Brutto come la peste, di colorito giallastro, calvo, il viso rincagnato, il naso deforme, gli zigomi sporgenti e lo sguardo omicida, era quello che si dice un mostro. Privo di qualsiasi savoir faire, si avventava come una belva feroce contro chiunque, a suo giudizio, non avesse rispettato le leggi del Signore. Se la prese con i cardinali che a suo dire rubavano e fornicavano, con gli usurai che pretendevano il 30 per cento d’interesse e con i principi delle corti rinascimentali per le loro orge a base di sesso e di ubriacature. Si dichiarò contrario a qualsiasi tipo di divertimento, compresi i dadi, le feste di Carnevale, la briscola e le corse dei cavalli. Odiava le donne che si vendevano e gli uomini che le compravano. Avrebbe voluto che venisse tagliata la lingua ai bestemmiatori e agli omosessuali. Non gli piacevano la Primavera del Botticelli, Il ritorno di Ulisse del Pinturicchio e i ritratti del Perugino. Finché dipingevano immagini sacre gli andava tutto bene, guai, però, se poco poco si spostavano su altri temi. Perfino il «Quant’è bella giovinezza…» di Lorenzo il Magnifico gli stava sulle scatole. Solo lui si sentiva perfetto. Eppure c’era almeno un vizio che gli si sarebbe potuto addebitare e cioè la totale assenza del Dubbio, ovvero del primo requisito che ogni individuo onesto intellettualmente dovrebbe possedere.
Nato a Ferrara nel 1452, formatosi nel celebre convento di San Domenico a Bologna, integralista, trasferito poi a Firenze presso il convento di San Marco in qualità di lettore e predicatore, promosso priore nel 1491, mise in piedi una rete di spie, detta la «Compagnia della Speranza», che lo informava su tutti quelli che a Firenze commettevano atti impuri. Dopodiché provvedeva lui stesso a sputtanarli dal pulpito di Santa Maria del Fiore. Faceva nomi e cognomi ripetendoli più volte perché i presenti li potessero memorizzare. A Firenze non c’era chiesa abbastanza grande da ospitare tutti quelli che lo volevano ascoltare. I suoi seguaci erano chiamati i Piagnoni (perché piangevano quando lui parlava), e i suoi avversari gli Arrabbiati (perché si arrabbiavano quando lui dava in escandescenze).
I Piagnoni erano soliti irrompere nelle case private dei «nemici», o nelle botteghe degli artisti, rapinare quadri e tessuti preziosi, per poi incendiarli in piazza tra canti e urla di giubilo. Dio solo sa quante opere d’arte sono andate perse per colpa di Savonarola.
Il suo nemico numero uno era il papa Alessandro VI. Il frate gliene disse di tutti i colori: che era un puttaniere, un mariuolo, un simoniaco, un miscredente, un assassino e un nepotista. Tutte verità, sia chiaro, ma il modo in cui gliele disse era quanto di più violento si potesse immaginare.
Nel dicembre del 1497 Alessandro VI lo scomunicò e lui per tutta risposta scomunicò Alessandro VI. La partita, comunque, si chiuse con la vittoria del Papa: Girolamo Savonarola e i Piagnoni vennero condannati tutti all’impiccagione. Scalzi e senza saio, con un crocefisso tra le mani, furono trascinati in piazza della Signoria e qui, tra una folla impazzita per la gioia, vennero coperti di sassi, sputi ed escrementi. I loro corpi furono bruciati e le loro ceneri furono gettate in Arno. Era il maggio del 1498.