Eccomi, solo nella notte del giornale, del mio giornale che domani, 13 gennaio 2015, non sarà più mio. Lo abbandono nella buona sorte (con quella cattiva se la vedrà qualcun altro), visto che vendiamo ancora settantamila copie al giorno e in questi sei anni sono stati distribuiti agli azionisti, me compreso, dividendi più che sostanziosi. Rimango nella penombra di un luogo molto vissuto che lascia intatti gli oggetti e li sfiora con il riverbero di Roma oltre le finestre del quartiere Prati, dei tasti luminescenti dei telefoni e, sullo stipite della porta, del filamento rosa della luce d’emergenza. Mi muovo tra scrivanie che raccontano il caos delle nostre esistenze affastellate, disastrate, dove non si butta via niente. Gli amori finiti ma conservati per stato di necessità, insieme alle pile di libri che nessuno sfoglierà più, alle copie di giornali irranciditi e a troppa carta inutile. Torno alla mia scrivania, accendo il computer e sullo schermo lampeggia l’immagine ancora frantumata che sta per decidere, forse all’alba, un destino a noi ignoto. Gli altri ne sanno quanto me ma preferiscono non pensarci e a quest’ora, avvinazzati in qualche bettola fuori orario, godranno garruli come bimbetti per un titolo che domani la concorrenza non avrà in pagina, ma di cui nell’universo ci accorgeremo solo noi, membri di diritto della confraternita degli spostati.
Se davvero avete voglia di sentire questa storia mi chiamo Antonio Padellaro e per un ventennio ho lavorato al Corriere della Sera. Poi, un giorno, fui accompagnato alla porta perché (così mi fu riferito) non abbastanza craxiano. All’Espresso, un direttore gentilissimo, Giulio Anselmi cominciò a chiedermi (con squisita cortesia) che cosa aspettavo a trasferirmi all’Unità e quando avrei liberato la scrivania per fare posto al giovane e promettente Marco Damilano. Da direttore dell’Unità fui accompagnato alla porta perché (così mi fu spiegato) non abbastanza veltroniano. Creai allora un giornale, Il Fatto Quotidiano, assieme a Marco Travaglio e ad altri compagni di merende. Convinto che così sarebbe stato più difficile accompagnarmi alla porta. Anche quando non sarò più direttore resterò azionista del giornale e dovrei, nel caso, darmi una pedata da solo (mai dire mai). Non soffro di vittimismo e tanto meno mi considero, ci mancherebbe altro, un martire della libertà di stampa. Anzi, a volte mi viene da pensare che ci sia stato qualcosa che abbia mal funzionato nel mio essere giornalista se, a un dato momento, c’era sempre qualcuno che voleva liberarsi di me. Bene, se non avete niente di speciale da fare provate a seguirmi in un posto dove, lo spero, non vi annoierete. Dovete sapere che i giornali contengono giornalisti che a cena degustano in allegra compagnia biscottini intinti nel dolce sapore delle disgrazie altrui, e si scambiano notizie che nessuno mai pubblicherà. Come nei party funebri dei film americani dove si brinda in memoria del caro estinto, solo che qui la bara è vuota. Prima fummo dèi, poi semidèi, grandi fighi, grandi amanti, poi la decadenza, l’irrilevanza e poi, non manca molto, saremo feccia, relitti umani, parassiti. Quando l’ultima ribattuta è andata, i pezzi già inghiottiti dalle rotative e tu non puoi farci niente – ohi, devo cambiare solo l’attacco, roba di un attimo, no, cazzo, abbiamo chiuso – si ordinano pizze e birre, si scarica adrenalina e storie strepitose, più arrapanti ancora se già ascoltate e ribollite. Vi ho mai raccontato di quando Leonardo Sciascia – seduto da Fortunato al Pantheon – nel suo desinare solitario porgeva l’orecchio discreto per carpire dalle nostre vanaglorie, a voce alta, qualche brandello di realtà, per magari costruirci un romanzo? Il pezzo forte – per favore un altro giro di supplì – erano i complotti, le cospirazioni, sangue e