rilievo; di modo che, più tardi, tanto più spicchi l’effetto negativo dell’ingiunzione di Don Rodrigo, ossia la corruzione. La quale è una malattia dell’anima; ma il Manzoni ne sottolinea il carattere morboso con la febbre che assale Don Abbondio subito dopo l’incontro coi bravi; una febbre che dura tutto il romanzo e non cessa se non con la morte di Don Rodrigo. Abbiamo così la storia di Don Abbondio mentre non abbiamo la storia di Don Rodrigo. Ma l’abbiamo perché Don Abbondio non è un malvagio, benché faccia il male, ma soltanto un corrotto; ossia perché il Manzoni scarica la colpa di Don Abbondio su Don Rodrigo, pur non spiegandoci affatto, come abbiamo già veduto, perché e come Don Rodrigo sia diventato quel malvagio che è. Così la corruzione di Don Abbondio rimane un po’ a mezz’aria, proprio come appare a Don Abbondio stesso, come qualche cosa che può essere scusato, attribuito a cause remote, annebbiato da molte e lontane responsabilità. Cioè ci troviamo pur sempre sul terreno ambiguo della corruzione, non su quello chiaro e inequivocabile della malvagità.
Il personaggio di Don Abbondio è stato paragonato a Sancio Panza; in realtà non lo è perché non c’è nel romanzo alcun Don Chisciotte a renderne visibile e perciò comica la poltronaggine; il Cardinale Borromeo non è un Don Chisciotte, al contrario; né il salutare stimolo donchisciottesco si trova nella coscienza di Don Abbondio. È vero che nell’incontro con il Cardinale egli sembra avere un momento di resipiscenza, ma è cosa di breve durata. Allorché, dopo la peste, incontra Renzo, le sue parole sono pur sempre quelle della vecchia prudenza: “Volete rovinarvi voi; e volete rovinar me.” Don Abbondio, è giunto il momento di dirlo, è il personaggio perfetto di un particolare genere di corruzione italiana che, in mancanza di un termine più preciso, chiameremo storica. Accade continuamente, in Italia, di imbattersi in uomini di ogni classe, categoria, professione, condizione, potenti e non potenti, illustri e oscuri, intelligenti e stupidi, vecchi e giovani, ricchi e poveri, i quali tutti mostrano di aver paura di parlare, di dispiacere a qualche autorità, di scoprirsi, di compromettersi, di lasciarsi andare a dire quello che pensano su qualsivoglia problema. Sulle prime vien fatto di attribuire questo contegno a un interesse preciso che potrebbe, se non scusarlo, per lo meno spiegarlo. Ma il più delle volte questo interesse non c’è; c’è soltanto la paura, senza cause vicine e apparenti; e insieme con la paura, altrettanto forte, l’amore del quieto vivere. Allora, vedendo che non ci sono cause immediate, si è quasi costretti a risalire a quelle lontane, indirette, ataviche, storiche insomma, e si pensa: “Sarà colpa della Controriforma, dei governi stranieri, delle tirannidi nazionali, lo sa il diavolo di chi è la colpa se quest’uomo, nelle vene, invece che sangue ha acqua.” Don Abbondio è personaggio così vivo e immortale appunto perché è l’incarnazione di questa corruzione nazionale tanto antica da apparire ormai come una seconda natura.
Don Abbondio è corrotto dalla paura che gli fanno i bravi di Don Rodrigo; Gertrude, invece, è corrotta dalla soggezione che le incute il padre e, in genere, la società alla quale appartiene. La storia della Monaca di Monza fu sempre giustamente lodata come una delle parti più belle de I Promessi Sposi; aggiungiamo che, non a caso, è la storia di una lunga e tortuosa corruzione, ossia della trasformazione di un personaggio innocente in malvagio, seguita passo passo, con una mirabile capacità realistica e inventiva che si cercherebbe invano nelle descrizioni delle conversioni ossia delle trasformazioni dei personaggi malvagi in buoni. Dell’infanzia dell’Innominato, tanto per fare un solo esempio, non sappiamo niente; Gertrude invece ci viene presentata quando, addirittura, sta “ancora nascosta nel ventre di sua madre". La progressiva metamorfosi dell’innocente bambina prima in disperata bugiarda, poi in monaca fedifraga, quindi in adultera e infine in criminale, è quanto di più forte sia stato scritto sull’argomento della corruzione. Si confronti la storia di Gertrude con quella analoga della Réligieuse di Diderot e si avrà l’impressione di paragonare un pozzo profondo di acqua nera e immobile a un limpido e veloce ruscello. E questo perché mentre Diderot conosce le cause della corruzione e ce le addita, Manzoni, come nel caso di Don Abbondio, preferisce tacerle. Per Diderot la catarsi è fuori del romanzo, di fatto nella Rivoluzione imminente che lo scrittore pare annunziare in ogni riga; per il Manzoni, conservatore e cattolico, non c’è catarsi se non estetica, la quale infatti è notevolissima; ma le catarsi soltanto estetiche sono proprie al decadentismo. Perfino la corruzione del Regno di Danimarca trova una sua pratica purificazione nello squillo delle trombe che, dopo il sanguinoso convito, annunziano l’arrivo di Fortebraccio. Ma la corruzione di Gertrude è una corruzione “bella"; ossia una corruzione misteriosa, oscura, senza cause e, si direbbe, senza effetti: nata da una fatalità ambiguamente storica e sociale, essa si perde nel silenzio e nell’ombra della Chiesa.
