Seduta accanto alla finestra, con il vecchio sacco che fungeva da tenda trattenuto da un lato, Averil studiava ciò che poteva vedere attraverso lo spesso vetro macchiato dal sale. Un pendio erboso, una striscia di grossi sassi su cui sarebbe stato impossibile correre – o attraversare silenziosamente – poi un nastro di sabbia che andava scomparendo sotto la marea.
Più oltre, nel braccio di mare riparato, le navi all’ancora ondeggiavano. Navi della Marina. La salvezza, se solo non fossero state tanto lontane. Avrebbe potuto accendere un fuoco, ma un falò sarebbe stato giustificato dalla presenza di Luke. Incendiare la casupola? Impossibile, dato che si trattava di una robusta costruzione in pietra. Fare segnalazioni dalla finestra con il lenzuolo? Prima avrebbe dovuto rompere quello spesso vetro, poi pensare a qualcosa che potesse attirare l’attenzione dei soccorritori e non quella dei suoi guardiani.
Con un sospiro Averil ricominciò a perlustrare la stanza. Luke aveva lasciato il suo rasoio su un alto scaffale, ma lei, dopo l’episodio con il coltello, non pensava che le avrebbe mai dato la possibilità di usarlo, e poi cominciava a dubitare di essere in grado di uccidere un uomo. Ecco, quella era la voce della sua coscienza, si disse, e distraendosi per un momento dai pensieri di fuga si chiese perché si facesse sentire. Di certo non aveva niente a che vedere con il fatto che sempre più spesso si ritrovava a domandarsi se lui fosse davvero cattivo come sembrava.
Due intensi occhi grigi non significano nulla, sciocca che sei, si rimproverò. Al calare dell’oscurità Luke sarebbe tornato e l’avrebbe violentata. Il fatto che avesse dichiarato che non possedeva donne prive di sensi non contava, soprattutto ora che lei era perfettamente cosciente.
Averil pensò al discorsetto che le aveva fatto sua zia poco prima che partisse per l’Inghilterra, e per un matrimonio combinato. Dato che non ci sarebbero stati personaggi femminili a spiegarle le cose prima delle nozze con un uomo che non aveva mai visto, tutto il procedimento era stato sommariamente descritto con imbarazzante improbabilità, e a suo avviso lasciandole troppo tempo per pensarci in quei tre lunghi mesi di viaggio.
La sua amica Lady Perdìta Brooke, che era stata spedita in India perché caduta in disgrazia dopo una sconsiderata fuga d’amore, aveva dichiarato che era un’esperienza piuttosto piacevole, se fatta con l’uomo giusto. Che cosa avrebbe pensato del subire una violenza da un furfante in una capanna di pietra su un’isola, circondata da una banda di furfanti ancora peggiori? Be’, ma l’amica non avrebbe avuto nessuna esitazione a usare quel coltello.
La luce cominciò a scemare. Presto lui sarebbe tornato e lei non aveva nessun piano. Lottare o non lottare? Luke poteva avere facilmente la meglio, Averil lo sapeva. I suoi fratelli le avevano insegnato alcuni semplici trucchi per respingere uomini importuni, ma nessuno di essi le sarebbe stato di molta utilità in una situazione come quella, dove non c’era nessuno che avrebbe sentito le sue grida e nessun posto dove correre a rifugiarsi.
Se gli avesse resistito, con ogni probabilità lui le avrebbe fatto più male di quanto temeva. No, meglio allora giacere come un corpo inerte, non mostrare nessuna paura, solo disprezzo.
Cosa facile a dirsi, molto meno a farsi, scoprì quando la porta si aprì di nuovo ed entrò Luke, seguito da due uomini. Uno portava quello che sembrava un fagotto d’indumenti, l’altro reggeva in equilibrio dei piatti e aveva una bottiglia sotto l’ascella.