merda. Bei tempi, a rivangare ora che la carta è avvolta in sbuffi di una noia mortale e i sopravvissuti alle edicole sopravvissute sfogliano direttamente dalle ultime pagine, pallone, influencer, pettegolezzi assortiti. Almeno così puoi non rischiare di morire di sbadigli, narcotizzato dalle articolesse sui retroscena (figuriamoci) della politica italiana già ampiamente lessata da tg e talk dal giorno prima, Dio che barba, e puoi saltare tranquillamente da pagina venti in poi e non ti perdi niente. Per consolarci non ci resta che il giornalismo per diffusione orale, con lo streaming in diretta vocale, tutto ciò che vorreste sapere e non leggerete mai. Cose da sgabuzzino tipografico tipo quel tale che ogni sera, tornato a casa, costringeva la giovane sposina a sorbirsi la declamazione dell’articolo da lui vergato sullo schianto in tangenziale e il conseguente ingorgo. O, a scelta, il puntuale resoconto di una conferenza sui bassorilievi numidi al Museo Orientale. Fino a che, disperata, la poverina prese l’abitudine di barricarsi nel bagno nel mentre lui scandiva il suo prodigioso parto. Quando un bel giorno il fesso, in assenza di rumori, forzò la porta e dalla finestra spalancata sul cortile constatò che la dolce metà se l’era data giustamente a gambe. Quando eravamo re si apparecchiavano come vendette croccanti le cattiverie più sfiziose su Aldo Moro assassinato dall’ipocrita fronte della fermezza, orchestrato da Repubblica su mandato del compromesso storico. O sui presunti (mah) ladrocini di Bettino Craxi che, diciamola tutta, avercene oggi di leader come lui. O su Francesco Cossiga uscito pazzo pur sentendosi il più sano di tutti che spediva in busta, con tanto di timbro quirinalizio I pugnalatori di Sciascia (in edizione economica) ai consiglieri di Stato che gli dovevano la cadrega e che, nei suoi lucidi deliri, sospettava di alto tradimento. Ma adesso per favore fate silenzio perché Paolo Graldi ci narra, con voce caricata a triglonicotina, quella volta che andammo dal ministro dei Trasporti Signorile per una storia di mazzette alle Ferrovie e lui teorizzò la necessità della «tangente trasparente», incassata e regolarmente denunciata al fisco, però mi raccomando ragazzi è roba confidenziale, non scrivete una riga, certo puoi contarci e l’indomani si ritrovò tutto spiattellato sul Corriere (e Paolo non sa se ridere o tossire e se ne accende un’altra). Come dessert si passa a certe prelibatezze, nomi e cognomi di colleghi (rigorosamente assenti) che leccavano Dc e socialisti, così come i loro discendenti, in un futuro lontano, avrebbero leccato Giorgia Meloni dopo aver leccato Mario Draghi (le belle tradizioni italiane). Forza ragazzi, e che le lingue fremano sul tapis roulant della maldicenza tra calunnie, insinuazioni, denigrazioni. Chi scopa con chi, tanto per gradire. Con le ore piccole e qualche wiskyno per carburare si spara con gli obici contro i mostri sacri. Quella volta che Oriana Fallaci, giovane e già affermata star dell’Europeo, spedita a New York dopo una strage di mafiosi a opera di altri mafiosi, affannata dall’urgenza di scrivere, chiese al capo dell’ufficio americano della Rizzoli, uomo di vasta esperienza, di darle una dritta. «Sono stati i giovani turchi» rispose costui alludendo alla spietatezza della nuova generazione di Cosa Nostra arrembante e smaniosa di sostituirsi, con raffiche convincenti, ai Joe Bonanno e ai Lucky Luciano. La prestigiosa firma prese l’informazione alla lettera e fu così che l’autorevole magazine diede un colossale buco alla concorrenza rivelando la (falsa) presa di potere della mafia turca, clamorosa new entry, nel Bronx dominato da italiani e irlandesi. Gli altri inviati furono regolarmente cazziati dai rispettivi direttori ma nessuno osò smentire la bufala data la caratura della collega.