Ad ogni modo, il Manzoni decadente qui è al colmo della sua potenza. La storia di Gertrude non ha mai un momento di astrazione, mai cade nell’affermato e non dimostrato, nel detto e non rappresentato, come avviene per la storia dell’Innominato. È invece un seguito serrato e incalzante di immagini, di cose, di oggetti, di situazioni, di personaggi. E il Manzoni non si limita a fare lo storico imparziale, come quando riassume in poche pagine la criminale carriera dell’Innominato; al contrario stabilisce fin dall’inizio un suo forte e soggettivo rapporto con la figura di Gertrude; rapporto fatto al tempo stesso di accorata pietà e di raffinata crudeltà. Così stupisce che il Croce affermi che “il metodo” con il quale sono costruite le figure riuscite de I Promessi Sposi è lo stesso di quello con cui sono costruite quelle che noi chiamiamo del realismo cattolico. Qui non si parla di metodo, che non sappiamo che voglia dire in poesia; bensì di maggiore o minore rapporto dell’artista con la materia. Tra Manzoni e Don Abbondio e Gertrude corre un rapporto vivo e complesso; tra il Manzoni e l’Innominato poco o nessun rapporto, a meno che non si voglia chiamare rapporto la relazione strumentale che passa tra lo scrittore di propaganda e la sua materia prefabbricata e didascalica.
Strano a dirsi, quella malvagità totale che il Manzoni non ha saputo rappresentare in Don Rodrigo, più sciocco che malvagio, o nell’Innominato, malvagio irreale, gli vien fatto di tratteggiarla in poche righe, con compiuta felicità, allorché deve narrare la storia della corruzione di Gertrude. Ecco, infatti, Egidio, un malvagio più malvagio di Don Rodrigo o dell’Innominato perché, al contrario di questi ultimi, motivato nella sua malvagità e per giunta con i moventi molto moderni del sadismo e della lussuria profanatoria: "Il nostro manoscritto lo nomina Egidio senza parlar del casato. Costui, da una sua finestra che dominava un cortiletto di quel quartiere, avendo veduta Gertrude qualche volta passare o gironzolar lì, per ozio, allettato anzi che atterrito dai pericoli e dall’empietà dell’impresa, un giorno osò rivolgerle il discorso. La sventurata rispose.” Questa motivazione psicologica, breve ma profonda, dell’agire di Egidio, ci manca affatto per Don Rodrigo del quale, come abbiamo detto, non sapremo mai come e perché si incapricci di Lucia. Gli è che Don Rodrigo è un malvagio senza radici, in funzione del realismo cattolico; mentre Egidio è un malvagio giustificato, in funzione della corruzione che, come abbiamo visto, il Manzoni sentiva in particolar modo. Oltre al male, riesce al Manzoni, nel corso della storia di Gertrude, di dipingere anche il bene. Ecco, per esempio, poche righe che per noi valgono tutta l’eloquenza edificante del Cardinale Borromeo: “Pare che Gertrude avrebbe dovuto sentire una certa propensione per l’altre suore che non avevano avuto parte in quegl’intrighi e che, senza averla desiderata per compagna, l’amavano come tale; e pie, occupate e ilari, le mostravano col loro esempio come anche là dentro si potesse non solo vivere, ma starci bene... forse sarebbe stata meno avversa ad esse, se avesse saputo o indovinato che le poche palle nere, trovate nel bossolo che decise della sua accettazione, c’erano appunto state messe da quelle.” Questa è vera bontà, profonda e misteriosa, non quella tutta predicata e di maniera del Cardinale e di Padre Cristoforo. E come per la malvagità di Egidio, anche qui bisogna osservare che essa è in funzione della corruzione, da questa giustificata, a questa contrapposta.