Averil distolse il viso, alzando il mento, in modo da non essere costretta a scorgere nei loro occhi le indecenti fantasie che li accendevano. Non era l’unica a pensare a ciò che sarebbe accaduto nella capanna, quella notte.
«Venite a mangiare.» Dopo che gli uomini se ne furono andati, il capitano si mise la chiave in tasca e si allontanò dalla porta. «Vi ho trovato dei vestiti. Vi staranno grandi, ma sono puliti» aggiunse, osservandola mentre trascinava il lenzuolo fino alla sedia. «Accendo il fuoco, state tremando.»
«Non ho freddo.» Non era vero, ma non voleva che si creasse una finta atmosfera di intima vita domestica, con il fuoco che scoppiettava nel camino, le candele accese, il cibo e il vino.
«Certo che avete freddo. Non cercate di mentirmi. Avete freddo e siete spaventata.» Lo disse senza nessuna compassione. Forse sapeva che qualunque parola gentile l’avrebbe fatta piangere, mentre quella brusca praticità la rendeva più forte.
Accese una candela, poi s’inginocchiò e si dedicò al fuoco con una economia di movimenti che derivava dalla pratica.
Chi è? Il suo accento era impeccabile, le sue mani, anche se segnate e callose, erano pulite, con le unghie curate. Mezz’ora da un barbiere, un abito da sera, e avrebbe potuto presentarsi in qualunque salotto dell’alta società senza attirare un solo sguardo critico.
Avrebbe, però, attirato gli sguardi di tutte le donne presenti e Averil s’infuriò con se stessa perché lo trovava attraente nonostante le facesse orrore per ciò che era, per ciò che intendeva fare. Come poteva essere possibile? Era umiliante e sconvolgente. E non aveva nemmeno la scusa di essere stata abbagliata da un bel volto dalle linee classiche, o da un irresistibile fascino, oppure ancora da un magistrale corteggiamento. No, quello che le bruciava dentro era un primitivo, femminile desiderio. La lussuria, si disse, era un peccato.
«Mangiate.»
Il fuoco divampò nel camino, le ombre guizzarono negli angoli e la stanza divenne subito più calda, più intima, proprio come lei aveva temuto.
«E bevete. Renderà tutto più facile» continuò l’uomo, versando il vino e spingendo un bicchiere di latta verso di lei.
«Per chi?» gli chiese, e vide gli angoli della bocca di Luke fremere in quello che avrebbe potuto essere un mezzo sorriso. Tuttavia bevve e sentì l’insidioso calore rilassarla, indebolirla, proprio come era stato nei suoi desideri, ne era sicura. «Chi siete? Che cosa fate su quest’isola?»
«Scrivo cattive poesie, rastrello la spiaggia in cerca di relitti portati dal mare.» Scrollò le spalle e tagliò un pezzo di formaggio.
«Non giocate con me. Siete saccheggiatori di navi naufragate? Contrabbandieri?»
«Nessuno dei due.» Aggrottò la fronte osservando il formaggio, ma lo mangiò ugualmente.
«Una volta eravate in Marina, vero?» gli chiese lei d’impulso. «Siete disertori?»
«Sì, eravamo in Marina» riconobbe Luke, e le tagliò una fetta di pane, come se stessero discutendo del tempo. «E se ci tornassimo, direi che la maggior parte di noi sarebbe impiccata.»
Averil si costrinse a mangiare, mentre digeriva quell’informazione. Allora dovevano essere davvero disertori. Rifletté a lungo e senza nemmeno accorgersene bevve tutto il vino nel bicchiere. Ebbene, forse l’avrebbe aiutata ad affrontare ciò che l’aspettava... Spinse quel pensiero nell’angolo più buio della mente e cercò di rifocillarsi. Aveva bisogno di essere in forze per sopportare, se non per lottare.
Nel frattempo Luke divorava ogni cosa come un uomo che non avesse un solo pensiero al mondo.
«State fuggendo dai francesi?» chiese ancora, dopo che ebbero terminato il formaggio e la pancetta bollita fredda.