I letti dei giornalisti contengono uomini che si lamentano nel sonno, mentre ripassano il pezzo trasmesso parola per parola e tormentano il cuscino perché, oddio, nel dormiveglia riemerge una parola che non funziona ma non c’è niente da fare perché già il manufatto di carta compresso in voluminosi pacchi viene consegnato alle edicole, è la stampa bellezza. Le donne si svegliano e domandano, con femminile bisogno di sapere: che cosa c’è? E gli uomini dicono: niente, solo un sogno triste. O qualcosa del genere (lo so sembrano le prime righe dell’Informazione di Martin Amis ma, come disse, il sommo Truman Capote, a proposito di qualche furtarello: non è un plagio ma pura coincidenza). Quando eravamo sangue e spazzatura c’è chi mi avvertiva: Ciccio, il giornalismo è un mestiere basato sulla chiacchiera, sulla produzione di chiacchiere, non di merce inscatolata e timbrata. Noi ci siamo formati sulla chiacchiera, chiacchieriamo meglio di chiunque altro. Siamo stati una generazione aggressiva e disincantata che, coerente al primato della chiacchiera, ha occupato in massa i giornali. Nella stanza del direttore dell’Espresso, quando mancano quattro o cinque anni alla fine del secolo scorso, si chiacchiera intorno a un mestiere che già comincia a perdere colpi. Perso per perso, allora pensiamo a divertirci: il proverbiale cinismo di Claudio Rinaldi, direttore e mente criminale di tutti i più prestigiosi settimanali fissa il primo comandamento dell’informazione strafiga. Il cui peccato mortale sarà quello di allontanarsi dalla chiacchiera lieve, pettegola, biforcuta per imboccare gli impervi e seriosi sentieri dell’impegno e, non mi dire, della denuncia sociale. Osservo mentre lui con la Bic rossa rinvigorisce una dida moscia e io mi do delle arie citando Bordieu: i giornalisti, grosso modo si interessano di ciò che è eccezionale per loro. Vero, dice Claudio, crocifigge con una grossa X una foto superflua e cita Flaubert: bisogna ritrarre bene l’insignificante. Ovvero: se la stampa che conta riesce a trasformare l’insignificante nello straordinario e sorprendente, e in questo modo guadagna perfino lettori, allora vuol dire che ha vinto, almeno, l’ultimo round. Infierisce: guarda che la bella scrittura non c’entra niente, così come l’essere stati autori di grandi reportage e perfino di memorabili scoop. Si resta fuori dal giro per un meccanismo spietato e frivolo e se non ne fai parte e perché non ne fai parte. Un banalissimo gioco degli specchi. Ma ora vattene che ho da fare. Un trentennio dopo mi ritrovo a pestare la stessa acqua limacciosa con la differenza che i lettori scappano a frotte. Claudio non c’è più e con lui se ne è andata l’ultima fatua, geniale idea della chiacchiera. E allora diventa quasi patetico aggirarsi tra i rottami di questo luna park fallito per sempre. Primo. Nessuno legge tanto i giornali come i giornalisti (forse gli ultimi a farlo) che, peraltro, come gli alcolizzati immedesimati nell’alcol, hanno la tendenza a pensare che tutti leggano tutti i giornali. Per sapere cosa scrivere, occorre sapere cosa hanno scritto gli altri: ecco uno dei meccanismi suicidi attraverso i quali tutto diventa la stessa pappa.
Secondo. Nelle riunioni di redazione si passa il tempo a parlare degli altri giornali, di quello che hanno fatto (cazzo, abbiamo toppato), dei buchi che quei polli hanno preso.
