PREFAZIONE

I saggi riuniti in questo volume sono tutti saggi letterari. Questa affermazione sorprenderà perché il saggio che dà il titolo al libro non è un saggio letterario. Ma a parte il fatto che io sono un uomo di lettere e che qualsiasi cosa io scriva non può non riguardare la letteratura, penso che L’uomo come fine riguardi la letteratura direttamente e immediatamente. L’uomo come fine è infatti una difesa dell’umanesimo in un momento in cui l’antiumanesimo è in voga. Ora la letteratura è per sua natura umanistica. Ogni difesa dell’umanesimo è dunque una difesa della letteratura.

Le ragioni per cui il mondo moderno è antiumanistico non sono misteriose. Ci sono certamente all’origine dell’antiumanesimo del mondo moderno un desiderio o meglio, una nostalgia di morte, di distruzione, di dissolvimento che potrebbero essere l’ultimo rigurgito della grande orgia suicida delle due guerre mondiali; ma c’è anche la ragione più normale, più solita propria di certe disaffezioni: il logorio, la stanchezza, lo scadimento dell’umanesimo tradizionale; la sua immobilità, il suo conservatorismo; la sua ipocrisia di fronte agli eventi tragici della prima metà del secolo.

Per tutti questi motivi; vorrei sottolineare che L’uomo come fine non vuole affatto essere una difesa di questo umanesimo tradizionale ormai defunto; bensì un attacco all’antiumanesimo che oggi va sotto il nome di neocapitalismo; e un cauto approccio all’ipotesi di un nuovo umanesimo.

Ora sarebbe interessante vedere perché, con apparente contraddizione, l’antiumanesimo oggi coincida con le vittorie del neocapitalismo. Cioè con il prevalere di una concezione della vita apparentemente legata, a valori umanistici.

Si potrebbe infatti pensare che questa concezione della vita la quale nel giro di un ventennio ha cambiato la faccia a buona parte del mondo e in particolare ha mandato ad effetto l’operazione umanistica di permettere a masse sempre più numerose di godere di quello che un tempo era privilegio di pochi, mettendo a disposizione di queste masse una sterminata quantità di beni di consumo fabbricati in serie; si potrebbe pensare, dico, che una simile concezione della vita che ha reso più prosperi e dunque più liberi gli uomini dovrebbe essere chiamata umanistica.

E invece non è così. Sarebbe difficile trovare nel mondo moderno la robusta fiducia, la sanguigna pienezza, il ricco temperamento che furono propri all’umanesimo ai suoi albori. L’uomo del neocapitalismo con tutti i suoi frigoriferi, i suoi supermarket, le sue automobili utilitarie, i suoi missili e i suoi set televisivi è tanto esangue, sfiduciato, devitalizzato e nevrotico da giustificare coloro ché vorrebbero accettarne lo scadimento quasi fosse un fatto positivo e ridurlo a oggetto tra gli oggetti. Purtroppo però l’uomo del neocapitalismo non riesce a dimenticare la propria natura dopo tutto umana. Il suo antiumanesimo per questo non riesce ad essere positivo. Sotto apparenze scintillanti e astratte, si celano, a ben guardare, la noia, il disgusto, l’impotenza e l’irrealtà.

Naturalmente la spia a questo particolare carattere del mondo moderno lo fanno, al solito, le arti. Esse rispecchiano, in forma esasperata, i caratteri negativi dell’antiumanesimo neocapitalista. E quali sono questi caratteri? Direi che si possono riassumere in una sola parola: il nulla. Si osserva infatti, nelle arti, soprattutto la scoperta, la rappresentazione, l’espressione, la descrizione e l’ossessione del nulla. Questo nulla non ha niente a che fare con il vecchio nihilismo anarchico il quale, in realtà, era soprattutto negazione e rivolta.

Questo nulla è un nulla autonomo e fine a se stesso che non nega niente e non si rivolta contro niente. Il nulla al quale allude Hemingway nella nota novella: “A clean, welllighted place": “Nostro niente che sei nel niente, niente sia il tuo nome e il tuo regno, niente la tua volontà in niente come in niente... e così sia."