«I francesi ci ucciderebbero esattamente come gli inglesi» rispose lui, con un sorrisetto enigmatico.
Il pasto finalmente finì. Luke spinse indietro la sua sedia e distese le lunghe gambe davanti a sé, rilassato come un grosso gatto.
Averil osservò il tavolo con i piatti vuoti, le briciole, l’ultimo pezzo della pagnotta. «Vi aspettate che vi faccia anche da cameriera oltre che da sgualdrina?» gli chiese.
La riposta fu immediata, fulminea. In un istante l’uomo che sembrava così rilassato fu in piedi e fece alzare anche lei, tirandola per un polso. Ora erano uno di fronte all’altra, vicinissimi. Gli occhi di Luke erano scuri come ferro e la fissavano, intensi, facendola rabbrividire per la rabbia che li accendeva.
«Ascoltatemi bene e riflettete» le disse, e la sua voce morbida strideva con la violenza della sua reazione. «Quegli uomini là fuori sono un branco di lupi, con la coscienza e la pietà dei lupi. Io li guido non perché mi hanno giurato fedeltà, non perché io piaccia loro, né perché ci battiamo per la stessa causa, ma perché, in questo momento, temono più me che tutte le alternative che hanno. Se mostro loro anche la più piccola debolezza, mi attaccheranno. E se posso battermi, di certo non posso sconfiggere dodici uomini. Voi siete come un fiammifero acceso in un deposito di polvere da sparo. Loro vi vogliono, tutti quanti, e non hanno nessun problema a dividervi. Se credono che siete la mia donna e che io sono pronto a uccidere per voi, allora si faranno una domanda... vi vogliono così tanto da essere disposti a rischiare la vita per avervi? Sanno bene che io ucciderei almeno la metà di loro prima che riescano a mettervi un solo dito addosso.»
La lasciò e Averil barcollò contro il tavolo. Aveva le narici colme del suo odore di maschio infuriato, nel petto il cuore le batteva forte per la paura e per una primitiva reazione alla forza maschile.
«L... loro non potranno sapere se sono la v... vostra donna o no» balbettò.
«Siete davvero una piccola anima innocente.» Un sorriso cupo gli incurvò le labbra, e lei pensò distrattamente che anche se sorrideva piuttosto spesso non sembrava mai davvero divertito. «Che cosa credete pensino che facciamo ogni volta che vengo qua? E ne avranno la conferma non appena vi vedranno, proprio come fanno i lupi. Voi dormirete con me anche stanotte e uscirete da questa stanza con il mio odore sul corpo, proprio come il vostro è stato sul mio tutti questi giorni. O preferite abbreviare le cose e uscire da questa stanza adesso, facendoci uccidere entrambi?»
«Preferirei vivere» dichiarò, e chiuse le dita intorno al bordo del tavolo per sostenersi. «E sono sicura che voi siate il minore dei mali» aggiunse, orgogliosa del modo in cui aveva tenuto alto il mento e del fatto che non ci fosse stato il minimo tremito nella sua voce. «Ora so che è un’esagerazione dire che ci sia una sorte peggiore della morte. Dunque domani intendete lasciarmi uscire da qui?»
«Loro devono abituarsi ad avervi intorno. Chiusa qua dentro siete un mistero che li incuriosisce, fuori, vestita da uomo e impegnata a lavorare, li tenterete di meno.»
«Perché non mi lasciate andare? Perché non avvertite una barca e dite che mi avete trovato sulla spiaggia?»
«Perché avete visto gli uomini. Sapete troppo» rispose, e prese il coltello posato sul tavolo.
Averil fissò la lama scintillante. «Potrei promettervi di non dirlo a nessuno» azzardò.
«Sì?» Di nuovo quel sorriso freddo. «Diventereste complice di qualunque cosa sospettiate stiamo facendo per salvare voi stessa?»
«Io...» No, lei non poteva, e sapeva che lui glielo leggeva in volto.