Terzo. Ai giovani scrittori si consiglia: parlate di ciò che conoscete, l’unica esperienza valida e quella personale. Infatti, il giornalista «di qualità» parla e scrive del mondo che conosce e che frequenta (o che ambirebbe). I personaggi più influenti della politica, della finanza, dell’industria, della moda, della cultura, dello spettacolo, dello sport, della televisione, del clero e, ovviamente, della comunicazione. Le sue esperienze personali più interessanti e formative avvengono nelle assemblee parlamentari, nei meeting di partito, nelle riunioni confindustriali, nelle anticamere curiali, nei salotti letterari, nella mondanità che colora e allieta tutto questo ben di Dio. Del resto, cosa dovrebbe scegliere un giovane cronista (realmente ambizioso e non afflitto da perniciosi ideali adolescenziali) se messo di fronte alla secca alternativa? Preferisci occuparti di Elon Musk o dei minatori del Sulcis? Recarti al seguito del premier nelle sue missioni all’estero o riferire del maxi ingorgo ferragostano sulla Napoli-Salerno? Descrivere la festa più sfarzosa della Costa Smeralda o raccontare degli immigrati clandestini, compressi e derelitti nei centri di raccolta in Puglia?
Quarto. «Nelle classi medie, più che altrove, esistere socialmente significa essenzialmente essere notati. Ma il risultato di questa perpetua ricerca di rassicurazione, raramente si può dire completamente soddisfacente. Risiede qui una fonte di frustrazione intensa e di risentimento, una specie di focolaio di patologia di riconoscimento sociale, che si potrebbe definire come sindrome di Madame Bovary. Un’inchiesta sul giornalismo di base fornisce eloquenti dimostrazioni di questo rapporto ambiguo di dominanti/dominati, al contempo incantato ed esasperato, amorevole, dubbioso» (Alain Accardo). O se preferite. «All’improvviso era solo in questo rumoroso alveare senza un posto su cui appollaiarsi. Solo! Divenne pienamente cosciente che ormai l’intero ricevimento era composto da crocchi e mazzi. Non essere incluso in quelli significava un totale fallimento mondano.» Il reporter Fallow, di Tom Wolfe, nel Falò delle vanità, incarna la nevrosi del giornalismo rampante, smanioso di affrescare un ambiente altolocato, pur di frequentarlo. E che, una volta ammesso nel salotto giusto, è costretto a occultare la propria inadeguatezza come il calzino bucato dentro una smagliante calzatura. Ormai (allora), nelle scuole di giornalismo più che la tecnica del pastone politico o del reportage di guerra bisognava insegnare come si trascrive il menu delle cene di potere. Apparecchiate in residenze sempre, naturalmente, «fastose». Meglio se «incastonate tra i Sette colli dove sorseggiando brunello e champagne», «digerendo inciuci e assaporando intese» si fa salotto. Come quello «odoroso di forno a legna», frequentato da «teste famose e succulente mozzarelle» del noto avvocato e della sua signora, «maestra di impasti, spume e signorilità». Lui, «un elegante cinquantenne, tenero nonno, tra i primi cinque contribuenti della capitale», non esita, quando riceve a casa, a indossare «perfino la parannanza del pizzaiuolo». Segue descrizione del patron «che inforna e sforna una tonda alla volta (“So anche lanciarle in aria”), del diametro di quasi mezzo metro» che la sua lady «pone bollenti su un grande piatto e taglia a spicchi con apposite forbici». Nell’attesa, «sul tavolo ovale di legno nella sala da pranzo attigua, si spizzicano focacce bianche in mozzarelle di bufala, si tagliano sottili fette di mortadella e si beve rigorosamente schiuma e bollicine. Mentre Nancy, l’operosa filippina, toglie i posacenere sporchi e porta bionde o scure gelate». Il tutto alla presenza di ospiti illustri, stampati tassativamente in neretto, in modo che non si confondano tra una ricetta della pizza amatriciana e quella napoletana che «un attimo prima di servirla si rispolvera con una pioggia leggera di parmigiano grattugiato, un pizzico di sale e un filo gentile di olio a crudo». Questo accadeva quando eravamo frivoli e vendevamo un botto di copie.