Passando dalla corruzione privata a quella pubblica, il quadro certamente cambia: non più cupi, angusti destini individuali come nell’episodio della Monaca di Monza o caricature accanite come quella di Don Abbondio, bensì disastri e tragedie collettive sullo sfondo della storia; ma il procedimento, a ben guardare, è lo stesso. Il Manzoni dapprima ci presenta la condizione normale, positiva, integra, destinata ad essere corrotta: il Ducato di Milano prima della guerra, la città di Milano prima della peste; poi annota con crudele precisione il primo sintomo della corruzione, la nuvoletta minima nel cielo sereno dalla quale si svilupperà la tempesta: il puntiglio politico-militare del Re di Spagna che porta al passaggio delle truppe alemanne per la Valtellina, l’ingresso del soldato Lovati in Milano, introduttore della peste; alla fine, con lenta e potente gradualità, passa a descrivere il progresso della corruzione, il suo dilagare conclusivo. Abbiamo detto che è lo stesso procedimento adoperato per la descrizione della corruzione privata; aggiungiamo che tutto ciò che nella corruzione privata è psicologico e morale in quella pubblica diventa fisico, materiale. La degradazione di Gertrude trova il suo riscontro nella diffusione della pestilenza in Milano; e il Manzoni annota con lo stesso compiacimento quasi scientifico così le cadute sempre più profonde della Monaca di Monza come le crescenti stragi del morbo. Ma nel ricordo, è fuori dubbio che l’episodio di Gertrude, nonostante la sua forza, acquista uno spicco minore, ha una minore importanza della parte dedicata alla peste.
La ragione di questo prevalere della peste che, in effetti, insieme con la dolcezza dei paesaggi e di certi sentimenti, fornisce uno dei due caratteri principali del singolare mondo manzoniano, non è difficile a trovarsi: la peste è la corruzione per eccellenza, per antonomasia; con i suoi bubboni, le sue febbri, il suo sfacelo fisico, essa è il simbolo di tutto ciò che non è sano né integro; con il suo diffondersi misterioso e inarrestabile, essa è l’immagine stessa del male morale contro il quale è impossibile difendersi. A sua volta, per aver fatto della peste, unico tra gli scrittori di tutto il mondo e di tutti i tempi, uno degli argomenti principali del suo romanzo, il Manzoni è, per antonomasia, il dipintore dell’epidemia, ossia della corruzione. Ma c’è peste e peste; la celebrità della peste de I Promessi Sposi, al contrario delle analoghe descrizioni del Boccaccio e del Defoe, si deve al fatto che essa è realmente sentita dal Manzoni come un fenomeno anzitutto morale; un po’ come le sette piaghe d’Egitto nell’Antico Testamento. Così, descrivendo la peste, il Manzoni si trova, per così dire, nel suo elemento: quello di una corruzione metafisica e universale che non risparmia niente e nessuno. Anche in questa parte della peste, come già in quella della Monaca di Monza, il Manzoni tocca i punti più alti della sua arte come, per esempio, nel celebre episodio della madre che consegna ai monatti la sua bambina morta o in quello di Don Rodrigo. In realtà la corruzione ispira il decadente Manzoni almeno quanto la conversione lo rende apatico e inespressivo.
La peste, come abbiamo detto, è la corruzione per eccellenza; ma ne I Promessi Sposi ci sono altre corruzioni pubbliche, tutte descritte con la stessa potenza, la stessa drammatica gradualità, lo stesso compiacimento: quella della carestia che culmina nei tumulti per il pane, quella della guerra che sbocca nel saccheggio e nella devastazione dei paesi invasi dalle truppe, quella della giustizia che trova la sua espressione nell’arresto di Renzo e prim’ancora, nella scena tra Renzo e Azzeccagarbugli. Un’idea sottintesa si intravede come una filigrana in tutti questi episodi della corruzione pubblica: gli uomini niente possono contro il male; bisogna lasciare sfogare il male fino in fondo; la Provvidenza, poi, si incaricherà, nei suoi imperscrutabili disegni, di salvare quegli individui o quelle società che lo meritano. Ci troviamo, cioè, di fronte a un pessimismo di specie conservatrice che si accorda benissimo con il decadentismo ossia con la dilettosa e inerte contemplazione di quello stesso male che si giudica irrimediabile. Questo spiega perché le descrizioni dei moti sociali, ne I Promessi Sposi, rassomiglino molto a quella della peste. Il Manzoni, che è conservatore perché decadente e decadente perché conservatore, non crede nelle palingenesi e sente e interpreta i moti sociali come sussulti sterili e incomposti di organismi malati e incapaci di guarigione.