«No, infatti, come pensavo.» Si mise il coltello in tasca e si allontanò. «Tornerò tra mezz’ora. Fatevi trovare a letto.»
Averil impilò i piatti, spazzò via le briciole, avvolse quel che restava della pagnotta in uno straccio e tappò la bottiglia. Supponeva che rifiutarsi di pulire sarebbe stato un gesto significativo, tuttavia riordinare la teneva impegnata; e poi, se doveva essere prigioniera, non voleva vivere in un tugurio.
Ora faceva più fresco. Ecco perché stava tremando, si disse, spazzando il focolare con una rudimentale spazzola fatta di rametti e aggiungendo legna alla brace. Il legno, trasportato sull’isola dal mare e dunque salato, bruciò con una vampata azzurra e oro, mentre lei giocherellava con la tenda alla finestra. Se non altro, pensò, ciò che stava per accadere sarebbe successo nel chiuso di quattro mura, senza spettatori. Si asciugò una lacrima col dorso della mano.
Io sono una Heydon. Non mostrerò la mia paura, non supplicherò e non piangerò, giurò a se stessa, mentre si voltava a guardare il rozzo letto. Né sarebbe stata posseduta da un uomo in una tana di topi.
Scosse le coperte, batté il materasso bitorzoluto fino a farlo diventare un po’ più liscio, distese il lenzuolo che si era annodata intorno alla vita e sprimacciò il cuscino meglio che poté.
Infine, con indosso solo la camicia di Luke e i capelli sciolti sulle spalle, guardò il letto per un lungo momento poi gettò indietro le coperte, si sdraiò, si coprì fino alla vita e aspettò.
Luc trascorse qualche tempo presso il fuoco, ascoltando i rumori di una partita a dadi in una tenda, un pesante russare in un’altra, e ogni tanto aggiungendo un commento alla discussione che Furetto e Harris stavano avendo a proposito delle migliori botteghe di liquori di Lisbona.
Gli uomini sembravano meno tesi, dopo avere passato tutta la giornata a perlustrare la spiaggia in cerca dei relitti del naufragio. Non avevano trovato nulla di valore, ma il liquore rimasto in una botticella era bastato per migliorare il loro umore.
Lui stava cercando di posticipare il suo ritorno al lazzaretto, lo sapeva, così come sapeva che si stava sforzando di non pensare troppo ad Averil. Voleva che lei restasse un’astrazione, un problema da risolvere, non che diventasse una persona. Nessuno di loro voleva essere là, molti alla fine probabilmente sarebbero morti, e lui non aveva compassione da riservare a una ragazzetta che quasi certamente sarebbe uscita viva da quell’avventura, sia pure un po’ meno innocente.
«Buona notte» disse all’improvviso, e si diresse verso la baracca.
Furetto e Harris erano di guardia per le prime due ore; erano tipi abbastanza affidabili, così non occorreva dar loro molte istruzioni. Alle sue spalle sentì una risatina lasciva, ma decise di ignorarla; non poteva certo controllare anche i pensieri dei suoi uomini.
Quando girò la chiave nella toppa ed entrò, la casetta era in ordine. La lampada era ancora accesa e il focolare era stato pulito e ravvivato. Inalando il profumo del legno che bruciava, Luc pensò che quel posto sembrava quasi accogliente. Tuttavia gli bastò uno sguardo al letto per togliersi dalla mente che Averil avesse deciso di dargli il benvenuto creando un’atmosfera intima. Lei giaceva sotto le coperte, rigida come un cadavere, gli alluci che formavano una collinetta a un’estremità del letto, e il naso appena visibile oltre le coltri dall’altra. S’impose di non osservare gli avvallamenti e i rigonfiamenti nel mezzo.
«Averil?» la chiamò, poi si spostò silenziosamente nel centro della stanza e cominciò a togliersi gli stivali.