Appartengo (appartenevo) a una generazione (giornalistica, politica, e comunque contigua al potere) di «cinquantenni giovanissimi, eterni adolescenti» che «amano la protrazione e l’indecisione», riluttanti a operare scelte precise, e che hanno come regola di vita: «non dire mai sì e mai no» (Pietro Citati). Molti di noi, pur se provenendo da ambienti ed esperienze diversi, sono rimasti orfani troppo presto per scelta suicida e consapevole (perché consideravano il proprio genitore inadeguato o troppo invadente o troppo importante); e che, una volta tagliati i ponti alle spalle, hanno trascorso il resto della loro esistenza alla ricerca di un padre, non da amare o da ascoltare, ma a cui sottomettersi confessando: sì, maledizione, avevi ragione tu. Un padreterno che di volta in volta ha assunto le sembianze politiche dell’indottrinamento di turno, maoista o trotzkista, all’epoca del ’68. O del segretario moralista del Pci, dieci anni dopo. O, nei favolosi anni Ottanta, di Bettino Craxi, l’omone degli incubi psicanalitici della sinistra. Quando Claudio Magris osserva la mutazione di molti ex barricadieri della fine degli anni Sessanta o degli anni Settanta, diventati oggi «aggressivi esponenti della destra, o soddisfatti uomini dell’establishment che, a seconda delle fortune elettorali, è ora di centrodestra ora di centrosinistra ora non si sa bene di che cosa», coglie il lato opportunistico della faccenda, ma non ancora quello emotivo. Perché molti di quei personaggi che hanno cambiato barricata, senza pagare dazio e con la pretesa, anzi, di avere avuto, ieri come oggi, sempre ragione, spesso non sono semplicemente dei volgari voltagabbana. È come se in questo febbrile girovagare cercassero la figura dominante di cui si sono troppo presto privati, il paladino delle loro esistenze, il rifugio delle loro paure e dei loro peccati. Vagano, come anime in pena di crocchio in crocchio, o da un giornale all’altro, là dove ritengono che regni il leggendario uomo forte, per recitare prostrati il padre nostro dei nostri tempi. Venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà ma dacci oggi e sempre, benessere, visibilità, audience, certezze granitiche sulla pochezza dei nostri avversari. Liberaci, insomma dal male, soprattutto da quello sfigato. E dal pensiero di avere sbagliato tutto nella vita. Amen. Scrive Philip Roth che «se la tua non è una famiglia disastrata, al momento giusto i tuoi ti lasciano andare, perché sei pronto a cominciare a essere un uomo, pronto, cioè, a scegliere nuove fedeltà e nuove affiliazioni, pronto a scegliere i genitori della tua maggiore età, i genitori scelti che, poiché non ti si chiede di colmarli del tuo amore, amerai o non amerai, come ti aggrada». Per molti italiani, e non soltanto per i tediosi orfani del ’68, la brama di affiliazione e di fedeltà trovò il suo approdo. La figura paterna (e materna) di Silvio Berlusconi si ergeva maestosa e indulgente sulle loro e sulle nostre esistenze. Egli ci chiedeva di seguirlo, ubbidirlo e di colmarlo del nostro amore. Lo chiedeva a fedeli e affiliati, e a chi, strenuamente, furiosamente, vanamente lo combatteva (per sentirsi un po’ come lui). Lo chiese perfino al capitano Achab che cercava di affondare il rampone nelle sue carni. Sì, è stata anche una questione personale. Per quasi sette anni, a bordo del brigantino Espresso – e poi L’Unità e poi Il Fatto Quotidiano – Berlusconi è stata la nostra assillante, monomaniacale, fantastica, irripetibile Balena Bianca.