Adesso facciamo ancora un passo avanti. Corruzione, come abbiamo detto, è parola indicante il processo inverso a quello della conversione. Nella conversione si va dal male al bene; nella corruzione dal bene al male. Però c’è nella corruzione ancora qualche cos’altro; ed è che essa può durare indefinitamente, cioè diventare cronica. Il processo della corruzione, talvolta, è così graduale da passare inosservato. Uomini, società, nazioni si corrompono lentissimamente, per trapassi impercettibili, così da non rendersene conto. D’altra parte l’uomo corrotto, la società corrotta, la nazione corrotta, non desiderando, per conservatorismo, riformarsi, finiscono per accettare la corruzione. Ora è proprio questa accettazione che si avverte ne I Promessi Sposi, nonostante il moralismo del Manzoni. La corruzione descritta in maniera così originale, potente e profonda non trova uno sfogo catartico e ristagna nel libro, un po’ come ristagna nella vita italiana di ieri e di oggi. Don Abbondio è corrotto dalla paura e tale rimane fino alla fine; Gertrude è corrotta dalla menzogna e non ne esce più; la società milanese, nonostante “la gran scopa” della peste, rimane corrotta: a un Azzeccagarbugli, a un Don Rodrigo, a un Attilio che la peste si è portata via, si sostituiranno, come sembra di capire, altri prepotenti e disonesti simili. E non è che noi vorremmo vedere questi personaggi cambiare carattere e la società milanese riformarsi davvero; è che la composizione così di quei personaggi come di quella società esclude ogni elemento ideale, cioè ogni reale coscienza della corruzione. Per fare un solo esempio: Cìcikov, l’eroe delle Anime Morte di Gogol non è meno corrotto di Don Abbondio, anzi assai di più. Tuttavia Cìcikov ha quel tanto di coscienza del male da consentirgli di essere un protagonista. Don Abbondio non riesce invece che a essere una enorme caricatura.
Così, l’aria chiusa de I Promessi Sposi che Giovita Scalvini attribuiva a un “tempio che copre i fedeli e l’altare" non è quella della religione (anche nella Divina Commedia ci troviamo in un tempio, eppure vi respiriamo a pieni polmoni), bensì quello del conservatorismo del Manzoni, decadente come tutti i conservatorismi, affascinato dalla corruzione ma impotente a risolverla se non sul piano estetico. I Promessi Sposi sono una villa ottocentesca, non un tempio; e l’aria che vi si respira è quella della conservazione sociale non quella del dogma. Da questo conservatorismo decadente, da questo decadentismo conservatore, viene direttamente, come abbiamo già osservato, il realismo cattolico, ossia il tentativo di superare la corruzione con la propaganda.
Ma il Manzoni, come tutti i conservatori disinteressati e in buona fede, custodiva nel cuore il sogno di una vita diversa, incorrotta, pura, semplice, collocata fuori della storia, cioè innocua e in accordo con il suo conservatorismo. In questo sogno, a nostro parere, e non nel realismo cattolico, va ravvisato il contrappeso ideale della corruzione. Questo sogno trovò espressione nelle figure dei due protagonisti e nel mondo che essi rappresentano.
Abbiamo voluto serbarci per ultimi Renzo e Lucia perché, oltre ad essere forse le due figure più belle e originali de I Promessi Sposi, essi sono anche la chiave della concezione manzoniana della vita, della società e della religione. Questi due personaggi non sono ricostruiti storicamente, saggisticamente, come Gertrude; sono presentati attraverso il loro agire come Don Rodrigo e l’Innominato; ma al contrario di Don Rodrigo e dell’Innominato, sono ben vivi e reali. Gli è che la malvagità di Don Rodrigo e dell’Innominato sono di testa; mentre le qualità e i difetti di Renzo e Lucia sono intuiti per simpatia. Quali sono queste qualità e questi difetti? Lucia è soave, dolce, discreta, pudica, riservata; ma anche, talvolta, leziosa, cocciuta, rustica, inclinata a compiacersi e a strafare nel senso di una perfezione di maniera. Renzo è schietto, onesto, coraggioso, pieno di buon senso, energico; ma anche, talvolta, melenso, avventato, violento. Come si può vedere da quest’insieme di qualità e di difetti il Manzoni ha voluto dipingere due figure di contadini che aveva probabilmente avuto il modo di osservare a lungo nella realtà, magari proprio in uno dei paesi del lago di Como, prima di ricrearle nell’arte. La sensibilità sociale del Manzoni, così sottile e così pronta, va ammirata una volta di più in questi due personaggi umili nei quali sono visibili tutti i caratteri di una condizione inferiore senza però il distacco e la sufficienza che spesso si accompagnano a questo genere di rappresentazione. In realtà il Manzoni ha saputo vedere Renzo e Lucia con affetto; l’affermazione ben nota, alla fine del capitolo XV: “...quel nome per il quale anche noi sentiamo un po’ d’affetto e di riverenza," non è una civetteria letteraria ma la pura verità. Questo affetto è una cosa nuova, originale; ai tempi del Manzoni, come del resto ai nostri, fare di due popolani gli eroi di un romanzo richiedeva infatti un salto qualitativo non indifferente, una capacità di idealizzazione potente. La novità dell’affetto del Manzoni per Renzo e Lucia si può valutare appieno pensando che bisogna arrivare fino al Verga per trovare un altro scrittore italiano che volga al popolo uno sguardo fraterno.