«Sono sveglia.» La voce era rigida come il corpo. Quando si voltò a guardarlo, lui vide il riflesso della luce nei suoi occhi.
Posò giacca e camicia sullo schienale della sedia, poi mise le mani sulla fibbia della cintura dei pantaloni e allora la sentì trarre un profondo, tremante respiro. Ebbene, non si sarebbe certo spogliato al buio; la piccola avrebbe dovuto abituarsi... in ogni caso poteva sempre chiudere gli occhi.
«Non avete mai visto un uomo nudo?» le chiese, facendo scivolare il cuoio fuori dalla fibbia.
«No. Voglio dire, sì.» Averil scoprì che era difficile articolare una risposta sensata. Si schiarì la voce e riprovò. «Sono cresciuta in India... e gli asceti induisti spesso vanno in giro nudi.» E poi c’erano le incisioni nei templi, anche se lei le aveva sempre trovate un po’ esagerate. «Loro si spalmano il corpo di cenere» aggiunse. Ora che aveva cominciato a parlare, era difficile fermarsi.
Luke tacque, semplicemente si voltò verso la sedia, si sfilò i pantaloni e li posò a cavallo della spalliera.
Averil chiuse di scatto la bocca, ma i suoi occhi restarono aperti. Quello che aveva davanti non era un uomo emaciato, con il corpo spalmato di cenere, che sedeva sotto un grande albero con la sua ciotola per le elemosine e osservava il mondo con occhi scuri e selvaggi. No, Luke era... Cercò un termine per descriverlo e le venne in mente impressionante, che le sembrò un modo abbastanza adeguato per definire una pelle dorata, lunghi muscoli, ampie spalle che finivano in una schiena forte, e poi, più giù, fianchi stretti e...
Quando lui tornò a voltarsi verso di lei, Averil spalancò di nuovo la bocca, emettendo un suono strozzato.
«Ecco, vedete che effetto mi fate» le disse, avvicinandosi al letto senza mostrare la minima vergogna.
«Ebbene, smettetela» sbottò la giovane, rendendosi immediatamente conto di aver detto una cosa ridicola. Quello era necessario per la faccenda umiliante e dolorosa che stava per aver luogo. «Insomma, smettete di ostentarlo» si corresse, con lo stesso tono che aveva sua zia quando la rimproverava.
Luke ridacchiò, per la prima volta sinceramente divertito. «Quella parte del corpo maschile fa quello che vuole. Voi, però, potete chiudere gli occhi» suggerì.
«E questo dovrebbe rasserenarmi? Lui sarà ancora là.»
Luke scrollò le spalle, il che produsse una serie di interessanti ondulazioni in quei meravigliosi muscoli, e fece muovere quel coso nel modo più sconcertante. In effetti sembrava davvero che avesse una vita propria. Lei avrebbe voluto distogliere lo sguardo, ma il suo collo sembrava paralizzato, irrigidito come tutto il resto del corpo.
Quando lui allungò una mano e tirò indietro la coperta, lei si costrinse a non afferrarla per rimetterla a posto. Non lottare, non resistere. Non dargli questa soddisfazione.
«Potete spostarvi?»
«C... cosa?» Averil si era aspettata qualcosa di completamente diverso, non quella cortese richiesta. Lui doveva soltanto mettersi sopra di lei, non era così?
«Spostatevi un po’.» Luke si fermò, un ginocchio sul letto, e Averil scoprì che, dopo tutto, riusciva a muovere gli occhi, così li fissò sulle ragnatele delle travi. «Non vi aspettate che io vi salti addosso, vero?» Ora lui sembrava impaziente, irritato, non certo folle di desiderio. Chissà, forse faceva di continuo cose del genere.
«Io non so che cosa aspettarmi» sbottò lei. La rabbia e l’umiliazione le avevano sciolto i muscoli contratti, così riuscì a mettersi seduta e a girarsi verso di lui. «Sono vergine. Come posso sapere cosa succede quando qualcuno mi violenta?»