Probabilmente all’origine del, diciamo così, nullismo delle arti sta la loro trasformazione in beni di consumo. S’intendeva in passato che le arti fossero umanistiche in quanto erano l’espressione più alta, insieme completa e durevole, dell’uomo. Ma nelle arti moderne si esprime soprattutto l’alienazione dell’uomo ossia qualche cosa che è il contrario della completezza e della durata. Sembrerà strano che un’arte che ha nel cuore il nulla ossia l’alienazione, sia al tempo stesso un bene di consumo ossia un prodotto per le masse; ma la contraddizione è soltanto apparente. L’arte moderna, infatti, è un surrogato, cioè qualche cosa di non autentico, di contraffatto e di meccanico. Essa è tale perché si vuole mettere a disposizione delle masse ciò che un tempo era soltanto di pochi, senza però realmente portare le masse al livello di quei pochi anzi lasciandole nella loro alienata inferiorità. Così l’arte come prodotto di consumo rispecchia una società divisa in classi, nella quale soltanto in apparenza tutto è a disposizione di tutti. In realtà ciò che è vera cultura resta il privilegio di pochi; per le masse ci sono i surrogati dell’industria culturale.

Da tutto questo, sia detto di passaggio, scaturisce l’utilità delle avanguardie artistiche nel mondo moderno. Esse hanno una funzione precisa nell’industria culturale in quanto sono esse che fabbricano i prototipi a partire dai quali si può poi passare alla produzione in serie.

Ma perché questo? È proprio vero che le masse debbano per forza essere abbandonate all’antiumanesimo? Io dico di no. Vi potrebbero essere senz’altro domani delle arti umanistiche per delle masse umanistiche. Le masse antiumanistiche nel- mondo moderno sono soltanto le masse del neocapitalismo. E questo perché il neocapitalismo è feticistico; e ogni feticismo non può non essere antiumanistico.

In che cosa consiste il feticismo del neocapitalismo? Il neocapitalismo, nella sua riscossa contro il comunismo, ha fatto un poco la stessa operazione che a suo tempo fece la Controriforma nella sua riscossa contro la Riforma: coll’estendere la rivoluzione industriale e allargare i consumi a collettività sempre maggiori, ha preso a prestito dall’avversario i mezzi; ma ha mantenuto, e come avrebbe potuto fare diversamente?, intatto il fine che era ed è tuttora il profitto, ossia un feticcio.

Così non dobbiamo illuderci. Avremo un sempre maggiore numero di prodotti di consumo ben fatti e a buon mercato, la nostra vita diventerà sempre più comoda, le nostre arti saranno sempre più accessibili alla massa, anche le più esigenti e difficili, anzi soprattutto queste; ma saremo sempre più disperati. E sentiremo sempre di più che nel cuore della prosperità c’è il nulla, ossia il feticismo il quale come tutti i feticismi è fine a se stesso e non può mettersi al servizio dell’uomo.

Tutto questo lo dico per spiegare non soltanto il titolo del libro ma anche la sua composizione apparentemente non omogenea. Come ho detto all’inizio di queste note introduttive, data l’idea che mi faccio della letteratura è abbastanza naturale che accanto ad un saggio morale come L’uomo come fine, si trovino dei saggi su Boccaccio, su Machiavelli, su Manzoni e sull’arte del romanzo.

Insomma mi è sembrato di ravvisare nei saggi qui riuniti una certa unità di ispirazione, tanto più notevole in quanto ottenuta involontariamente con un lavoro che si è svolto nell’arco di una ventina di anni.

Quest’unità mi pare che possa almeno garantire che durante questi vent’anni mi sono espresso con sincerità e disinteresse, senza badare alle mode. Dopo tutto un libro non è un libro bensì un uomo che parla attraverso un libro. Spero che il discorso di questo libro non sembri al lettore incoerente e inutile.

ALBERTO MORAVIA

Ottobre 1963