Intorno Renzo e Lucia, come-intorno due idoli modesti ma davvero venerati, il Manzoni ha raggruppato tutte le cose che amava in cuor suo e contrapponeva alla società di Gertrude, di Don Rodrigo e del Conte Zio. Cioè alla sua società; e, in genere, alla società quale viene conformata dalla storia. Giacché la storia sembra essere nient’altro che corruzione al Manzoni; e Renzo e Lucia non sono corrotti appunto perché sono fuori della storia. L’identità storia-corruzione, antistoria-purezza si può notare soprattutto nei luoghi in cui il Manzoni mette uno dei due protagonisti, che sono puri perché fuori della storia, di fronte a un personaggio che è corrotto perché dentro la storia: Renzo e Azzeccagarbugli, Renzo e Don Abbondio, Renzo e Ferrer; ma soprattutto Lucia e Gertrude. Ecco veramente, in quest’incontro, il contrasto fondamentale de I Promessi Sposi, in tutta la sua forza e il suo significato: da un lato, la contadinella che “diventa rossa e abbassa la testa", dall’altro la giovane badessa lussuriosa e criminale che il Manzoni ci descrive in un ritratto tra i più belli e forti di tutto il romanzo. Per una volta Gertrude non è posta di fronte a un personaggio secondario bensì al suo contrario. E basta paragonare l’incontro breve ma reale e verace tra Lucia e Gertrude con quello tutto eloquenza e maniera tra Lucia e l’Innominato per vedere che il vero contrasto tra il bene e il male ne I Promessi Sposi non è quello tra la santità della religione e l’empietà dei malvagi, come voleva il realismo cattolico, bensì tra la purezza naturale del popolo e la corruzione della storia e delle classi che fanno la storia.
Ad ogni modo Renzo e Lucia assolvono ne I Promessi Sposi la funzione di agenti catalizzatori intorno ai quali si raduna con spontaneità tutto ciò che il Manzoni amava e vagheggiava. Il Manzoni ha descritto orrori e terrori altrettanto e più di Poe e con una sensibilità non troppo diversa; eppure, quando diciamo manzoniano indichiamo qualche cosa di assai differente dal macabro e dal terribile; qualche cosa di molle, di dolce, di idilliaco, di familiare, di affettuoso; qualche cosa che ci ricorda Virgilio e Petrarca; qualche cosa che nel romanzo prende, appunto, il nome di Renzo e Lucia. A Renzo e Lucia dobbiamo il Manzoni più famoso dell’addio ai monti e della fuga verso l’Adda, il Manzoni Dipintore dei paesaggi lombardi, il Manzoni creatore delle più belle immagini e metafore del libro, il Manzoni poeta dell’intimità familiare, il Manzoni, infine, davvero religioso, non della religione del realismo cattolico ossia del Padre Cristoforo e del Cardinale Borromeo, ma della sua religione che è poi quella stessa dei due protagonisti. Il carattere del Manzoni di Renzo e Lucia, insomma, sia perché più positivo e più amabile di quello del Manzoni di Gertrude e della peste, sia perché più rispondente alla sensibilità italiana, ha finito per prevalere su tutti gli altri; così da diventare quasi proverbiale e da avvalorare presso il pubblico l’immagine per lo meno incompleta di un Manzoni educativo, specchio fedele e tranquillo delle virtù cristiane e borghesi dell’Ottocento.
Così, definire e spiegare chi sono Renzo e Lucia, vuol dire in fondo definire e spiegare il mondo ideale del Manzoni, con le qualità della sua sensibilità decadente e i limiti piuttosto angusti del suo signorile conservatorismo. Chi sono Renzo e Lucia? Sono due popolani, due operai. La loro vita è semplicissima sia perché sono poveri sia perché vivono in un paesino di campagna di poche case, una frazione diremmo oggi. Dunque, primo ideale: la vita povera, rustica, semplice, quasi sul filo dell’indigenza e dell’elementarità. La vita, cioè, priva di incombenze pubbliche, di responsabilità civili, di ambizioni politiche, di grattacapi finanziari, di pasticci cittadini di qualsiasi genere. La vita ridotta all’osso: il lavoro, la famiglia.
Ma nel paesino, nella frazione in cui vivono Renzo e Lucia c’è anche una chiesa: Renzo e Lucia sono religiosi. Dunque, oltre alla vita semplice, povera, rustica, anche l’ideale di una religione che è l’espressione diretta di questa vita. È stato detto fin troppo che la religione del Manzoni aveva un fondo giansenista; forse lo aveva nella vita, ma ne I Promessi Sposi non si nota. Infatti: la religione di Renzo e Lucia, che è poi quella del colto, aristocratico e intellettuale Manzoni, è una religione il più lontano possibile dalla cultura, molto più legata alla parrocchia che alla biblioteca. È la religione di due ignoranti che non sanno né leggere né scrivere; la religione, come è stato detto, degli umili; noi aggiungiamo: di due umili come Renzo e Lucia. Una religione del cuore non della testa, del sentimento piuttosto che della ragione. Una religione, del resto, molto moderna;. la sola, infatti, che ancor oggi sia sentita e praticata con sincerità e abbandono dalle masse cattoliche di tutto il mondo.
Del resto, per rendersi conto di che cosa sia questa religione de I Promessi Sposi, basterà paragonarla, sempre tenendoci ai risultati estetici, a quella dell’Alighieri. Nella Divina Commedia la religione penetra dappertutto e non è imposta in nessun luogo. Cultura, politica, morale, società, costume, sono indistinguibili dalla religione. Invece ne I Promessi Sposi, parrebbe che la religione sia patrimonio quasi esclusivo degli umili cioè degli incolti; ogni volta che il Manzoni descrive le classi dirigenti ossia colte, la religione scompare, si direbbe che non ci sia mai stata. È, insomma, questa religione di Renzo e di Lucia ossia del Manzoni, una religione che ha rotto da molto tempo i rapporti con la cultura. Così riesce facile al Manzoni svalutare con la sua ironia corrosiva la politica (Guerra dei Trent’anni, Don Consalvo da Cordoba, Ambrogio Spinola), la cultura (caricatura di Don Ferrante), e in genere la storia. In tutt’altro autore meno artista, meno riflesso, meno complicato, meno profondo del Manzoni, caricature come quella di Don Ferrante, ragionamenti come quelli sulla Guerra dei Trent’anni, suonerebbero come proposizioni puramente reazionarie. E questo non tanto perché la cultura di Don Ferrante non fosse davvero una farragine di superstizioni e di idee sbagliate e la politica della Guerra dei Trent’anni non avesse realmente aspetti assurdi, quanto perché il Manzoni sembra inferirne che tutte le culture e tutte le politiche siano egualmente fallaci e superflue. Il Manzoni prende in giro Don Ferrante perché studiava e leggeva libri falsi e aberranti; e non sembra rendersi conto che Don Ferrante dopotutto era una persona rispettabile appunto perché leggeva e studiava, sia pure libri falsi e aberranti. Parimenti, allorché il Manzoni fa dell’ironia sulla Guerra dei Trent’anni, egli non sembra rendersi conto che quella guerra non era che un riflesso della guerra di idee che in quel tempo dilaniava l’Europa e che doveva alla fine sboccare nell’affermazione dei paesi della Riforma e nella rovina dell’Impero spagnolo. Certamente, però, tutte queste cose non possono avere alcuna importanza se viste con gli occhi di due poveri contadinelli; soprattutto se viste attraverso gli occhiali della loro semplice religione.
Osserviamo a questo punto che l’ideale della vita povera e semplice, dell’ignoranza e della religione del cuore non è tuttavia nel Manzoni così estremo e perciò rivoluzionario, come, per esempio, l’evangelismo integrale e intransigente di un Tolstoj. Il quale, come è noto, volle vivere quest’ideale fino in fondo, fino a farsi contadino e a lavorare i campi; mentre il Manzoni, come è altrettanto noto, nonostante la sua sincera simpatia per gli umili, non si fece umile e rimase tutta la vita oculato ed economo amministratore della sua proprietà. In realtà l’ideale del Manzoni, come abbiamo già osservato, ha limiti angusti dettati dal conservatorismo. È l’ideale del buon padrone che guarda con benevolenza, con affetto, con umanità ai semplici che lavorano per lui, ma non dimentica un sol momento che è il padrone. L’ideale, per dirlo con Manzoni stesso, del marchese erede di Don Rodrigo, il quale aveva abbastanza umiltà per mettersi al disotto di Renzo e di Lucia ma non per stare loro in pari. Insomma è un ideale reso del tutto innocuo perché mantenuto con grande fermezza dentro i confini di una determinata società che era poi quella stessa alla quale apparteneva il Manzoni.
Questa limitazione paternalistica e padronale si avverte in più punti ne I Promessi Sposi ogni volta che siano in scena Renzo e Lucia, oppure Agnese e altri umili, in una lievissima, quasi impercettibile ma ferma e precisa sfumatura di signorile distacco; specialmente, però, in quei luoghi in cui l’affetto del Manzoni si tempera di indulgente ironia. È caratteristico della sua complicata psicologia che dopo aver preso in giro la cultura in Don Ferrante, il Manzoni si valga di questa stessa cultura per prendere garbatamente in giro anche il povero Renzo che, lui, al contrario di Don Ferrante, di cultura non ne aveva affatto. È questa la sua maniera di limitare e rendere innocuo il proprio ideale; una maniera tipicamente padronale in quanto fondata sulla superiorità di una educazione migliore. Tutta la parte di Renzo per strada e all’osteria dopo i tumulti per la carestia, è giocata magistralmente su quest’ironia indulgente ma fortemente limitativa del buon padrone che vede uno dei suoi contadini alzare il gomito e dire una quantità di corbellerie su cose di cui non s’intende e che sono troppo grosse per lui. Qui e in altri luoghi analoghi, al Manzoni che idealizza gli umili, subentra il Manzoni che li vede come sono, beninteso secondo l’esperienza padronale.
Si viene così a uno dei caratteri, diciamolo francamente, più sconcertanti del Manzoni. E la nostra perplessità è tanto più forte in quanto questo carattere è legato proprio a Renzo e Lucia, cioè a quelli che abbiamo definito i due personaggi più belli e originali del romanzo. Si è scritto sovente che la cosa migliore de I Promessi Sposi sono gli umili, ossia la simpatia del Manzoni per gli umili. Abbiamo già detto che concordiamo con questo giudizio; soltanto c’è umiltà e umiltà. C’è l’umiltà cristiana, virtù universale, comune così ai poveri come ai ricchi; e c’è invece l’umiltà servile, sociale, inferiore, la quale è propria ai poveri soltanto ed è il prodotto di antiche sopraffazioni e umiliazioni. Ora, non neghiamo affatto che il Manzoni abbia inteso esaltare quella prima umiltà nelle figure di Renzo, di Lucia, di Agnese e in genere di tutti i personaggi plebei; vorremmo soltanto che non la si confondesse con la seconda, la quale, purtroppo, c’è anch’essa e in misura maggiore di quanto non sia richiesto dalla verità poetica.
Continuamente, infatti, accanto alle espressioni dell’umiltà cristiana, troviamo, nei discorsi dei personaggi plebei de I Promessi Sposi, frasi che sembrano voler confermare la condizione di inferiorità, di soggezione e di oscurità. È Agnese: "A noi poverelli le matasse paion più imbrogliate...” (cap. III); è Renzo: “noi altri poveri non sappiamo parlare” (cap. III); ancora Renzo: “da uno che aiuta veramente i poverelli” (cap. III); e poi ancora Agnese: “e noi poverelli non possiamo capir tutto” (cap. VI); e di nuovo Agnese: “ma mi perdonerà se parlo male, perché noi siam gente alla buona” (cap. IX); e Lucia: “noi povere donne” (cap. IX); Renzo: “com’era contento di trovarsi con la povera gente” (cap. XIV); Renzo: “E ordinare a’ dottori che stiano a sentire i poveri” (cap. XIV); Renzo: “e dormire da povero figliuolo” (cap. XIV); Renzo: “le parole che dice un povero figliuolo” (cap. XIV); Renzo: “vogliono imbrogliare un povero figliuolo, che non abbia studiato” (cap. XIV); Renzo: “mettere in carta un povero figliuolo” (cap. XIV); Lucia: “Il padrone [cioè l’Innominato che l’ha fatta rapire] me l’ha promesso. ha detto: domattina. Dov’è il padrone?” (cap. XXIV); il sarto: “un signore di quella sorte, come un curato” (cap. XXIV); Agnese: “i poveri ci vuol poco a farli apparire birboni” (cap. XXIX); e tanti altri luoghi. Queste frasi che fecero dire a Gramsci che “il carattere ’aristocratico’ del cattolicismo manzoniano appare dal ’compatimento’ scherzoso verso le figure di uomini del popolo"; e nelle quali, come abbiamo accennato, si direbbe che il Manzoni si studi, per la loro stessa bocca, di rimettere i personaggi umili, come si dice, al loro posto; sono indicative di un certo contegno costantemente attribuito a tutti quei medesimi personaggi. E qual è questo contegno? È presto detto: è un contegno di soggezione rassegnata, di inferiorità quasi compiaciuta, di sottomissione indiscussa. È il contegno di una plebe assolutamente priva di orgoglio se non di dignità, prosternata letteralmente di fronte ai potenti; ma quali potenti. Perché uno dei tratti più curiosi e significativi del Manzoni è anche questo: di creare i suoi umili pieni di rispetto verso i potenti, e al tempo stesso di dipingere questi potenti come del tutto indegni di rispetto.
Sempre a proposito di questo atteggiamento del Manzoni verso gli umili, vogliamo ricordare l’episodio della visita del Cardinale Borromeo nella casa del sarto che ospita Agnese e Lucia. È un aneddoto molto grazioso, una pittura di genere di quelle che riuscivano sempre molto bene al Manzoni, perché vi trovava espressione il suo garbato e sottile umorismo. Dunque il Cardinale visita le due donne in casa del sarto; quest’ultimo, che ci è descritto come un brav’uomo un po’ infatuato, ha in mente tutto un discorso che vorrebbe fare al Cardinale; ma una volta in presenza del Borromeo, si impappina e non riesce a pronunziare che un insulso “si figuri". Come abbiamo detto, l’aneddoto è assai grazioso e raccontato con molto garbo; tuttavia a un esame più attento non si può non notare che l’umiltà dell’umile e la potenza del potente vi sono come ribadite e confermate. In altre parole l’aneddoto sottolinea la soggezione del sarto di fronte al Cardinale, attribuendogli, oltre all’inferiorità sociale anche quella morale e intellettuale. Ora noi sappiamo che non è molto illuminante paragonare al Manzoni uno scrittore così divertente come il Boccaccio; purtuttavia non resistiamo alla tentazione di ricordare, di contro alla storiella del sarto manzoniano, quella novella del Decameron in cui è narrata la storia di Cisti il fornaio che in una situazione analoga fa vergognare un potente con un bel detto; o quella del palafreniere del Re Agilulf che si considera tanto poco inferiore al Re medesimo da riuscire, con un raggiro ingegnoso, a giacere con la Regina. Perché questo confronto? Perché mentre il Manzoni pare quasi compiacersi nel confermare che i poveri sono anche inferiori, il Boccaccio invece non ha paura di mostrarci, sotto la scorza variopinta dell’importanza sociale, il nocciolo grigio dell’eguaglianza umana. Probabilmente l’asservimento della plebe era maggiore al tempo del Boccaccio che cinque secoli più tardi, al tempo del Manzoni. Ma nella mente del Boccaccio c’era più democrazia che in quella del Manzoni.
Così il realismo cattolico non si contenta di predicarci una religione di maniera ma ci presenta un mondo sociale fatto a sua immagine e somiglianza. Ed è il realismo cattolico, infine, che detta, per bocca di Renzo, la morale finale de I Promessi Sposi: “ho imparato a non mettermi nei tumulti... a non predicare in piazza.” Morale certamente non cristiana: Gesù, lui, non aveva imparato a non mettersi nei tumulti, a non predicare in piazza. Si mise, invece, nei tumulti, predicò in piazza; e il resto è noto.
A questo punto qualcuno ci domanderà perché mai siamo andati a cercare proprio il Manzoni per parlare del realismo cattolico o meglio del realismo socialista, ossia dell’arte di propaganda quale è intesa nei tempi moderni. Rispondiamo che siamo andati a cercare il Manzoni appunto perché è un artista di tale grandezza. L’arte di propaganda degli artisti moderni è infatti così scadente che c’è sempre il pericolo di sentirsi rispondere che la colpa non è tanto della propaganda quanto della nativa mediocrità degli artisti. Ma ecco il Manzoni, un artista tra i maggiori di tutti i tempi; eppure, nonostante le risorse del suo ingegno, davvero infinite se paragonate a quelle degli scrittori del realismo socialista, l’arte di propaganda, perseguita alla maniera moderna non con i procedimenti dell’eloquenza ma con le rappresentazioni della poesia, produce in lui gli stessissimi effetti.
Si obietterà che non ci sono romanzieri senza ideologia e che, di conseguenza, tutti i romanzieri fanno in certo modo dell’arte di propaganda moderna, ossia poetica. Ma noi distinguiamo i romanzieri la cui ideologia è una creazione originale, priva di rapporti anche indiretti con le situazioni sociali, politiche e religiose, da quelli che, invece, quale che ne sia la causa, accettano l’ideologia preesistente di qualche istituto o partito o società o religione. E l’accettano non tanto perché essa sia nella realtà che descrivono, il che potrebbe in parte spiegarne l’accettazione, quanto perché vorrebbero che ci fosse. L’ideologia eroica di Stendhal, l’ideologia cristiano-decadente di Dostoevskij, tanto per fare due soli esempi, sono creazioni originali di quei due scrittori; sarebbe molto difficile immaginare un mondo reale retto praticamente da quelle due ideologie. Ma l’ideologia del realismo cattolico del Manzoni, quella del realismo socialista degli scrittori sovietici non hanno niente di originale, sono le ideologie ortodosse di una religione come quella cattolica, di un partito politico come quello comunista; ed è purtroppo molto facile immaginare un mondo retto praticamente da esse. La differenza è sostanziale. Stendhal e Dostoevskij ci propongono l’ideologia in maniera disinteressata, come ci proporrebbero un paesaggio; Manzoni e gli scrittori del realismo socialista invece cercano di imporcela. Il disagio oscuro di cui abbiamo parlato all’inizio. viene dunque dal sospetto di una sopraffazione.
Cosi queste note non vogliono essere niente di più che una difesa della poesia a cominciare da quella del Manzoni. E non ci si venga a dire che la poesia non corre alcun pericolo. Essa corre invece il maggior pericolo che l’abbia insidiata in tutti i tempi. Ai giorni nostri, infatti, il totalitarismo non chiede più la decente oratoria, chiede la poesia. Il Manzoni, con il suo capolavoro, ci ha invece dimostrato, sia pure involontariamente, che il totalitarismo antistorico non può ottenere che l’arte di propaganda; e che l’arte di propaganda, essendo fuori della storia, non è poesia.
(1960)